(Vi avverto prima di cominciare che
questo capitolo è assolutamente inutile, avrei potuto saltarlo,ma volevo
scriverlo, è stato complicato e forse non è neanche venuto un
granché. Ho idea che le parti allegre siano tristi e quelle tristi
troppo leggere. Di solito non scrivo cose malinconiche, non mi piace, ma temo
che questo capitolo sia così. Spero che possiate apprezzarlo lo stesso.
Vi lascio alla lettura. I ringraziamenti sono in fondo)
I miei
venti metri quadrati
Capitolo
Quindicesino
L’amnesia
del Puzzle
Mio
padre ha sempre detto una cosa starna, che riguardava i ricordi della vita.
Secondo lui la vita di ogni persona è come un puzzle personale di
ricordi.
I
pezzi mancanti sono i momenti in cui si dorme, è un po’ come se il
puzzle di ognuno abbia perso dei pezzi.
Quando
ero piccola perdevo sempre tutti i pezzi dei miei puzzle, non sono mai riuscita
a finirne uno. A Mei invece piacevano, e riusciva a finirli. L’ho sempre
invidiato per questo.
Bizzarramente
quando è morto mio padre e io ho cominciato a soffrire di insonnia ho
iniziato ad apprezzarli di più.
Il
mio puzzle non ha molti pezzi mancanti.
Sabato,
13 Luglio 1996
La
signora Pavesi teneva stretti i suoi figli al petto tanto quasi da strozzarli. Rachele
torceva il naso e sembrava intenzionata a tirarle un morso da un momento
all’altro. Mini Mei tratteneva il fiato e si stringeva al braccio
cicciotto della madre.
“Mei,
per carità! Cos’è questo trabiccolo!” strillava
guardando l’acqua chiara sotto di sé.
“Si
chiama moscone, tesoro… e non si ribalterà” rispose pacato
Mei senior da dietro i suoi occhiali dalla montatura leggera.
“Ma
se uno dei bambini cade in acqua come facciamo?” strillò
preoccupata lei seduta sul sedile di legno con in braccio i figli.
“Tesoro,
credo che il pericolo più imminente per Mini Mei e Rachele sia lo
strangolamento” commentò tranquillamente suo marito remando
stancamente stando in piedi in equilibrio sul moscone bianco che si stagliava
sull’acqua limpida.
“Strangolamento?”
chiese la signora Pavesi con voce stridula.
Mattia
Pavesi fece un cenno con la testa che gli smosse il ciuffo, indicando i due
pargoli ormai fucsia.
La
signora Pavesi li guardò
entrambi e li lasciò come se bruciassero. I due caddero per terra come
due pere corte.
Mei
senior sorrise mentre Mini Mei si passava la manina tra i capelli, Rachele
sbuffava e sua moglie si guardava in giro preoccupata.
Alzò
la testa per godersi al meglio il sole. Non gli capitava spesso di andare al
mare, ma pareva che sua moglie ci tenesse davvero a fare un fine settimana marittimo
ogni tanto.
Non
amava andare al litorale, ma un moscone e una maglietta potevano essere un buon
compromesso per far felice sua moglie. Che alla fin fine si era dimostrata
più ansiosa che mai.
La
signora Pavesi si sistemò qualche capello sfuggito alla sua crocchia.
Rachele si alzò e corse da suo fratello ondeggiando e causando le enormi
preoccupazioni di sua madre.
“Rachele!
Rachele tesoro non correre” strillò mentre Mattia guardava
tranquillamente gli scogli grigi respirando tutta la salsedine che poteva.
Si
chiese quanto dovesse pesare uno di quei massi, storse la bocca impegnandosi a
immaginarsi quanti quintali potessero essere a occhio.
Rachele
saltò addosso al fratello. “Preso!!” urlò mentre lui
finiva con la guancia schiacciata al moscone dal peso della sorella.
Mei
senior aveva deciso che per quella mattina aveva remano abbastanza e non si
scompose granché quando sua moglie finì in acqua nel tentativo di
salvare, da non si sa quale pericolo, i due figli.
Rachele
e Mini Mei si raddrizzarono per guardare meglio loro madre annaspare
nell’acqua disperata.
“Oddio,
oddio, Mei aiutami! Annego! Annego!” strillò sguazzando e
schizzando tutti i suoi famigliari, dei quali solo Mini Mei si asciugò
la faccia, gli altri due rimasero impassibili.
Mei
senior tirò fuori dalla tasca dei bermuda gialli a righe un pacchetto di
sigarette e se ne accese una ignorando la moglie che invocava il suo aiuto.
“Mei,
oddio! Oddio Mei! Aiuto!!” strillava disperata annaspando.
Pavesi
senior sbuffò fumo prima di rivolgersi pacatamente alla consorte.
“Tesoro,
se ti fermassi un attimo ti accorgeresti che c’è mezzo metro
d’acqua ed è impossibile annegare”.
La
signora Pavesi appoggiò le mani al fondo sabbioso e sbatté
qualche volta le palpebre.
“Ehm…
già… non me ne ero accorta” disse alzandosi imbarazzata e
scrollandosi la sabbia di dosso.
“Tesoro
ti serve una vacanza dalla vacanza… le ferie non ti fanno bene”
fece tranquillamente suo marito ricominciando a remare dopo che la moglie era
risalita.
