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Autore: Jamie_Sand    27/10/2023    3 recensioni
Nel pieno della seconda guerra magica, lontano dalla famiglia, senza più una fidanzata e con ben pochi amici rimasti al suo fianco, il giovane Percy Weasley cerca di fare del suo meglio per limitare i danni.
Poi, una notte di fine ottobre, l'incontro con una babbana di nome Audrey Manning.
Genere: Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Audrey, Famiglia Weasley, Percy Weasley | Coppie: Audrey/Percy
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Dopo la II guerra magica/Pace
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Capitolo 17


Audrey si sentì premere da tutte le parti, la stessa spiacevole sensazione delle volte precedenti: non riusciva a respirare, come se fasce di ferro le stringessero il petto. Le pupille le vennero ricacciate nella testa, i timpani premuti più a fondo nel cranio, e poi, quando sentì nuovamente il terreno sotto i suoi piedi, aprì gli occhi. Lei e Katie erano appena apparse in un vicoletto stretto e deserto. 

Audrey guardò in alto, verso lo spicchio di cielo grigio stretto tra i due palazzi che svettavano uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra, poi un odore di umidità e sporcizia le riempì le narici, un odore così diverso da quello dei prati attorno alla fattoria. Almeno Londra sembrava essere rimasta la stessa. 

- Vieni, andiamo. - Ordinò Katie, prima di muoversi verso la strada principale, un lungo viale pieno di negozi e persone prese dalle proprie compere, per poi raggiungere un vecchio grande magazzino di mattoni rossi chiamato Purge Dowse Ltd. 

Il luogo aveva un’aria trascurata e misera: nelle vetrine c’erano solo alcuni manichini scheggiati con le parrucche di traverso, disposti a caso, vestiti alla moda di dieci anni prima. Enormi cartelli sulle porte polverose dicevano “chiuso per ristrutturazione”.

Katie accostò il viso alla vetrina, guardando un manichino bruttissimo, mentre il suo respiro appannava il vetro. - Buongiorno. - Disse con cortesia. - Siamo qui per… sa, la battaglia. - 

Audrey guardò Katie con un misto di perplessità e diffidenza, ma si ritrovò con la bocca spalancata quando vide il manichino annuire appena prima di fare un cenno con il dito snodato. 

Poi Katie la prese per la manica della veste da strega — totalmente inadatta a una babbana come lei — che indossava in quel momento e insieme passarono attraverso quello che parve un velo di acqua fredda, per uscirne caldi e asciutti dalla parte opposta.

Audrey si guardò attorno: non c’era traccia del brutto manichino o della vetrina, ma si trovavano in quella che sembrava una grande sala di accettazione, con file di maghi e streghe seduti su traballanti sedie di legno, alcuni erano sporchi, sanguinanti e sotto shock, altri erano impauriti e con il bisogno folle di sapere cosa ne era stato dei loro cari stampato in volto. 

Maghi e streghe in vesti verde acido andavano su e giù per le file di sedie, facendo domande e prendendo appunti su blocchetti di pergamena. Audrey notò il simbolo che portavano ricamato sul petto: una bacchetta e un osso incrociati.

- Mia figlia… sì, mia figlia di chiama si chiama Angie, per caso avete una ragazza bionda di nome Angie Goldman tra i feriti della battaglia? - Stava chiedendo una strega a uno dei curatori dell’accoglienza, con una disperazione tale da far accartocciare le budella di Audrey.

- E mio fratello…! Lui è stato deportato ad Azkaban due mesi fa, ma so che la prigione è stata liberata, vi prego… avete notizie? - Domandò un giovane mago, parlando sopra alla strega che cercava la propria figlia. 

- Di qua. - Fece Katie, camminando tra la folla. 

Audrey la seguì oltre una doppia porta lungo un corridoio in cui erano allineati ritratti di famosi Guaritori, illuminato da bocce di cristallo piene di candele che fluttuavano vicino al soffitto, simili a enormi bolle di sapone. Altri maghi e streghe in vesti verde acido correvano lungo quel corridoio su per delle scale che Katie imboccò seguita naturalmente anche da Audrey. 

