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Autore: The Custodian ofthe Doors    07/01/2024    0 recensioni
[Storia interattiva| Deathfic!| Ready? Start!| Iscrizioni chiuse]
In un epoca sorprendentemente di pace, quando nulla turba l'equilibrio del mondo e dell'umanità, il pericolo più grande non è altro che la noia di coloro che hanno e possono tutto.
*
“ Problemi in Paradiso?”.
*
Il foglio volteggiò lento nell'aria densa delle Praterie degli Asfodeli, lì dove sorgeva il muro che li divideva dai Campi di Pena.
L'anima guardò altri fogli colorati svolazzare oltre quelle alte mura scure, caduti dal cielo, forse da quello vero e non dalla volta rocciosa che faceva loro da soffitto.
*
E se è la vita dei loro figli quella che gli dei vogliono veder in gioco, non vi sarà nessuno che potrà impedirlo.
*
“Riuscirai a “sopravvivere”? Sarai in grado di ingannare Thanatos?
Questa è la sfida della morte.
Questa è la Death Race.”
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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XXII- Promise.
 
 
Per quanto si trovasse sprofondato nelle viscere della Terra, l’Ade poteva essere visto come un mondo a sé, un ecosistema chiuso nelle sue stesse pareti, prigioniero e protetto di una spessa scorza fatta di roccia, sedimenti e lava bollente.
Dalla volta celeste non scaturiva nessuna luce, le lunghe e spesse stalattiti che si erano formate nel corso dei millenni nascondevano solo un buio più denso di quello che si spandeva per le pianure, ospitando i nidi di esseri misteriosi e le carcasse delle loro prede.
Non c’era motivo alcuno per recarsi così in alto, per sostare tra le zanne rocciose della Terra, poste sotto al mantello magmatico costantemente in movimento che era il sistema sanguineo di quell’animale. Eppure da lì si avrebbe avuta la visuale migliore per spiare le infinite e sterminate Praterie degli Asfodeli, grigie d’erba nera e Foschia bianca. Si sarebbero scorti con chiarezza i Campi di Pena, quell’enorme depressione composta da centinaia di terrazze che affacciavano le une sulle altre, scale mastodontiche da scendere per giungere fino al cuore nero del pianeta, dove era stato segregato il padre degli Dei, il vero padre degli Dei, dannato per eccellenza, primo assassino, despota e tiranno, primigenio mostro della storia a ricevere la condanna che avrebbe fatto da esempio per tutte le altre: oscurità e tormento fino a quando la caduta del mondo stesso non fosse sopraggiunta.
La volta rocciosa era anche il luogo ideale per osservare il maestoso e labirintico Palazzo di Ade, quella che il dio chiamava banalmente la sua “casa”; un agglomerato di strutture, di stanze, intere ali di una dimora che si era espansa ed evoluta nel tempo, seguendo il passare delle epoche, delle idee, dei gusti. Così come si era espanso ed evoluto il luogo di pace eterna, i Campi Elisi, celati dietro le alte mura bianche, custodite dal Guardiano, che s’ergeva silente ed attento sulla punta più alta del cancello centrale, un artefatto divino forgiato prima ancora che molti Dei vedessero la vita.
Dall’alto era facile individuare l’agglomerato che erano i templi dedicati ad ogni divinità, da quelli più grandi ai più piccoli, dai tetti candidi a quelle neri, scintillanti d’oro o rossi di semplici mattoni, bruni di paglia secca, grigi come le tegole delle cattedrali.
C’era un insolito via vai tra quelle strade, normalmente battute da pochi fedeli o figli affezionati che si recavano a portare onore alla propria divinità protettrice. Sembra che in molti si fossero improvvisamente ricordati d’aver qualcuno a cui portare omaggio, quando per secoli non avevano neanche saputo dell’esistenza di tale luogo. Perché ciò che spesso i vivi non riuscivano a comprendere era che con la propria dipartita non si perdeva quella scintilla d’energia in favore di una conoscenza onnisciente, ma si restava chiusi nella propria ignoranza, nel proprio piccolo sapere.
Si potevano scoprire cose nuove, si potevano imparare mestieri, studiare eventi, ma non era la morte a dare questo potere, era solo la necessità di impiegare quel tempo infinito che veniva donato una volta varcate le soglie dell’Ade.
Occhi rapaci osservavano da millenni le anime che si susseguivano per ogni via, per ogni luogo degli inferi, spiandone le mosse e le azioni, ma mai avevano scorto nulla di simile, mai i templi e le cattedrali erano stati così pieni, mai tanta luce accecante era filtrata dalle finestre di quei luoghi di culto, mai così tante anime erano scomparse tutte assieme, che fosse per rinascere o per svenire definitivamente nel nulla.
 
Ma non è davvero “nel nulla”, le anime sconfitte vanno comunque da qualche parte. Scendono i gradini mastodontici dei Campi di Pena e si uniscono al miasma che genera la Foschia.
 
Erano davvero incalcolabili le anime perdute, sconfitte dalle prove divine o dalla crudeltà degli altri partecipanti.
Condannati o salvati.
 
Il corvo mosse il collo con un gesto secco, inclinando il capo per osservare meglio uno sparuto gruppetto d’anime semidivine che avanzava per le strade lastricate.
Ce ne erano tanti come quello ed esattamente come per tutti gli altri gruppi il corvo non prestò la minima attenzione alla maggior parte dei suoi componenti, ma solo ad uno specifico. A chi era stato proprio salvato da un volere superiore a quello dei propri compagni.
Il corvo puntò gli occhi scuri su un giovane dai capelli ricci e la maglia arancione che teneva la lancia di bronzo celeste sulle spalle, i polsi mollemente poggiati sull’asta. Si muoveva con confidenza, senza neanche preoccuparsi che la punta affilata potesse sfiorare uno dei suoi amici.
Era un semidio moderno, questo lo sapeva, e coloro che stava guidando verso ogni tempio divino erano all’incirca dello stesso periodo, di certo dello stesso secolo.
Si stavano dirigendo verso il cuore della valle dei Templi, lì dove erano stati eretti i templi degli Dei più potenti e dei loro diretti servitori. Li osservò fermarsi brevemente davanti alla casa di Borea e guardare il portone di marmo lucido con sguardo triste, in silenzio, quasi in preghiera.
Fu proprio il ragazzo con la lancia a muoversi per primo, passando la sua arma ad un compagno, per andare ad inginocchiarsi davanti alle scale così chiare da sembrare di ghiaccio. Chinò il capo in segno di rispetto, poi estrasse qualcosa dalla tasca dei pantaloni e lo depositò sul gradino più alto.
Rimase così per un momento. Si rialzò, fece un cenno di saluto al tempio e si ricongiunse ai suoi compagni, riprendendosi la lancia ed indicando con questa una direzione precisa in cui incamminarsi.
Il corvo non lo perse di vista neanche per un attimo, ignorando l’oggetto abbandonato sulle scale, ignorando i volti tristi degli altri semidei. Al corvo interessava solo quel figlio di Apollo, perché su di lui spiccava chiaro il marchio di un essere che non avrebbe dovuto conoscere, che non avrebbe mai dovuto sfiorarlo.
Con un gracchio il corvo si gettò in picchiata verso i Campi Elisi, fermando la sua caduta solo in prossimità della punta più alta di un tempio nero come la pece.
Agli occhi scuri e privi di pupilla del rapace risaltava chiara l’impronta metallica che s’annodava attorno al collo del ragazzo, una sottile linea tratteggiata che seguiva la depressione tra le clavicole e quella della spina dorsale, allungandosi per la schiena ed il torace del giovane.
Quel brilluccichio non si vedeva da decenni e feriva gli occhi.
Il corvo gracchiò ancora.
Le catene d’oro della bestia erano tornate a splendere.
 

 
*



 
Il tempio di Ecate era nero come i primi due che avevano trovato sulla loro strada. Jane lo guardò con sospetto, domandandosi perché si trovasse in quella zona, perché la pietra scura avesse riflessi violacei e verdi, come quelli di un livido e soprattutto perché sulla parte più alta della struttura, proprio sotto il tetto, fosse rappresentato il bassorilievo di una donna con tre teste.
 
«Tre volti.» la corresse Cicno a voce bassa. «La divina Ecate viene rappresentata con molte forme, mutevole come la magia.»
Jane fece un verso di scherno. «Mutevole era il demonio e tutte le infinite forme che poteva assumere. A quanto pare le genti del mio villaggio avevano ragione sulle streghe.»
«Figlie del diavolo?» Domandò Cade avvicinandosi con pigrizia, le mani sprofondate nelle tasche e lo sguardo rivolto verso il bassorilievo.
«In questo caso dovrebbe essere figlia di Ade, no?» s’aggiunse Jonas lanciandosi di tanto in tanto sguardi attenti alle spalle, dove Lea teneva sottobraccio Eliza, più per la pace della prima che per la sicurezza della seconda.
«Ade non è il diavolo, ma sì, probabilmente molti ignoranti lo vedono come la sua versione greca.» spiegò Nathan per nulla interessato a quegli inutili convenevoli. «Ma Ecate incarna meglio il parallelismo con il serpente, secondo me.»
«Che blasfemia.» disse Lea accigliata, «Come puoi paragonare Ecate al serpente del Paradiso Terrestre?»
«Perché si trasforma e fa danni?» domandò Cade.
«Allora dovremmo prendere in considerazione la divina Eris.»
«Non la nominare neanche, cazzo. Quella porta sfiga pure solo a chiamarla.» borbottò Nathan. «Ma non ce ne frega comunque niente. Forza, è il tuo turno.» Concluse facendo un cenno con la testa verso Jane.
La giovane storse il naso in una smorfia infastidita, cercando di ignorare i commenti di Lea su come non fosse proprio la cosa migliore insultare una Dea quando uno di loro stava per affrontare la propria prova, e si voltò invece verso Cicno.
Il greco ricambio il suo sguardo senza batter ciglio.
«Sai già cosa potrebbe attenderti nel tempio di tua madre. Potrebbe essere lei stessa, la donna che ti ha cresciuto o anche una persona cara. Quel che è certo è che dopo la scorsa prova la Foschia è divenuta più densa e potente. Potresti incontrare più difficoltà di quanto non abbiano fatto i nostri compagni.»
Jane alzò gli occhi al cielo, accomodando meglio la torcia nella presa stanca, lasciandosi sfuggire un verso di scherno dalle labbra tese. «Ma certo, mi pare giusto che sia io quella a dover affrontare le prova più difficile.»
«Ho detto che potresti incontrare più difficoltà, non che sarà per certo più difficile.»
«Anche se visto quanto ci stai con la testa forse sarà proprio così.» Aggiunse Cade sorridendole.
La strega lo guardò male. «Vaffanculo rosso.»
Di fianco a loro Nathan ghignò, mentre Cade scoppiò direttamente a ridere.
«Questo è lo spirito giusto!» rise di cuore l’irlandese.
«Fai attenzione.» le mormorò piano Eliza, il volto pallido tornato un po’ più in sé, un po’ più su questa terra.
Lea annuì. «Qualunque cosa succeda ricordati che è un prova e che saranno disposti a dirti di tutto per farti arrendere, ti prometteranno magari di rinascere con i tuoi genitori o, io- sinceramente non ricordo se avessi fratelli-»
A quella domanda tentennante Jane rispose con un sorriso lugubre. «Non mi proporranno mai nulla di simile, anche perché tornerei dritta all’inferno.»
Con ciò la figlia di Ecate iniziò a salire i gradini, puntando lo sguardo dritto sul portone, quasi a sfidarlo a non aprirsi magicamente, a non riconoscerla degna neanche di questo.
Le porte però si aprirono con un movimento fluido, senza un solo suono.
Jane non si fermò neanche sulla soglia per volgere un ultimo saluto ai suoi compagni, ignorando le loro parole di incoraggiamento e gli schiamazzi in cui si stavano già perdendo.

Quando le due grandi ante si chiusero alle sue spalle, Jane fu nel buio.
 Non una luce, non un Fuoco Fatuo, il tempio di sua madre era nero come le acque più profonde, denso di qualcosa che non sapeva dire con certezza ma che poteva essere solo una cosa: Foschia.
Strinse istintivamente di più la torcia, voltando il capo verso la direzione in cui sapeva essere l’oggetto, ma anche la fiamma di questo era scomparsa. A quanto pareva il dono di Nike aveva fatto il suo dovere e ora era inutile. La gettò a terra innervosita, era evidente che anche quel piccolo aiuto le era stato negato.
Con riluttanza Jane iniziò a muovere i primi passi incerti verso l’ignoto, le braccia tese in avanti alla ricerca di un muro, una colonna, un qualunque appiglio che potesse darle sostegno, stabilità, sicurezza. Ma non c’era niente, lo spazio attorno a lei era esattamente come la magia di Ecate: impalpabile ed oscura.
Il pavimento era liscio, neanche il vago scalino di una giuntura tra una mattonella e l’altra, probabilmente dovevano essere grandi lastre e Jane si abbassò a terra per potervici passare sopra la mano, per sentirne la superficie. Si sorprese nel trovare qualcosa di freddo, liscio ma non perfetto, come i gradoni di una chiesa calpestati dai fedeli. Sembrava quasi umida al tatto, no- non era come le scale di una chiesa, era come le pareti di una grotta, lisciate da anni ed anni d’acqua che silente colava lungo la roccia. Il tempio di Ecate era un antro oscuro scavato nella pietra, freddo ed umido, in cui ogni rumore rimbombava sulle pareti nude. Come si addice ad una strega.
Non si sarebbe stupita nel sentire il verso di qualche pipistrello, il loro stridio acuto che sembrava perforare le orecchie, o il rumore strisciante di qualche rettile. Forse si stava facendo suggestionare dai racconti che sentiva da bambina, ma ogni più stupida diceria sembrava descrivere perfettamente quel luogo.
 
Servirebbero solo le grida dei poveri innocenti catturati dalla strega.
 
Si rialzò con lentezza, timorosa quasi si sbattere il capo contro il soffitto basso della grotta, pulendosi le mani sul vecchio grembiule logoro. Ora che aveva toccato quel pavimento, ora che ne aveva saggiato la sensazione di umidità, aveva quasi paura di poter scivolare ad ogni passo.
Non riuscì a farne poi molti prima che il silenzio surreale del tempio fosse intaccato da echi vaghi di voci umane.
Jane si fermò, drizzando le orecchie, chiudendosi nelle spalle. Cos’era? Erano di certo anime, ma cosa stavano dicendo?

Quanti dei miei fratelli sono qui dentro ora? Quanti di loro sono soli?

Le venne in mente in quel momento ciò che da ormai varie prove avevano ipotizzato e di cui avevano da poco avuto conferma: erano rimasti solo i fedeli agli Dei, molti dei quali riuniti in gruppi proprio come loro. Perché allora non avevano ancora incontrato nessuno? Perché nessuna squadra di semidei, come le chiamava Nathan, aveva incrociato il loro cammino?
Forse questa era la prima prova in cui non incrociavano nessun altro concorrente, com’era possibile che con tutte quelle anime ancora in giro non vi fosse nessun altro nei templi? Che fosse perché si stavano avvicinando agli Dei più importanti e quindi più proliferi? Arrivati dai Grandi Dodici avrebbero incontrato altri figli bastardi proprio come loro?

Ma dove sono i loro compagni? Hanno deciso di dividersi, gli sciocchi? Che cosa stupida! Avere qualcuno che ti aspetta fuori da queste mura ti spinge a non voler accettare compromessi.
 
O forse- forse era proprio questo il piano degli altri: farcela con le proprie forze ed incontrarsi, per chi ce l’avesse fatta, tutti ad un punto prestabilito.
Jane scosse la testa, strizzando gli occhi per un lungo momento nel tentativo di far chiarezza. Non poteva mettersi a pensare a cose del genere nel bel mezzo della sua prova, ne avrebbe parlato poi con gli altri e ne sarebbero venuti a capo assieme e se avesse avuto ragione allora tanto meglio, avrebbe significato solo meno sfidanti.
Riprese a camminare cercando al contempo di capire da quale direzione provenissero quelle voci, se vi fossero cunicoli o stanze, corridoi o ampi spazi da cui si diramavano più vie, proprio com’era stato per il Labirinto. Non credeva davvero che il tempio di sua madre fosse una caverna, era entrata in un edificio, aveva visto la struttura simile a quella di tutti gli altri templi, ma ad onor del vero Jane non aveva la più pallida idea di come funzionassero i poteri di Ecate, se la Foschia lì fosse così densa da riuscire a modificare anche l’ambiente, se passando oltre la porta non avesse attraversato un varco che l’aveva portata nelle profondità di una grotta buia, umida e che odorava di polvere bagnata e stantia. Di quello e di un vago odore di cera, cera ed incenso, lo stesso odore che emanava il palchetto della chiesa su cui venivano accesi i ceri in preghiera a Dio. Lo stesso odore che alle volte aveva sentito impregnare le vesti di Tituba, proveniente dal misero altarino che la schiava aveva nella catapecchia in cui dormiva con gli altri schiavi della magione. Qualcuno diceva che ciò che veneravano i neri non era un vero Dio, che quei miscredenti non avevano neanche le facoltà necessarie per convertirsi ed abbracciare la parola del Signore, che gli sforzi dei missionari erano inutili con quella gente selvaggia, ma a distanza di secoli Jane si ritrovò a domandarsi se forse la divinità che veneravano tutte quelle persone così diverse da lei non fosse proprio quella che le era in realtà più vicina.
 
Tituba sapeva di mia madre, sapeva chi ero e chi era Samuel. Forse proprio perché venerava Ecate.
 
Avrebbe avuto senso, sarebbe stata forse la spiegazione più naturale, eppure questo non portò nessun sollievo alla giovane donna.
Più si addentrava nel tempio, più quell’odore diventava forte, mischiandosi alla puzza opprimente della grotta, ad un vago odore di muffa e di- funghi? C’era odore di sottobosco d’autunno, quando le foglie secche cadute sulla terra fredda venivano bagnate dalle piogge impietose, inzuppando loro ed il terreno, sciogliendo il tutto in una poltiglia di fango e piante macerate. Sì, era odore di bosco, di terra umida, di erbe secche bruciate, di incenso o candele, così differenti dall’odore che emanavano le lampade ad olio che illuminavano le strade durante le ronde, persino quelle che si spingevano sino al confine con la macchia scura e lugubre.
Quello era lo stesso, identico odore che Jane aveva sentito il giorno in cui era morta, quando si era addentrata nel bosco fitto e aveva cercato la radura dove aveva visto per la prima volta quelle creature, dove aveva aperto quel dannato libro e pronunciato quel dannato incantesimo, quando aveva maledetto quei due esseri ripugnanti e tutto era andato storto. L’ultimo odore che aveva sentito prima di quello di bruciato, di sterpaglia, vesti, capelli, carne bruciata.
 
Del mio stesso corpo che andava a fuoco.
 
Trovava quasi ironico come le fiamme non la spaventassero poi molto, ma dopotutto l’avevano già uccisa una volta, non avrebbero mai potuto fargli più male di così.
In quel tempio però non vi erano di certo gli stessi suoni del bosco. Nel silenzio surreale, dove neanche i suoi passi parevano produrre il giusto rumore, si sentivano solo le grida lontane dei suoi fratelli, parole rabbiose o imploranti, singhiozzi, lamenti. Eppure non facevano il giusto suono, sembravano tante voci isolate, lontane, vicine, come echi che si rincorrono uno dopo l’altro ma ognuno nella propria camera chiusa.
 
Come se ognuna di queste voci esistesse in un altro luogo, sola, e io fossi in tutti quei posti contemporaneamente e tutte le me in tutti quei posti sentissero solo una singola voce.
 