I
pargoli si misero a sedere coi piedi a mollo nell’acqua e quando Rachele
fece cadere suo fratello in mare la signora Pavesi quasi non se ne accorse,
tornarono a prenderlo venti minuti dopo.
“Mei
quando smetterai di fumare?”
“Quando
morirò, e ho intenzione di non andarmene tanto presto. Quindi credo che
dovrai abituarti al fumo passivo,Tesoro”
Lunedì,
15 Dicembre 1997
Mini
Mei fissò lo schermo del computer ultimo modello che suo padre aveva
comprato. Si avvicinò per vederlo da vicino, e poi si allontanò
per avere una visione più completa, c’era evidentemente qualche
cosa che lo turbava. Si grattò il mento dondolando i piedi che non
toccavano per terra dall’alto della sedia a rotelline del padre.
“Papà?”
cinguettò voltandosi verso il padre che fumava con la testa fuori dalla
finestra. Mattia Pavesi
sussultò e si voltò verso il figlio più silenzioso, spense
la sigaretta nella piantina sul davanzale e si avvicinò a lui.
Gli
sembrava già di sentire la voce di sua moglie “Me le uccidi tutte
le mie piantine con le tue accidenti di sigarette! Dovresti smetterla di
fumare!”. Ridacchiò sotto i baffi e si interessò a Mini Mei
che lo guardava dal basso.
“Hai
messo una password?” chiese increspando le labbra e aggrottando le
sopracciglia. Mei alzò le spalle.
“In
internet ci sono un sacco di cose che i bambini non dovrebbero vedere. Potrai
andare in internet quando riuscirai a scavalcare le password”
spiegò suo padre con il ciuffo indisciplinato e gli occhiali leggeri che
gli scivolavano.
Mini
Mei sbatté le palpebre un paio di volte perplesso. Mei sorrise e lo
lasciò solo col computer.
Era
uno delle sue filosofie, se sei in grado di raggiungerlo sei anche in grado di
usarlo al meglio.
Si
fermò a guardare la sua secondogenita che invece giocava con una specie
di grosso topo di peluche.
“A
te non piacciono i computer?” chiese anche se la bimba non gli dava la
ben che minima attenzione.
“No,
a me piacciono gli opossum, vado a inseguirli al parco a volte” rispose
senza degnarlo di uno sguardo e facendo deambulare il suo peluche sulla
cassettiera.
Mei
storse il naso “Tesoro, in Europa non ci sono opossum, quelli che
rincorri tu sono ghiri” spiegò dolcemente.
Rachele
gli cacciò un’occhiataccia e strinse la mano sul suo peluche.
“No,
sono opossum”
“Ghiri”
“Opossum”
“Ghiri”
“Opossum”
“Ghiri”
“Opossum”
“Ghiri”
“Opossum”
“Ghiri”
Rachele
si voltò verso il suo cesto dei giochi e ne estrasse una pistola ad
acqua colorata “Opossum” disse decisa puntando l’arma di
plastica contro il padre.
Mei
piegò la testa da una parte “Lo sai che mi hai convinto, credo
anche io che siano opossum, tesoro”.
Rachele
sorrise e cacciò il suo giocattolo in un angolo continuando a divertirsi
col peluche. Si voltò a guardare il suo grande dato che la figlia lo
ignorava bellamente.
“Mini
Mei, lascia perdere quel computer e vai a giocare con qualche cosa
d’altro, non ci puoi riuscire”disse prima di vedere
l’intestazione Google.
Sbatté
le palpebre e lo guardò sottecchi abbassandosi un po’ gli
occhiali.
“Ho
preso il tuo portatile, l’ho configurato, l’ho attaccato a questo
computer e sono entrato” spiegò lui semplicemente alzando le
spalle.
Mei
fece un sospiro e l’unica cosa che riuscì a dire “Tesoro?! I
nostri figli stanno prendendo il potere!”
Sabato,10
ottobre 1998
Rachele
e Mini Mei erano seduti nel retro dell’auto famigliare che i signori
Pavesi avevano comprato quando si erano sposati, e che ormai era passata di
moda.
La
signora Pavesi appoggiò la sua borsa nel sedile del passeggero accanto
al suo. Aspettando che un fuoristrada si spostasse da dietro la sua vettura per
poter fare retromarcia e uscire in fretta dal parcheggio dell’ospedale.
“Allora,
bambini” cominciò con la voce che le tremava “il Papà
non c’è più, d’ora in poi saremo solo noi tre”
concluse con un singulto.
“Puoi
dirlo che è crepato, lo riusciamo a capire” disse seria Rachele
serrando la mascella subito dopo.
Sua
madre ebbe un singulto e non si voltò a guardare i figli mentre faceva
finta di cercare qualche cosa nella borsa.
“Rachele
Tesoro… forse è la mamma che non riesce a dirlo…”
rispose con voce tremante.
Rachele
si appoggiò alla spalla del fratello piangendo silenziosamente. Mini Mei
storse la bocca poi alzò la testa e disse semplicemente “Mamma,
andiamo a casa?”
La
signora Pavesi sospirò e mise in moto l’auto.
Lunedì,
12 ottobre 1998
Mini
Mei trovava che i funerali fossero inutili, soprattutto perché la
metà delle persone che erano in chiesa non credevano in Dio. Suo padre
compreso. Suo padre non credeva nemmeno nella vita dopo la morte, tanto valeva
seppellirlo subito. Ma alla fine erano finiti tutti in chiesa ad ascoltare un
vecchio prete parlare di lui anche se non lo conosceva.