Arrivarono così all’ultimo piano, dove tantissime persone erano state raggruppate lungo un corridoio pieno di porte. Lì c’era un’aria diversa rispetto al resto dell’ospedale: un mormorio basso e costante riempiva l’ambiente, ma nessuno chiedeva al curatore fermo vicino all’entrata informazioni sui propri familiari. Quelle persone sembravano così… stanche, rotte. 

- Mi scusi. - Mormorò Katie al curatore. - La stanza di Lucy Manning? - 

Il curatore sfogliò il blocchetto di pergamena che aveva tra le mani e poi annuì dopo un sospiro. - Sì… siete parenti? - Domandò scrutando le due. 

- Lei è la sorella. - Rispose Katie, facendo un cenno verso Audrey. 

Il curatore la fissò per un istante con un certo sospetto. - Non sembra per niente. - Osservò. 

Audrey ricambiò quell’occhiata di sottecchi. - Padri diversi. - Rispose, con l’aria arresa di chi aveva dovuto dare risposte simili a quella domanda davvero tantissime volte. 

L’uomo sospirò di nuovo. - La terza qui sulla sinistra. - 

Audrey non disse niente ne fece cenno di aver capito, semplicemente raggiunse quella porta, ma poi esitò sulla soglia. 

- Vuoi che ti accompagni? - Le domandò cautamente Katie, al suo fianco. 

- No, non ti preoccupare. - Rispose lei, senza guardarla. - Devi stare con tuo padre, Katie, e con Oliver. Io me la cavo. - 

- Non te la cavi, tua sorella è… - 

- Lo so, lo so. - La interruppe Audrey, stavolta voltandosi verso di lei. - Grazie per tutto quanto, davvero, ma adesso voglio stare da sola con lei. -

- Audrey… - 

- Sto bene. - Insistette Audrey, alzando i lati della bocca. - Però se vedi Percy… se lo vedi puoi chiedergli di venire da me, se se la sente? - 

- Lo vado a cercare. -

Audrey annuì e senza indugiare oltre varcò finalmente quella soglia, ritrovandosi all’interno di una stanzetta con una piccola finestra in alto davanti a lei, unica fonte di luce, dove era stato sistemato un solo letto, su cui era adagiato il corpo di Lucy. 

Audrey rimase ferma ad osservarla da lontano per qualche istante, pensando che forse, finché non l’avesse vista per davvero, allora ciò le era capitato non poteva essere vero. Alla fine però le sue gambe si mossero prima ancora che lei pensasse di fare un passo e in un attimo si ritrovò ai piedi di quel letto. Guardò sua sorella da quella distanza per qualche altro attimo e poi raggiunse il lato destro, dove c’era una sedia di legno su cui si sedette. 

Audrey aveva sentito così tante volte dire che i morti avessero l’aspetto di persone addormentate: lei non aveva mai visto molti cadaveri nella sua vita, ma quelli che aveva visto — il corpo senza vita di nonna Harriette e quello di nonna Constance — non le erano mai sembrati semplicemente addormentati. E nemmeno Lucy lo sembrava. 

Il pallore del suo incarnato rivelava lividi e vene scarlatte, aveva gli occhi chiusi ma gonfi, infossati e circondati da ombre scure, come erano scure le labbra semiaperte come se fossero alla ricerca di un ultimo respiro. Audrey le prese la mano e la strinse, percependo la pelle fredda e dura. 

- Svegliati. - Le sussurrò. - Per favore… svegliati, Lucy… dobbiamo andare a casa. - 

Non poteva essere la mano di Lucy, quella. 

Non era più lei. Non era più la sua sorellina. 

Non c’era rimedio a quello. 

Lucy se ne stava lì, stesa e immobile, come un guscio vuoto e nulla sarebbe più tornato a essere come prima.

E adesso doveva chiamare sua madre, organizzare un funerale… sì, perché altrimenti chi avrebbe pensato a tutto questo? Lucy doveva avere un bel funerale, un funerale degno di lei… un funerale che gridasse al modo che quella era un’ingiustizia, una morte insensata e che forse non avrebbe mai avuto un vero responsabile. 

Audrey rimase lì, inchiodata a quella sedia per molto più tempo di quanto se ne fosse poi resa conto, ripetendo a Lucy di svegliarsi, che senza di lei non ce l’avrebbe fatta, scuotendola e piangendo, finché non si arrese.