Era così confusionario, così difficile da capire: come si poteva essere in tanti luoghi contemporaneamente? Come si poteva sentire un unico suono ma al contempo sentirli tutti?
A Jane pareva quasi d’avere centinaia di teste e che ognuna di queste potesse sentire una sola voce alla volta ma che poi tutte quante fossero legate ad una mente più grande che assorbiva ogni suono. Era così che doveva sentirsi Dio, se fosse mai esistito, onnipotente e onnipresente, in grado di essere ovunque e parlare singolarmente con ogni fedele.
Non le piaceva. Lo odiava.
Fu mentre era presa da quei pensieri che vide finalmente qualcosa.
Così come le voci anche quello sprazzo di luce fu fievole ma estremamente luminoso nel buio più totale. Fu questione di pochi attimi, lontano, alla sua destra, in alto, verso il soffitto, balenò un brillio azzurrino, poi scomparve e tornò solo l’oscurità.
Negli occhi spalancati Jane vedeva ancora marchiata a fuoco quella piccola esplosione, una macchia che non se ne andò dalle sue pupille finché non ve ne fu un’altra, avanti a lei, in basso, così in basso che poteva essere solo a livelli e livelli sotto il suolo, piani inferiori che Jane non avrebbe potuto scorgere neanche volendo. Poi un altro più in alto, spostato a sinistra ed un subito dopo ma più vicino, davanti al terzo, questi due uno violaceo e un bianco.
Cosa diamine erano? Che stava succedendo?
Le voci si fecero più intense, si moltiplicarono, raggiungendo quasi una sincronia perfetta, una litania di suoni in lingue diverse, in toni diversi, che dicevano cose diverse e Jane accelerò il passo, iniziando a correre senza neanche rendersene conto, scappando dai bagliori colorati vicini, lontani, sopra di lei, sotto i suoi piedi.
Alzò le mani sopra il capo, cercando di proteggersi dai pulviscoli che vedeva caderle addosso ad ogni nuova luce, scintille che non la potevano sfiorare perché troppo distanti, situate su piani a cui non poteva accedere.
Era spaventata, non c’era motivo per negarlo a sé stessa, non sapeva cosa stesse succedendo, dove, perché; non sapeva se sarebbe stata in grado di difendersi, se avrebbe dovuto farlo.
Abbassò la testa e strinse gli occhi, non voleva vedere quelle luci, non voleva neanche sentire quei suoni. Cosa le stavano dicendo? Stavano parlando con lei?
Il fiato le si spezzò il gola, l’odore della polvere bagnata era opprimente, quello dell’incenso le stava facendo venire la nausea, avvelenandola come avrebbe dovuto fare con le vere streghe secondo il pastore della sua chiesta.
Perché nel tempio della strega suprema si respirava il fumo pungente e mefistofelico dell’incenso sacro?
Jane non riusciva più a respirare e l’ironia del non riuscire a farlo da morta era quasi pari a quella della dannata puzza di chiesa tra quelle mura. Tenne le palpebre serrate, vedere dove stava andando non aveva alcuna importanza, era arrivata alla conclusione che quel posto l’avrebbe portata esattamente dove doveva andare senza che lei facesse alcun ché, così com’era stato in vita: malgrado cercasse di prendere una decisione erano sempre altri a scegliere per lei, a condannarla.
Le voci si fecero più intense portandola ad abbassare le braccia per potersi premere le mani sulle orecchie. Avrebbe voluto fermarsi e nascondersi da qualche parte, accovacciarsi a terra e fingere di essere altrove, che tutte quelle grida, quelle luci che filtravano anche sotto la sottile patina delle palpebre chiuse non esistessero davvero, non fossero vere, non-
 
Non lo sono. Non sono vere perché tutti qui siamo morti. Ma esistono, ci sono, perché sono le grida di tormento delle anime. Dei miei fratelli e delle mie sorelle.
 
Li stava torturando, la loro stessa madre li stava torturando tutti, ognuno nel modo in cui avrebbe fatto loro più male, ne era sicura, lo sapeva per certo.
Sarebbe toccato anche a lei.
Presto la sua voce si sarebbe unita a quella dei suoi fratellastri.
 
Ma chi dovrebbe davvero soffrire, chi dovrebbe davvero essere torturato, vive felice una vita che non merita.
 
Non le sembrò strano che fosse la rabbia a rianimarla, che fosse l’odio, centenario, che provava per quei due individui a scuoterle di dosso la paura, a replicarla di furia rossa, cieca come il buio in quel tempio, soffocante come l’odore di muffa e di incenso, rovente come il fuoco che l’aveva bruciata viva.
Jane riaprì gli occhi nell’oscurità del tempio di Ecate e cominciò a correre con un intento, con una meta ben precisa nella mente: doveva arrivare il prima possibile all’altare di sua madre, affrontare la sua prova e dirigersi alla prossima, sempre un passo più vicino alla sua agognata e meritata vendetta.
Tenne la testa bassa finché le luci che le esplodevano attorno non furono oscurate da un bagliore fermo, lontano ma stabile e concreto. Fu come scorgere la proiezione di una candela in una grotta profonda, la scia si allungava in una lancia di luce dalla punta lieve, che prendeva sempre più consistenza avvicinandosi alla sua fonte.
Era quella, senza ombra di dubbio, quella era la sala del trono, del focolare o qualunque altro luogo sua madre avesse reputato opportuno condurla per farle affrontare la sfida di Estia. Eppure, pur avvicinandosi sempre di più, l’ambiente non si fece chiaro, Jane non riuscì a scorgere il profilo della stanza in cui si trovava, non il pavimento o i suoi soffitti: era nel buio più totale e la luce che vi si proiettava in mezzo era la sua unica indicazione, l’unica via, anch’essa impalpabile.
Inesistente come l’oscurità.

Perché non esiste niente, in questo dannato tempio. Non le ombre, non le luci, non i suoni o le stanze. Non esistono i pavimenti, non esistono i tetti, non ci sono mura. Non c’è niente, è come un pozzo infinito.
 
Come le acque nere in cui calavano le gabbie che racchiudevano povere donne innocenti accusate di essere streghe solo per non aver acconsentito docilmente alla richiesta di un uomo, per aver curato un malanno con le stesse piante officinali che i frati usavano, per aver salvato una pianta moribonda, per aver contato i giorni che s’intervallavano tra un ciclo della Luna e l’altro.
Condannate solo per le accuse vuote e malevole di altri.
 
Quante streghe erano morte in quel modo? Quanto era crudele far vivere a tutti i propri devoti le stesse pene di quelle povere donne?
Oh, ma quanto era giusto che tutti comprendessero le sofferenze dei sudditi della strega, com’era giusto che ogni devoto vivesse lo stesso atroce dolore, la stessa pressante paura che le adepte di sua madre avevano sperimentato.
 
Quanto è giusta la vendetta.
 
La lama di luce si fece più larga, un’accecante varco che s’apriva nel nulla, sempre più luminoso, sempre più caldo nel freddo umido dell’antro stregato.
Jane tenne gli occhi spalancati, non osò distogliere lo sguardo anche se la vista le si fece sfocata, gli occhi cominciarono a lacrimarle dallo sforzo.
Con un ultimo scatto si gettò oltre l’entrata, finendo per inciampare sui suo stessi passi e rischiando di rovinare a terra senza grazia. Si resse in piedi per miracolo, avanzando barcollante sotto la spinta della sua stessa corsa fino a quando non riuscì a fermarsi, stabile.
Batté le palpebre, fissando il pavimento scuro tempestato di centinaia di pallini bianchi come chicchi di grano. Quelle erano lastre, grandi quadrati di pietra liscia accostati gli uni agli altri, un vero pavimento finalmente e non il buio della grotta.
Alzò la testa e drizzò la schiena, cercando di capire dove, di preciso, era stata condotta.
Da quello che avevano detto Jonas ed Eliza la prova si sarebbe svolta nella sala dove bruciava il focolare, un focolare spento che avrebbe dovuto accendersi nel momento in cui sua madre l’avrebbe reputata degna.
L’ambiente che la circondava rassomigliava un po’ alla nicchia in cui era incastrata la fonte battesimale nella sua chiesa, seppur in dimensioni decisamente maggiori: c’erano delle colonne ai lati della stanza, zone in ombra che non riusciva a distinguere ed il soffitto a cupola, affrescato con mosaici lucenti e scuri che rappresentavano scene di cui Jane ignorava la storia.
Ciò che le risultava chiaro era solo l’immagine di sua madre in varie fasi della giornata: sopra all’entrata vi era una bambina vestita di nero, alle sue spalle, per quanto fossero ugualmente cupi i colori, Jane poté vedere chiaramente un’alba, il Sole formato da una tessera tondeggiante d’oro brunito, quasi sporco, forse coperto dal fumo dell’incenso che si era andato a depositare nel corso dei secoli. Al centro della volta vi era invece una giovane donna, qualcuno che le ricordava vagamente sua madre, o almeno credeva gliela ricordasse, anche lei vestita di nero ma con dei decori violacei lungo il perimetro della veste. Non c’erano astri alle sue spalle o sopra di lei, ma le tessere azzurro-grigiastre, come il cielo prima della pioggia, la collocavano in un orario indefinito tra la mattina ed il pomeriggio. E per finire, nella parte a lei più lontana, posta sopra l’altare e il focolare, una donna anziana, anche lei vestita di nero, con le braccia protese verso il cielo, una luna pallida e scintillante a brillarle tra le mani spigolose.
Attorno alle tre figure si rincorrevano decori tondeggianti e sinuosi come le spire della Foschia, tra le quali sembravano quasi affacciarsi di tanto in tanto esseri misteriosi e bestie inquietanti.
Con il capo reclinato verso l’alto e lo sguardo vacuo, Jane giurò di poter vedere tutte quelle tessere muoversi, fluide come l’acqua, vive come non lo era più nulla in quelle terre. Poteva scorgere destrieri neri e cani infuocati apparire e scomparire tra la nebbia, figure stilizzate di donne che ballavano attorno alla vecchia donna, ne vedeva altre correre tra i boschi oscuri, inseguite da torce fiammeggianti, da uomini inferociti. Riti antichi di cui non conosceva il nome, pire accese per bruciare le streghe, corde legate alle mani e agli arti di donne che imploravano pietà, giuravano innocenza, pregavano un dio che non le avrebbe mai aiutate. C’era acqua ghiacciata e olio bollente, croci e rosari impugnati come armi, pietre lanciate verso corpi inermi.
C’era dolore, paura, disperazione, tormento, rassegnazione, morte.
Ma c’erano anche figure nude a cavallo di bestie astratte, lame scintillanti d’oro e di bronzo, d’azzurro e d’argento. Lampi colorati come fulmini scagliati contro gli infedeli, contro i miscredenti, contro i barbari mortali che non tolleravano ci fosse qualcosa sopra di loro su cui non potevano esercitare alcun potere.
Era la nascita di qualcosa di inconcepibile ma anche di così crudelmente terreno e umano, di viscerale e banale, come se ogni singola immagine fosse per certo vera, fosse ovvio quanta verità racchiudesse in sé, ma al contempo fosse anche così incredibilmente difficile da comprendere.
Tutto ciò che vedeva era vero ma impossibile, era la mente umana incapace di vedere davvero.
 
Ciò che è e non è nascosto dalla Foschia. Chi ha e non ha la vista.
 
Le tessere brillavano di luce propria, di fuoco, fulmini e magia, di riflessi delle torce sull’acqua e dello scintillio unto dell’olio e quello rubidio del sangue. Ma ogni singolo colore era visibile solo e soltanto perché risplendeva da sé.
Fu quel pensiero che le fece abbassare la testa, portando la sua attenzione sul resto della sala, vuota per la maggior parte.
Mosse qualche passo in avanti, stringendo gli occhi per poter scorgere cosa si nascondesse negli angoli e nelle rientranze. Le sembrava quasi di intravedere profili di piante, fasci d’erbe e di fiori messi ad essiccare, grosse ampolle di vetro dal contenuto indistinguibile, torbido e chiaro, lucido e denso, dei sacchi simi a quelli dove venivano tenuti il grano e la farina, la stoffa grezza e bruna tipica della iuta e forse delle casse di legno.
Dal lato opposto della sala vi era un piano rialzato, con un paio di gradini consunti a separarlo dal pavimento su cui poggiavano tutte le colonne, sopra di esso quello che poteva essere solo un altare, così simile a quello di una qualunque chiesa cristiana.
 
Ma non un braciere. Dov’è il braciere?
 
Girò lentamente su sé stessa, cercando quell’oggetto così vitale per la riuscita della sua prova eppure introvabile.
Storse il naso e digrignò i denti, non aveva tempo di giocare a nascondino, doveva finire quella stupida gara, andare avanti. Marciò così verso il centro della sala, i pugni stretti, le braccia rigide lungo i fianchi.
Non c’era nulla, non c’era niente lì, non c’era il braciere, non c’era luce vera, cominciava a domandarsi se anche tutti gli oggetti che le era parso di scorgere del buio fossero veri o solo proiezioni della sua mente, di ciò che si sarebbe aspettata di trovare nell’antro di una strega.
Sarebbe dovuta seriamente andare a controllare nicchia per nicchia? Dietro ogni colonna, lì dove le ombre erano più dense?
Si volse verso sinistra, decisa ad iniziare la sua ricerca, quando avvertì una leggera protuberanza sotto i piedi.
Abbassò lo sguardo sul pavimento, muovendo piano la punta del piede per poter seguire il percorso di quel bassorilievo ruvido e leggermente bombato. Malgrado l’assenza di torce di alcun tipo quella che permeava il centro della sala era una specie di luce soffusa, come quella che seguiva le anime nelle Praterie degli Asfodeli, e tanto bastò a Jane per seguire il disegno che aveva appena calpestato, rendendosi presto conto che fosse un perfetto ed enorme cerchio.
 
 
«Togliti da lì dentro, Jane. Quello è il luogo in cui la strega fa i suoi sortilegi.»
 
 
Con il piede ancora puntato contro il piccolo rilievo, Jane rimase ferma immobile, trattenendo un respiro che non avrebbe dovuto avere, bloccando il moto dei polmoni che sarebbero dovuti essere divenuti ormai polvere. Se non fosse già morta Jane avrebbe giurato di poter svenire da un momento all’altro, avrebbe atteso solo che l’ondata di calore che la stava investendo in quel momento, da testa a piedi, si dissolvesse, la che lasciasse tremante e balbettante, sull’orlo delle lacrime che non avrebbe versato.
 
Bastarda. È questa quindi la mia prova? Hai scelto lei.
 
«Jane? Hai sentito cosa ti ho detto, bambina?»
La figlia di Ecate serrò gli occhi, mente i brividi attraversavano quel corpo che, prova dopo prova, si stava riformando, stava tornando sempre più concreto, sempre più vero, come se non fosse mai morta. Prese qualche respiro tremante e poggiò con lentezza il piede a terra, senza però muoversi dalla sua posizione, aspettando che il dolore sordo che le rimbombava nel petto si trasformasse nel ruggito della rabbia, dell’odio che provava ora per sua madre.
 
La mia vera madre. Non quella che mi sta parlando ora.
 
Si voltò piano, deglutendo un grumo d’ira ruvido e amaro, alzando con lentezza la testa sino ad incrociare lo sguardo di Martha Parris.
Era esattamente come la ricordava: minuta, dal corpo magro e poco prosperoso, i viso piccolo dai tratti delicati che le aveva sempre tanto invidiato.
 
Quante volte le ho chiesto perché non potevo rassomigliarle di più.

«Perché hai ripreso tutto da tuo padre.» le sorrise con gentilezza Martha. «Ora fai la brava ragazza e togliti da quel cerchio.» ripeté con più durezza.
Ah, ecco, quella era la voce autoritaria che sentiva ancora nella sua mente, le parole forti che non ammettevano replica.
Ma quella non era davvero sua madre, né quella che l’aveva messa al mondo, né quella che l’aveva cresciuta e ormai Jane aveva imparato il gioco, sapeva cosa sarebbe successo, sapeva che in nessun modo quell’anima poteva essere in qualche modo collegata alla donna che l’aveva amata e accudita.

«Dai Parris, vorrai dire. Non avrei avuto nessuna possibilità comunque, no?» rispose spostandosi, sì, ma dentro al cerchio.
Martha storse il naso, contrariata dalle sue azioni.
«Non dire così, Jane, no-»
«Non dire così? Perché? Sbaglio, forse?» replicò affilata.
La donna non le rispose, la fissò solo con sguardo colpevole, avanzando di pochi passi verso di lei, tentennante.
«Jane…»
La strega alzò gli occhi al cielo, verso il soffitto, scrutando ancora quelle immagini fumose che non poteva vedere con certezza ma che sapeva, in qualche modo, cosa rappresentassero. Tutto, pur di non guardare l’altra.
«Mi dispiace, io- non volevo, tesoro, non ce l’ho fatta, il dolore-» la voce le si spezzò, vuota dell’autorità con cui le aveva parlato prima, ora fragile e bassa. «Non ce l’ho fatta.» ripeté ancora, schiarendosi la voce, avanzando ancora un po’. «Il dolore è stato troppo grande, ho provato a resistere ma non ce l’ho fatta. Non avrei mai voluto abbandonarti.»
Jane continuò a guardare in alto, stringendo il labbro inferiore tra i denti, cercando di trattenere le lacrime di frustrazione che le stavano salendo.
«Credi che provi risentimento verso di te? Per questo? Perché sei morta?» le domandò, tirando su con il naso, irritata dal tremore che aveva scosso anche le sue di parole.
Martha si portò le mani al petto, facendo un altro passo, senza però azzardarsi a superare il cerchio a terra.
«Ti ho lasciata sola, non sono stata abbastanza forte. Avevi appena perso tuo padre-»
«E tu tuo marito. Ma se vogliamo essere oneste, non ho perso davvero mio padre, giusto?»
Solo a quelle parole riuscì a riabbassare lo sguardo sulla donna, a prendere un altro respiro tremulo di rabbia. «Mio padre è ancora vivo, lo sai? Ed è tutta colpa mia. Solo mia. Quel dannato-»
«Tuo padre è morto per colpa di quella gente, Jane! Oliver era un uomo buono, giusto, è morto perché non ha voluto mentire! Il Signore gli è stato testimone-»
«Il tuo Signore non l’ha salvato!» scoppiò gridando.
Martha la fissò allibita ma incapace di controbattere.
«Dio, quel Dio che mi avete sempre detto essere buono e giusto, proprio come lo era Oliver, non si è sprecato a salvare i suoi figli innocenti e ha permesso che quelli più diabolici prosperassero! Non lo vedi? Non lo capisci? Dove sei? Ti rendi conto di dove ci troviamo? Siamo nelle tempio della Strega suprema, siamo nel tempio di Ecate, una divinità, una donna, pagana! Dov’è il tuo Dio? Dov’era quando tutte quelle donne sono morte? Quando è morto Oliver? Quando sei morta tu? Quando sono morta io
«Il Signore non può sempre intervenire. Sei arrabbiata Jane, quello che provi è solo dovuto alla rabbia dell’ingiustizia che hai subito.» provò a calmarla.
Ma Jane non aveva bisogno d’essere calmata, di venire a ragione. Ormai lei sapeva la verità, sapeva chi erano i veri Dei, che chi aveva pregato per tutta la vita non era altro che un fantoccio che dei bastardi come quell’omuncolo avevano sempre usato per tenere incatenate le persone, per aver sempre ragione e spadroneggiare sugli altri.
Sapeva che quella non era davvero Martha, non era la donna che l’aveva cresciuta e le aveva fatto da madre, quella non era sua zia.
«Sono arrabbiata, lo sono così tanto che mi è difficile spiegarlo. Ma in tutti questi anni, in tutto il tempo che ho vagato per le Praterie degli Asfodeli ho avuto tempo per pensare e ripensare, per alimentare l’ira che avevo in me, per capire cos’era successo, dove avevo sbagliato e cosa dovevo fare per potermi finalmente vendicare.»
«Vendicare? No, Jane non-» si sporse in avanti verso la figlia ma poi si bloccò di colpo, come se non volesse oltrepassare il cerchio neanche con il solo busto, con una mano.
«Non hai nulla di cui vendicarti. Ciò che è successo non poteva essere fermato, soprattutto non da una giovane come te. La paura rende mostruoso anche l’animo più gentile, gli uomini che hanno ucciso tuo padre erano solo povere bestie spaventate!»
Jane la guardò allibita, avvicinandosi dove la donna si era fermata. «Come puoi difenderli?»
«Era la paura ha parlare per loro. Anche io ero terrorizzata da quello che poteva ti poteva accedere, specie dopo ciò che quella strega aveva fatto a tua cugina-»
«Non osare nominarla.> la fermò immediatamente. «Non-osare-nominarla. Tutto ciò che è successo è stato colpa sua, di quella stupida Elizabeth che per aver le attenzioni di tutto il paese ha mentito, dicendo che Tituba era una strega-»
«Perché le ha fatto un maleficio! Quella donna ha confessato!»
«L’hanno picchiata! L’hanno picchiata finché non ha mentito pur di far cessare quelle torture!» replicò con ferocia. «Non era una strega lei! Non lei! IO, IO ERO LA STREGA E NEANCHE LO SAPEVO!»
Martha si tirò indietro, artigliando il collo della sua camiciola, portando l’altra mano a coprirsi la bocca.
Jane la guardò invece con soddisfazione, felice della sua faccia sgomenta, di essere riuscita a far breccia in tutte quelle fandonie che quell’anima, quella magia o qualunque cosa fosse cercava di rifilarle.
«Siamo nel tempio di mia madre, nella casa della strega per parlare con la figlia della strega. Pensavi che non lo sapessi? Che non avessi scoperto che non eravate davvero voi i miei genitori?»
«M-ma, tuo padre…»
«Oliver? Era un uomo buono e giusto, no? L’hai detto tu stessa. Non ti avrebbe mai tradita, non sarebbe mai andato contro i sacri voti del matrimonio. Non avrebbe mai attratto a sé la Dea della Magia. Lui no, ma mio padre sì.» la fissò dritta negli occhi, quegli occhi che l’avevano seguita per tutta la vita, dolci ed amorevoli, sicuri ed autoritari.
C’era stato un tempo in cui aveva creduto che sua madre fosse la detentrice di tutto il sapere, di tutte le verità, colei che sapeva come agire, cosa fosse meglio fare, cosa fosse più sicuro.
Ma sua madre, la donna che l’aveva cresciuta, era morta secoli fa, uccisa dal dolore insopportabile per l’esecuzione di suo marito, un uomo che aveva creduto nelle regole e nei dogmi della sua fede fino alla fine, affrontando la morte pur di non giurare il falso. 
«È ancora vivo, sai? Quel bastardo è ancora vivo. Lui e quell’essere inutile e vile di sua figlia. O forse dovrei dire “mia sorella”? Ed è colpa mia se sono entrambi vivi. Se solo quelle maledette empuse mi avessero aiutato ora sarebbe tutto diverso.»
Lo spirito di Martha tornò sui suoi stessi passi, quasi spinta via dall’avanzare di Jane verso di lei.
«Non so cosa tu sia, ma i miei compagni mi hanno già detto come funzionano queste prove, che avrei trovato qualcuno a me caro che mi avrebbe proposto di lasciare la gara per un futuro migliore, libero da ogni tormento, da ogni ricordo, da ogni colpa. Tornare in vita senza più memorie di ciò che è stato, al fianco di coloro che abbiamo amato.» disse arrivando al bordo opposto del cerchio.
Un sorriso sinistro le tese le labbra, mentre la donna scuoteva piano il capo, gli occhi lucidi di lacrime.
«Io non lo voglio. Non voglio tornare in vita se per farlo dovessi dimenticare tutto. Io voglio vincere, mantenere tutte le mie memorie, tornare a calpestare il suolo mortale e trovare quei due luridi, viscidi e maledetti bugiardi. Voglio trovarli e farli soffrire come ho sofferto io, voglio vederli disperare, piangere, implorare perdono e voglio guardarli dritti negli occhi quando dirò loro che non c’è pietà per i vermi, che mi hanno rovinato la vita e che non meritano nulla se non il dolore che hanno inferto a me, a te e a papà.
Voglio vederli contorcere a terra, voglio che sentano le loro interiora sciogliersi nel ventre, il sangue colargli dalle orecchie, dal naso, dagli occhi e dalla bocca, la pelle ritirarglisi mentre vivranno il mio stesso rogo, lo stesso dolore che ha tolto la vita a me e che avrebbe dovuto invece coglierli centinaia di anni fa.
Voglio che soffrano, soffrano, soffrano! Io voglio vendetta! Non voglio la pace eterna, non voglio dimenticare! Voglio solo vederli morire lentamente, con la consapevolezza di essere soli e che nessuno li potrà salvare, nessuno li cercherà, nessuno li piangerà! Nell’oblio che meritano e che hanno sempre meritato! E non so cosa tu sia, ma non sei davvero mia madre e se questo è il meglio che sai fare Madre, sono profondamente delusa!»
 