Quando
finalmente erano riusciti a uscire sua sorella Rachele gli aveva lasciato
andare la mano e aveva continuato a camminare da sola per evitare tutte le
condoglianze e gli abbracci. Mini Mei avrebbe giurato di aver sentito un paio
di vecchietti intrattenersi parlando di prostata e problemi alla sciatica.
Sua
madre non aveva versato neanche una lacrima, ma aveva respirato forte tutto il
tempo. Mini Mei con una mano teneva sua sorella, con l’altra scrostava la
vernice della panca su cui era seduto per vedere cosa c’era sotto. Aveva
pianto prima, e non voleva ascoltare quello che dicevano, e i canti erano
così lugubri. La panca era molto più interessante.
Ma
finalmente erano usciti.
Rachele
che stava quasi correndo via, seguendo sua madre che teneva per mano suo
fratello si sentì chiamare.
“Rachele?”
si voltò facendo la ruota coi capelli castano scuro. Un ragazzino della
sua età con i piedi tenuti all’indentro, in una posizione
innaturale, e il capo reclinato da una parte le restituì lo sguardo.
Più
o meno era alto come lei, era magrolino, con i capelli e gli occhi scuri, la
pelle era ambrata e il ciuffo di capelli gli cadeva fastidiosamente in mezzo
alla fronte.
In
tutto quel nero, era colorato, maglietta viola, giubbino giallo, pantaloncini
verde pisello che gli arrivavano sopra al ginocchio. Un piccolo arlecchino con
le scarpe impolverate.
“Cosa
ci fai tu qui? Oggi non vengo a cacciare gli opossum” disse lei
scorbutica, con la gola che le bruciava per aver pianto fino a poco prima.
Joyce
notò perfettamente gli occhi gonfi e il naso arrossato, ma non disse
nulla.
“Ero
venuto…a salutarti… ho saputo…” era maledettamente
complicato da dire e lui si torceva le mani in grembo.
“Come
l’hai saputo?” chiese la bambina seria e immobile come una statua
di cera. Joyce sobbalzò.
“C’era
scritto sul necrologio” spiegò. Rachele arricciò il naso.
“Tu
leggi i necrologi?” chiese perplessa. Joyce si strinse nelle spalle
“Non io, mia sorella Emily… dice che sta cercando un
ereditiere… non chiedermi cos’è perché non lo
so”.
Rachele
increspò un poco la bocca, non era un sorriso, ma non era neanche una
statua di sale.
“Lo
andrai a trovare?” chiese il bambino. Rachele fece una smorfia
“Tanto è morto…”
Joyce
si strinse nelle spalle “Non lo so, nei fil americani fanno
così!”. Lei lo guardò per un lungo secondo.
Sospirò
prima di girarsi “Ci vediamo al parco per cacciare gli opossum”
disse prendendo subito a correre verso sua madre.
Domenica,
15 novembre 1998
La
prima volta che Rachele approdò a casa Cumoli suonò il
campanello. Le prime persone che vide furono due ragazzine che non conosceva.
Una era più alta, Emily, dodici anni, quattro in più di Joyce,
aveva il nome della Dickinson, chiunque fosse questa Dickinson di cui lui
parlava, aveva i capelli lunghi fino alle spalle e un cerchietto azzurro,
crescendo se li sarebbe tagliati inesorabilmente a caschetto e avrebbe
sostituito l’azzurro con un immancabile rosso.
L’altra
era più piccola, Jane, un anno in meno di Joyce, sette anni, come lei.
Portava i capelli cortissimi quasi da sembrare un maschio, crescendo, in modo
inversamente proporzionale a quelli di sua sorella li aveva fatti crescere
all’inverosimile, tanto da avere due grosse trecce che le arrivavano quasi
al sedere.
Entrambe
avevano i capelli e gli occhi scuri come loro fratello, chissà che non
fosse disdicevole per degli Irlandesi essere mori, probabilmente avevano preso
dal loro occhialuto padre che Rachele intravide passare da una camera
all’altra con un salto felino venuto male e delle pantofole scozzesi.
All’epoca
Abigail Cumoli se ne era tornata in Irlanda da un pezzo e faceva poche visite.
Le
due non si presentarono, ma parlarono in coro, come se si fossero preparate la
scena, seppe dopo che era venuta così per caso “Tu devi essere
quella che chiama di notte. Nostro padre ha comprato un cellulare a Joyce,
così d’ora in poi potrai chiamare a lui senza svegliare anche
noi”
“Ok”
rispose Rachele vagamente intimorita dal bizzarro corteo di benvenuto. E per quel
giorno fu l’unica cosa che si dissero.
Martedì,
2 gennaio 2001
Joyce
dondolò i piedi seduto su uno sgabello in vimini vicino alla vetrata del
salone. La casa della mamma era molto più bella di quella che aveva in
Italia, ma in Irlanda pioveva sempre, ed era sempre più freddo.
In
particolare fuori, oltre il vetro e la veranda piena di vasi con fiori finti,
pioveva a dirotto.
Sua
madre amava i fiori, e non poteva sopportare di non averli d’inverno per
colpa delle temperature rigide.
Darcy
correva per casa come una pazza rincorrendo un minuscolo cagnolino. Suo
fratello non avrebbe saputo dire di che razza era, forse era un incrocio.