Alla fine si alzò da quella sedia con le gambe molli, gli occhi che bruciavano e un dolore pulsante alla testa, si lasciò il cadavere di sua sorella alle spalle e si ritrovò in un attimo nel corridoio ancora fitto di gente. 

Si guardò attorno, scrutando i visi di chi come lei aveva perso qualcuno, persone stanche e stremate esattamente come lei, e poi lo vide, a qualche metro da lei: Percy e quella che doveva essere la sua famiglia; erano riuniti vicino l’entrata di una delle tante stanze adibite a camera mortuaria. 

Audrey notò che si somigliavano tutti tra loro, e che erano proprio come se li era immaginati. La ragazza dai lunghi capelli di fuoco e lo sguardo duro doveva essere Ginny, la donna piccola e panciuta doveva essere la signora Weasley, mentre l’uomo che sembrava una versione vecchia e stempiata di Percy doveva essere il signor Weasley. Poi c’era un bel ragazzo con una brutta cicatrice in volto, accompagnato da una giovane altrettanto bella, dall’aria molto aristocratica… quello doveva essere Bill, accompagnato dalla moglie. Il più triste e spento, poi, doveva essere George, seduto a terra con la schiena contro il muro, accanto a due ragazzi, anch’essi dai capelli rossi: chissà chi era Charlie e chi Ron. 

Quando tornò con lo sguardo su Percy, Audrey si domandò se fosse il caso o no di avvicinarsi. Lo conosceva e già immaginava i suoi pensieri, i suoi sensi di colpa, e come lei aveva bisogno di lui, anche lui aveva bisogno di lei, ne era certa. 

Poi una ragazza le passò accanto; teneva in mano due tazze fumanti che emanavano odore di caffè, era bionda, molto carina, e puntava dritta verso i Weasley con passo sicuro. Quando li raggiunse, la ragazza diede una delle due tazze a Percy, che ricambiò con una mazza specie di sorriso stanco. Fu in quel momento che Audrey la riconobbe. Era la ragazza della foto appesa al frigorifero di Percy, Penelope. 

Audrey rimase ferma a fissarla da lontano, la bocca socchiusa e gli occhi stretti in due fessure incredule, assaporando dentro di sé una strana sensazione di disagio a cui non seppe dare un nome. Rimase lì, immobile nella speranza che gli occhi di lui incontrassero i suoi. Quando ciò accadde, quando i loro sguardi si incrociarono tra la folla, Audrey alzò timidamente una mano in cenno di saluto. Percy ricambiò quell’occhiata per un brevissimo istante, prima che Penny richiamasse la sua attenzione parlandogli. 

Quanto era stata stupida, pensò Audrey, per poi voltarsi, pronta a lasciare quella corsia infernale. Quanto era stata ingenua a pensare di potersi fidare di lui, di potersi fidare di qualcuno. 

Era così abituata a non essere amata né voluta, eppure si sorprendeva ancora: la vita non le aveva già insegnato abbastanza?

Quanto sei ingenua, Audrey, quanto sei stupida

Si sentiva completamente scollegata da sé stessa come aveva imparato a fare da bambina, quando erano solo lei e Lucy contro tutto il resto di un mondo che appariva orribile ai loro occhi. E forse era vero, il mondo era orribile e lo era ancor di più adesso che Audrey sentiva di aver perso ogni ragione per continuare a muoversi attraverso di esso. 

Nessuno la voleva, nessuno aveva bisogno di lei ormai. 

Voleva solo tornare a casa, anche se non sapeva quale fosse casa sua ormai. Poteva tornare nella casa in cui aveva vissuto con Lucy e sua madre per quasi tutta la vita, oppure poteva tornare a casa di nonna Harriette, sedersi sulla vecchia poltrona di Constance e rimanere lì per sempre, lì su quella poltrona, diventare parte di essa. 

Chissà, magari si sarebbe trasferita in Irlanda da sua madre o in New Jersey da suo padre… ma magari nessuno dei due l’avrebbe voluta con sé.

