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Autore: Emma Speranza    01/02/2024    1 recensioni
Il Ministero è caduto, le lettere di convocazione al Censimento per i Nati Babbani sono state inviate e quando Lydia Merlin riceve la sua, sa che è arrivato il momento di nascondersi. Ma una lezione che ha imparato durante i sette anni ad Hogwarts è che i suoi piani non vanno mai come dovrebbero.
Un incontro fortuito con un ex compagno di scuola ed un bambino troppo chiacchierone le ricorderanno che la fuga non è un’opzione, e che in un mondo magico che ha dimenticato cosa sia l’umanità e la pietà, c’è ancora qualcosa per cui vale la pena combattere.
Una storia di sopravvivenza, ingiustizia e dei mostri che si annidano nei luoghi più oscuri.
Dall'Epilogo:
​«Corri!»
Lydia sapeva che era arrivata la loro fine.
Nulla li avrebbe salvati.
Sfrecciò in mezzo ad un gruppetto di anziane signore, che reagirono lanciandole imprecazioni che mal si addicevano a delle così adorabili nonnine.
«Scusate, scusate!»
E ovviamente Lance perse tempo a cercare di farsi perdonare piuttosto che correre per salvarsi la vita.
Genere: Avventura, Guerra, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mangiamorte, Nuovo personaggio, Ordine della Fenice, Vari personaggi
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Dopo la II guerra magica/Pace
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Avviso ai lettori: nel presente capitolo sono presenti scene di violenza e tematiche delicate


Capitolo 27
Il Luna Park
 

Lo sguardo di Lydia era fisso sui cigni che galleggiavano nel piccolo laghetto artificiale. Si stavano prendendo gioco di lei. Ne era sicura.
«Non ti odiano, Lydia.» provò a farla ragionare Henry «Sono fatti di plastica.»
«E invece ti dico di sì. Lo vedo nei loro occhi.»
«Non ce li hanno nemmeno gli occhi.»
«E guarda i loro sorrisetti malefici. Stanno ridendo di me, te l’ho detto.»
L’addetta alla vasca dei cigni sbuffò sonoramente e il suo malcontento era condiviso dai ragazzi che stavano attendendo il loro turno per poter finalmente giocare una partita.
«Shh!» li zittì Lydia. Come al solito la sua cicatrice fu un deterrente sufficiente per far spaventare i ragazzini e convincerli ad attendere pazientemente il loro turno. Lydia si era dimenticata dell’effetto che faceva il suo vero volto sulla gente. A volte poteva tornare utile.
«Forza Lydia. Ormai non possiamo vincere più nulla.»
«È una questione di principio.»
«E mi hai promesso lo zucchero filato. E un giro sulle montagne russe.»
Lydia guardò la giostra che svettava in cima alla collinetta. Non sapeva se poteva essere definita propriamente una montagna russa, era più una minuscola salita ed una discesa che i treni percorrevano ad una velocità da crociera. Poi vide gli occhioni imploranti di Henry. «E va bene.» sbuffò. Lanciò l’ultimo cerchio, che atterrò nell’unico punto del laghetto artificiale in cui non vi erano cigni.
«È truccato.» borbottò delusa. «Non c’è altra spiegazione.» E continuò a brontolare mentre Henry la trascinava verso lo stand dello zucchero filato e ne comprava uno talmente grande da far salire i livelli di glicemia solo a guardarlo. Si fecero largo tra la folla e riuscirono a trovare un muretto dove potersi sedere intanto che Henry divorava il suo dolce come se fosse a digiuno da mesi interi.
Il luna park era esattamente come Lydia lo ricordava. Non era cambiato nulla nei dieci anni che erano trascorsi da quando vi era stata l’ultima volta. Solo che tutto ora sembrava più piccolo. E vecchio. I colori una volta brillanti, erano slavati dai tanti anni trascorsi in preda alle intemperie, le macchinine funzionavano a scatti, i cigni, suoi nuovi acerrimi nemici, avevano perso gli occhi e qualche ala. L’unica novità era il cemento che aveva sostituito la ghiaia sulla strada che portava al centro città, o più precisamente, all’università dove insegnava suo zio Ellar. Quando lei era piccola, visto che zio Ellar si allontanava dal campus solo in casi di vita o di morte (alias nascite o funerali), il papà di Lydia aveva preso l’abitudine di andare a trovarlo portando sua figlia con sé. E ad ogni incontro, lo zio Ellar le dava una mancia che veniva rigorosamente spesa proprio in quello stesso luna park.