Darcy
era riccia, coi capelli castano chiaro e degli occhiali tondi e infrangibili
saldati alla nuca con un elastico giallo di gomma.
Joyce
si grattò la pancia coperta da una maglietta con sopra scritto My best friend is a leprechaun.
Era
una stupida maglietta per turisti, ma sua madre l’aveva comprata
perché in aeroporto gli avevano perso la valigia.
Darcy
aveva cinque anni, ed era estremamente rumorosa, sua madre invece era in cucina
a smuovere pentole.
Non
è che cucinasse, smuoveva e basta. Ne uscì con passo stanco, la
sigaretta in mano e guardò suo figlio appoggiata allo stipite della
porta.
“Sei
proprio carino Joyce, è un
peccato che tu viva in Italia”disse, e in quel momento , sotto ai
capelli rossi, a Joyce sembrò estremamente vecchia. Sorrise “Grazie”. Poi si
voltò a guardare sua sorella che tirava la coda al cane che del canto
suo guaiva disperato.
“Darcy
è un nome da maschio” proferì senza un nesso con la
conversazione precedente. Sua madre alzò le spalle “No, è
sia maschile che femminile”.
Joyce
storse la bocca “E’ uno scrittore?” chiese conoscendo le
propensioni letterarie della genitrice.
Sua
madre si guardò intorno con aria sognante “No, è un
personaggio della Austen” spiegò.
“Quella
di Jane?” sua madre annuì.
“Posso
farmi un tatuaggio?”
“Quando
sarai maggiorenne tesoro” rispose sua madre con aria sognante come al
solito, andando a raccogliere la piccola Darcy che era caduta per terra e si
era messa a frignare.
Lunedì,
16 luglio 2001
Era
appostata da un secolo dietro quello stupido cespuglio. Le facevano male le
gambe, in quella scomodissima posizione.
E
la tempera blu che quell’idiota di Joyce le aveva ribaltato in testa si
era seccata, appiccicando i capelli tra loro.
Ma
non le importava granché, era appostata lì da dopo pranzo, un
opossum sarebbe uscito prima o poi e
lei sarebbe stata lì con la sua macchina fotografica.
Diede
un’occhiata alla bottiglia d’aranciata che aveva appoggiato li
accanto e a un suo ciuffo particolarmente appiccicato di blu.
Ci
contava che l’opossum uscisse, e infatti, un musino baffuto spuntò
dal un cespuglio poco lontano da lei. Aprì gli occhi il più
possibile, come per vedere più particolari possibili.
Ma
il musino scomparve come era arrivato, e al suo posto arrivarono un paio di
scarpette di vernice nera. La proprietaria urlava ai quattro venti, “A
Marilena piace Andrea!!” strillava la padrona delle scarpe, una ragazza
coi capelli castano chiaro.
“Stai
zitta! Stai zitta Nicoletta!!” strillava disperata la ragazzina mora che
la inseguiva ormai paonazza in volto. La sua amica castana invece rideva
rumorosamente.
Rachele
si alzò dal cespuglio smuovendolo e facendo saltare in aria parecchie
foglie, come se fosse esploso qualche cosa.
“Che
cavolo stai facendo! Spaventi gli opossum con quella voce da
cornacchia!!” strillò adirata puntandole il dito contro.
“Parlerò
con te quando avrai un colore di capelli lontanamente normale!” le
rispose strafottente con un ghigno che a Rachele non piacque per nulla.
Fu
così che le finì addosso tutto il contenuto della bottiglietta di
aranciata, inaugurando i famosi gavettoni
al succo. E iniziò l’odio vicendevole.
Venerdì,
24 agosto 2001
Rachele
si passò la lingua sulle labbra e si riavviò i capelli dietro
l’orecchio prima di afferrare il biscotto che troneggiava in cima al suo
gelato e usarlo come cucchiaino.
Cioccolato
e fior di latte. Non capiva come certe persone potessero prendere i gusti di
gelato alla frutta, le parevano una bestemmia. Fu con disprezzo misto schifo
che si voltò alla sua sinistra per guardare il gelato dell’amico
di colore rosa/giallo, ovvero fragola e limone. Joyce dal punto di vista dei
gelati bestemmiava spesso. Una volta aveva preso il gusto fico e mango. Era incredibile quello che riuscivano a inventarsi i
gelatai, una volta in una gelateria del centro storico aveva trovato il gusto
millefoglie. Alla gelateria del parco c’era anche il gusto formaggio e
fichi, né lei né Joyce avevano avuto il coraggio di assaggiarlo.
Era invece il cavallo di battaglia di Emily, la sorella di Joyce, Emily piena
di braccialetti colorati, Emily che legge i necrologi, Emily che segue gli
andamenti della borsa, Emily che ha quindici anni e sogna di farsi mantenere da
un miliardario.
“Mia
sorella si è portata un tipo strano a casa ieri, dai capelli sembrava un
gallo, e ha cacciato mia sorella Jane dalla camera, così lei si è
lamentata tutto il pomeriggio” raccontò lui intento in una dura
lotta col gelato, buona parte della fragola franò sull’erba.
“E
si baciavano?” chiese Rachele con un’aria saccente che Joyce non
interpretò subito.
“Sì
che si baciavano! Ma non come tu hai baciato al campo estivo quell’idiota
di Pollini, dico un bacio vero!” sbraitò Joyce facendo girare
diversi vecchietti intenti a giocare a bocce.