Scese le scale e attraversò la sala dell’accettazione, che si presentò a lei un po’ meno affollata rispetto a quando ci aveva messo piede qualche ora prima. Quando lasciò l’ospedale si ritrovò in quella strada piena di persone intente a fare compere. Audrey si voltò: lì dove poco prima c’era l’ospedale dei maghi, adesso c’era di nuovo quella vetrina dismessa con quel brutto manichino. Guardò la sua immagine riflessa sulla vetrata impolverata e di nuovo, come le capitava ormai molto spesso, faticò a riconoscere quella ragazzina triste che le ricambiò lo sguardo. 

Poi qualcosa accadde, Audrey notò uno strano gioco di ombre su quella vetrina da cui, un secondo dopo, emerse qualcuno. 

Percy. 

Il giovane respirava forte come se avesse corso, e aveva l’aria sconvolta e stanca come mai prima d’ora. 

Solo in quel momento, guardandolo da vicino, Audrey notò che Percy aveva i vestiti e i capelli sporchi di polvere e terra, una delle due lenti degli occhiali scheggiate e del sangue che gli sporcava la tempia e gran parte del lato destro del viso. 

La battaglia era incisa su di lui, sulla sua pelle, nei suoi occhi… 

I due si fissarono in silenzio a lungo, eppure lei lesse sul viso di lui più di quanto Percy non sarebbe mai stato capace di dirle e lui sentì lo stesso ricambiando con lei quello sguardo. 

Poi Percy prese fiato e disse di getto: - Mi dispiace tanto per Lucy. - 

- A me dispiace per Fred. - Rispose semplicemente lei. 

Il ragazzo scosse la testa con fare contrito. - Non l’ho protetta… mi dispiace, Audrey… mi dispiace… - Proseguì, puntando gli occhi sempre più appannati verso il basso. Non poteva mettersi a piangere davanti a lei. - Te l’avevo promesso… - 

Ma Audrey lo guardò impassibile. - Smettila, Percy. - Incalzò. 

- Io l’ho portata a Hogwarts, era mia responsabilità... - 

- Smettila, dacci un taglio. - Ripeté lei, stavolta con la voce incrinata, chiudendo per un attimo le palpebre e scuotendo piano la testa. 

Non era arrabbiata con lui, anzi era certa che Percy avesse fatto tutto il possibile per tentare di salvare Lucy, lo sapeva. Eppure adesso non riusciva a guardarlo senza provare quel dolore incolmabile, senza vedere nei suoi occhi gli orrori di quegli ultimi mesi. Era così irrimediabilmente legato al massacro della sua famiglia e alla morte di Lucy, alla disperazione e alla perdita, che Audrey faticava a vedere, dietro tutto questo, il ragazzo che, solo la notte prima, aveva baciato come se da quel contatto dipendesse la sopravvivenza di tutti. 

- Non è colpa tua, so che è una cosa a cui sei abituato a pensare, ma non è colpa tua, nulla di tutto questo lo è. - Rimarcò Audrey con forza. - Hai fatto tutto il possibile, io lo so, ti conosco. -

Percy la fissò addolorato per una manciata di secondi. Non era questo ciò che voleva sentirsi dire e si chiese per quale dannatissimo motivo lei non gli stesse urlando contro in quel momento, come invece si meritava. 

Percy non capiva. Non capiva perché tutti continuavano a comportarsi con lui come se niente fosse successo, come se negli ultimi anni non avesse fatto un errore dopo l’altro, come se non avesse condannato a morte una ragazzina innocente, e molti altri come lei, con la promessa di tenerli al sicuro. 

- Devo tornare a casa, adesso. - Disse Audrey, strappandolo dai suoi dolorosi pensieri. 

- Ti accompagno. - Si offrì prontamente Percy. 

Lei sospirò. - Tu devi stare con la tua famiglia… e la tua fidanzata. - Gli disse.

Percy parve avere un attimo di smarrimento, poi scosse la testa in modo frenetico e fece un passo in avanti. - No… no, tra me e Penny non… - 

- Senti: lascia stare. - Lo fermò Audrey, riprendendosi la distanza. - Questa cosa… me e te… non avrebbe funzionato; non adesso almeno, non dopo tutto quello che abbiamo passato. Non avrebbe funzionato, Perce. - 

Percy la guardò dritto negli occhi, consapevole che probabilmente quella sarebbe stata l’ultima occasione per farlo. - Audrey… non è così, lo sai. - 

- Invece è così. - Rimarcò lei in tono perentorio. - Non posso, non ce la faccio. - 

Percy sospirò. Era difficile per lui ammetterlo, ma sentiva che in fondo Audrey avesse ragione. Non poteva funzionare, non dopo la battaglia, non dopo tutto quel dolore, non dopo aver visto Lucy morire in quel modo. Come avrebbe potuto tenerglielo nascosto per sempre? E lui come avrebbe potuto piangere Fred in santa pace e nel frattempo amarla come lei si meritava di essere amata? 