Era il primo posto con le giostre che le era venuto in mente parlando con Henry. Il modo perfetto per festeggiare in anticipo il compleanno del bambino, lontani dalla guerra e dalle tensioni di casa O’Brien.
Lydia prese un respiro profondo. L’aria fredda le gelò i polmoni, eppure era settimane che non respirava così bene.
Ogni boccata d’aria profumava di libertà. Nessun rancore, nessun lutto, nessuna rabbia poteva raggiungerli lì, in mezzo ai babbani e lontani da ogni città, nel frastuono della gente e della musica gracchiante sparata a tutto volume dalle casse delle giostre. Nonostante la decisione impulsiva, Lydia era stata attenta. Sapeva che la protezione migliore sarebbe stata una dose di Pozione Polisucco per entrambi, ma visto che era fuori dalle loro possibilità, aveva deciso di prestare particolare attenzione sul non lasciare alcuna traccia magica del loro passaggio. Si era Materializzata insieme ad Henry proprio all’università, e poi avevano percorso tutta la strada fino al luna park a piedi, senza nessun incantesimo che potesse smascherarli. L’unico rimpianto era non aver potuto coprire la sua stupida cicatrice.
Un altro gruppo di ragazzini passò davanti a loro ridendo e spintonandosi a vicenda. Dovevano essere studenti dell’università; Lydia aveva dimenticato quanto potessero essere rumorosi gli adolescenti, e se lo diceva dopo aver passato mesi chiusa in casa insieme a più di venti bambini allora era grave.
Sapeva che avrebbe dovuto sentirsi in colpa. In fondo era scappata di casa, per di più portandosi dietro un bambino. Da qualche parte avrebbe potuto essere considerato un rapimento. E sapeva anche che sarebbe dovuta essere preoccupata, o spaventata; il mondo esterno era pericoloso per quelli come loro. Ma nulla di tutto ciò la sfiorava.
Perché lì, in quel parco decrepito, niente la poteva raggiungere. Non le porte chiuse di Lance, né l’indifferenza di Duncan e Katherine e neppure il veleno di Caitlin. ‘Che si tengano la loro famiglia perfetta.’ pensò rubando un pezzetto di zucchero filato da Henry. ‘Posso essere felice anche senza di loro.’
«Ti ho vista!»
Lydia sorrise, le mani appiccicose come prova del suo reato. «L’ho fatto per il tuo bene, Se lo mangi tutto ti verrà il mal di pancia.»
«Sembri la signora O’Brien.»
Il sorriso di Lydia svanì all’istante.
«Lo sai che Daniel ha detto che la signora O’Brien si è dimenticata del mio compleanno e non mi preparerà nessuna torta?»
«Non è vero.»
«Gliel’ho detto anche io. E poi non mi importa.» Henry cercò di pulire le dita appiccicose sui pantaloni. «La signora O’Brien può anche dimenticarsi del mio compleanno tanto tu ti ricordi e puoi prepararmi tu una torta.»
Lydia porse al bambino un fazzoletto pulito. «Hai troppa fiducia nelle mie capacità culinarie. Vorrei ricordarti che solo stamattina ho rischiato di far esplodere la cucina insieme a Lizzie.»
«Ma Lizzie ha detto che non si è mai divertita così tanto! Ha detto che quando sei corsa per la cucina con i biscotti in fiamme in mano non riusciva a smettere di ridere.»
Lydia si era divertita molto meno considerando le conseguenze che aveva avuto quella disavventura.
«E Beatrix ha detto che vuole solo te la sera a leggerle le storie, sai, quando le cambi perché dici che quelle del libro sono solo per chi vuole essere un criminale da grande. E Edrik che sei la più brava a farci giocare a nascondino, anche se Simon si è arrabbiato perché secondo lui sei ancora squalificata a vita.» Lo sguardo di Lydia si perse su un gruppetto di bambini che fissava con gli occhi spalancati il Mangiafuoco.
«Pensavo che foste tutti spaventati da me. Mi piaceva essere il vostro terrore.» Il suo tentativo di umorismo non funzionò su Henry.