“Senti,
la pianti di parlare di Pollini? Ti ricordo che tu hai dato un bacio a quella
… cosa…
“Ah
perché tu sei meglio?” sbottò Joyce strafottente.
Rachele gli stampò un bacio sulla
bocca a labbra e occhi serrati, e per poco non gli diede una testata. Del canto
suo Joyce fece cadere un po’ di gelato al limone, tanto per bilanciare la
precedente perdita di fragola.
“Cavolo
che schifo! Come fai a mangiare quella roba!” sbottò lei pulendosi
la bocca col braccio.
“Sei
tu che mi hai baciato!” la rimbeccò lui un po’ stizzito
“E poi quello non era un bacio, questo è un bacio!” continuò
prendendola per le spalle.
Rachele
trattenne il respiro e gli strinse il braccio , mentre più in basso gli
tirava un calcio negli stinchi.
“Oddio
che schifo! La lingua tienila nella tua di bocca! Per la miseria, mi è
sembrato di baciare una lumaca!” strillò lei attirando
l’attenzione delle vecchiette che facevano la maglia. D’inverno se
ne stavano dalla parrucchiera a parlare di tumori, incidenti e altre simpatiche
disgrazie, ma d’estate per il caldo
erano costrette a rifugiarsi al parco, e anche i bisticci di due
ragazzini che non avevano ancora cominciato le medie potevano essere
interessanti.
“Hai
cominciato tu!” la rimbeccò lui. Fu colpito da un’infradito
e il suo gelato finì definitivamente per terra.
Domenica,
23 novembre 2003
Il
signor Michelini voleva che lui tagliasse l’erba, gli avrebbe dato dei
soldi, che di certo non avrebbero guastato, poteva comparsi un videogioco.
Sì, sicuramente li avrebbe impiegati così.
Ma
prima doveva riuscire a modificare quell’affettatrice a cui aveva appena
smontato la copertura.
Il
signor Michelini gli aveva fornito una specie di falce, ma ci avrebbe messo un
secolo per tagliare tutto il prato con quell’arnese, e non aveva trovato
nulla di più simile a un tagliaerba di quell’affettatrice lasciata
affianco al bidone.
Non
era nuovissima, ma funzionava ancora. Se la rigirò tra le mani e spinse
l’accensione per vedere se partiva.
L’affettatrice
cominciò a ronzare, seguita a ruota da un dolore incredibile alla mano
destra.
Mei
fu percorso da un brivido, si guardò la mano destra ricoperta di un
innaturale liquido rosso. Fu scosso da un altro brivido quando si rese conto
che mancava qualche cosa. Perché diamine non aveva più la prima
falange del medio? E fu a quel punto che cominciò a sentire davvero
male.
Più
tardi Rachele attraversò con passo stanco mezzo ospedale prima di
trovare sua madre che parlava con un medico sulla porta di un ambulatorio. Non
si fece notare e vi si infilò dentro.
All’interno
era tutto bianco quasi in maniera accecante, l’unica nota scura era suo
fratello seduto sul lettino bianco, che indossava un giubbotto scozzese dai
toni scuri, creato da sua madre ovviamente.
La
guardò con aria colpevole dondolando le gambe.
“Allora
adesso sei senza un dito?” chiese increspando le labbra. Mei fece un
sorriso e mostrò la mano bendata e macchiata di liquido scuro.
“Me
l’hanno riattaccato” spiegò contento “Il medico dice
che dato che mi sono tagliato solo la prima falange c’è una buona
possibilità che torni esattamente come prima”
“Te
l’hanno riattaccato?” ripeté Rachele perplessa, e da quando
si riattaccavano le dita?
“Beh,
sì, è una cosa relativamente semplice, ma ho dovuto ritrovare il
pezzo di dito che mi era saltato via, metterlo in un sacco impermeabile e
chiuderlo bene per poi sistemarlo in un sacco con del ghiaccio per
conservarlo” illustrò. Sua sorella si accigliò “E tu
come diavolo lo sai?”
Mei
alzò le spalle “Rudimenti di medicina”
Rachele
alzò gli occhi al cielo “E io do la caccia agli opossum,
mah”
Mei
deglutì e le puntò contro il dito fasciato di fresco “A
riprova di ciò che è successo: non giocherellare mai con le
affettatrici e non buttare mai del sodio nell’acqua”proferì.
“Che
c’entra il sodio con fatto che il tuo dito è schizzato via?”
sbottò Rachele. Mei alzò le spalle “Rudimenti di
chimica?” chiese incerto. Sua sorella sospirò.
Martedì,
27 gennaio 2004
“Joyce
si sta facendo la doccia” disse Emily strascicando la voce.
Rachele
era entrata in casa Cumoli usando la chiave che in famiglia erano soliti tenere
sotto lo zerbino, e si era stravaccata sul divano salutando stancamente Emily
intenta ad analizzare un giornale che titolava Come diventare ricchi.
Inizialmente
la ragazza aveva fatto finta di non badare granché alla nuova venuta, ma
poi sottecchi aveva iniziato a spiarla con aria beffarda, e tutte le volte che
incrociava il suo sguardo si fingeva nuovamente interessata alla sua lettura.
“Diamine
Emily, che c’è?”sbottò infine Rachele. Emily si
strinse nelle spalle e guardò il soffitto, poi le pentole e infine lei.