Era diviso in due: da un lato sentiva forte il bisogno di avvicinarsi a lei, stringerla e dirle che l’amava, che l’amava tanto, che l’avrebbero superata insieme, ma dall’altro sentiva un peso che gli piantava i piedi ben fermi a terra, impedendogli di muoversi. 

Era cambiato tutto in una sola notte: era cambiato il modo in cui lei lo stava guardando e appariva tutto così sbagliato, sbagliato e senza senso. 

- Vado a casa adesso. - Disse lei, piano. - Abbi cura di te. - 

Percy si limitò a scuotere la testa piano, senza dire niente, anche se in quel semplice gesto risuonava forte ciò che avrebbe voluto dirle: resta. 

Resta, Audrey, resta con me. 

Questo le avrebbe detto, se solo ne avesse avuto la forza, se solo Fred non fosse morto, se solo Lucy fosse stata ancora viva. Ma non disse niente, né addio, né una parola per fermarla. Rimase lì, fermo, la guardò voltarsi nella direzione opposta alla sua e iniziare a camminare fino a sparire tra la folla, lasciandolo solo. 

 

.

 

Audrey si ritrovò davanti alla porta di casa di nonna Harriette quando il sole fu a un passo dal tramontare, senza però sapere esattamente come ci fosse arrivata. Aveva camminato, di questo era certa: lo sapeva soprattutto perché le gambe le dolevano molto, perché si sentiva stanca, anzi sfinita, tuttavia aveva percorso la strada dal San Mungo a quella vietta ordinata e ben asfaltata senza nemmeno rendersene conto. 

Non si sentiva in lei e per questo abbassò lo sguardo, osservando i suoi palmi. Il suo corpo era ancora il suo corpo, non era morta come era morta Lucy, eppure sentiva che la vita ormai fosse una cosa passata ormai. 

Non sapeva neppure perché fosse lì e non a casa sua, la casa della sua infanzia da cui Percy l’aveva portata via tanti mesi prima; lì dove c’erano le sue cose e le cose di Lucy, e dove magari avrebbe trovato qualche sterlina per chiamare sua madre o suo padre da una cabina telefonica. Si era ritrovata lì senza preavviso, era lì anche se non aveva più nessun dannatissimo senso.

Nel vialetto era ancora parcheggiato il vecchio van sgangherato di Elijah, rimasto a prendere polvere dall’ultima volta in cui lui c’era entrato, mentre il giardino si era riempito di erbacce. Quella casa che adesso si ergeva davanti a lei aveva tutto l’aspetto di un posto abbandonato e triste da cui mai più sua nonna sarebbe uscita, da cui non sarebbe uscito più nessuno. 

Chissà se almeno qualcuno aveva ripulito la chiazza di sangue lasciata dal corpo smembrato di Harriette. 

Audrey respirò profondamente e poi mosse qualche passo verso il portico, rendendosi conto di non avere con sé le chiavi per aprire la porta che le sbarrava la strada. 

Poi si ricordò del mazzo di chiavi che nonna Harriette aveva l’abitudine di nascondere nei vasi pieni di fiori, ormai secchi, che adornavano il portico o sotto lo zerbino impolverato. Guardò in basso e solo in quel momento si rese conto che proprio lì, proprio accanto allo zerbino, c’erano due paia di scarpe, uno da uomo e l’altro da donna. 

Possibile che ci fosse qualcuno in casa? 