Le sue parole trasudavano veleno, mortifero e fumante come acido, affilato e acuminato come una lancia, come la lancia di luce che le aveva mostrato la strada fino a quella sala, come la lama di luce che vibrò lungo tutto il perimetro del cerchio per poi condensarsi davanti al petto di Jane e scagliarsi veloce contro il petto della finta Martha, facendola scomparire in un’esplosione luminosa, una nube di pulviscolo violaceo identico a quelli che aveva visto nel buio.
 
Erano i cari dei miei fratelli che scomparivano dopo che questi avevano superato la loro prova.
Quelle che sentivo erano davvero le loro urla disperate, i loro pianti, ma per aver perso di nuovo le persone amate, per aver vissuto di nuovo questa tortura.

 
Jane fissò quelle scintille spegnersi tristemente, come una candela sotto la pioggia.
Quella non era sua madre, non davvero. Era solo un fantoccio che la sua vera madre aveva utilizzato per cercare di farla crollare, nulla di più.
Mantenne lo sguardo fisso sui lastroni su cui poco prima il fantasma di Martha era rimasto fermo, uno strano senso di vuoto le attanagliò lo stomaco, una voragine nel petto in cui il cuore era in caduta libera, come l’aria troppo fresca dopo aver passato una giornata nelle cantine a sistemar botti e provviste.
Quella non era sua madre, eppure Jane si ritrovò a rimpiangere il non averla neanche sfiorata.
 
«Ti sarebbe andato bene, pur sapendo che non era lei?»
Chiuse gli occhi, li riaprì, batté le palpebre ma non si mosse, la rabbia di prima era stata sedata dal vuoto, dalla consapevolezza d’esser riuscita a far piangere anche il fantasma di sua madre, di averle urlato contro dopo anni che non la vedeva, quando l’ultima volta che l’aveva toccata era stato per girare il suo corpo ed assicurarsi che fosse davvero morta.
Le tremarono le mani, Lea le aveva spiegato che era una reazione normale quando, dopo aver provato emozioni molto forti, il corpo si rilassava. Nathan l’aveva chiamata adrenalina. Jane sapeva solo che tutte le sue forze erano sparite di colpo.

«È rinata secoli fa. È stato un colpo molto duro scoprire che non c’era il paradiso del suo credo, ha voluto andarsene il prima possibile, certa che avrebbe dovuto aspettarti per decenni prima di poterti rincontrare di nuovo. Anche Oliver è rinato. Quanto a Thomas ed Elizabeth…»
Quei due nomi le ridiedero energia, carbone imbevuto di alcool da gettare nella fornace che era il suo risentimento, alimentandola di ira e violenza.
Si girò di scatto verso l’altare, lì, dove proveniva la voce, per ritrovarsi faccia a faccia con sua madre, quella che l’aveva davvero messa al mondo.
Ecate se ne stava tranquillamente poggiata davanti al suo altare, le mani intrecciate in grembo, la postura rilassata ma dritta ed autoritaria.
 
Come mamma.
 
Solo che a differenza di Martha Ecate era molto più alta, più di Lea ma non quanto Cicno. Era una figura slanciata ma dal corpo morbido, i fianchi pronunciati, la vita stretta messa ancora più in risalto dalla cinta composta da quelle che sembravano lune e stelle d’argento, incredibilmente brillanti in contrasto con la stoffa scura della sua veste, così come le spille a spirale poste sulle sue spalle, sotto le quali era fissato un leggero velo blu che copriva le braccia lasciate scoperte dal vestito.
C’erano delle erbe che pendevano dalla cinta di astri, mezze nascoste tra le pieghe della gonna lunga e morbida, che le copriva i piedi ma lasciava intravedere la forma delle gambe, una fine striscia di pelle ambrata sul ginocchio flesso.
I capelli della Dea erano sciolti dietro alla sua schiena, ma le ciocche frontali erano intrecciate con fiori bianchi dal cuore viola, un erba che Jane non aveva mai visto ma che sapeva, solo guardandola, essere lo stramonio.
Aveva un aspetto selvaggio ma non feroce, il volto di Ecate era ampio, il naso appuntito, una leggera gobba a renderlo più prominente, le sopracciglia fine a darle l’aspetto di una persone decisamente poco impressionabile. Gli occhi avevano un taglio affilato, le iridi gialle come quelle dei felini, un perfetto accostamento ai capelli neri come lo erano nei gatti neri.
Le labbra fini tinte di un rosso pesante e pesto.
La Dea della Magia sembrava un grosso gatto nero indifferente con la bocca ancora sporca del sangue della sua ultima preda, Jane non si sarebbe stupita affatto se Ecate avesse sfoggiato zanne affilate come quelle dell’animale.
 
«Soddisfatta di quello che vedi? Ti aspettavi di rassomigliarmi di più?» le chiese con voce piatta.
Jane scosse la testa ed Ecate arricciò il naso: «Lo sospettavo.»
Si tirò su con la stessa grazia del felino a cui tanto rassomigliava e scese i due gradini consunti che la dividevano dal pavimento principale.
Jane non poté far a meno di lanciare uno sguardo furtivo verso l’alto, verso il mosaico della donna.
 
«Sì, questa è la forma che assumo più spesso, è più comoda. Anche se alcuni dicono non mi renda giustizia.» continuò a parlare, fermandosi anche lei davanti al cerchio disegnato a terra e facendo schioccare la lingua sul palato.
«Ti ho sentita gridare fino a poco fa ed ora taci? Era impossibile una volta toglierti la parola, sei divenuta troppo silenziosa.»
A quell’affermazione Jane le rivolse uno sguardo contrariato. «E tu che ne sai?» ritorse infastidita.
Ecate alzò a malapena un sopracciglio, forse infastidita dalla mancanza di rispetto nel modo in cui la semidea le si era appena rivolta.
«Sono una Dea, so tutto ciò che mi interessa sapere.»
«Credevo non avessi nessun interesse in me, che non fossi abbastanza speciale per ricevere il tuo aiuto.»
Ecate si strinse nelle spalle. «Non hai il potenziale magico che hanno molti dei tuoi fratelli, ma questa è anche colpa di tuo padre, ho cercato di insegnargli la magia, ma non aveva disciplina, era ingordo ed avaro, non aveva pazienza, voleva tutto e subito, ti ricorda qualcuno?»
«Non osare paragonarmi a quell’essere.» sibilò velenosa.
«Non c’è motivo alcuno di prendersela, tutti abbiamo parenti di dubbia morale, è la base del panteon greco. Sei e rimani sua figlia, che ti piaccia o no, la parte umana che ti caratterizza è la sua, non quella di suo fratello e sua moglie.» continuò lei con tranquillità. «In ogni caso, anche se ti avesse tenuta con sé non sarebbe cambiato nulla, quello stolto è riuscito a mala pena ad imparare come ammaliare la gente, non avrebbe potuto insegnarti nulla perché aveva imparato quasi nulla. Non si può riempire un vaso dal fondo rotto, per quanta acqua si versi al suo interno alla fine si svuoterà sempre.»
«Non voglio parlare di lui.»
«Poco importa cosa tu voglia o meno, Jane, non sei nella posizione per scegliere o imporre il tuo volere.» la guardò quasi con pietà e la semidea sentì ancora il sangue ribollirle nelle vene.
«Riuscirò comunque a trovarli ed ucciderli, che tu creda che possa farcela o no!» le gridò contro.
Ma Ecate non ne rimase impressionata e alzò anche lei gli occhi al cielo.
«Io so che non puoi farcela, non è qualcosa che credo, è una certezza. Perché non sai comandare la magia, non sai sfruttare i tuoi poteri, hai iniziato a farlo solo ora e solo perché era una questione di vita o di morte. Esattamente come quello stolto hai voluto tutto subito e nel momento in cui non sei stata in grado di ottenerlo hai guardato al ramo e ha deciso che il frutto era guasto.»
Jane aggrottò le sopracciglia, «Cosa?»
«È una metafora, sciocca. Significa che quando ti è stato chiesto più impegno, più costanza, hai gettato la spugna decidendo che se non riuscivi era perché nessuno ti aveva insegnato. È per questo che non sei in grado di portare a termine la tua vendetta.» le spiegò spiccia, stanca del fatto che la figlia non riuscisse a seguire le sue parole.
Jane scosse via quella stupida metafora e guardò con rinnovata ferocia la madre.
«Non riuscirai a farmi cambiare idea, è tempo sprecato e in questa gara il tempo è essenziale. Ho superato la tua prova, ho vinto contro mia madre, sono degna di continuare!»
Inaspettatamente Ecate si lasciò sfuggire una risatina divertita, ancora una volta dal sapore quasi pietoso.
«Non ho la minima intenzione di convincerti a fare altrimenti. La magia è equilibrio, è dare e avere. Tuo padre e tua sorella hanno ottenuto tanto ma non hanno mai dato nulla indietro. È giusto che incontrino la loro fine, qualunque essa sia, non mi interessa.» disse dismissiva con un cenno vago della mano. «Ciò non toglie che tu non ne sia in grado, non ora, difficilmente in futuro.»
Con nonchalance superò il cerchio in rilievo a terra e questo si illuminò, cominciando a pulsare fiocamente.
«Se vuoi davvero vendicarti devi arrivare fino alla fine e vincere, ma siamo oneste, figlia mia, non ne hai le capacità. Quindi ti rimane solo una seconda opzione.»
Con il cuore in gola Jane indietreggiò, cercando di tenere una certa distanza dalla Dea che ora torreggiava su di lei come se fosse molto più alta di quanto non le fosse sembrato da lontano. Era intimidatoria, emanava un aura fredda ed umida, come l’aria in una grotta, ma al contempo la sua intera persona brillava del bagliore del fuoco ardente.
«Po-posso farcela da sola, non ho bisogno d’aiuto.» balbettò in soggezione.
Ecate roteò gli occhi. «Non essere stupida, ti ho detto che non ne sei in grado. Sei debole Jane, la fine di questa competizione non ti sarà sufficiente per accumulare la conoscenza che ti è necessaria, quindi taci ed ascoltami.» rispose infastidita. «La tua unica alternativa è stringere un patto con un mio vecchio amico, qualcuno che sa perfettamente cosa significhi la parola “vendetta” e che capirà le tue intenzioni meglio di chiunque altro a questo mondo. Credimi, neanche Ade, Era o Efesto sarebbero in grado di capire la tua sete di vendetta più di lui.»
Jane deglutì. «Chi sarebbe? Un’altra anima? Una divinità?»
Ecate ghignò, scoprendo i denti fini e appuntiti proprio come quelli di un gatto.
«Esatto.» convenne, «Tieniti vicino il figlio dell’implacabile e chiedigli di aiutarti a realizzare il tuo piano di vendetta.»
Jane scosse la testa, frustrata, battendo il piede a terra, stringendo i pungi come una bambina. «Io non voglio aiuto! Non da un’anima, non da un Dio, non dal figlio di qualcuno!»
«Non fare la sciocca!» scattò la dea mettendola a tacere con durezza. «Ne necessiti! Non sei in grado di farlo da sola! E non sarà comunque nessuno dei due a farlo per te. Devi solo tenere a mente le mie parole e smetterla di fare la mocciosa viziata! Quei due mortali ti hanno sempre dato tutto, concesso tutto, protetto da tutto ed infatti la prima cosa che hai fatto fuori dal loro controllo è stata un disastro. Hai disturbato la continuità del futuro con le tue stupide pretese e quando hai fallito miseramente hai incolpato gli altri delle tue mancanze. Le empuse non avrebbero mai ucciso per te a meno che non ci fosse stato un guadagno per loro. Nulla ti è dovuto in quanto mia figlia, sono una divinità oscura, è molto più probabile che venga chiesto a te un sacrificio per l’onta di essere mia progenie che altro.
Ma nonostante tutto, sei una delle mie figlie ed è ora che lo provi.
Ricordati che la magia è dare e avere, è equilibrio. Il mio vecchio amico lo sa, è più che consapevole di questo principio cardine e saprà come indirizzarti. Per ora, fai ciò che ti ho detto e continua con le tue prove. Sopravvivi fino a quando non avrai adempiuto alla tua vendetta e allora, spero tu possa trovare la finalmente la pace.»
 
Non le diede tempo o modo di controbattere, Ecate allargò le braccia, il velo che le copriva brillò come se fosse intessuto di centinaia di stelle e con esso, velocemente, cominciò a brillare di più anche il cerchio in bassorilievo.
Jane abbassò lo sguardo spaventata, cercando di uscire da lì ma ritrovandosi con le spalle al muro, una barriera invisibile che racchiudeva tutta la circonferenza, al cui interno iniziarono a comparire linee e simboli, cerchi dentro cerchi inscritti di lettere che Jane non conosceva e non capiva, rune e forme astruse che pulsavano come il battito di un cuore eccitato.
Fu istintivo cercare lo sguardo di sua madre, chiederle cose stesse succedendo, ma Ecate la guardava quasi con dispiacere, indifferente a ciò che succedeva attorno a loro.
 
«I figli non capiscono mai quanto spesso sia meglio essere affidati ad altri, allontanarsi da chi li ha messi al mondo. Non c’è genitore peggiore di quello che non voleva esserlo ed è stato costretto a farlo. Meglio essere amati da completi estranei che essere traditi dalla propria famiglia.»

Sotto di loro il cerchio e le sue iscrizione si accesero come un fuoco ardente e Jane capì che era quello il braciere di sua madre, quello che i villici del suo paese avrebbero chiamato il “pentacolo di Satana”, null’altro che il cerchio magico d’invocazione di una strega.
 
De “La” strega.
 
Non sapeva se quelle sue conoscenze facessero parte del retaggio divino di sua madre o se fosse stata lei stessa ad instillargliele in quel momento, ma poco importava ormai.
Jane guardò per un’ultima volta sua madre, certa che non l’avrebbe mai più rivista, conscia di non averle fatto neanche una domanda che una figlia farebbe al proprio genitore.
Strinse le labbra e socchiuse gli occhi per colpa della luce sempre più intensa. Alla fine le fu impossibile non alzare le braccia per schermarsi ulteriormente. Quando chiuse definitivamente gli occhi il cerchio divenne un’unica macchia bianca e Jane si ritrovò in piedi sull’uscio della porta del tempio.
Abbassò le braccia e batté le palpebre, stordita, confusa, forse anche amareggiata.
La prima voce che la raggiunse fu quella allegra e festante di Cade, che saltellò su per le scale per afferrarla per i polsi e tirarla fuori dal tempio, giù per i gradini, dritta in mezzo agli altri.
 
«Ci hai messo un bel po’, ragazza delle praterie, ma comunque meno di Jonas! Sorprendente!» rise il rosso girandosi per punzecchiare il ragazzino.
Jonas, come era ovvio che fosse, mise su il suo broncio migliore, lamentandosi di essere stato il primo e di aver affrontato tutto alla cieca.
«Vi ho detto io cosa succedeva! Grazie tante che siete più veloci di me, sapete già cosa vi aspetta!»
«Questo non vuol dire niente, le prove possono essere tutte diverse, pensa a quella di Elsa!»
«Non ricominciare. Stai bene Jane? Hai incontrato i tuoi genitori mortali?» le chiese la figlia di Nike posandole una mano sulla spalla.
Jane la guardò accigliata, annuì. «Mia madre, non l’incontro migliore, ma sapere che non fosse lei fin dall’inizio è stato utile.» ammise lanciando un’occhiata a Jonas, che gonfiò il torace tronfio e tirò una manata in pieno petto a Cade.
«Quindi perché c’hai messo tutto sto tempo?» chiese allora Nathan.
«Ho avuto problemi ad arrivare alla sala principale, quando sono entrata non c’erano stanze, muri o anche pavimenti, era solo buio, umido e freddo. E puzzava di chiesa.»
L’americano annuì. «L’incenso piace a parecchie divinità del genere, sì.»
«E tua madre? Ecate dico, lei che ti ha detto?» domandò Lea curiosa.
A quella domanda però la strega storse il naso. «Preferirei non parlarne.» mormorò.
«Ah, quindi cose almeno un po’ veritiere che non volevi sentirti dire, non da lei soprattutto.» tradusse Cade con una smorfia. Poi si strinse nelle spalle. «Comprensibile, non ti chiederemo nient’altro. Andiamo quindi?» disse rompendo il circolo che si era stretto attorno a Jane ed incamminandosi nella direzione opposta a quella da cui erano venuti.
Jonas alzò gli occhi al cielo. «Dici così solo perché poi non vuoi che assilliamo te con domande su cosa ti ha detto tuo padre.»
«Non è vero, sono solo magnanimo e gentile!» protestò impettito l’irlandese.
«A casa mia si chiama opportunismo.» lo corresse Nathan.
Cade però lo dismise con un cenno vago. «Se lo dici tu che sei americano mi fido, soldatino.»
«Ehi! Che cazzo vuol dire?» gli gridò dietro lui. «E poi stai andando a caso, porco di quel Zeus!»
I ragazzi continuarono a bisticciare come ormai facevano costantemente, costringendo Eliza ad andare a fermarli prima che Nathan decidesse che fare a pugni per difendere la loro patria fosse la cosa più giusta da fare, ma non prima di aver lanciato uno sguardo a Lea e Cicno e poi uno a Jane, chiedendo loro silenziosamente di tener d’occhio la compagna ed assicurarsi che tutto fosse apposto.
Cicno però diede una leggera spinta alla sorella, che lo guardò con fare interrogativo.
«Segui Eliza, non si è ancora del tutto ripresa fisicamente, non lasciare che si alteri troppo.» le sussurrò con voce morbida.
La bionda fece subito saettare lo sguardo verso l’altra ed annuì concorde, accelerando il passo per raggiungere il solito gruppetto di teste calde e tirar via lei l’irlandese, ghignante, dalle grinfie del figlio di Ares, mentre Jonas se ne stava alla larga, deciso a non intromettersi tra i “bambini”.
Jane continuò a camminare con passo lento, tenendo lo sguardo indirizzato verso i suoi compagni, anche se in verità tutta la sua attenzione era concentrata sul figlio della Guerra.
 
«Sto bene. Non ho visto mia madre prendere la sua forma divina, non ho dovuto combattere e no-»
«Cosa ti ha detto?» chiese solo Cicno.
Jane lo guardò di traverso, senza voltare il capo.
«Che non sono abbastanza forte per potermi vendicare e che ho bisogno di un aiuto di qualcuno. Di tenermi stretto il figlio dell’implacabile, qualunque cosa significhi.»
Non sapeva spiegare perché glielo avesse detto con così tanta facilità, omettendo così poco, lasciando intendere una serie di sottintesi, ciò che sua madre avrebbe potuto o meno dirgli. Eppure, in fondo, sapeva che tra tutti quanti forse Cicno era davvero l’unico che poteva capirla.
Il figlio di Apollo non ricambiò lo sguardo, tenendo anche lui gli occhi puntati sugli altri. Annuì solo.
«La vendetta in nome di chi si ama è la più onorevole.»
Non aggiunse altro, non ne parlarono più per tutta la prova. Raggiunsero i loro compagni come se non fosse successo nulla.
Jane non riuscì a togliersi di testa quella frase, quella validazione così esplicita e chiara.
La vendetta era onorevole.

Era cosa buona, giusta.

Era veramente cosa buona e giusta.
 