Rachele sbiancò e sbraitò visibilmente imbarazzata “Te lo
ha detto? Te lo ha detto?”.
Emily
soffocò una risatina nel maglione mentre Rachele diventava paonazza e
distoglieva lo sguardo. “Non pensavo che vi dicesse certe
cose!”sbuffò Rachele.
La
ragazza seduta al tavolo alzò le spalle mentre i suoi capelli a
caschetto e la frangia cortissima rimanevano immobili come fatti di marmo
“Ma infatti non ce le dice” proferì sibillina “ o
almeno non di sua volontà. Io e Jane abbiamo un’insana passione
per la tortura” spiegò tranquilla sfogliando il suo giornale,
più per scena che per reale interesse agli articoli. Aveva trovato un
argomento molto più divertente.
“Allora
come è andata?” chiese sogghignando.
“Da
schifo”ammise Rachele un po’ scocciata. Emily ridacchiò.
“La prima volta fa sempre schifo”disse.
“Non
era la prima volta!” soffio stizzita.
“Se
lo racconti a mia nonna Ealga che è arteriosclerotica e si ostina a
chiamarmi Abigail come mia madre, magari ti crede!” continuò Emily
tranquilla.
Rachele
mise il muso. “Joyce ha detto che è stato per
scommessa…” cominciò a dire lasciando in sospeso la frase.
“Già,
diceva che l’aveva già fatto ma non gli credevo” ammise la
ragazzina. Emily annuì fintamente fingendosi ammirata.
“Magari
fate delle scommesse che almeno uno dei due può vincere” concluse
rimettendosi a leggere il suo giornale economico.
Martedì,
29 marzo 2005
“Un
etto in meno, un etto in meno, solo un etto in meno ti prego, ti prego”
diceva sottovoce Nikka in mutande chiusa in bagno, come se fosse una preghiera.
La
bilancia se ne stava minacciosa e bianca davanti a lei pallina e infreddolita,
coi piedi nudi sulle piastrelle fredde.
“Nicoletta,
per la miseria! Esci da quel bagno! Hai intenzione di piantare le tende li
dentro e dormire nella vasca?”urlò con poco garbo sua madre oltre
la porta sottile. Nikka si attaccò alla porta a aprendola un poco; tanto
per far spuntare un occhio.
“Ho
quasi fatto mamma, cosa c’è?”sussurrò.
“Damine
Nicoletta! Cosa hai fatto ai tuoi bei capelli? Che colorino insulso è
questo?”sbraitò sua madre, una donna decisamente rustica, per così dire.
“E’
un colore carino mamma! Mi facevano schifo quegli stupidi capelli castano topo!
E poi pensa se avessi come figlia
“Ah,
comunque sbrigati,devi andare a scuola a pagare la gita scolastica, mica vi
mandano a Vienna gratis! Me li ha dati tuo padre, ogni tanto si ricorda che ha
una figlia, quell’idiota!” disse appioppando alla figlia una
mazzetta di banconote e girando i tacchi.
“Sempre
con quella SE-RE-NI-TY!” sputò il nome come se fosse veleno.
“Si
chiama Selena, mamma, non Serenity” disse, a lei non stava poi
così antipatica la nuova fidanzata di suo padre. Sua madre sbuffò
e scomparve in cucina.
Nikka
diede un’ultima occhiata alla sua acerrima nemica, la bilancia e poi
uscì in punta di piedi chiudendosi la porta del bagno alle spalle.
Non
ci mise molto a vestirsi e non si truccò molto. Uscì salutando
sua madre con un gesto frettoloso e stringendosi al petto la borsa. Fuori
faceva un freddo invernale, nonostante fosse marzo e ormai dovesse iniziare la
primavera il clima non accennava a volersi riscaldare.
Camminò
decisa verso la scuola , passi veloci e furtivi, avere tutti quei soldi addosso
la metteva in agitazione.
Schivò
un venditore ambulante, un hippie che distribuiva abbracci, e liquidò in
fretta un’amica di sua madre che aveva tutta l’aria di volersi
fermare a parlare con lei. Tirò dritto finché la strada non svoltò
a destra, e anche lì per un secondo stava per continuare a camminare, ma
una forza quasi sovrumana la costrinse a fermarsi e a fare retromarcia.
Questa
forza sovrumana era lucente, trasparente e piena di meraviglie. Questa forza
era comunemente chiamata Chanel.
Nikka
si attaccò al vetro, quasi spiaccicandoci il naso contro. Gli occhi le
si erano aperti a dismisura.
Era
tutto così bello, così lucente, e così dannatamente costoso.
Un
vestito a frappe se ne stava stentoreo nel bel mezzo della vetrina circondato
da luci intensissime. Più a destra una borsa trapuntata, una fantastica
borsa con il manico a catenella.
Nikka deglutì, quanto avrebbe voluto quella borsa…
Guardò
il prezzo, esorbitante, tutta via l’importo esatto che avrebbe dovuto
pagare per la gita, deglutì ancora. Non poteva spendere i soldi che suo
padre gli aveva dato per la gita, in una borsa, no non poteva affatto. Sta di
fatto che entrò lo stesso.