«Sei l’unica che ci fa ancora ridere. Gli altri sembrano tutti tristi. O arrabbiati.»
Lydia sfilò il bastoncino ormai vuoto dello zucchero filato dalla mano del bambino. «Vuoi sapere un segreto?» Henry annuì energicamente. «Anche io sono triste, e arrabbiata.» Era la pura e semplice verità.
Gli occhi di Henry si riempirono di lacrime. «È colpa nostra, vero?» chiese «Simon continua a dire che siete tutti arrabbiati perché non ci volete più tra i piedi. Che volete rimandarci a casa perché siete stanchi di noi. Lizzie dice che è uno stupido, ma ha ragione, no? Siamo troppi e facciamo sempre guai e…»
«Ehi!» provò a fermarlo Lydia, ma i timori di Henry erano troppo grandi per essere zittiti.
«Dice che è colpa di Matthew che continua a mettersi le dita nel naso, di Amelia per aver bagnato il letto, di Ewart perché piange tutte le sere, di Keira che è troppo piccola. Oggi ha detto che è colpa di Lizzie perché ha quasi bruciato la cucina, e poi ha detto che è colpa mia perché parlo troppo.»
«Era per questo che piangevi?»
Una lacrime scivolò sulla guancia di Henry. Strinse le labbra ed annuì.
«Oh, Henry.» Lydia gli prese il volto tra le mani «Simon ha detto solo tante cattiverie. Non è vero niente. Noi vi vogliamo ancora, e saremo felici di avervi con noi per tutto il tempo che servirà.»
«E allora perché siete tutti tristi?»
Lydia prese tempo prima di rispondere. «Siamo solo un po’ stanchi, tutto qui.»
In fondo era vero. Almeno in parte.
Henry rimase in silenzio, lo sguardo perso sulla gente che affollava il luna park.
«Sai che anche noi siamo stanchi?»
«Di dover stare sempre in casa?»
Henry annuì. «Sì. E anche dei dormitori, di dover stare tutti nella stessa stanza, delle lezioni, della pozione che ci date sempre.»
«Vorrei che potessimo fare le cose in modo diverso, Henry, ma non abbiamo abbastanza stanze per tutti voi, e le lezioni sono importanti. Dovete stare al passo con la scuola. E la pozione Anti-Traccia è inevitabile.»
«Ma è disgustosa!» Effettivamente nelle ultime settimane Lance aveva finito il colorante per Pozioni proprio come aveva predetto a Natale, quindi i bambini erano costretti, a settimane alterne, ad ingerire una pozione che sembrava fango messo ad essiccare in forno.
«Lo so.»
Henry scrollò le spalle. «Non importa. Il problema della pozione l’ho risolto. Ma vorrei avere una camera tutta mia, senza Mike che russa o Ewart che piange.»
Lydia si sistemò distrattamente la giacca. «In che senso risolta?»
«Che non la bevo più.» Lydia si paralizzò. «Ho provato ma mi ha fatto venire il mal di pancia! Allora quando Caitlin mi dà il bicchiere io la verso sempre nel vaso di nonna O’Brien, tanto nessuno vuole più romperlo. Lo sai che non si è rovinato nemmeno un po’? Ci siamo stancati e adesso proviamo a spostare l’ora sul pendolo di nonno O’Brien, quello magico, ma ogni volta lui ci fa la pernacchia e…» Ma non riuscì a proseguire oltre. Lydia gli aveva afferrato le spalle. La cicatrice spiccava sul suo volto pallido.
«Cosa vuol dire che non la bevi più?»
Henry la guardò senza capire. «Te l’ho detto. La verso nel vaso e…»
Lydia lo scrollò. «Da quanto non la bevi?!»
«L’ho buttata due volte.»
Due volte.
Un mese.
Henry era senza pozione Anti-Traccia da un mese.
La testa di Lydia si svuotò da ogni altro pensiero.
Un incantesimo. Bastava un solo incantesimo per essere rintracciati.
Ed improvvisamente, Lydia non era più lì.
Il parco giochi era deserto. Un’altalena cigolava sospinta da un caldo venticello estivo.
«Dobbiamo andarcene.» La sua voce era un sussurro.