  
*
 



La veste che indossava era tanto scura da sembrare nera, ma la dea sapeva che invece racchiudeva i colori dell’universo profondo della Dimensione Onirica.
Le era stata donata anni addietro da un giovane quasi sulla trentina, dopo troppo tempo che non si vedevano. Ecate gli disse che, in verità quel “troppo tempo” erano a mala pena un paio d’anni e lui l’aveva guardata stupito, come se la dea si stesse prendendo gioco di lui, solo per poi sgranare gli occhi, conscio di quanto quelle parole fossero vere.
Le aveva sorriso storto, solo l’angolo destro delle le sue labbra si era alzato, rimanendo in quella posa strana anche mentre il giovane le spiegava che nella DO, da dove veniva lui, il tempo passava diversamente, che per lui erano quasi secoli che non si vedevano.
 
«Non questa te per lo meno. Le altre sì, tutte le possibilità che ho sperimentato, ma non la vera te
 
Tutte le possibilità che aveva sperimentato, dando come per scontato che ce ne fossero altre ancora da esplorare.
 
«Perché è così, ce ne sono ancora milioni e milioni. Sono infinite, ma ad un certo punto ho dovuto fare una pausa. Ad onor del vero, mi hanno costretto a farla. È davvero difficile dire di no alle stelle.»
 
La voce del giovane le rimbombava nella testa come il suono di un grammofono che si spandeva per un lungo corridoio vuoto. Proveniva da una stanza lontana, passata, che apparteneva ad un’altra vita.
Ecate camminò con lentezza, i piedi nudi non producevano suono, i sandali li aveva abbandonati alla porta come facevano tutti coloro che entravano in quella casa.
Il suono della veste che strusciava sul cotto era l’unico rumore che la seguiva e che da solo non poteva coprire quello del crepitio del fuoco in una stanza lontana, quello del respiro di tre esseri, due addormentati, uno no. Non all’udito di una dea.
Quando giunse alla stanza appartata trovò la porta aperta, la vecchia anta dal colore sbiadito sembrava riprendere un po’ del suo antico tono sotto i riflessi delle fiamme che crepitavano gentili e mansuete nel braciere posto tra il divano e le poltrone.
La dea si sedette sull’unica poltrona libera, osservando quella a lei dirimpettaia occupata da Eris, che dormiva tranquillamente il sonno dei superbi. Scosse il capo ormai rassegnata, non aveva la più pallida idea di come riuscisse ad essere così sicura e in pace con sé, con quello che aveva fatto e con quello che stava succedendo.
 
«Te e Nike parlate un po’ troppo con persone un po’ troppo vicine.» la richiamò piano la voce dell’uomo.
Ecate s’accomodò meglio, tirando le gambe sulla poltrona e sistemandosi il vestito affinché continuasse a coprirle i piedi.
Sul divano, posto proprio di fronte al braciere, Gio se ne stava seduto con il gomito impuntato sul bracciolo, il viso rivolto verso di lei, i capelli scuri che gli ricadevano flosci sulla fronte. Raggomitolato al suo fianco, anche lui nel mondo dei sogni di coloro che non si pentono di nulla, Eros dormiva come se si trovasse sul giaciglio più comodo del mondo.
Il che non era troppo diverso dalla realtà visto chi aveva filato il tessuto di quei sofà.
Sembrava che all’uomo non importasse minimamente d’esser usato come cuscino ed Ecate poteva scommettere qualunque cosa che se avesse questionato l’amico sul perché non si alzasse lasciando Eros a dormire sul divano, quello le avrebbe risposto che da bambino aveva dormito così tante ore sul grembo di Eros da dovergli ancora restituire il favore.
Era comunque strano vedere Giordano vestito in modo comodo, con quelli che dovevano essere pantaloni del pigiama e un semplice maglione grigio.

«Ma lo facciamo a tuo favore.» rispose poggiandosi allo schienale, rilassata.
Gio sorrise. «Tu forse sì, a Nike non importa nulla.» la corresse.
Anche Ecate gli sorrise. «Non dire così, sei uno dei suoi favoriti.»
«Questo perché la buona Vittoria crede che io non abbia mai perso in vita mia. Sono un eterno vincente ai suoi occhi. L’oro sugli ori.» disse lui con un leggero filo di amarezza, qualcosa che non andò perso alle orecchie della dea.
«Ma tu non lo pensi.» affermò sicura.
Gio scosse il capo. «No, non lo penso, anzi, ho la certezza di non esserlo. Non quando so che in realtà ho perso tutto.» ammise con semplicità, recuperando però in fretta il suo solito sorriso canzonatorio. «Scusa se ti ho rubato un po’ di Foschia.» disse per nulla dispiaciuto.
Ecate avrebbe voluto chiedergli di più, domandargli se fosse questo il problema, avere finalmente una risposta chiara e diretta, ma accettò comunque il cambio di argomento, alzando gli occhi al cielo e sbuffando.
«Mi hai rubato più di “un po’” di Foschia.» frecciò assottigliando lo sguardo e ricevendo in cambio un risolino divertito.
Sorrise anche lei, sciogliendosi e chiudendo gli occhi, intenzionata a dormire un po’ proprio come stavano facendo i suoi cugini.
«Ma va bene così, fa parte anche dei tuoi poteri, dopotutto.»
 


  
*
 



Il nucleo centrale della valle dei Templi era costituito dalle dimore dei Grandi Dodici. Erano raggruppati secondo un ordine preciso, si ramificavano gli uni di fianco agli altri, partendo dalla parte centrale dove si trovavano i templi del re e della regina degli Dei.
Il tempio di Zeus era visibile anche da lontano, svettava sopra tutti quanti, ma al suo fianco si poteva scorgere un altro tetto spiovente, coperto da tegole brillanti come oro bianco. Non era difficile capire che quello fosse il tempio di Era, così come non era difficile identificare gli altri, ma ciò che risultava più interessante era il modo in cui le altre strutture si diramavano in direzioni diverse, ognuna seguendo una logica ben precisa.
Michael alzò lo sguardo verso il tempio di Iride, che si trovava all’incirca nelle traiettorie del tempio di Zeus e di quello di Apollo.
 
«Cosa guardi?» domandò Teresa avvicinandosi a lui.
Il ragazzo le gettò uno sguardo veloce, cercando di non soffermarsi sulla macchia di sangue sul suo fianco destro, speculare a quella che aveva lui sul sinistro. Cercò di non pensare che quello era il sangue di Timothy, che lui e la figlia di Ermes aveva sorretto sino all’entrata dei Campi Elisi, quando il ragazzino era riuscito a scorgere l’anima della nonna che lo attendeva, prima di esalare quello che era stato il suo vero, ultimo respiro.
Batté le palpebre svelto e tornò a guardare i templi, indicandoli con la punta della lancia.
«Vedi come sono messi?»
«I templi, dici? »
«Esatto, i dodici principali sono degli Dei del concilio. Al centro ci sono Zeus, Poseidone ed Era, messi tutti schiena contro schiena.»
«Cosa sono, soldatini?» sbuffò sarcastico Mendoza poggiandogli il gomito sulla spalla e tutto il suo peso contro.
«Beh, a picchiare duro lo fanno tutti e tre.» commentò invece Xavier incrociando le braccia al petto. «Non c’è Ade, ovviamente.»
«Ovvio che no, lui ha il suo regno qui, ma questo non vuol dire che sia accettato tra i suoi fratelli. Il suo tempio è tra quelli neri, giù in fondo. E se vogliamo dirla tutta è anche più grande di quello di Zeus.» precisò il figlio di Apollo.
«Ci sta. Secondo me se lo merita. Avevo un amico figlio di Ade, è sempre stato molto gentile con me.» annuì il francese.
«Quindi, al centro ci sono due re e una regina, se ricordo bene fanno tipo una rotonda, una piazza al cui centro ci sono loro. Davanti a Zeus e Poseidone c’è Afrodite, tra Zeus ed Era Demetra, tra Poseidone ed Era Ares. Poi vicino ad Ares, con molta ironia, da una parte Efesto e dall’altra Artemide, vicino a lei c’è papà, poi avevamo detto Afrodite, segue quella rompicoglioni di Atena, Ermes, di nuovo la nostra cara Demetra e per finire Dioniso.»
«Credo che sia estremamente esplicativo perché abbiano messo una cantina abusiva tra Demetra ed Efesto.» ridacchiò la figlia di Ermes.
«E tutto ciò ci serve perché…?»
«Perché, in linea d’aria, dietro ognuno dei templi principali si trovano quelli di tutti gli Dei più vicini a quel dominio. Quindi il tempio di Zefiro è sicuramente nell’area di influenza di quello di Zeus, probabilmente da qualche parte dietro Afrodite.»
Xavier espirò pesantemente. «Perciò il prossimo sono io.»
Michael strinse le labbra, trattenendo un poco il respiro prima di lasciarlo andare con forza. «Prima di te avremmo incontrato quello di Borea ma-»
«Ma Timmy non c’è più, si, lo so, andiamo allora.» tagliò corto il giovane.
Teresa allungò un braccio, stringendo la mano del compagno. «Se vuoi posso andare prima io, tanto dobbiamo per forza passare dietro al suo tempio per arrivare a quello del tuo.»
Per un momento l’altro rimase in silenzio, poi annuì debolmente. «Mi faresti un favore.» ammise.
La ragazza gli sorrise incoraggiante. «Allora muoviamoci, voglio proprio vedere se becco qualcuno dei miei fratelli, ho visto un po’ di gente bella vispa durante le altre prove e sono sicura fossero anche loro figli di Ermes.»
«Ho visto anche io qualcuno fare dei bei numeri, gente che saltava stile Capitan America.»
Teresa alzò gli occhi al cielo. «Per favore, non ricominciamo con questa storia. Abbiamo appurato che potesse fare salti incredibili ma-»
«Lo fa anche Superman.» precisò d’improvviso una quinta voce.
I ragazzi si voltarono verso l’unica altra semidea presente, una ragazzina cubana infagottata in una lunga felpa nera, il cappuccio tirato a coprirle la testa.
Mendoza sbuffò. «Superman volava.»
«No, faceva dei salti così potenti da fare il giro del mondo. Ti stai sbagliando con Goku.»
«Goku non è un supereroe!» protestò il messicano.
«Parla per te! Secondo me lo è!» aggiunse invece Michael sorridendo divertito.
«Pessima figura genitoriale…» bisbigliò invece il francese girandosi verso la figlia di Morfeo.
Lei gli restituì un sorriso lieve, qualcosa che riuscì a far tirare un sospiro di sollevo a tutti, a far rilassar loro le spalle, a farli sorridere di rimando.
Xavier le porse la mano, incitandola ad avvicinarsi, stringendo leggermente la presa quando la vide voltarsi indietro, verso il tempio di Borea che avevano appena superato, lo sguardo puntato sui gradini su cui giaceva un piccolo omino Lego, vestito da Indiana Jones.
«Andiamo, non lo guardare.» mormorò a bassa voce.
La figlia di Morfeo annuì.
«Sogni d’oro Timmy, papà mi ha promesso che te ne avrebbe regalato ancora un ultimo.»


  
*




Le strade che serpeggiavano per la valle dei Templi cominciavano a farsi più affollate. Le anime camminavano incerte tra le grandi strutture appariscenti e tra quelle più piccole e modeste.
C’era una logica dietro alla disposizione delle case e delle chiese, nei piccoli altari posti agli angoli e nelle fontane poste al centro esatto di ogni piazza. Che fossero ninfe, auree, nereidi o altri esseri mitologici, ognuno di questi aveva il suo posto, aveva il suo luogo di culto.
Nathan gettò una fugace occhiata al piccolo chiostrino sotto il cui tetto spiovente era posta la statuina di una donna dalle lunghe corna di cervo, sforzandosi di ricordare chi fosse, quale fosse la sua storia, quale il Dio o la Dea che aveva fatto arrabbiare o che aveva servito. I nomi erano così tanti, gli esseri infiniti e sconosciuti per lo più, alcuni semplicemente dimenticati per sempre.
Aveva scoto qualche altare sporco e diroccato, senza offerte e alle volte anche senza icone, probabilmente antica dimora di uno spirito ormai scomparso assieme alla memoria che gli umani avevano di esso.
Questa era la triste e dura verità del mondo divino, qualcosa di così stupido eppure così essenziale, che colpiva indiscriminatamente anche il più potente degli Dei: se i mortali smettevano di pregarti, se smettevano di studiarti o anche solo di leggere le tue gesta, eri spacciato.
Era ridicolo pensare che anche il sommo Zeus, il padre degli Dei, sarebbe potuto scomparire per sempre se l’umanità avesse deciso di cancellare la cultura ellenistica dalla propria memoria. Se fosse scoppiata una terza guerra mondiale e le bombe nucleari avessero raso al suolo tutti i poli della cultura e della conoscenza anche gli Dei Greci sarebbero scomparsi.
Quanto potere avevano gli esseri mortali, quanto ne avevano su esseri immortali ed eterni, eppure lo ignoravano completamente.
Alzando la testa verso l’alto Nathan osservò la vetta dorata e luminosa del tempio di Zeus, quella argentea, posta più in basso, di Era, e quella bronzea di Poseidone. Gli sembravano tutte abbastanza vicine le une alle altre, ma comunque ancora abbastanza lontane da loro.

«Li vedi ancora tu i Fuochi Fatui?» chiese Eliza voltando il capo verso Cicno.
Il greco annuì senza rispondere e Nathan socchiuse gli occhi cercando di mettere a fuoco gli altri tetti e i timpani appena visibili tra di loro.
«Come cazzo sono messi?» borbottò tra sé e sé.
Jonas allungò il passo per affiancarglisi, anche lui con il naso per aria, alla ricerca di qualche particolare segno che potesse identificare i vai edifici.
«C’è una logica vera o pensi che siano solo messi in ordine di importanza?»
«Sicuramente sono messi in ordine di importanza.» rispose Nathan con una smorfia, «Bisogna solo capire quale.»
«Cosa quale?» gridò Cade un po’ più indietro.
«Quale ordine di importanza.» ripeté il figlio di Ares.
«Ce n’è più di uno?  chiese il rosso voltandosi verso Cicno.
«Dipende da chi stila la lista, Cade. Se fosse stata redatta per volere del divino Zeus probabilmente rispecchierebbe l’ordine dei più fedeli al padre degli Dei, se fosse per anzianità non sarebbe Zeus stesso in cima a questa lista. Ma trovandoci nel dominio del divino Ade presumo che la locazione dei templi sia stata decisa da lui.»
«Tu non lo conosci, l’ordine dico.» chiese allora Jonas.
Cicno si strinse nelle spalle. «Comprendo come il mio aspetto non sia più un monito, ma ti ricordo che sono stato esiliato nei Campi di Pena, non ho mai avuto accesso alla valle dei Templi qui, dentro le bianche mura, è la prima volta anche per me.»
«Oh, interessante, non credevo che ti avremmo mai sentito dire una cos- Ahi! Che ho fatto ora?»
Cade si massaggiò la testa, lanciando un’occhiata crucciata a Lea che gli restituì uno sguardo ammonitore.
«So cosa stavi per dire. Tienitele per te certe battute.»
«Non stavo per dire nulla di strano!»
«Ah, no? Cosa stavi per dire allora?» lo sfidò lei incrociando le braccia al petto.
Cade si rimise ben dritto con la schiena, pronto a replicare. «Che è sorprendente che Cicno abbia ancora delle-» ma si fermò. Chiuse la bocca in una linea piatta e sbuffò infastidito. «Cavolo, ora non fa più ridere.»
Dietro di loro Cicno alzò gli occhi al cielo. «Si, amico mio, anche io devo ancora fare delle prime esperienze, sono pur sempre morto giovane. A destra.» disse poi estemporaneo a voce sufficientemente alta affinché anche Nathan e Jonas lo sentissero, facendoli virare quasi bruscamente nella direzione giusta.
Jonas riportò tutta la sua attenzione sul terreno, fissando il punto dove, presumibilmente, doveva esserci il Fuoco Fatuo.
«Non capisco più se lo vedo davvero o se credo di vederlo perché so che c’è.» confidò a Nathan a bassa voce.
L’altro annuì, rigido nella sua postura, continuando ad osservare gli edifici incontro cui stavano andando, sempre più alti e imponenti, segno che si stessero davvero avvicinando ai templi degli Dei maggiori.
Jonas lo guardò di sottecchi, preoccupato.
«Sei in ansia?» domandò a bassa voce.
Nathan prese un respiro profondo e annuì. «Non sono il prossimo, ma poco ci manca.»
Il ragazzino annuì comprensivo. «Prima tocca a Lea e Cicno?»
«Se seguono l’ordine delle cabine al Campo, sì. Se come dice la principessa lì, l’ordine è per anzianità, pure. Se invece è per potere, chi cazzo lo sa. Non c’è certezza.»
«Beh, fino ad ora abbiamo incontrato gli Dei meno conosciuti, quindi forse si va per fama?» propose Jonas cercando di suonare positivo.
Nathan gli fece un cenno con la testa. «Non so che cazzo aspettarmi.» disse poi, in un’improvvisa ed inaspettata confidenza.
Il figlio di Pothos lo guardò sorpreso, spiazzato e anche un po’ imbarazzato, non si aspettava che l’americano si sarebbe lasciato andare ad un commento così personale, così… vulnerabile?
«Hai- hai paura di incontrare tua moglie? Che ti chieda di mollare? O forse, tua madre? Mi sembra che Lea abbia detto qualcosa a riguardo…» provò vago.
Nathan storse il naso. «Sono entrambe rinate. Non so quanti anni fa però, ormai. Ma non sono loro a preoccuparmi, so che non mi chiederebbero mai di mollare. Mia madre era una combattente, non mi ha lasciato rimanere vicino a- non mi ha lasciato rifiutare la chiamate dei Marines quando ero ancora vivo, per mio padre sarebbe stata diserzione, mi avrebbe ucciso con le sue stesse mani. No, mamma non mi direbbe mai di abbandonare e quanto a mia moglie… neanche Lucy- no, anche lei mi ha sempre spronato ad andare in missione.»
«Allora chi ti preoccupa?» chiese sempre più curioso l’altro.
Ci fu un momento di silenzio tra di loro, mentre attorno il chiacchiericcio delle altre anime cresceva lentamente.
Deglutendo Nathan sembrò quasi mandar giù un boccone estremamente amaro.
«Quando sono morto- quando sono morto ero in missione in Vietnam. Non rimpiango quello che ho fatto, era il mio dovere, ho protetto degli innocenti, ma- ma- c’era un’altra persona che avrei dovuto proteggere, in America. Avevo giurato… non ho potuto adempiere al mio giuramento.» tagliò corto, quasi come se si fosse pentito d’aver aperto bocca, di aver detto così tanto.
A Jonas però quelle poche parole bastarono, gli sembrarono abbastanza chiare: Nathan aveva raccontato loro più volte del Campo, dei suoi fratelli, della sua famiglia, era ovvio ai suoi occhi come l’andare in guerra gli avesse impedito di proteggere tutti loro. Probabilmente aveva promesso di proteggere qualcuno ma era morto prima.
«Hai paura che possa apparirti questa persona?» domandò senza cercare di estorcergli altre informazioni.
Lui annuì solo, cupo.
Sospirò.
«Non so se riuscirei a dire di no, in quel caso. Non so se riuscirei ad andare avanti se mi comparisse davanti.» ammise infine.
Jonas dovette battere le palpebre e mordersi la lingua per evitare di dire qualcosa di stupido o di guardarlo sconvolto.
Nathan che non sapeva se sarebbe riuscito a fare qualcosa? Lo stesso Nathan che voleva rimanere ad aspettare un danno raggio di fuoco pronto a bruciare tutti fino a ridurli in cenere?
Cercò di mantenere un atteggiamento neutrale, facendogli silenziosamente capire quanto comprendesse quella sua… paura?
 
Cazzo, Nathan spaventato non me lo aspettavo.
 