Sabato,
23 dicembre 2005
Mei
si mordicchiava l’unghia del pollice mentre leggeva l’esercizio di
matematica. Aveva capito benissimo come risolverlo, ma voleva vedere se per
caso c’erano altri modi per farlo. Rachele leggeva un giornale di moda
lasciato sul divano da sua madre. E la signora Pavesi girava tranquillamente il
cucina con grembiule e guanti da forno, intenta a preparare i primi piatti di
Natale. Da quando Mei e Rachele avessero memoria il Natale si era sempre
festeggiato a casa loro, e tutti i parenti, in trasferta venivano a casa Pavesi.
Tuttavia
nessun membro della famiglia si era accorto che in cucina c’erano due
frigoriferi.
O
meglio, Rachele si era accorta che qualche cosa era cambiato, Ma non aveva
avuto la pazienza di farci caso. Era come i giochi delle differenze
sull’enigmistica, una cosa tremendamente noiosa.
Fu
traumatico quando la signora Pavesi aprì il congelatore del frigorifero
sbagliato, e da questo non uscì ghiaccio, bensì fuoco!
Ci
fu una vampata, qualche capello bruciato e un urlo disperato della mamma. Rachele
sobbalzò e fece cadere il giornale e Mei alzò la testa dalla sua
matematica sgranando gli occhi.
“Mamma?”
chiese basito.
Sua
madre atterrita si era appiattita sul pavimento, mentre il portello del frego
si era richiuso da solo. Aveva il fiatone come se avesse fatto una gran corsa,
e qualche capello bruciacchiato.
“MEI!”
strillò disperata “Cos’è quella diavoleria? Volevi
uccidermi?”
Mei
a bocca aperta per lo stupore boccheggiò, che fosse colpa sua era ovvio,
Rachele non sarebbe mai stata capace di mettere in piedi un arnese del genere.
“Mamma,
non pensavo… non pensavo che avrebbe avuto un effetto del genere…
volevo collegarlo via etere col pc!”cercò di scusarsi.
La
signora Pavesi ansimò ancora seduta per terra con gli occhi fuori dalle
orbite.
Per
un mese buono tutte le volte che doveva aprire il frigo si metteva una maschera
da saldatore per precauzione. Non era un bel vedere, e a Natale tutti i parenti
rimasero perplessi.
Lunedì,
16 gennaio 2006
Rachele
si accese una sigaretta con lo zippo, seduta sui gradini davanti alla porta del
condominio, poteva fumare, sua madre era appena uscita a fare la spesa, e non sarebbe
tornata prima di un’ora, perciò poteva fumare quanto le pareva
senza essere vista. Joyce sarebbe arrivato a momenti per portarla non aveva
capito dove, con quello stupido lambrettino raccattato nel garage del vicino.
La
signora Pavesi riapparse all’improvviso,dato che aveva scordato la lista
della spesa, Rachele non fece in tempo a nascondere le prove del misfatto,
anche perché rimase completamente impietrita con la bionda in bocca.
Le
due si guardarono, sua madre a bocca aperta, lei a bocca serrata.
“Rachele!”
esclamò sua madre “Tu, tuo padre ci ha messo così tanto per
smettere e.. e..”non era vero, suo padre aveva fatto finta di smettere,
poi ci aveva rinunciato ed aveva ricominciato a fumare in pubblico, ma questo
la signora Pavesi non lo sapeva.
Furono
interrotte dalla signora Michelini che uscì rumorosamente dalla porta
d’ingresso senza accorgersi minimamente della tensione che si era creata.
“Oh,
signora Pavesi, scusi se la disturbo, ma sa avrei bisogno di una mano con il
water, mi si è di nuovo otturato. Chiederei a mio marito, ma purtroppo
è a Madrid per lavoro, mi chiedevo se quel suo parente così
simpatico che viene sempre a trovarla per Natale mi potesse aiutare”, lo
zio Michele, che a ogni Natale si ubriacava follemente.
La
signora Pavesi fece un sorriso amabile e le indicò Rachele “Sono
sicura che Rachele vorrà darle una mano gratuitamente”.
Rachele
fece un sorriso tirato di circostanza.
Mercoledì,
20 agosto 2008
Faceva
un gran caldo, Joyce era tornato dalla fresca Irlanda, e insieme lui e
l’irascibile Rachele se ne era andato al parco a mangiare il gelato. Lei
non l’avrebbe mai ammesso, ma forse un po’ le era mancato.
Da
quando era piccola i gusti di Rachele in quanto a gelato non erano
granché cambiati, Joyce invece nell’ultimo periodo optava per
gusti dai colori imbarazzanti quali puffo e chewin gum. Il cui sapore tra
l’altro era tristemente simile.
“Sei
imbarazzante mentre mangi quella roba. Anzi, tu sei sempre imbarazzante, con
quella collana di fiori simil hawaiani e quella stupida utilitaria verde
Irlanda” sbottò non per vero odio ma per abitudine.
Joyce
non parve affatto offeso, ma ribatté dicendo “Sai cosa sarebbe
imbarazzante? Se ti schiacciassi il gelato sui capelli” disse civettuolo.
“Non
ne avresti il coraggio!” sentenziò lei altera. Joyce
ridacchiò “E tu non avresti il coraggio di tingerti i capelli di
blu elettrico” la provocò.
La
ragazza si incupì e allungò la mano verso di lui
“Scommettiamo?”
Joyce
sorrise e l’afferrò “Scommettiamo”
Sapeva
benissimo che Rachele l’avrebbe fatto, solo, gli piacevano i capelli blu.