«Ma non siamo ancora andati sulle montagne russe, e neanche nel labirinto degli specchi!» protestò immediatamente Henry. La mente di Lydia però era ormai lontana dal luna park, e tutto quello che riusciva a vedere era un vecchio parco giochi arrugginito.
I raggi del sole riflettevano sullo scivolo.
«Dobbiamo andare.» E senza lasciare ad Henry altro tempo per protestare, gli afferrò una mano appiccicosa e cominciò a spingerlo verso la stretta via che li avrebbe riportati all’università. O era meglio Smaterializzarsi subito? Lydia non riusciva a ragionare.
Un pettirosso cinguettava in lontananza. Nel corso degli anni, gli alberi erano cresciuti a dismisura, talmente tanto da donare finalmente un po’ di ombra al parco. E da essere la casa di diversi animali, constatò Lydia mentre un altro pettirosso rispondeva al richiamo del primo.
«Lydia!»
Un movimento alla loro destra attirò l’attenzione di Lydia. Una donna con un cappuccio calato a nasconderle il volto si faceva largo tra il gruppo di ragazzini che continuavano a spintonarsi. La mano di Lydia corse alla bacchetta.
Il parco era completamente deserto. Non c’era nessun altro, solo loro tre.
E poi la donna si sfilò il cappuccio e, ridendo, prese tra le braccia una bambina e la fece volteggiare nell’aria. Il sollievo di Lydia durò solo alcuni istanti. La donna non era un Mangiamorte, ma potevano essercene altri in agguato.
In fondo bastava un solo incantesimo.
«Quando mi avete detto che volevate trascinarmi in un posto speciale speravo si trattasse del mare. O di Londra» scherzò Lydia «Non di sicuro il parco giochi dove mi portavate da bambina.»
«Oh, Lydia, con noi puoi essere sincera. Lo sappiamo che era da anni che volevi tornare qui.»
Lydia sfiorò lo scivolo nero di ruggine. «Spiegatemi come ho fatto a non prendere il tetano in questo posto.» continuò con un sorriso «O forse era questo il vostro piano? Farmi fuori da bambina così da non essere più costretti a portarmi allo zoo ogni anno?»
La zia Maisie scoppiò a ridere. «Ci hai scoperti!»
Ci hanno scoperti, pensò terrorizzata Lydia. Gli uomini raggruppati al lato della strada non potevano essere altro che Mangiamorte. Li stavano aspettando per metterli in trappola. Dovevano avere dei complici alle loro spalle, pronti a bloccare ogni via di fuga. Uno di loro si tolse il cappello e fece un breve inchino al passaggio di una signora, la quale arrossì e corse da una sua amica ridacchiando.
«Lydia!»
«Lo sapevo!» esclamò Lydia puntando un dito accusatorio contro la zia. «Ed è anche il motivo per cui avete organizzato questo viaggio a sorpresa! Perché non siete riusciti a compiere i vostri piani malvagi quando ero bambina e ora volete terminare il vostro sporco lavoro!»
Il pettirosso cinguettò di nuovo, disturbato dal rumore. «Come hai potuto, zia Maisie!?» continuò Lydia, il tono esageratamente drammatico «E mi fidavo di te, zio Ryan!»
Suo zio sollevò le braccia. «Giuro che non lo sapevo, mi ha traviato con la promessa del gelato.»
Lydia superò di corsa il gruppetto di uomini, i quali non si accorsero neppure del loro passaggio. Lydia non si lasciò distrarre. La strada era ancora lunga.
«LYDIA!»
«CHE C’È!?» urlò Lydia.
«Mi fai male!» Lo sguardo di Lydia scese fino alla sua mano, stretta in una morsa ferrea attorno al polso di Henry, per poi salire fino al volto terrorizzato del bambino.
Ma non le importò. Se significava riportare Henry a casa sano e salvo allora lo avrebbe trascinato fino al punto di Materializzazione. E così fece, sorda di ogni sua protesta.
E continuò a stringergli la mano anche mentre attraversava in tutta fretta i cancelli di casa O’Brien, trascinandolo per l’intero giardino, e infine quando entrarono in casa e trovarono la famiglia O’Brien in sala, tutti con la medesima espressione agitata in volto.
«Lydia!»
«Dove siete stati?»
«Ci siamo preoccupati da morire!»
«Avreste potuto farvi uccidere!»