«Capito.» mormorò senza riuscire poi a rimanere davvero in silenzio.
Il figlio di Ares drizzò la schiena e alzò la testa.
«Lo vedremo a breve.» convenne secco. Poi si voltò. «Principessa li vedi ancora quei cazzo di fuochi di merda, o te li sei persi?» gridò verso Cicno.
Il greco non lo degnò neanche di uno sguardo, impegnato a scrutare i templi allineati lungo le vie.
«Alza la mano.» rispose.
Lo guardarono tutti quanti confusi, prima che Nathan saltasse sul posto, imprecando pesantemente e scuotendo la mano destra, fumante.
«Ma porca di quella puttana!»
«Oddio, Nathan! Come diamine hai fatto?» scatto Elena correndo in soccorso del compagno.
Cicno ghignò. «Anche l’altra.»
Questa volta il biondo provò a seguire il consiglio dell’altro, ma non fece ugualmente in tempo e anche la sua mano sinistra divenne improvvisamente bruciacchiata.
«Stai fermo, per l’amore del cielo.» lo rimproverò Lea cercando di afferrargli le mani per accertare l’entità del danno.
«Cos’è stato?» domandò Eliza, all’erta, il corpo rivolto verso Cicno ma il viso verso Nathan e Lea.
Il greco si strinse nelle spalle. «Il nostro giovane amico deve imparare a rispettare gli spiriti. I Fuochi Fatui sono entità magiche, ci stanno conducendo alla nostra prossima meta e lo sanno facendo, probabilmente, solo ed unicamente per bontà di cuore. Se Nathan continuerà ad insultarli gli daranno fuoco.»
Era stato facile per lui individuare la scia di Fuochi Fatui fluttuanti per le strade della valla dei Templi, che si diramavano in ogni direzione utile a chiunque avesse saputo scorgerli. Indicarli ai suoi compagni e cercar di far tener loro traccia degli spiriti infuocati era stato invece più difficile, così come lo era, apparentemente, far capir a tutti loro quanto i Fuochi non avessero il compito di guidarli ma gli stessero più che altro facendo un favore, esattamente come era stato quando avevano condotto lui e l’irlandese nelle praterie in cui si trovavano le sfere di Ermes, ricongiungendoli agli altri.
Udite le sue parole Cade ridacchiò e con lui Jane, che fino a quel momento se n’era stata zitta, troppo concentrata nel tentativo di tracciare proprio gli spostamenti delle piccole fiammelle blu, troppo persa nei suoi pensieri, nelle parole dure e criptiche di sua madre.
«Se la sono presa male?» rise il rosso più apertamente.
«Speriamo non debbano condurci anche alla prova del soldatino, o dovrà svolgerla in mezzo alle fiamme.» rincarò la dose Jane.
«Speriamo non faccia troppi danni ora, o dovremmo aspettarlo per ore.»
Qualche metro più avanti Nathan si voltò a guardarli in cagnesco, imprecando ancora ma non verso i Fuochi Fatui questa volta.
«Ti aspetto al varco, roscio di merda! Voglio proprio vedere quando sarà il tuo turno, che cazzo di schifo farai! Ne riparliamo quando ti avranno fulminato.»
Lea gli diede uno schiaffò sulla spalla «Smettila di insultare gente! Guarda cosa ti sei fatto alle mani.»
«Cosa mi hanno fatto, vorrai dire!»
«No, cosa ti sei fatto, perché è colpa delle tua boccaccia, come sempre!»
«Ma chi cazzo sei, mia madre?»
«Vuoi che ti dica per l’ennesima volta che mi ha autorizzato a picchiarti, se necessario?»
«Provaci!»
«Se continuate così alla prova di Cade non ci arriveremo mai. Ma neanche alle vostre.» fece notare loro Jonas infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni mimetici, annoiato.
Nathan e Lea si voltarono a guardarlo in contemporanea, pronti a rispondere, quando la voce di Jane li interruppe.
«Beh, i prossimi dovrebbero essere Cicno e Lea, giusto?»
Eliza annuì, così come i due biondi, Jonas invece aggrottò le sopracciglia.
«Abbiamo capito in che ordine sono?»
«Il ragazzino non ha detto qualcosa su l’ordine delle case al suo Campo?»
«Ma che sono io il ragazzino?» sbottò incredulo Nathan.
«Certo che sei tu, sta zitto ora.»
«Quindi prima loro, poi chi?» chiese ancora Jonas.
«Probabilmente poi Nathan e per ultimo Cade.» spiegò Eliza raggiungendo gli altri e fermandosi davanti a loro assieme a Jane.
 
«Vi sbagliate.»
 
I semidei si voltarono verso gli altri due compagni rimasti indietro.
Cade guardava Cicno con una strana espressione, qualcosa di freddo e immobile, forzatamente privo di emozioni, completamente differente dal ghigno divertito che aveva poco prima, gli occhi fissi in quelli chiari dell’altro.
Jane inclinò la testa. «Prima Ares?»
«Prima gli Dei minori, poi i maggiori.» ripeté per l’ennesima volta il greco.
Fu il turno di Lea di aggrottare le sopracciglia. «Quindi? Credevo che fossero tutti Dei maggiori i nostri genitori.» disse cercando poi l’appoggio di Eliza e Nathan, che annuirono concordi.
Cicno accennò un sorriso che sembrava molto più un ghignetto accondiscendente.
«Perdonatemi,» iniziò con voce quasi canzonatoria. «chi credete che sia il divin padre di Cade?»
Il diretto interessato strinse i pungi in un gesto involontario, serrando la mascella e deglutendo un groppo spinoso che in vita gli avrebbe tolto il respiro dal petto.
Nathan si fece subito serio, dimentico dei palmi delle mani mezzi bruciacchiati, delle mani stesse di Lea strette attorno alle sue.
«Di Zeus.» disse sicuro.
Cicno ghignò più apertamente. «Questo mi giunge nuovo, lo troverei quasi esilarante, se non sapessi che vi offenderebbe.»
Jonas fissò tutta la sua attenzione sulla schiena tesa dell’amico, avanzando qualche passo incerto oltre Eliza e Jane, a metà strada tra il gruppo più numeroso e i due compagni rimasti indietro.
«Cade? Tutto bene?» chiamò a voce bassa, senza ricevere risposta.
«Ma lo hai detto tu.» insistette Lea.
Eliza annuì. «Esatto, hai detto-»
«Ho esplicitamente detto che il nostro rosso compagno è progenie del re degli Dei? Non mi pare proprio.»
«Ma hai detto che “odora di cielo” o qualche cazzata simile.» ritorse Nathan infastidito da quello stupido gioco del non detto.
Cicno lo guardò come si guarda un bambino a cui si è spiegato innumerevoli volte uno stesso concetto senza che questo riuscisse a comprenderlo.
«E l’unica divinità che conosci che potrebbe rispecchiare questa descrizione è il divino Zeus?»
«Beh… no, non è il solo, vero? Nathan?» domandò Lea dubbiosa.
«Ma vola.» arrivò in loro soccorso Eliza.
«E ci ha spinto con una corrente d’aria, Zeus non era il Dio del cielo?» aggiunse Jane.
«Qualcuno di voi lo ha mai visto evocare fulmini?» chiese allora Cicno.
Nessuno di loro gli rispose, perché no, nessuno aveva mai visto nessun vago potere legato ai fulmini durante tutte le prove e ci sarebbero state svariate occasioni in cui questi sarebbero potuti essere utili. Era anche vero, però, che non tutti i figli ereditavano tutti i poteri dei genitori.
Jonas, d’altra parte, continuava a riflettere febbrilmente, a scorrere la lista immaginaria su cui c’era scritto tutto quello che sapeva sull’amico.
Batté le palpebre sorpreso. «Non vola, Cade salta.» disse di punto in bianco. «Salta e si fa aiutare dalle correnti.»
«Vede dei fili invisibili…»  aggiunse Eliza, elencando con la mano tutti i punti salienti.
Jane sbuffò. «Perché dobbiamo tirare ad indovinare? Non può dircelo direttamente lui? Tanto dobbiamo andarci per forza. Stiamo solo gettando al vento tempo prezioso.»
A quelle parole Lea fece scattare la testa verso la compagna, la bocca aperta per lo shock, per l’ovvietà di quell’affermazione. Poi si girò verso Cade, che ancora fissava solo Cicno, teso come una corda di violino.
Il greco resse il suo sguardo senza fare una piega, per accennare leggermente con il mento alle loro spalle.
Anche gli altri si girarono a quel gesto, osservando il muro posteriore di quello che doveva essere un tempo medio-grande, dalle mura completamente bianche e le tegole azzurrine.

«…al vento?» mormorò Lea.
Cade espirò di colpo, digrignando i denti in un suono fastidioso e fin troppo forte.
Si girò con la stessa velocità e rigidità di un soldato, ruotando sui talloni e fronteggiando tutti gli altri con lo sguardo cupo ed il volto furente.
 
«L’unica cosa buona che mi ha dato quel bastardo.» sibilò senza paura.
Jonas non poté evitare di protendersi in avanti, come a voler accogliere l’altro in un abbraccio consolatorio, ma si fermò, sorpreso dall’espressione dura che scorse sul volto sempre sorridente.
«Vuol dire- vuole dire che il vento è l’unico regalo che ti ha fatto? I tuoi poteri?» provò tentennante.

«Eolo.»
Fu la voce chiara e forte di Nathan a rispondere a quella domanda indiretta, la consapevolezza improvvisamente chiara sul suo viso. «Alla prova di Artemide, quando è apparso a presentarla, avevi la stessa faccia che hai ora.»
«Salti così in alto spinto dalle correnti dei venti…» mormorò Lea.
«Quindi erano le correnti quelle che vedevi?» domandò invece Eliza attenta.
Cade fece una smorfia. «Gli odori, vedo la traccia delle scie lasciate dagli odori.» disse spiccio. «È questo il suo tempio?» chiese voltando appena il capo verso Cicno.
Il greco lo raggiunse con tranquillità, come se avessero tutto il tempo del mondo.
Jonas non aveva la più pallida idea se non gli importasse davvero nulla di perder tempo prezioso o se si stesse avvicinando con quella lentezza per permettere a Cade di riacquistare un minimo di controllo e di calma.
Probabilmente un buon mix di entrambe.

«Sì. Aggirando il palazzo troverai l’entrata per il tempio di Eolo. Su questa strada dovremmo incontrare tutti i templi dei Venti. Quello del tuo dannato padre è il primo.»
Cade annuì in un unico gesto secco.
«Se può in un qualche modo consolarti, dovesse succedere qualcosa o dovesse esserti cosa gradita, una volta uscito dal tempio posso sempre dargli fuoco.» suggerì Cicno con tono vago, come se stesse parlando del tempo.
Cade rabbrividì al solo pensiero di altre fiamme, come se non ne avessero dovute affrontare abbastanza, e proruppe in un verso di scherno. «Dov’è finito il “evitiamo di insultare gli Dei”?»
Cicno sogghignò. «Eolo non è un vero dio, era un semidio come noi, un mortale entrato nelle grazie del divino Zeus, che per i suoi servigi e la sua astuzia lo ha reso immortale, concedendogli il potere di imbrigliare i venti.» spiegò con sufficienza. «In ogni caso, è noto in ogni dove che la progenie del mio degenerato padre non ha un buon rapporto con nessun vento. Zefiro provocò grande dolore a quel maledetto.»
«Wow angioletto, faresti addirittura qualcosa che potrebbe lusingare tuo padre pur di farmi vendicare sul mio?» chiese sorpreso il rosso, guardandolo finalmente con un’espressione più morbida.
Il ghigno sul viso del greco si fece solo più grande.
«Come ho già detto a più di un nostro compagno: la vendetta è cosa onorevole, specie se perpetrata in nome di coloro a cui teniamo di più.»
A quelle parole Cade non poté più resistere e si ritrovò a ridacchiare, improvvisamente più leggero.
«Mi sento onorato, sono tra le persone a cui tieni?» chiese battendo le palpebre con fare teatrale.
«Ovviamente, anche se è Jonas il primo dei nostri compagni che ho incontrato e salvato, tengo molto in conto il nostro di incontro.»
Cade sorrise più ampliamente, girandosi verso Jonas con le braccia allargate.
«Hai sentito Bineas? Sono io il suo preferito, non te!»
Preso in contropiede da quella veloce escalation Jonas non poté far altro che correggere velocemente la sua espressione preoccupata in un più giocosa, alzando gli occhi al cielo e sbuffando.
«Spero tu sappia che ti sta dicendo queste cose solo perché così smetti di rompere le palle e ti sbrighi ad andare.» replicò cercando di comportarsi come sempre.
Cade piagnucolò portandosi le mani al cuore. «Bineaaaaaas! Sei davvero cattivo con me! Elza, difendimi!»
«Perché non ti fai difendere da Cicno, visto che è il tuo preferito.»
«Ehi! Non ho mai detto questo! Non che tu non sai tra i miei preferiti, angioletto, per carità divina! Lea? Aiutino?»
 
Il solito rumoreggiare caotico si spanse velocemente tra i sette, alleggerendo la tensione che poco prima li aveva attanagliati tutti.
Nathan osservò dalla sua posizione leggermente defilata, Cade tornare sui suoi stessi passi, lamentarsi e fare facce stupide come suo solito, come se non fosse successo nulla.
 
Come cazzo fa? È così che è sopravvissuto per tutti questi anni? Ignorando le cose più difficili e dolorose? Facendo finta di niente?
 
«Una cazzo di bomba ad orologeria.» mormorò a bassa voce.
«Presumo non sia nulla di buono.» commentò Cicno affiancandoglisi.
Nathan fece schioccare la lingua sul palato. «Una cosa che fa un botto incredibile, fuoco, detriti, hai mai visto un eruzione vulcanica?»
«Se l’avessi vista non sarei morto suicida, non credi?»
Il figlio di Ares incassò la risposta concordando silenziosamente con l’altro. «Un botto, un ceppo di legno che esplode nel focolare.»
«Posso intuire, sì. A cosa ti riferisci? A Cade?» indovinò a colpo sicuro.
Nathan annuì. «Guardalo.»
«Questo è il suo modo per superare le situazioni più ardue.» disse con una scrollata di spalle.
«Tenersi tutto dentro, far finta che le cose non esistano e nasconderle ancora più in profondità ogni volta che si riaffacciano? Esploderà.»
«Parli per esperienza personale?»
La domanda sibillina di Cicno fece bloccare per un momento il soldato, incapace di dare una risposta veloce che non implicasse, per la seconda volta nell’arco di poco tempo, una sua ammissione di debolezza.
«In questo caso,» continuò il figlio di Apollo ignorando il compagno, «spero che esplodiate entrambi nel momento giusto.»


  
*



 
Il tempio di Eolo non era poi molto diverso da quelli che avevano visto fino ad ora.
Le pareti erano bianche, le quattro colonne poste davanti all’entrata erano invece dipinte di azzurro, verde e blu, in spire concentriche e arabeschi sinuosi, un chiaro rimando alle spire del vento stesso.
Nel timpano vi era il bassorilievo di un uomo intento a soffiare, attorno a lui nuvole dall’aspetto instabile iniziarono a muoversi con lentezza non appena Cade si fu avvicinato sufficientemente al primo dei sei gradini che portavano al portone d’ingresso.
Il giovane si esibì in una smorfia delusa.
 
«Si sono sprecati.» commentò guardando le nuvole di pietra muoversi sempre più velocemente.
«Cicno non ha detto che non è davvero un Dio? Forse è per questo che è meno appariscente.» propose Jonas fermandosi di fianco a lui. «Anche se devo ammettere che il bassorilievo e abbastanza ipnotico se lo guardi troppo a lungo.»
«Io sento anche uno strano sibilo, sono la sola?» chiese Jane fermandosi all’altro lato di Cade.
L’irlandese scosse le spalle. «Senti il rumore del vento, ogni volta che smette di soffiare si interrompe, vedi?» disse indicando la riproduzione di quello che doveva essere suo padre.
Il bassorilievo smise di soffiare per un momento, riprese fiato e poi ricominciò; le nuvole si sovrapposero, mescolandosi tra di loro fino a creare quella che sembrava tanto una tromba d’aria.
I semidei fissarono il timpano curiosi.
«Guarda se non ti becchi un acquazzone.» mormorò Nathan ironico.
«Ha altissime probabilità di dover affrontare dei fenomeni metereologici, senza alcun dubbio. Ciononostante, è bene che tu tenga a mente, Cade, che tuo padre non è il dio di tale dominio: Zeus comanda i cieli in tutto e per tutto, Eolo può solo chiamare a sé tali fenomeni.» lo confortò Cicno distogliendo lo sguardo dal tempio per guardare il suo compagno.
Jane fece una smorfia. «Non è un gran che di consolazione e non è neanche un gran ché di potere. Quindi cosa fa, di grazia, Eolo? Li comanda o no i venti?»
«È più complicato di così. I venti sono parte del regno del divino Zeus, ha lui il potere su tutto ciò che succede nei cieli e chi li abita. Quando una divinità decide di rendere immortale un suo servo devoto, tende a dar loro o una maggiore abilità sulla proprie capacità innate, come ad esempio un guaritore può divenire ancora più abile una volta reso immortale, come può dar loro una qualche tipo di influenza derivata dal proprio potere. Nel caso di Eolo Zeus gli donò la capacitò di controllare i Venti, ma questi esistevano da ben prima della nascita mortale di Eolo, sono entità indipendenti, simili in un qualche modo ai Fuochi Fatui. Ciò significa che possono essere evocati da Eolo, e dalla sua progenie, ma se questi decidono di non volerlo servire possono rifiutarsi di farlo. Allora Eolo potrà esercitare il suo potere solo sulle correnti minori, come fa Cade.»
Eliza guardò Cicno con ammirazione. «Rimango sorpresa ogni volta dalla tua conoscenza di questo mondo, pur essendo morto così tanti secoli fa.»
Il greco le lanciò uno sguardo divertito. «Perché a differenza vostra io ho vissuto una vita intrinsecamente legata e pregna di ogni aspetto di “questo mondo”. Voi avevate un’altra religione, giusto? Quel giovane che si è sacrificato-»
«Per favore, possiamo evitare di parlare di nuovo del Cristianesimo? Finiamo sempre per scadere nella blasfemia e per di più Cade deve andare ad affrontare la sua prova.» li fermò Lea, memore delle loro passate discussioni e dell’incredibile capacità di Cicno di dire sempre la cosa più inopportuna nel modo più logico possibile.
Cade però sembrò della stessa opinione della figlia di Apollo, anche se probabilmente solo per la questione “prova”, ed annuì risoluto.
«Sì, prima vado meglio è. Un colpo secco, come un dente.»
«Come un cerotto, vorrai dire.» lo corresse Nathan.
Cade lo guardò incuriosito. «Che cazzo è un cerotto? E perché devi sempre correggere ogni cosa che diciamo con qualcosa che si dice nella tua epoca invece di farti i cazzi tuoi?»
Jonas sgranò gli occhi, mordendosi le labbra per non ridacchiare e dare ancora più motivazioni all’americano di arrabbiarsi, allungando un braccio per girare Cade verso di lui e lontano da Nathan.
«Eeeee questo è decisamente il momento di andare! Per favore, stai attento, sbrigati non farti fregare da tuo padre, da chiunque ti metterà davanti e soprattutto, non farti accecare dall’ira.» disse stringendo la mano del giovane e guardandolo dritto negli occhi. «Se rispondi alle provocazioni di tuo padre farai solo il suo gioco e non riuscirai ad uscire da lì. Quindi, vedi di darti un tono, capito?»
Cade l’osservò per un momento, poi gli sorrise, uno di quei suoi sorrisi ampi e luminosi che si spandevano fino agli occhi verdi scintillanti.
 
Il verde è sempre stato il mio colore preferito.
 
«Non ti preoccupare, Binneas, il tuo dearthair mor tornerà sano e salve e più veloce del vento stesso.» lo rassicurò ricambiando la stretta.
Jonas gli sorrise a sua volta. «Non ho la più pallida idea di cosa tu abbia detto, ma mi fido.» rispose protendendosi per abbracciarlo, trovandolo subito pronto ad accoglierlo a braccia aperte.
«Per quando ne sappiamo potrebbe anche essersi definito “signore onnipotente”, io non mi fiderei neanche morta.» borbottò Jane scettica.
«Ma tu sei morta.» le fece notare Lea dandole un colpetto con la spalla, sorridendo un po’ più leggera alla vista dei due compagni scambiarsi un gesto così semplice eppure così pregno d’affetto. Le faceva pensare a Giuseppe, a come l’abbracciava prima di uscire di casa per quelle rare quanto pericolose missioni in soccorso a semidei sparsi per tutta la penisola. Come l’aveva abbracciata quando erano cominciate le prime sommosse.
 
Come non mi abbracciò quel giorno.
 
Lea inghiottì il groppo che le si era formato in gola e guardò Cade stringere un’ultima volta Jonas prima di lasciarlo, dandogli una pacca sulla spalla per buona misura.
Eliza gli si fece vicina, allungando la mano verso il rosso, l’espressione seria ma anche sorprendentemente rilassata.
«Sei la seconda persona per cui temo meno, Griffith. Vedi di essere anche la più veloce.»
«Puoi giurarci Elza, non vi accorgerete neanche che sono sparito.» disse sicuro afferrandole la mano.
«Magari questo no, dacci un minimo di respiro e togliti dai piedi per un po’, mi manca il silenzio.» borbottò Jane guardandolo di traverso. Poi gli fece un cenno con la testa. «Solo un po’, non metterci davvero troppo o vengo a prendere anche te.»
Quella, si disse Cade, era forse una delle cose più carine che la figlia di Ecate gli avesse mai detto, la cosa più carina che aveva fatto dopo il bracciare per Jonas, superando persino i suoi incantesimi durante la lotta contro la guerriera araba.
«Ci conto.»
«Fantastico, ora muovi quel culo secco e vai a fare la tua sfida.»
Lea menò la mano alla cieca per dare uno schiaffo a Nathan e sgridarlo del suo poco tatto, ignorando i grugniti infastiditi del biondo e sporgendosi anche lei per abbracciare Cade e augurargli buona fortuna.
Per ultimo rimase solo Cicno.
Cade lo guardò dritto negli occhi, sentiva che nessuna parola sarebbe servita, non dopo quello che il greco gli aveva detto prima, non con lui, non in quella situazione.
Rimaneva sempre sorpreso da come Cicno sembrasse sapere sempre tutto, come comprendesse i loro silenzi spesso meglio delle loro stesse parole.
Il figlio di Apollo inclinò il capo, accennò verso la porta del tempio e ghignò.
«A dopo.» disse solo. Nessun augurio di fortuna, nessun “fai presto”, “stai attento”, “non aver paura”. Forse perché Cicno sapeva che in questo caso la paura avrebbe potuto solo che aiutarlo, forse perché sapeva che se avesse incontrato sua madre, sua sorella, nessuna delle due gli avrebbe chiesto di rinunciare, sapeva che se fosse apparso suo padre Cade avrebbe preferito scomparire per sempre piuttosto che accettare un suo consiglio.
Forse sapeva semplicemente qualcosa che nessuno di loro sapeva.
 