Venerdì,
18 dicembre 2008
“Oh,
sì, tu non hai idea di quanto sia bello il vestito che ho fatto per la
spagnola che abita nel nostro palazzo, Rachele dice che ci sono troppi fiori,
ma lei mi è sembrata molto soddisfatta!” esclamò contenta
la signora Pavesi fumando e passeggiando tranquillamente davanti alla lapide
del marito.
“Sono
sicura che il matrimonio sarà un successone, e poi lei è una
così cara ragazza!!” sospirò guardando distrattamente le
lettere incise sul marmo.
“Oh,
e non dire a Rachele che fumo quando sono con te” si interruppe per
ridere “sai quando l’ho beccata a fumare le ho fatto pulire tutti i
cessi del condominio” altra risata sguaiata e un po’ forzata. Nel
silenzio risuonava solo la sua voce.
Fece
un sospiro “Mi manchi Mei, mi manchi tanto”. Spense la sigaretta in
un portacenere che aveva poggiato sulla lapide. Era convinta che a lui non
desse fastidio il fumo, e forse lo faceva sentire ancora un po’ vivo. Si
strinse nel cappotto e se ne andò mentre dalla foto Mattia Pavesi
guardava il vuoto del cimitero.
Mattia Pavesi 1959
– 1998 La moglie e i figli lo piangono
inconsolabili.
Avrebbero
voluto scrivere qualche cosa di diverso, qualche cosa di solo suo. Ma non gli
era venuto fuori nulla, e il marmista aveva fatto di testa sua.
Bussai
alla porta che conoscevo tanto bene, e questa si aprì rivelando un Joyce
in mutande.
“TI
va di andare al cimitero?” chiesi cupa. Lui fece una faccia strana
“Credo di essere ancora troppo giovane per morire” ironizzò
lui con un risolino.
Voltai
i tacchi senza dire nulla, miravo alla fine del corridoio e alla porta
d’uscita di casa Cumoli,ci sarei andata da sola.
Joyce
sobbalzò e starnazzò un “Vengo, vengo, lo so che vuoi
andare a vedere tuo padre! Ma io proprio non capisco, non ci va mai nessuno al
cimitero, solo nei film americani c’è la gente che parla con le
lapidi!”
Si
infilò al volo una maglia e mentre saltellava giù per la tromba
delle scale si mise i pantaloni. La portinaia che stava pulendo le scale gli
squadrò anche il sedere prima che riuscisse a coprirselo con i calzoni.
Lui non ci fece caso.
Camminammo
in silenzio per il cimitero, lui mi seguiva a poca distanza. Per una volta
nella vita si era vestito come una persona normale. Forse almeno ai morti
portava un po’ di rispetto.
“Oh!
Un Opossum!” sussurrò quando fummo ormai davanti alla tomba di mio
padre, non mi voltai ma dissi “Non è un opossum, è un
ghiro, gli opossum non ci sono in Europa”
Joyce
si accigliò “Quindi noi fino ad adesso…” non
finì la frase, la completai io al posto suo “…abbiamo
cacciato ghiri, esattamente. Me lo ha detto mio padre”.
Joyce
fece una smorfia “Ci hai fregato anche sta volta vecchio
volpone!” commentò
rivolto alla lapide.
Spostai
un portacenere che se ne stava sulla lapide di mio padre.
“Diamine!
Chi cavolo è che fuma qui?!” sbottai scocciata.
“Magari
è tua madre” blaterò Joyce senza il minimo di senso.
“Non
dire cavolate, mia madre non fumerebbe mai!” proferii io.
A
volte mi manca …papà…
Eccoci arrivati a fine capitolo, spero che vi
possa essere piaciuto anche se è un po’ diverso dal solito ed un
po’ malinconico. Ringrazio moltissimo tutte le persone che sul forum
hanno risposto alle mie molteplici domande(opossum, dita mozzate e chimica) aiutandomi
a scrivere un capitolo verosimile.
Passando in dettaglio Mini Mei che sorpassa le
password per quanto piccolo credo che non sia una cosa così straordinaria.
Ho sentito di un bambino che aveva fatto una cosa del genere più o meno
a sei anni.
Il capitolo è stato scritto
principalmente perché volevo un po’ infilare il signor Pavesi, che
nell’ultimo periodo ho preso in simpatia, e pensare che all’inizio
non gli avevo neppure inventato una faccia.
Inoltre anche per raccontare un po’ il
rapporto tra Joyce e Rachele.
Ci sarebbero stati un sacco di altri aneddoti,
ma non volevo appesantire troppo il racconto, che già mi è
sembrato pesante così.
Ringrazio infine chi ha messo la storia tra i
preferiti e i seguiti e ovviamente chi ha commentato:DarkViolet92(Grazie!!),
The Corpse Bride ( beh, direi che avevi più o meno indovinato…^.^
mi fa piacere sapere che segui ancora la mia storia, i tuoi commenti sono
sempre piacevolissimi), DiraReal (hai detto una cosa bellissima, mi piacerebbe
tantissimo pubblicare *.*grazie mille davvero!) e Melisanna (Grazie mille!
All’inizio l’idea era SOLO parlare di estetica, ma poi ho perso la
retta via e siamo finiti qui!! )
Grazie ancora a tutti e al prossimo capitolo,
non so quanto ci metterò a scriverlo, perché a scrivere questo mi
sono più o meno distrutta una mano!! Devo smetterla di scrivere solo con
la mano destra cavolo!!!XD