Il braccio di Audrey si mosse prima ancora che lei potesse finire di formulare quel pensiero, bussò alla porta e attese nervosa. Poco dopo avvertì un movimento dietro la soglia, che si spalancò di scatto. Apparve sull’uscio una donna, una donna giovane e di bell’aspetto, bionda, pallida, dagli occhi verdi spalancati come se si trovasse davanti a un fantasma. Non la vedeva da troppo, forse da almeno un anno se non di più, ma non era diversa da come se la ricordava: era truccata e pettinata in modo impeccabile come al solito e indossava un paio di jeans a bassa vita e una maglietta a righe rosa e bianche che non le copriva la pancia e che le dava una vaga aria da Britney Spears. 

- Mamma…? - Balbettò Audrey, perplessa di vederla proprio lì.

Prima ancora che riuscisse a formulare per bene quella parola, la mano di sua madre scattò verso la sua faccia, colpendola e lasciandola di stucco. 

- Dove sei stata? - Gridò Erin fuori di sé, afferrandola per il braccio e facendola entrare in casa. - Dov’è Lucy? E come… come sei vestita? - 

Audrey la guardò confusa, le dita che sfioravano la guancia dolorante. Che diamine ci faceva sua madre a Londra? Ma soprattutto che diamine ci faceva lì, in casa di sua nonna? 

Aprì la bocca per parlare quando una voce attirò la sua attenzione alle spalle di Erin:  

- Audrey? - 

Audrey alzò lo sguardo, incontrando la figura di suo padre, fermo in piedi sulla soglia che divideva la cucina dal lungo corridoio d’entrata. Jude a contrario di Erin non aveva un bell’aspetto: indossava un vecchio pigiama infeltrito e probabilmente non si rasava da giorni o settimane; aveva le occhiaie, era molto più magro di quanto non fosse mai stato e i suoi capelli non erano corti e ordinati come al solito, ma crespi e gonfi. 

- Audrey… sei vera? - Le chiese Jude con labbra tremanti, aggrottando le sopracciglia. 

Audrey annuì e basta; aveva la gola annodata e sentiva un pesantissimo peso sul petto, una sensazione mai provata prima. Poi suo padre si mosse e in pochi passi la raggiunse e la abbracciò, facendola sussultare. Ricambiò quella stretta con qualche secondo di ritardo, rendendosi conto che mai, almeno a sua memoria, suo padre l’avesse abbracciata prima d’ora. 

- Sono vera. - Sussurrò Audrey, più a sé stessa che all’uomo. - Sono io, sono viva… sono viva, papà… - 

Jude la abbracciò forte e poi fece un passo indietro, guardandola in faccia come se volesse memorizzare ogni millimetro del suo volto. Audrey sentì gli occhi bruciare, assaporando nel frattempo più emozioni di quanto fosse capace di elaborare. 

- Papà… nonna Harriette… lei… mi dispiace… - Mugugnò Audrey. - Mi dispiace, mi dispiace così tanto… e Elijah… lui magari è ancora vivo… magari… - 

Jude strinse le labbra e gli occhi gli si riempirono di lacrime, poi scosse la testa e annuì insieme, in fine la abbracciò di nuovo. 

L’aveva creduta morta, il suo cuore si era dilaniato per quella perdita e per mesi aveva rivissuto nella sua testa tutti gli errori che aveva fatto con lei. Aveva pensato a tutte quelle volte in cui si era lasciato sfuggire un’occasione per dirle che le voleva bene, a tutte quelle volte in cui aveva messo la carriera prima di sua figlia, a tutte le volte in cui non aveva lottato per averla vicina e per essere presente nella sua vita. Ma adesso Audrey era lì, adesso sarebbe stato tutto diverso. 

- Dov’è Lucy? - Domandò di nuovo Erin, frantumando l’incanto. - Dov’è? Dove l’hai lasciata? Dove siete state tutto questo tempo? - 

Audrey si voltò verso sua madre di scatto e la fissò per qualche istante, cercando di trovare la frase giusta. - Lucy è morta. - Rispose alla fine, priva di ogni inflessione. 

Era così strano da dire.

Le labbra di Erin tremarono e poi si portò le mani alla bocca, le sopracciglia aggrottate le diedero un’aria improvvisamente spaesata. - Che cosa le hai fatto? - Domandò con furia, facendo un minaccioso passo verso Audrey. 

- Cosa le ho fatto? - Ribatté Audrey, e la bocca le si piegarono in un piccolo sorrisetto amaro. - Come ti viene in mente che io possa averle fatto qualcosa? Io?