Era Apollo quello che proteggeva gli oracoli? Che anche Cicno abbia qualche potere divinatorio e sappia già come andranno a finire tutte le nostre prove?
 
Questo Cade non poteva saperlo, ma in quel momento non era neanche importate.
Ciò che contava era solo la prova e la possibilità di vedere suo padre, faccia a faccia, per la prima volta.
 
Se il bastardo avrà il coraggio di apparirmi.
 
Con un’espressione seria e risoluta Cade strinse i pungi e rilassò subito dopo le mani. Doveva essere calmo, all’erta ma non spaventato, non nervoso, attento e cauto come lo era sempre stato in cielo.
Puntò lo sguardo sul portone e salì i gradini che l’avrebbero portato all’uscio di ferro azzurrino che già iniziava ad aprirsi. Una leggera brezza arrivò dritta dall’entrata, il rumore del vento era lieve ma sembrava solo preannunciare una corrente ancora più forte, più distruttiva.
Per un attimo rivisse la stessa sensazione che aveva vissuto nell’Area Cani: il tempio di suo padre lo risucchiava all’interno ed una corrente esterna lo spingeva verso quell’entrata.
Decise di non girarsi, di non dare neanche per un secondo le spalle alla dimora di Eolo, certo che il vento l’avrebbe ingannato e sarebbe persino potuto arrivare a non volerlo più lasciar passare.
Non sapeva cosa aspettarsi da quel luogo, i ragazzi gli avevano raccontato com’era l’interno dei templi dei loro genitori, ma erano tutti così diversi che probabilmente nessuno sarebbe rassomigliato a quello di Eolo.
Giunto davanti alla porta la corrente parve farsi più intensa, come centinai di mani che s’aggrapparono al bavero della sua giacca, al collo della maglia, al bordo di pantaloni, per tirarlo dentro, aiutate da altre mani invisibili che lo spinsero con foga sulla schiena.
Inciampicando sui suoi stessi passi Cade barcollò in avanti, dietro di lui il portone si chiuse con un tonfo sordo e la luce crepuscolare degli Inferì fu tagliata fuori, facendolo sprofondare del buio di un androne dalle tende tirate.
Si mise dritto sistemandosi le vesti, assicurando la cinghia della sacca sulla spalla e, prendendo un respiro profondo, iniziò a guardarsi attorno.
Non era davvero privo di luce quel luogo, la sua prima impressione era stata esatta: gli ricordava gli ingressi delle case dei signori, anticamere opulente, corridoi coperti da carta da parati e quadri massicci dalle cornici dorate coperte da un sottile strato di fumo e fuliggine. Era ampio, spazioso, ma al contempo gli trasmetteva un senso di claustrofobia. Persino l’aria era stantia e chiusa, esattamente come non sarebbe dovuta essere nel tempio del Dio dei Venti, come non sarebbe dovuta essere quando poco prima c’erano state quelle due correnti insistenti a spingerlo e strattonarlo.
Dove diamine era finito? Possibile che l’animo menefreghista di suo padre si rispecchiasse anche nella sua dimora?
 
Cosa aveva detto Nathan? Che Eolo era il cornista degli Dei? Che cazzo significa?
Lavora per gli Dei, porta informazioni di continuo, come un giornale, non si ferma mai. Possibile che sia così impegnato a lavorare per loro da non poter curare neanche il suo stesso luogo di culto?

 
In effetti la cosa non lo stupiva più di tanto: Eolo non aveva mai avuto un attimo di tempo per preoccuparsi delle sue cose, che fossero figli o, a quanto sembrava, templi.
Con una smorfia Cade batté le palpebre cercando di abituarsi a quella semi-ombra classica delle giornate piovose nella sua cara vecchia Irlanda, quando la pioggia batteva incessante sulle finestre e le tende pesanti venivano tirate per poterne attutire il suono.
Se odorava l’aria, dietro all’olezzo di stantio, di camera chiusa da troppo tempo, Cade poteva quasi fiutare l’odore della tempesta imminente, dei venti d’ovest che soffiavano dall’oceano. C’era odore di burrasca e salsedine, di acqua sporca e fangosa, del fumo che usciva dalle ciminiere delle fabbriche a carbone e che impuzzoliva tutta Dublino quando il vento tirava dalla parte sbagliata.
Respirando a pieni polmoni, Cade si domandò come fosse possibile che in quella sottospecie di anticamera riuscisse a fiutare tutti gli odori che l’avevano accompagnato nella vita, gli odori della sua città, del porto, dei vicoli, delle strade e dei palazzi, di un tempo indefinito che avrebbe ormai dovuto dimenticare e che invece era ben presente davanti ai suoi occhi, nella gola, addosso ai suoi vestiti, impregnato ai capelli corti.
Passandosi una mano tra le ciocche rosse cercò di darsi un contegno, si scuotersi da quella strana sensazione che gli si stava appiccicando addosso come l’umidità dei canali, avanzando con cautela verso il muro posto davanti a lui, dove si apriva una porta ad arco a doppia anta, con quattro finestre di vetro smerigliato.
Tra tutte le cose che si sarebbe potuto aspettare da un tempio, quell’arredamento era decisamente l’ultimo.
Perché sembrava tutto così simile al suo tempo? Eolo aveva secoli e secoli alle spalle, millenni se non aveva dimenticato come si contasse. Perché diavolo era tutto così dannatamente-
 
Dublino?
 
Spinse la porta con esitazione, certo che dietro di essa potesse già celarsi la sua prova, ansioso di rivedere quello stupido ometto dal volto sudato e teso, ma quando si affacciò nella stanza successiva non vi trovò altro che un corridoio, sempre buio, sempre decorato con la maledetta carta da parati azzurra a righe- cosa c’era rappresentato su? Erano forse fiori? Mazzolini di fiori fini e biancastri? No, erano dei ghirigori, altri stupidi ghirigori che rappresentavano soffi di vento stilizzati.

Ma dove cazzo sono finito? Questo sarebbe un tempio greco? Davvero?
 
Avanzò nel corridoio osservando le porte che si aprivano su ogni lato ad intervalli regolari. Erano tutte ben o male uguali, eppure ognuna differiva di qualcosa e Cade non ci mise molto a realizzare che, malgrado la semplicità dello stile, erano tutte di fattura diversa, fatte da mani diverse, in epoche diverse.
 
Una per ogni figlio? Ognuna da un’era diversa?

Accelerò il passo superando quasi sei porte prima di rendersi conto che più camminava più il corridoio diventava lungo. Un infinito susseguirsi di usci che diventavano sempre più vecchi, decisamente più di lui, sino all’ultimo.
Un’enorme porta di metallo decorata a sbalzo, otto cubi che ospitavano scene diverse di una vita passata e lontana, che illustravano la nascita di un uomo e la sua ascesa all’Olimpo, la sua consacrazione all’immortalità.
Quella doveva essere la sala del trono, dove si trovava il focolare che Cade avrebbe dovuto fa accendere, ma non appena provò a toccare la superficie fredda un potente vento di mareggiata iniziò a soffiare con violenza.
Portandosi le braccia davanti al viso per proteggersi dalle sferzate dolorose della corrente, Cade provò inutilmente ad opporre resistenza, venendo però trascinato dalla forze di quello che sembrava a tutti gli effetti l’impietoso vento dell’Ovest, quello che tante, troppe volte, l’aveva sospinto contro i palazzi e tra gli alberi durante le giornate di tempesta, durante gli autunni ventosi e gli inverni rigidi e ghiacciati.
 
«Cazzo! Se pensi che basti così poco a farmi rinunciare ti sbagli di grosso!» gridò con quanto fiato aveva in gola, conscio che il vento si sarebbe mangiato la sua voce e le sue imprecazioni e che solo il sangue divino di suo padre gli avrebbe concesso di sentirlo tra gli ululati ed i fischi acuti della corrente.
Si impuntò, spingendo con tutto il peso del suo corpo in avanti, verso la porta di metallo, verso quella che doveva – doveva per forza – essere la sala del focolare, il suo obbiettivo, la sua vittoria. Suo padre non gli aveva mai dato nulla se non il potere di piegare i venti alla propria volontà, non gli avrebbe permesso di togliergli anche quello.
Un moto di rabbia cieca gli si animò nel petto cavo, bruciando tutto l’ossigeno che i suoi polmoni non necessitavano d’usare, o che forse non avevano necessitato fino a quel momento, fino a quando il dono divino di quel bastardo, a cui Cade si era sempre affidato ciecamente, credendolo una parte intrinseca di sé, non l’aveva tradito durante la fuga dal fascio di luce che era il Guardiano. Poche volte, in vita, il vento aveva fallito le sue richieste, poche volte Cade non era riuscito a piegarlo al suo volere, a fargli fare ciò di cui necessitava, e tutte quelle volte si erano manifestate in vuoti d’aria che gli avevano tolto il respiro e con quello la coscienza.
Ma ora non era in aria, ora non stava volando, non era salito troppo in alto. No, ora il suo amato vento, che tanto facilmente gli aveva concesso di librarsi in aria, spingeva crudele contro di lui, schiacciandolo con una pressione che mai Cade aveva sentito, sordo ai suoi ordini, allontanandolo da ciò che più desiderava e condannandolo, ancora una volta, a lasciare i suoi amici a lottare senza di lui.
Aprì la bocca per gridare ancora, per urlare tutta la sua rabbia e l’odio che provava in quel momento, ma il vento gli scivolò in gola, un getto compatto, come se avesse ingoiato in blocco un boccale d’acqua, costringendo la trachea in un unico spasmo che lo mise dolorosamente a tacere.
Il vento gli entrò di prepotenza in gola, gonfiando i polmoni fino al collasso, togliendogli la forza dalle gambe, dalla schiena rigida e dal collo incassato tra le spalle.
Improvvisamente debole come solo due volte si era sentito in vita sua, Cade venne trascinato indietro e indietro e indietro, superando porte sempre più moderne, sempre più familiari, fischiando sotto gli usci e tra le sagome di legno, lungo i muri decorati, sbiadendo la carta da parati divenuta vuota dei suoi ghirigori.
Fu con un pensiero del tutto scollegato dalla confusione, dal dolore e la rabbia che provava in quel momento che l’irlandese si domandò se quei stupidi disegni non fossero il vento che ora, traditore, lo scacciata dalla sua meta.
Non poté rifletterci molto però, perché subito dopo si sentì spingere brutalmente a destra e, invece dell’impatto con il muro, cadde dentro una delle porte.
Rotolò sul pavimento, le gambe troppo deboli per sorreggerlo ed il piano troppo liscio per non scivolare, finendo con la guancia premuta contro il marmo freddo, immobile, a riprendere il fiato che non gli sarebbe dovuto servire.
Tenne lo sguardo fisso davanti a te, un occhio socchiuso e l’altro spalancato, ma tutto ciò che riusciva a vedere, che credeva, per lo meno, di riuscire a vedere, era il battiscopa della stanza, grigio e lucido come il pavimento su cui giaceva annaspando boccate d’aria sincopate.

«Ah, sei arrivato alla fine. Credevo mi avresti fatto aspettare ancora per molto.»
 
La voce che giunse alle sue orecchie, o per meglio dire all’unico che non aveva premuto contro il suolo, gli risuonò estranea ma con un pesante accento famigliare.
Era una voce di donna, senza alcun dubbio, una donna anche di una certa età, e Cade fu percorso da un brivido all’idea che quell’anima potesse appartenere a sua madre, che quella potesse essere la voce da anziana di Eilin e che lui si fosse scordato persino la sua intonazione.
La sentì muoversi da dovunque fosse stata ferma fino a quel momento, le vibrazioni che gli arrivavano dritte dal marmo gli fecero venire la pelle d’oca mentre la sua mente si rifiutava di accettare un qualunque altro pensiero che non fosse la possibilità di rivedere sua madre, ignorando le richieste di una parte remota di Cade che implorava il corpo di muoversi e vedere contro chi si sarebbe dovuto scontrare. Oh, sì, perché quella era la sua unica certezza: la donna che aveva parlato aveva chiaramente detto che lo stava aspettando, ergo, la donna era la sua prova.
I passi si fermarono vicino alla sua testa e un verso soddisfatto scappò dalle labbra dell’anziana signora.

«Non sei cambiato affatto, sei esattamente come mi ricordavo. Temevo d’aver scordato il tuo volto e invece no, sei proprio come ricordavo, sì.» ripeté tra sé e sé. «Proprio come ricordavo, non ho fatto cilecca, altro ché!»
A quelle parole qualcosa si smosse dentro la sua testa, come un clic che permise di nuovo alla mente di comandare i muscoli e farli reagire.
Con un movimento fluido, o che almeno voleva esserlo, Cade rotolò di fianco, si issò barcollando leggermente su un ginocchio, ed alzò finalmente la testa per guardare in faccia la donna.
Non sapeva bene cosa aspettarsi, ma la prima cosa che seppe con certezza era che quella non era sua madre. Era una donna sulla settantina, con i capelli bianchi tenuti in un caschetto corto e ordinato, gli occhi sbiaditi dal tempo dovevano esser stati di un marrone caldo e scuro, ancora vispi e brillanti di una luce che un morto non avrebbe dovuto avere. Sotto le rughe ed i segni del tempo, Cade poteva scorgere un naso appuntito, le labbra fini, gli zigomi rotondi.
 
Da bambina doveva avere la faccia da meletta.
 
Inclinò il capo per osservarla meglio, per cercare di capire cosa ci fosse di così smaccatamente famigliare in lei, quale fosse il filo che li legava.
Che fosse una delle sue vecchie compagne? Era possibile, sì, ma tra i suoi Liberty non c’era nessuna donna che Cade avesse tenuto così tanto in considerazione da poterla elevare ad anima tentatrice in nessuna prova.
L’anziana signora imitò la sua stessa posa, sorridendo divertita all’espressione crucciata dell’altro.
 
«Sì, proprio bene, sono vecchia ma ricordo ancora bene. Ah! Dovrebbero vedermi i miei nipoti, i ragazzini d’oggi credono di sapere tutto sul mondo e che noi vecchi invece non sappiamo nulla. Gli farei vedere io, sì, come ricordo ancora bene!» disse sempre più soddisfatta, portando le mani ai fianchi e drizzando la schiena curvata dagli anni.
Cade si schiarì la voce, sentendo la gola secca e rasposa come la lima di un falegname.
 
Dannazione, mi ha fatto un bel numero quella cazzo di burrasca.
 
«Perdonatemi, signora, ma la mia di memoria invece non è buona come la vostra, a quanto pare. Ci conosciamo? Anche se forse “conosciamo” è una parola grossa, siamo tutti e due morti, quindi, “ci siamo conosciuti”? In vita, magari?» provò lui titubante, facendo forza sulla gamba piegata per potersi finalmente alzare da terra.
La stanza però decise di mettersi a girare proprio in quel momento e no, la verità? Cade stava abbastanza bene anche lì seduto, alzarsi in piedi e fronteggiare una persona faccia a faccia era sopravvalutato, il pavimento era decisamente un ottimo posto dove rimanere mentre si aspetta che passi la nausea.
La vecchietta lo osservò con attenzione, ma non cercò di aiutarlo, mettendosi solo a ridacchiare della sua faccia pallida e leggermente verdastra.
Scosse il capo e si girò per prendere una sedia, lasciando a Cade il tempo di guardarsi finalmente intorno con più attenzione e rendersi conto d’esser finito in quella che aveva tutta l’aria di essere la camera principale di una vecchia casa, con un tavolo rotondo, quattro sedie ed un paio di mobili di buona fattura ma poveri. Una stufa a legna accostata alla parete, vicino ad un piano con una tinozza e dei piatti impilati dentro. C’era una vecchia pentola di peltro annerita vicino alla stufa, ma era poggiata a terra, vuota come la pancia di metallo del vecchio ammasso di ferraia. 
 
Serio? Io vengo fino al tempio di mio padre e questo stronzo mi fa entrare nel salone di casa mia?
 
Batté le palpebre colpito dal suo stesso pensiero.
Somigliava davvero a casa sua, alla vecchia casetta che aveva condiviso con la sua famiglia e tutti i suoi amici. Con il pavimento di legno macchiato dall’umidità e dalle mille impronte di scarpe sporche di fango che lo calpestavano ogni giorno a tutte le ore.
Il rumore che fece la sedia quando la signora la posizionò davanti a lui, accomodandosi senza fretta, lo riportò alla realtà.
 
Se quella che sto vivendo si possa definire tale.
 
«Ci conosciamo piuttosto bene, a dire il vero.» iniziò la donna sfregandosi le mani.
«Davvero?» chiese conferma Cade sedendosi a gambe incrociate.
Lei annuì. «Oh, sì, ci siamo conosciuti per tutta la vita, breve certo, ma non è passato un giorno che non fossimo insieme, anche solo per pochi minuti.»
Cade aggrottò le sopracciglia.
«Me la ricordavo diversa la figlia del panettiere. Ma in effetti ti ricordavo giovane.» ammise stringendosi nelle spalle.
La donna scoppiò a ridere, una risata acuta ma arrochita dall’età.
«Non sono la figlia del panettiere, razza di idiota!»
«Del fabbro?»
«Ag dia! Vedi di impegnarti e smetterla di tirare ad indovinare!» insistette lei continuando a ridere.
Fu inevitabile per Cade ritrovarsi anche lui a ridacchiare, cercando altre possibili risposte stupide da rifilarle. Sperava anche che parlasse di nuovo in irlandese, era da decenni che non sentiva più nessuno parlare la sua cara, vecchia ed amata lingua.
«Beh, in effetti la figlia del fabbro era quasi il doppio di te, anche se mi dicono che la vecchiaia dimagrisce.» ammiccò divertito. «Oh cavolo! Ti prego, non dirmi che abbiamo avuto una storia e che sei qui per dirmi che in realtà ho un figlio!» esclamò poi drammatico portando una mano alla fronte.
In effetti quella era una possibilità che poche volte si era concesso di ipotizzare, ma sperava veramente che non fosse così: aveva già avuto lui un padre assente, non avrebbe mai voluto che altri passassero le stesse difficoltà per colpa sua.
A quell’ultima affermazione la donna storse la bocca in un’espressione quasi schifata.

«Dia na bac, dearthair, non mi ci far neanche pensare.» scosse il capo.
Cade rimase incantato a fissarla, il suono di quelle parole gli sembrava così spigoloso, eppure così gentile, così bello. Era il suono di casa, era le voci dei suoi compagni che lo chiamavano per le strade, lungo i canali, al porto.
Dearthair… aveva usato quella parola solo poco prima con Jonas, non la pronunciava da secoli. Com’era curioso il tempo, anni passati senza pronunciare mai un appellativo e poi quello riusciva fuori puntuale non appena provava a dirlo ad alta voce.
Ma se la donna l’aveva chiamato “fratello”, allora le sue supposizioni erano esatte, doveva essere una dei suoi Liberty Birds.
Ma chi diavolo era?
«Eri dei Liberty.» disse solo, senza aggiungere altro.
Lei annuì, poi scosse il capo. «Non proprio. Sì, ma no. Non mi hai mai permesso di entrare davvero a far parte della banda, a prendere parte alle vostre piccole missioni esplorative.»
Diceva di non esserne stata parte ma conosceva perfettamente il gergo, le parole che usavano per parlare liberamente dei loro furti senza esser scoperti al primo colpo.
«Ti do un indizio, ci stai?»
Cade annuì confuso.
«L’ultima volta che ci siamo visti mi hai dato un bacio sulla fronte, dicendomi che sarebbe andato tutto bene, che dovevo solo rimanere al sicuro e voi avreste pensato a cacciare gli inglesi e a liberare Dublino.»
L’espressione sul suo volto dovette cambiare in modo repentino, perché il sorriso soddisfatto e divertito della donna si ammorbidì d’improvviso, osservandolo con gli occhi socchiusi come se cercasse di mettere ben a fuoco tutti i tratti del suo viso.
«Sì, sei proprio come mi ti ricordavo, dearthair. Sono felice che anche la morte non sia riuscita a portarti via quel sorriso furbesco e quegli occhi scintillanti.»
Allungò una mano verso di lui, piegandosi in avanti e poggiando il gomito sul ginocchio.
Come in trance, Cade imitò il gesto stringendo la mano che gli veniva porta.
Era morbida, non tanto per la consistenza della pelle quanto per quella dei muscoli sottostanti. Piccoli graffi, cicatrici di una vita passata e calli consunti rendevano l’epidermide un tessuto resistente e spesso, ma neanche quelli potevano nascondere la fragilità e la rugosità della pelle anziana che si scolla dal muscolo.
Osservò quella mano, le unghie corte, le macchie, il segno di un anello che non portava più ma che doveva aver portato per tutta la vita.
 
Almeno settant’anni. È arrivata almeno a settant’anni.
 
«Quanti- quanti anni hai?» chiese con voce tremante, senza staccare gli occhi dalle loro mani giunte.
Le sue erano così giovani, elastiche, consistenti.
Non sarebbero dovute essere così, Cade non avrebbe dovuto avere le mani di un giovane uomo mentre lei quelle di una persona anziana.
Non era giusto.
 
Sarei dovuto invecchiare molto prima di te.
Sarei dovuto invecchiare assieme a te.
 