Solo in quel momento Lydia lasciò il polso di Henry, per afferrargli le spalle e costringerlo a guardarla.
«COSA TI È SALTATO IN MENTE!?» L’urlo di Lydia zittì tutti gli altri.
Un silenzio surreale calò sulla sala.
Henry la fissava ad occhi sgranati.
«Come hai potuto buttare la pozione?»
«Non volevo…» balbettò il bambino.
«Sai cosa sarebbe successo se avessero rintracciato la tua Traccia!?» Lydia era furiosa, e spaventata, e incapace di fermarsi. «Ti avrebbero ammazzato, Henry!»
«Lydia!»
Ma Lydia era troppo angosciata per riuscire a fermarsi.
«Un solo incantesimo!» La voce di Lydia si spezzò «Bastava un solo incantesimo…»
«Allora…» Lydia guardò con sospetto i suoi zii. «C’è un motivo in particolare per cui siamo qui o avevate solo nostalgia di questo posto abbandonato?» I suoi zii si scambiarono uno sguardo che confermò i suoi sospetti. Erano lì per una ragione. Zia Maisie aprì la sua borsetta ed estrasse un piccolo pacchetto regalo. «Abbiamo una sorpresa per te.»
«Henry non ha nessuna colpa! Sei tu l’adulta che lo ho portato fuori casa! Ewart vi ha visti uscire!» La signora O’Brien la separò dal bambino «Hai la minima idea di quello che hai combinato? Potevano scoprirvi, potevano catturare Henry! Potevano uccidervi!»
«E a voi sarebbe importato?» La risposta le uscì così naturale da far raggelare l’intera stanza.
Katherine fu la prima a parlare. «Henry sarà stanco, lo porto in camera.» Per la prima volta il bambino non protestò, lasciò che Katherine gli prendesse la mano e la seguì con le spalle basse fuori dalla stanza.
E Lydia si trovò da sola, circondata da persone infuriate e deluse dal suo comportamento. Avevano ragione ad esserlo, Lydia stessa avrebbe dovuto sentirsi in colpa, sia per il pericolo che aveva fatto correre ad Henry sia per il modo in cui si era appena rivolta a lui. E invece dentro di lei c’era solo il vuoto.
Il vuoto e il ricordo di una risata.
«Non è il mio compleanno.» disse Lydia, perplessa. Il pacchetto era chiuso da un semplice nastro rosso, nessun biglietto che potesse aiutarla a comprendere la ricorrenza.
Zio Ryan alzò gli occhi al cielo. «Perché voi Merlin siete sempre così sospettosi?»
«Perché siamo cresciuti con lo zio Michell e i suoi scherzi. L’ultima volta che mi ha dato un pacchetto regalo conteneva una rana che aveva trovato in giardino. E che mi si è infilata nel letto. Ho avuto gli incubi per settimane.»
«Non ha tutti i torti.» annuì zia Maisie.
«Ti prometto che non ci sono rane!» esclamò zio Ryan, esasperato. «Ora apri quel pacchetto, ti prego.»
Lydia, ancora sospettosa, iniziò a sfilare lentamente il nastro rosso.
«È stato un errore imperdonabile, Lydia.» La voce del signor O’Brien risuonò in lontananza. «Capisco che la nostra attuale situazione non sia delle più semplici, ma non per questo ti puoi permettere di mettere in pericolo i bambini, noi o te stessa.»
Il nastro si sfilò con facilità, rivelandone il contenuto.
Lydia sollevò il ciuccio. La catenella era composta da lettere dell’alfabeto che andavano a formare un nome.
Jack.
Lydia rimase completamente senza fiato.
«Cosa…?»
«Finalmente hanno approvato la nostra richiesta di adozione!» urlò zia Maisie, sollevando le braccia per stringerla con forza in un abbraccio «Da settimana prossima avrai un nuovo cuginetto!»
Lydia non riusciva a credere alle sue orecchie, ma la gioia dipinta sui volti dei suoi zii era inconfondibile. «Non ci posso credere!» esclamò, il cuore che si riempiva della medesima felicità. Ricambiò l’abbraccio della zia e corse a stringere anche suo zio. «Non ci posso credere!» continuava a ripetere.
«Neppure noi!» ridacchiò zio Ryan. «Avevamo ormai perso le speranze dopo così tanti anni.»