- L’avevo affidata a te! - 

- Avresti potuto fare la madre! - Inveì Audrey. - Avresti potuto proteggerla, portarla con te in Irlanda, ma il tuo stupido marito bifolco non ci ha mai volute e adesso Lucy è morta, capito? Morta! L’hanno ammazzata! - 

Erin la guardò con gli occhi ridotti a due fessure, piena di rabbia, per poi fare un passo in avanti. - Tu… inutile ingrata che non sei altro… non parlarmi così! Inutile, stupida… -

- Adesso basta. - Ordinò Jude, mettendosi tra le due, rivolto verso Erin. - È meglio se te ne vai, Erin. - 

La donna lo fissò con incredulità. - Cosa… perché? - 

- Fuori di qui. - Ripeté lui, stavolta con un tono più perentorio, spingendola verso la porta. - Vattene, esci da questa casa. - 

Erin si ritrovò a boccheggiare perplessa. Aveva sempre considerato il padre di sua figlia come una persona debole, incline all’accondiscendenza come nessun altro. Era incapace di imporsi su qualcuno ed era sempre stato così calmo, così educato, da essere insopportabile. 

- Non puoi cacciarmi, Jude, lei è mia figlia. - 

- Ma è anche mia figlia e questa è casa mia, quindi posso eccome, Erin. - Ribatté l’uomo, sempre più duro man mano che parlava. - Non puoi parlarle in questo modo davanti a me, non te lo posso lasciar fare. - 

Erin fece un verso di sdegno. - Dove sei stato tutti questi anni, Jude? - Gli domandò tagliente. - Compari adesso, dopo anni in cui ti sei limitato a mandare cartoline per il suo compleanno, e vorresti dirmi come comportarmi con lei? Tu non la conosci… è un’ingrata, una ragazzina viziata e incapace. Adesso Lucy non c’è più e di chi è la colpa? È la sua la colpa, ecco di chi è! - 

Audrey sentì quelle parole nella sua carne come se ogni singola sillaba l’avesse trapassata. Forse Erin non aveva tutti i torti, forse se non l’avesse mandata a Hogwarts… 

Non voleva sentire più niente, né le accuse né il dolore di sua madre, non voleva sentire il senso di colpa e nemmeno quel vuoto dilaniante che la stava risucchiando dall’interno da quando Katie le aveva detto di Lucy. Voleva solo sdraiarsi, chiudere gli occhi e dormire per molto molto tempo. 

Guardò sua madre e poi suo padre, dopo si voltò e raggiunse la scale. Raggiunse il piano di sopra lasciandosi i due alle spalle e senza dire una parola e una volta nel bel mezzo del corridoio si ritrovò davanti alla porta della stanza in cui una volta dormiva nonna Harriette; la spalancò e una volta entrata si lasciò cadere su quello che una volta era il suo letto. Era tutto così ordinato e pulito, proprio se Harriette avesse passato l’intera giornata a rassettare, ma c’era un odore diverso, l’odore di una stanza che ormai non accoglieva più nessuno da un po’. 

Audrey si sdraiò e finalmente chiuse gli occhi. Si sentiva invecchiata di cent’anni. 

E poi una domanda risuonò nella sua mente: come sarebbe potuta andare avanti? 



 

Eh, pensavate che mi fossi dimenticata di voi? E invece no, eccomi qui. 

Ebbene sì, porterò avanti questa fanfiction fino alla fine nonostante questa mia piccola crisi creativa. Probabilmente i tempi saranno un po’ dilatati come in questo caso, ma non temete, arriveremo alla fine (pare un po’ una minaccia, ammettetelo ahaha) 

Non so cosa dire tranne che questo capitolo mi è costato fatica. L’ho riscritto una cosa come dieci volte e ci sono parti che mi piacciono ma altre in cui proprio… comunque da qua in poi si aprirà un nuovo capitolo della narrazione (praticamente tutte le mie storie hanno due atti, non so perché ma mi viene sempre di fare così), quindi ne vedremo delle belle (anche delle brutte, sapete quanto amo il dramma).

Spero di riuscire a pubblicare il prossimo capitolo da meno di un mese ma non vi assicuro niente. Per adesso vi saluto e ci vediamo alla prossima.

J. 


 
   
 
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