«Ben ottantuno. Sono vissuta per parecchio tempo, abbastanza da diventare bisnonna, sai? Ero la più vecchia del mio paese.» affermò con orgoglio.
Cade annuì, riuscì solo a fare quello in un primo momento.
Ottantuno era un buon numero, era una vita lunga, con dei figli, dei nipoti e anche bisnipoti. Significava un marito, una famiglia.
 
Non ti ho lasciata sola, alla fine.
 
«Bene. È una bella cosa.» mormorò.
La donna sorrise tristemente, allungando anche l’altra mano per poter carezzare con gentilezza ed un pizzico di tremore il viso pallido del semidio.
«Sei stato coraggioso, lo sai? Un vero grifone. Mi sei mancato tanto, ma sono sempre stata fiera di te. Anche mamma lo era.»
Cade strinse le labbra, deglutendo a vuoto un paio di volte nel tentativo di trattenere quelli che, ne era certo, sarebbero presto diventati singhiozzi impossibili da arginare.
«Cos’è successo poi? No- non com’è andata, com’è stato per voi.»
«Oh, non ti dirò che è stata una passeggiata e che la nostra vita è stata fantastica.» disse sincera, «Abbiamo affrontato un bel po’ di difficoltà, la rivolta non è finita bene, molti sono stati arrestati e giustiziati, la gente non ha apprezzato. C’è stata poi la grande guerra, quella d’indipendenza. Non abbiamo avuto pace, le contee non erano concordi e dopo aver lottato tanto per la nostra libertà ci siamo ancora divisi, è scoppiata la guerra civile, non so dirti se ti sarebbero piaciuti o meno gli individui che si opposero, forse sì… E vent’anni dopo la grande guerra ne scoppiò un’altra, più rovinosa, più cruenta.»
Anche lei serrò le labbra in un’espressione speculare a quella del giovane, così simili eppure così diversi. Erano cresciuti assieme per meno di vent’anni, eppure avevano dei modi di fare quasi identici.
Cade non disse nulla, rimase in attesa che la donna – che sua sorella – trovasse il coraggio o anche solo la forza di rivivere quello che a detta di Nathan era stato il periodo più oscuro dell’ultimo secolo.
«Siamo rimasti per lo più neutrali durante il conflitto, anche se molti si sono uniti all’esercito britannico pur di andare a combattere, ma comunque non siamo riusciti ad evitare i bombardamenti nazisti. Siamo stati fortunati però, il resto d’Europa non lo è stato, Londra è stata spesso presa di mira, pensa che volevano far evacuare la famiglia reale ma la regina si è rifiutata, mh, quella donna aveva polso.  
Mamma è morta nel ’36, io all’ora ero sposata da appena un paio d’anni, con Sean. Ti sarebbe piaciuto, era un uomo gentile e molto timido, sua sorella diceva che solo una come me poteva prenderselo. Era un brav’uomo, era nella marina mercantile, ho rischiato di perderlo un paio di volte durante la guerra ma alla fine è sempre tornato a casa, grazie ad un po’ di sana-»
«Fortuna irlandese.» concluse per lei.
La donna gli sorrise. «Sì, grazie alla fortuna irlandese. Ne abbiamo sempre avuta tanta in famiglia, vero?»
«Non abbastanza a quanto pare, devi esserti presa anche la mia, Annie.»
Sua sorella ridacchiò, ma gli occhi lucidi gli fecero capire quanto quella fosse solo una facciata, come stesse trattenendo tutte quelle emozioni più scomode, solo per poter parlare tranquillamente con lui.
 
Cose se avessimo tutto il tempo del mondo. Tutto il tempo che in realtà non abbiamo ora e non abbiamo mai avuto prima.
 
«Sei stata felice? Mamma- mamma è morta felice?»
Anne annuì. «Vecchiaia e stanchezza, non potevamo chiedere di più. È stata debole per un paio di settimane, si stancava facilmente, un pomeriggio si è distesa per riposare e non si è più svegliata.»
«Bene.» disse solo Cade rigido. Non era quello che aveva chiesto, voleva sapere se Eilin avesse vissuto una vita, non semplice, ma quanto meno felice anche dopo che lui le aveva abbandonate. Ma sua sorella sembrava non voler aggiungere altro, così lasciò passare. «Te?»
«Come sono morta dici?» gli chiese divertita.
Il fratello scosse il capo. «No, se sei stata felice.»
Anne lo guardò per un attimo in silenzio, valutando con attenzione le parole da usare. Alla fine annuì.
«Sì. Sì, Cade, sono stata felice. Ho fatto una bella vita per quanto gli eventi del ventesimo secolo siano stati quelli che sono stati. Ma ho trovato Sean, ho avuto cinque figli e quattrodici nipoti, sono morta che il mio primo bisnipote aveva sette anni ed il quinto era appena nato. Mi sono trasferita fuori Dublino quando i ragazzi se ne sono andati tutti di casa e ho vissuto in uno di quei paesini che piacevano tanto a mamma, te li ricordi? Quelli dove avrebbe sempre voluto vivere anche lei.»
«Quelli dove solo i ricci o i contadini potevano vivere.» mormorò al vago ricordo di racconti sbiaditi, della voce annacquata di sua madre, immersa in memorie inquiete e ondeggianti come le acque del porto di Dublino.
«Beh, i tempi sono cambiati, c’è stato il boom economico, sai? Ci siamo potuti permettere una bella casetta, con i risparmi di una vita e con la pensione di Sean. Ti sarebbe piaciuto vivere lì, quel posto mi ricordava tanto te.»
Cade chiuse gli occhi, cercando di immaginare una Anne adulta, circondata da figli, da nipoti, in una tipica villetta di campagna, tra le colline dolci e fruscianti.
«Perché?»
«C’erano prati sconfinati, verdi e brillanti come ricordavo fossero i tuoi occhi, come quelli di mamma. E poi-» s’interruppe, prese fiato come se si apprestasse a dire qualcosa che avrebbe sicuramente colpito il fratello, più di quanto non l’avesse fatto sapere che sua sorella si era ritirata tra colline dello stesso colore dei suoi occhi. «-era pieno di stormi Puffin. Facevano il nido sulle scogliere lì vicino e volavano cavalcando le correnti che venivano dall’oceano, che si tuffavano a picco oltre le coste.»

Uno stormo che vola libero tra le correnti.
 
«Molti hanno combattuto. Per l’indipendenza, per la patria, per chi non poteva farlo.»
 
Non c’era bisogno che le chiedesse a chi si stesse riferendo, non c’era bisogno che lei gli spiegasse a cosa si riferisse e Cade, forse codardo come non lo era mai stato in vita sua, decise di non domandare oltre.
Strinse di più gli occhi, arresosi alle lacrime che non riusciva a trattenere, al dolore sordo che gli batteva in petto, alla consapevolezza che non avesse lasciato solo la sua famiglia di sangue ma anche quella d’elezione ad affrontare il mondo da sola, senza di lui, senza che Cade potesse guardare loro le spalle, potesse proteggerli, potesse sostenerli, potesse prendersi quel colpo mortale per loro.
«Perdonami.» mormorò a mala pena, cercando di piangere silenziosamente, di non lasciare che le lacrime intaccassero la sua voce.
«Oh, dearthair, non dirlo neanche per scherzo.»
Anne si alzò dalla sedia, inginocchiandosi con cautela vicino al fratello per poterlo abbracciare in una stretta materna che Cade non avrebbe mai pensato di poter provare più.
Si lasciò scappare un singhiozzo, una risata lacrimosa che fece ridacchiare anche la donna quando fu seguita da un rumoroso tirar su del naso.
I due fratelli stettero così per quelle che sarebbero potute essere ore, mentre Cade si ripeteva quanto quella situazione fosse sbagliata più ancor che ingiusta, perché sarebbe dovuto essere lui l’adulto, lui avrebbe dovuto confortare la sua sorellina, non in contrario. Sarebbero dovuti crescere assieme, avrebbe dovuto rimanere al fianco dei suoi Liberty e affrontare le rivolte, le guerre civili, quelle mondiali. Avrebbe dovuto assistere sua madre nella vecchiaia, avrebbe dovuto conoscere questo Sean che si era invaghito di sua sorella sino a chiederle di sposarlo. L’avrebbe dovuta accompagnare all’altare e avrebbe dovuto vedere i suoi figli. Avrebbero dovuto seppellire Eilin assieme, forti nel loro dolore, sarebbero dovuti invecchiare insieme e poi, un giorno, Anne avrebbe seppellito anche lui, ma con la sua famiglia vicino a sostenerla.
Non sarebbe dovuta andare così, non sarebbe dovuto morire così.
«Avrei dovuto resistere.» disse a bassa voce.
Anne fece un verso scettico. «Intendi con un pugnale nella schiena spinto sino a bucarti il petto? Certo dearthair, saresti proprio dovuto sopravvivere ad una pugnalata del genere, che mezza calzetta che sei.»
Cade rise, di gusto, voltando il viso verso la spalla della sorella e strofinandosi via le lacrime dalle guance.
«Dovevo stare più attento.»
«Hai fatto quello che ritenevi giusto. E poi sono sicura che se non fossi morto quel giorno ti saresti fatto ammazzare alla guerra successiva. Non saresti mai rimasto a casa ad aspettare, saresti sceso in strada a combattere e ti saresti buttato tra uno dei ragazzi ed il fucile di qualche soldato. Dio, te li saresti andati a cercare, i tedeschi.»
«Sai che ho un amico tedesco?» disse lui sciogliendo l’abbraccio e tirandosi a sedere. «Un ragazzino di sedici anni a mala pena. Quando è morto c’era già il governo- come lo hai chiamato, quello della guerra.»
«Nazista? Era ebreo per caso? Morto così giovane…»
«No, non credo. E poi non lo hanno ucciso, si è suicidato.» ammise piano.
L’espressione sul volto di Anne si fece dura. «Quei bastardi hanno reso un inferno la vita della loro stessa gente, non stento a credere che un ragazzino si sia fatto prendere dalla disperazione e si sia suicidato.»
«Lo hanno sbattuto nei Campi di Pena per questo.»
Anne annuì. «A meno che tu non ti uccida per salvare qualcuno il suicidio rimane sempre un peccato.»
«Lo sai che questo è l’inferno degli Dei Greci, si?»
La donna rise. «Oh Cade, questo è l’inferno di tutti L’unica differenza dalla Bibbia è che il paradiso non è in cielo e che anche da morti dobbiamo rimanere su questa terra.» gli sistemò i capelli con un gesto amorevole e poi lo guardò dritto negli occhi, con serietà. «Sai che non ti chiederò di rinunciare, vero?»
Lui le sorrise. «Lo davo per scontato. Ne sarei rimasto davvero deluso se no.»
«Bravo. Non hai mai mollato in vita, Cade, non ti azzardare a farlo ora. Non ci siamo più io e mamma su, ma c’è la nostra famiglia, quella che non hai mai conosciuto ma che invece conosce te, fin troppo bene, anche il tuo “piccolo segreto”.»
Cade la guardò sorpreso. «Sanno che sono un semidio? E ti hanno creduta?»
Lei fece un gesto vago con la mano. «Che la vedano come magia o come un potere semidivino non ha importanza. Ho sempre detto loro che eri speciale, che il vento rispondeva ad ogni tuo comando. Gli ho raccontato storie della buona notte sul loro zio, che volava nei cieli irlandesi, e che loro ci credano ancora o meno, quando ti rivedranno e dimostrerai loro che non mi sono mai inventata nulla vedrai che ti accoglieranno a braccia aperte.
Oh, e ti crederà soprattutto il mio quartogenito, ho avuto tre figlie prima di lui, quindi mi perdonerai se non è la prima ad avere il tuo nome.» disse poi ammiccando.
A quelle parole Cade scoppiò a ridere, felice, leggero, come non lo era da un po’.
Guardò sua sorella tra le risa e tirò ancora su con il naso.
«Ho paura di non farcela, Annie. Mi perdoneresti lo stesso?»
Lei gli posò un’ennesima carezza sul capo, sorridendo materna. «Se non dovessi farcela a vincere, rinasci. Non importa in quale forma, non importa con quali memorie, siamo fratelli, ci troveremo di nuovo.»
A quelle parole Cade non seppe rispondere, all’affetto che trapelava anche solo dallo sguardo sempre più vispo e colorato della donna che, lentamente, tornò ad essere la ragazzina di undici anni che Cade aveva lasciato in casa quella lontana mattina di Aprile.
La Anne bambina gli sorrise radiosa, più bella di quanto Cade non la ricordasse.
Si mise in piedi con un balzo agile, spolverandosi la gonna di panno, e chinandosi in avanti prese il volto del fratello tra le mani e gli posò un bacio sulla fronte, proprio come aveva fatto lui anni prima.
 
«Vai e vinci, dearthair, io ti aspetterò dall’altra parte. E ricorda che qualunque cosa succeda, sarò sempre fiera di te.»
 
Una leggera brezza iniziò a tirare nella stanza, dolce e profumata come l’aria che si respirava per le valli irlandesi, tra le colline verdi smeraldo, vicino alle coste che si tuffavano a strapiombo nelle fredde acque dell’oceano.
Gli scompigliava i capelli, gli carezzava la pelle e gli ricordava per cosa era vissuto, per cosa aveva combattuto, per cosa era morto.
La luce nella stanza crebbe assieme al vento, cancellando le pareti ed illuminando un cielo limpido ed infinito.
Sotto le sue mani Cade poté sentire i fili d’erba pizzicargli i palmi e non appena provò ad abbassare lo sguardo per sincerarsi che fosse effettivamente erba quella che sentiva, un enorme stormo di Puffin sfrecciò attorno a lui, aggirandolo con la precisone che solo gli uccelli potevano avere, volando vicini senza mai scontrarsi.
Senza fiato Cade osservò le scogliere d’Irlanda, i suoi prati sterminati, gli stormi che si libravano nei cieli ventosi.
Anne gli sorrise felice da una vita remota che non avrebbero più potuto recuperare.

«Eitilt ard, eitilt saor.»
 
I Puffin volteggiarono in aria e poi si rituffarono verso il suolo, investendo la figura ormai evanescente di sua sorella e puntando dritti verso di lui.
Cade sorrise mesto, alzando il volto al cielo e chiudendo gli occhi, godendosi forse per l’ultima volta il vento della sua amata Irlanda.
 
Quando lo stormo lo colpì il semidio riaprì gli occhi, ritrovandosi seduto sul marmo grigio della stanza spoglia in cui le correnti lo avevano trascinato.
Non c’era traccia del vecchio mobilio della sua casa a Dublino, ne ve n’era di sua sorella, ma questo Cade già lo sapeva.
Si alzò incerto sulle gambe tramanti, drizzando la schiena e sistemandosi la giacca.
Passò con delicatezza i polpastrelli sul risvolto dipinto, ormai crepato e sbiadito, poggiandoci sopra la mano aperta.
Era finita. La prova era finita.
Uscì con calma dalla stanza, attento a possibili nuove correnti. I disegni sulla carta da parati erano di nuovo al loro posto, le porte sempre nella stessa posizione, ma questa volta, alla fine del corridoio, che sembrava molto di più corto di prima, la porta di ferro era spalancata.
Non si avvicinò troppo, non entrò nella sala del trono, da quella distanza Cade poteva benissimo vedere il focolare ardere, scoppiettando allegro e tremolante, come se una leggera corrente d’aria lo alimentasse.
Rimase per un momento a fissarlo, domandandosi se non dovesse andare lì, magari incontrare suo padre e parlare con lui per la prima volta in tutta la sua esistenza.
Fu però un pensiero passeggero, il fuoco continuava a muoversi sinuoso, non sembrava volesse spegnersi, non sembrava neanche che lo stesse aspettando, se aveva senso come cosa. Evidentemente, si disse, anche in quell’occasione Eolo non aveva tempo da perdere per i suoi figli.
Ma era giusto così, Cade non aveva mai avuto bisogno di lui in vita e non ne aveva neanche nella morte.
Annuì solo, come un cenno di saluto rivolto più al braciere che al dio a cui apparteneva.
Poi si girò e senza guardarsi indietro, uscì dal tempio di Eolo.
La sua missione si era conclusa con successo.
 
Quando le porte si aprirono e Cade riuscì alla luce crepuscolare dell’Ade ne rimase quasi accecato per un attimo, solo un secondo, prima che una brezza leggera gli scompigliasse i capelli e lo sospingesse gentilmente oltre la soglia, poggiandosi tra le sue scapole sporgenti, come ali invisibili che s’aprivano al vento.
 
«CADE!»
 
La voce acuta e allegra di Jonas lo riportò alla realtà, la luce che s’abbatteva nei suoi occhi s’affievolì e Cade poté vedere chiaramente i suoi amici, tutti fermi ad aspettarlo, i volti felici, soddisfatti, orgogliosi.



Fieri dearthair.
 
Fieri, fratello.
 
 
Li guardò senza riuscire a trattenere il sorriso.
Sì, anche lui era fiero.
 
 
Vola alto, vola libero.
 
 
Cade aveva tutta l’intenzione di mantenere la promessa.











  
 
 
*








 
 
 
La terra brulla era fredda e granulosa, morbida e franosa sotto i suoi piedi, sotto le suole delle scarpette di cuoio bruno i cui lacci erano ormai diventati marroni.
Correva a perdifiato, più veloce che poteva, gettando di tanto in tanto occhiate ansiose alle sue spalle. Il fermaglio che le reggeva i capelli si era sposato, ora saltellava sulla sua schiena, ancora ostinatamente ancorato ad una spessa ciocca di capelli scuri. Le andavano in bocca ogni volta che si girava, ogni volta che, a labbra socchiuse, ansimava aspirando l’aria tra i denti serrati per lo sforzo.
Doveva solo continuare a correre il più velocemente possibile, arrivare alla chiesa ed infilarvisi veloce dentro, sperando che Don Franco non si fosse scordato di aprire le porte come capitava da un po’ d’anni a quella parte.
Strinse i pugni alla gonna verdastra e la tirò verso di sé, cercando maggiore mobilità nella corsa, sperando che non ci fosse nessuno per i campi, che se l’avessero vista così malmessa, con la gonna tirata sopra le ginocchia, i capelli scompigliati ed il fiato corto, sarebbero andati subito a dirlo a sua madre, a dire ad  Ada che la sua figliola correva come un diavolo per i campi smossi per la semina, chiedendole pure se non fosse che il sor Giovanni si fosse di nuovo fatto prendere i cinque minuti e non avesse messo le mani addosso pure alla ragazzina.
Non sarebbe stata la prima volta che qualcuno dei suoi vicini la vedeva con uno zigomo gonfio o con un occhio nero, non sarebbe stata una sorpresa per nessuno.
Ma quella volta non era dalla rabbia di suo padre che Clara stava scappando, quanto più da una strana bestia che sembrava in tutto e per tutto un cinghiale, se non fosse stato per la sua stazza sproporzionata.
Clara non aveva mai visto un cinghiale così grande e soprattutto non aveva mai dovuto scappare per evitare che l’animale l’attaccasse. Era assurdo poi che ve ne fosse uno, in pieno giorno, tra le vigne romane, in un luogo aperto, dove non si sarebbe potuto nascondere o fare una tana.
Certo era che, date le sue dimensioni, nascondersi era l’ultimo dei suoi problemi.
Il rumore dei suoi zoccoli era attutito dalla terra morbida, ma il terreno tremava sotto il peso della bestia ed i suoi grugniti sembravano sempre più vicini.
La ragazzina si girò di nuovo, cercando di scorgere l’animale senza smettere di correre, ma tra i capelli e la foga di non inciampare non riusciva a vedere nulla.
Era impossibile che quell’essere riuscisse a nascondersi tra i pali delle viti, era gigantesco, sembrava un’ambulanza e lei aveva una vista fin troppo buona per il suo stesso bene, come poteva non vederlo?
La risposta arrivò ben presto quando un grugnito più ravvicinato ed uno spostamento d’aria le giunsero alla sua destra.
Per tutta la vita le era sempre stato rinfacciato come fosse costantemente all’erta, come un gatto forastico, pronta a balzare al minimo suono, al minimo movimento. Era inquieta, ferma immobile con gli occhi spalancati a fissare qualcosa o qualcuno, in attesa di un passo falso, di un movimento troppo repentino. Sua madre cercava sempre inutilmente di mascherare la cosa, Clara aveva semplicemente dei buoni riflessi, era solo molto attenta, una bambina con una buona disciplina, pronta ad intervenire ed agire ogni qual volta Ada la chiamasse in aiuto per qualunque tipo di servizio.
Era suo padre a storcere il naso, a dire quanto mettesse a disagio la gente, il suo comportamento. Forse perché metteva a disagio lui, che non poteva farle nulla a meno che prima non l’afferrasse e riuscisse ad immobilizzarla. Quante volte i suoi ceffoni erano andati a vuoto, per colpa dei riflessi felini di Clara.
Ma in quel momento, i tanto odiati riflessi da gatto forastico, furono l’unica cosa che le permise di muoversi in automatico e schiavare per un soffio il gigantesco cinghiale che l’aveva caricata.
Si buttò a terra, rotolando tra la torba, fermandosi solo grazie ad uno dei tanti paletti di cemento su cui i contadini facevano arrampicare le viti. Lo colpì con il fianco, togliendole per un attimo il respiro e lasciandola a fissare il cielo terso, le nuvole bianche dai bordi sbiaditi.
Sembrava tutto così tranquillo, tutto così bello, come una cartolina, come un sogno. Il raggi del sole cadevano come fasci sulla terra e persino un arcobaleno sbiadito si intravedeva tra i riflessi.
Era uno dei suoi scenari preferiti, uno di quei momenti che rubava alle varie commissioni e ai lavori di casa e dei campi, quando suo padre dormiva chiuso in camera e sua madre si concedeva qualche minuto di leggero dormiveglia sulla sedia della cucina, il vestiti da lavoro di Giovanni da rammendare in grembo e la testa reclinata verso la spalla. Quei rari momenti in cui nessuno si interessava a lei e Clara poteva sdraiarsi sulle mattonelle storte del balcone e fissare il cielo in santa pace. Esistere e nulla più.
Quale beffa le faceva il mondo, pensò mentre si costrinse a tirarsi in ginocchio e cercare con lo sguardo il cinghiale.
La bestia si stava rialzando a sua volta, sgrullando il buso dalla terra contro cui si era schiantato.
Clara non aspettò che si riprendesse, si mise in piedi e ricominciò a correre verso la chiesa, non preoccupandosi dei suoi vestiti sporchi, del fermaglio perduto e dei capelli in bocca. Doveva solo correre e farlo più velocemente del cinghiale che si era voltato nella sua direzione e aveva tirato un grugnito acuto e penetrante che le fece premere con forza le mani sulle orecchie.
Cosa diamine era quel suono? Come poteva una bestia del genere fare un verso simile?
Incespicò tra le zolle di terra, tirandosi di nuovo su la gonna, ormai indifferente alla possibilità che qualcuno la vedesse, men che meno che corresse in suo aiuto.
Non appena ebbe formulato quel pensiero qualcosa di duro e pensate le batté contro la gamba, dalla tasca della gonna.
Clara abbassò lo sguardo senza capire, infilando la mano nella tasca e rimanendo quasi congelata quando si rese conto di cosa fosse.
Lo stupore l’aveva fatta rallentare, ma la ragazzina neanche se ne rese conto mentre estraeva dalla tasca il coltellino a serramanico che una strana donna le aveva regalato un paio d’anni prima.
Quel coltellino non avrebbe potuto mai uccidere una bestia di quelle dimensioni, Clara ne era sicura, ma lo strinse comunque a sé quando dovette buttarsi di nuovo a terra per schivare l’ennesimo attacco del cinghiale.
Si rimise in piedi in fretta, cercando nuovamente la fuga, ma l’animale fu ugualmente veloce e Clara si ritrovò ferma, immobile, a fissare gli occhi scuri e lucidi del cinghiale.
Doveva andare a sinistra, ma forse avrebbe potuto fare una finta verso destra, in modo da guadagnare anche solo pochi preziosi secondi di vantaggio.
Deglutendo e muovendosi con lentezza Clara afferrò di nuovo il bordo della gonna, tirandolo sopra le ginocchia graffiate, sporche di terra e sangue, mentre con la mano sinistra stringeva saldamente il coltellino.
L’animale la fissava come se sapesse già la sua prossima mossa e prima che la ragazza potesse decidere di muoversi il cinghiale le si lanciò contro a testa bassa.
Fu un riflesso involontario, qualcosa che Clara stessa non avrebbe saputo spiegare e che altri invece fecero per lei.
Con un gesto secco fece scattare il coltellino e lo portò davanti al viso, per difendersi.
Il suono che ne derivò fu quello metallico di due oggetti duri che si scontrano tra di loro.
Clara finì a gambe all’aria, la forza dell’impatto l’aveva sbalzata indietro ma non le aveva tolto il pesante coltellino dalla mano.
O almeno quello che sarebbe dovuto essere un coltellino, che era diventato improvvisamente più pesante.
 
Pesante?
 
Facendo forza sulle braccia Clara si sollevò, rimanendo però scioccata nel fissare l’oggetto che stringeva nella mano sinistra.
L’impugnatura di legno aveva lasciato il posto ad un’impugnatura di cuoio marrone, lucido e resistente, che si avvolgeva attorno ad un’elsa d’oro massiccio. Così come d’oro era la lunga lama a doppio filo che scintillava sotto il sole di Maggio, tanto lucida da potercisi specchiare dentro. E fu proprio nel riflesso della lama che Clara vide un movimento repentino alla sua destra, prima di sentire una voce chiara e forte gridarle qualcosa.
 
«Unten bleiben!»
 
Clara non aveva la più pallida idea di cosa significasse, ma intuì che dovesse essere un comando per rimanere ferma, soprattutto quando uno strano sfrigorio si dilatò per la vigna.
Si volse in tempo per vedere la figura di un ragazzo sfrecciare veloce verso il muso del cinghiale, il corpo proteso in avanti e due strani oggetti nelle mani che la sua mente non riuscì ad indentificare. O forse, non voleva accettare d’aver identificato. Perché per quanto fosse un pensiero assurdo, qualcosa di impossibile, Clara vedeva chiaramente due spade argentee percorse da scariche elettriche, come fulmini bluastri.
Ma non era possibile, quel ragazzo non poteva avere due spade e queste non potevano avere dei fulmini addosso.
Così come il suo coltellino non poteva essere diventato una spada d’oro lunga più della sua gamba.
Le ronzavano le orecchie, le sembrava quasi che il mondo stesse andando più lento- cosa diamine stava succedendo?
Guardò immobile, a rallentatore, il ragazzo portare entrambe le spade alla sua sinistra e menare due lunghi fendenti sul muso del cinghiale, ferendolo rovinosamente e facendolo indietreggiare irato.
Com’era possibile? Buon Dio, cosa stava succedendo? Era forse impazzita? Sarebbe finita in un sanatorio e lasciata lì a marcire per tutto il resto della sua vita come i bambini della sua vecchia scuola le ripetevano sempre?
Non riuscì a capire le immagini che le si susseguivano davanti agli occhi, ma ciò che poteva sapere con certezza era che quel ragazzo, per quanto armato ed estremamente veloce, non avrebbe mai potuto uccidere quel mostro da solo.
Dovevano andarsene e dovevano farlo anche in fretta.
Clara si alzò barcollante, la spada d’oro sempre stretta in pungo, i capelli davanti agli occhi, attaccati al volto sudato.
Avanzò qualche passo infermo e poi si scosse, costringendosi a riprendere presa sulla realtà a muoversi. Digrignò i denti per evitare che battessero dalla paura e corse incontro al ragazzo, appena in tempo per afferrarlo per un braccio e scansarlo, prima che il cinghiale lo colpisse con una delle sue zanne.
 
«Dobbiamo scappare!» gli gridò continuando a tirarlo, lo sguardo che saltava dal volto del ragazzo alla bestia sempre più infuriata.
Il giovane però la guardò senza capirla.
«Ich verstehe dich nitch! Ghe! Rette dich selbst!»
Clara si lasciò sfuggire un grido frustrato. «Non so cosa stai dicendo, ma ce ne dobbiamo andà! Quello c’ammazza!»
«Ich kann nicht mitkommen! Geh, ghe!» insistette lui strattonando il braccio per liberarsi, dandole poi subito le spalle e facendole scudo con il suo corpo.
Portò entrambe le spade davanti a sé e rimase fermo, in posizione, in attesa di cosa, Clara non lo sapeva.
Fece scorrere febbrilmente lo sguardo dal ragazzino all’animale, afferrando di nuovo il braccio del primo e facendoglisi più vicina. Con un leggero tremore tirò lentamente su la sua spada, allungandola vicino a quella argentea dell’altro.
Non poté vederlo ma il ragazzo gettò uno sguardo sconcertato alla spada d’oro, cercando di non farsi distrarre troppo e di mantenere tutta la sua attenzione sul mostro.
Rimasero fermi per poco, però, prima che la bestia decidesse di attaccarli di nuovo e Clara li tirasse entrambi fuori dalla sua traiettoria.
Riuscirono a mantenere l’equilibro e Clara tirò ancora e ancora il ragazzo verso la direzione della chiesa, urlandogli di muoversi, che dovevano andare e-
Si bloccò.
Davanti a lei, che si avvicinava lentamente, con il muso basso e gli occhi color ghiaccio puntati nella sua direzione, c’era il lupo più grande che avesse mai visto.
Doveva essere più del doppio delle dimensioni normali, era più alto di un cavallo, e Clara non dubitava che, se fosse stato possibile, anche lui sarebbe stato un’ottima cavalcatura.
Il lupo sembrava incredibilmente fuori posto, molto più del cinghiale gigante, molto più della sua spada d’oro e solo un più delle spade con i fulmini. Il pelo grigio brillava come il metallo lucido e sembrava quasi assorbire la luce del giorno.
Si accorse solo in quel momento che il cielo si era annuvolato, che il sole era scomparso dietro le nubi che ora gettavano ombre tenui sulla terra brulla.
Il ringhio basso che si levò in un crescendo costante la fece indietreggiare sino a sbattere contro il ragazzo. Avrebbe voluto voltarsi e parlargli, dirgli che ora sì che erano morti, ma tutto ciò che riuscì a fare fu alzare leggermente la spada, indicando il lupo.
Lo aveva visto? O era ancora girato a guardare il cinghiale?
Poi un altro ringhio. Ed un altro. E un altro ancora.
Clara mosse solo gli occhi, scorgendo al limitare del suo campo visivo altri lupi dal pelo marrone e nero, più piccoli di quello davanti a lei ma ugualmente fuori misura rispetto ai lupi che di tanto in tanto scendevano dai castelli per avventurarsi da quelle parti.
Non riuscì a capire quanti erano, non osò dare le spalle al lupo gigante per capire che fine avesse fatto il cinghiale, ma capì invece perfettamente quando la bestia si accucciò a terra, pronta a balzare in avanti.
Doveva averlo capito anche il ragazzo, perché l’afferrò per le spalle e la spinse a terra, facendole nascondere la faccia contro il suo petto e stringendola a sé, coprendole la testa con un braccio.
Clara chiuse gli occhi, la mano destra serrata alla maglia del ragazzo, poi li riaprì, spalancandoli a fissare, senza vederlo davvero, il filato del tessuto.
I rumori che le giunsero alle orecchie furono quelli di una lotta, di una caccia. Il grugnito del cinghiale era alto e acuto ma i ringhi ed i latrati dei lupi erano numericamente sufficienti per coprirli e soffocarli.
Ogni suono cessò poi improvvisamente con un rumore curioso, insolito.
La cosa più simile che il suo cervello riuscì a proporle fu il suono di un sacco di farina mezzo pieno che cade a terra. Un… puff?
 
Quando anche lo strano rumore si fu dissolto il ragazzo alzò la testa, allentando poi la presa su di lei, prendendola questa volta gentilmente per i gomiti e guardandola con apprensione.
Non doveva avere più della sua età, si disse Clara, all’incirca quattordici, forse quindici anni. Sembrava un ragazzino molto in forma, come lo erano i figli dei contadini che aravano i campi con i padri, ma il suo portamento, la schiena dritta, le spalle aperte, la testa alta… lo facevano sembrare molto di più un ragazzo di buona famiglia, quasi un nobile.
Aveva un volto gentile, ma la morbidezza dell’infanzia stava lasciando posto alla mascella più definita, alla linea dritta della fronte, agli zigomi alti e taglienti che rendevano ancora più acuti gli occhi blu.
 
Blu come i fulmini delle spade.
 
I capelli neri erano tenuti in un codino basso da cui erano scappate alcune ciocche. Aveva dei graffi sul volto ed era sudato, malconcio.
Eppure Clara non riuscì a staccare gli occhi dai suoi.
Il ragazzo, d’altro canto, doveva avere lo stesso problema, perché la fissava sorpreso, le pupille dilatate, immobili nelle sue.
Clara deglutì, probabilmente non era abituato a vedere gli occhi di un gatto su una persona, probabilmente non sapeva che dirle visto che non parlavano la stessa lingua.
Un rumore di passi si avvicinò in sottofondo ed il ragazzo saltò sul posto, distogliendo lo sguardo e voltandosi verso la sua destra, dove il lupo grigio lo aspettava paziente, facendogli cenno con la testa di alzarsi, di seguirlo.
Il ragazzo annuì, rendendosi conto solo in quel momento di tenere ancora stretta la giovane davanti a sé. Lasciò immediatamente cadere le braccia, sorridendole un po’ imbarazzato, piegando la testa per chiederle scusa.
Si alzò spolverandosi i vestiti, poi le porse la mano e l’aiutò a tirarsi in piedi.
Era palese che volesse dirle qualcosa ma non sapesse come fare. Si girò così verso il lupo e parlò in una lingua che Clara non aveva mai sentito.
Con sua grande sorpresa il lupo annuì, voltando il muso verso gli altri lupi, il più grande dei quali rispose con un brontolio e si avvicinò a lei, che si ritrasse spaventata.
Fu il ragazzo a prenderla per il polso sinistro, la mano ancora occupata a stringere la spada d’oro, e sorriderle incoraggiante.
 
«Hab keine angst, sie werden dich um dich kummern. Sie warden dich nicht verletzen.» disse con voce gentile e come a volerla rassicurare allungò una mano per farla odorare al lupo, sorridendole incoraggiante quando quello non gli fece nulla.
«M-mi devo fidà?» chiese confusa.
Il ragazzino gli sorrise ancora, lasciandola andare. «Ich muss jetze los.» fece un passo indietro.
Dov’erano finite le spade? Quando le aveva tolte e dove le aveva messe?
Clara si guardò attorno, poi guardò lui, senza capire.
Il giovane si allontanò, indietreggiò fino al lupo grigio e, alla cieca, immerse il braccio nel pelo fitto dell’animale.

«Ich munsche lhnen viel gluck.»
«Cosa? Cosa vuol dire? Non ti capisco.» provò lei aggrottando le sopracciglia.
Lui rise, si volse quanto gli bastò per assicurare la presa al manto del lupo e con un gesto consumato gli salì in groppa, sorridendole un’ultima volta, con quegli occhi scintillanti ipnotici e luminosi.

«Du hast schone augen.» mormorò in fine in un soffio.
 
Doveva essere probabilmente un qualche tipo di comando perché subito dopo il lupo balzò in avanti e scomparve tra le ombre dei pali di cemento.
Clara rimase a fissare il vuoto senza sapere cosa fare, senza riuscire a capire, ancora una volta, cosa diamine avesse appena visto.
 
«Stai bene, ragazza?»

Si riscosse dalla sua stasi cercando con lo sguardo il proprietario di quella voce, ma oltre a lei non c’erano che i lupi in quella vigna.
Osservò il grande lupo marrone che le si era avvicinato, che la fissava dritta negli occhi, con il muso leggermente reclinato di lato.

«Hai bisogno di sederti? Ti senti male?»
 
Era il lupo. Era il lupo che le parlava, che parlava nella sua testa.
Forse stava davvero impazzendo.
Il lupo tirò su un labbro, scoprendo le zanne sporche di uno strano liquido dorato, esibendosi in quello che Clara, per non sapeva neanche lei quale assurda deduzione, interpretò come un sorriso.
 
«No, non stia impazzendo, anche se capisco che quanto accaduto debba averti scosso non poco. Per ora cerca solo di concentrarti sul tuo corpo, senti dolore?»

Clara scosse la testa, poi annuì.
Era indolenzita, certo, ma non credeva d’aver ferite più gravi di graffi sparsi e qualche contusione.
Oh, i suoi vestiti però erano rovinati.
«Mia madre si arrabbierà tantissimo.» disse con un filo di voce.
Il lupo scosse il capo.
«Non è nulla di cui ti debba preoccupare. Le tue vesti sono l’ultimo dei tuoi problemi. Sei stata fortunata che il ragazzo stesse cacciando il cinghiale e che noi fossimo già sulle tue tracce, una spada non è molto utile se non sai come usarla.»
Lei lo guardò senza sapere cosa dire, immobile e tremante al contempo, incapace di formulare un pensiero troppo complesso.
 
«Quarto, la ragazzina è sconvolta, dobbiamo portarla al tempio e farla riposare.» disse uno degli altri lupi.
«Sì, vai avanti tu Livio, avverti il branco che stiamo arrivando e che l’abbiamo trovata. Noi ti seguiremo con calma.»
Un lupo dal pelo marrone e bianco abbassò il capo in segno d’assenso e poi corse via, sparendo velocemente nella vigna come avevano fatto l’enorme lupo grigio e il ragazzo.
Quarto, o almeno credeva fosse quello il nome del lupo che le aveva parlato fino ad ora – il capobranco? Era forse il capobranco?- le diede un colpetto con il muso contro la mano che reggeva ancora la spada d’oro.
 
«Ritirala, rinfodera la spada, meglio attirare meno attenzione possibile.»
Clara guardò l’arma come se la vedesse per la prima volta, sorpresa di stringerla ancora saldamente. In un primo momento non riuscì neanche ad allentare la presa e quando ci riuscì cercò l’aiuto del lupo per capire cosa dovesse fare, spaesata.
Quarto sembrò capirla al volo, perché le diede un altro colpetto sull’impugnatura.
«Poggia la mano sul piatto della lama e spingi come se volessi chiuderla su sé stessa.»
La ragazzina eseguì incerta e magicamente la spada si richiuse su di sé, tornando ad essere il semplice coltellino che le aveva regalato la bella signora anni prima e che lei aveva usato fino a quel momento come un qualunque coltello a serramanico.
 
«Brava bambina. Ora vieni, dobbiamo andare via di qui.»
Clara aggrottò le sopracciglia. «Andare? Dove? Io- Io devo tornare a casa, mia madre mi aspetta e…» si girò in direzione della sua casa, poteva scorgere il tetto di tegole rossastre da lì, il bordo del parapetto del terrazzo su cui aveva steso i panni per tutta la vita, fin da quando era stata in grado d’arrivare ai fili e prima, quando era troppo piccola per farlo, passando i vestiti e le mollette a sua madre.
«Non puoi tornare lì, non ora che ti hanno trovata, che sanno dove sei. Andranno altri a parlare con tua madre, a dirle dove ti trovi ora.»
«No, non posso- mamma- mia madre sarà spaventata a morte se non mi vedrà tornare, si preoccuperà tantissimo e mio padre- mio padre non è la persona migliore per calmarla, per consolarla. Io non posso andare da nessuna parte senza che i miei genitori lo sappiano, io-»
«Ma loro lo sanno, lo hanno sempre saputo. Ada sapeva perfettamente che questo momento sarebbe arrivato, che alla fine avrebbe dovuto pagare il suo debito, ridare indietro ciò che le era stato prestato.»
Clara rimase immobile, sempre più confusa, sempre più spaesata, sempre più nauseata da ciò che le stava accadendo. Le girava la testa e le stava calando addosso uno strano calore, come l’afa estiva d’Agosto.
«Come sai il nome di mia madre? Quale debito? Prestato cosa?»
Quarto la fissò con i suoi penetranti occhi gialli, stoico nella sua posizione.
 
«Io so tante cose, Clara, molte più di quante non ne sappia tu.
Tua madre espresse un desiderio, chiese qualcosa che, nella sua condizione, nessuno le avrebbe mai potuto dare. Le fu concesso ciò che voleva ma l’avvertirono che il prezzo da pagare sarebbe stata la restituzione dell’oggetto della sua brama, quando fosse giunto il momento.
Siamo stati magnanini, sapevamo quanto grande fosse il suo desiderio e le abbiamo promesso che non l’avremmo reclamato indietro finché questo non sarebbe stato in pericolo.
Quel giorno è arrivato e lei, così come tuo padre, lo sapeva perfettamente.
»
 
Clara non seppe cosa rispondere, il coltellino nella sua mano era tornato ad essere piccolo e leggero, eppure a lei sembrava improvvisamente pesare come la spada d’oro che era stato pochi attimi prima.
 
«Perché restituire?» riuscì solo a chiedere, forse perché, in cuor suo, sapeva già quale fosse il prezzo, cosa fosse l’oggetto da restituire.


Un oggetto. Come un oggetto.

 
Quarto non si mosse, ma nel suo sguardo Clara poteva leggervi le risposte a tutte le domande che aveva e anche a quelle che non avrebbe mai voluto chiedere.
 
Non era mai stata sua, vero?
 
«Perché ogni tesoro d’inestimabile valore tornerà nelle mani del suo legittimo proprietario, prima o poi
 
Non era stata neanche di suo padre, come tante volte l’uomo le aveva fatto credere.

«Perché ogni fabbro brama di riappropriarsi della sua arma migliore.»
 
Non era stata neanche di sua madre, che l’aveva amata più di ogni altra cosa.
 
 
Che l’aveva desiderata, più di ogni altra cosa.
 
 
«Non c’è grande opera destinata a rimanere nascosta al buio.»
 
La sua vita non le era mai davvero appartenuta.
 
«È giunto il momento di tornare lì dove saresti sempre dovuta essere, al luogo a cui appartieni.»
 
 
 
 
 
 
 
La luce che filtrava dalla grande apertura circolare sul soffitto della cupola divenne improvvisamente più forte. Le torce appese ai muri vibrarono come smosse da un vento fantasma. Ombre dense scivolarono sulle sculture e sui bassorilievi della Chiese della Rotonda.
Il cielo limpido di metà Maggio si incupì in un batter d’occhio, tuonando minaccioso su tutta Roma.
Gli spiriti del Pantheon mormorarono inquieti.

L’ultima profezia era appena iniziata.

 
   
 
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