«Sono così felice per voi!» disse Lydia, stringendo al petto il piccolo ciuccio e tutto ciò che rappresentava.
«Mi stai almeno ascoltando!?»
No. Lydia non aveva compreso una singola parola pronunciata dal signor O’Brien, o da sua moglie. Come poteva sentirli quando la sua mente si era persa in un parco giochi abbandonato? Il rumore delle altalene che cigolavano e di quegli stupidi uccellini continuava a frastornarla. Scosse la testa. Ma il ricordo era ancora lì. Vivido. Vero. Doloroso.
«Scappate!»
Si rese conto di non riuscire a respirare. Un singolo rantolo uscì dalle sue labbra.
«Lydia, ti senti bene?» La voce di Duncan era gentile, in contrasto alle espressioni severe dei suoi genitori e al caos che si stava scatenando nella testa di Lydia.
«Vi prego… vi prego!»
«Lydia?» Solo in quel momento Lydia si accorse che c’era un’altra persona nella stanza. E la presenza di Lance fu l’ultima goccia che la fece scoppiare.
I singhiozzi iniziarono leggeri, poi sempre più forti fino a farla tremare, mentre le lacrime le inondavano il viso. Ma non le importava. Perché Lance le corse incontro e la strinse in un abbraccio in cui lei vi si perse. E che riuscì a rimettere in ordine i suoi pensieri.
Lance era lì. Non chiuso in laboratorio o fuori a rischiare la vita con Paul.
E lei non era in un parco giochi arrugginito.
«Mi dispiace…» singhiozzò sulla felpa di Lance.
Lui la strinse a sé.
«Eccola a fare di nuovo la vittima.»
«Sei un mostro!»
«Stai zitta, Caitlin.» ringhiò Lance.
Ma ormai era troppo tardi. La voce di Caitlin aveva fatto smarrire Lydia di nuovo nei suoi ricordi.
«Sono così contenta per voi!» stava ripetendo Lydia per l’ennesima volta. Lei e sua zia si erano sedute sulle altalene scricchiolanti, mentre suo zio aveva preferito accomodarsi su un cavallino di metallo. «Aspettate… l’avete già detto alla nonna?»
«Per l’amor del cielo, no!» rise la zia «Lo avrebbe spifferato a tutti! Sei la prima della famiglia a saperlo.»
«Non ci posso credere…»
Lo sguardo di Lydia si perse all’orizzonte. Erano anni che i suoi zii desideravano dei figli. Per ben due volte quel sogno sembrava sul punto di avverarsi, ma in entrambe le occasioni era finito nel peggiore dei modi. E poi la scintilla si era riaccesa con la decisione di adottare, tuttavia anche quella strada si era rivelata più impervia del previsto e i lunghi anni in attesa delle carte e dell’approvazione avevano messo a rischio di nuovo il loro sogno. Lydia non lo avrebbe mai ammesso ai suoi zii, ma aveva del tutto perso la speranza.
E invece eccola lì, si disse stringendo il ciuccio tra le mani, la realizzazione di tutte le loro preghiere.
Anche per Lydia rappresentava molto. La gioia che provava in quel momento era riuscita a distrarla dalla paura che la attanagliava ormai da un anno. Era una ventata di felicità in un’esistenza che per lei si era ridotta alla preoccupazione per il ritorno di Colui-Che-Non-Doveva-Essere-Nominato. Forse era un segno. Di non lasciarsi guidare solo dalla paura, di ricordarsi che nella vita esistevano ancora i miracoli.
«Oh no!» Lydia si riscosse dai suoi pensieri. La zia si stava tastando il polso, scrutando freneticamente nell’erba sotto le altalene. «Ho perso il ciondolo del nonno!» esclamò, nella voce una punta di panico. Lo zio Ryan non perse tempo e cominciò a cercare il ciondolo dorato, e Lydia si affrettò a seguire il suo esempio.
«Non ti preoccupare, lo ritroveremo.» Dovevano ritrovarlo. Lydia sapeva quanto sua zia e sua nonna tenessero a quel bracciale.
Suo nonno aveva regalato quel ciondolo alla nonna tanti anni prima, alla stazione del treno che li aveva portati dalla Scozia all’Inghilterra. Era la sua promessa per l’inizio di una nuova vita, piena di felicità e amore. Il nonno aveva fatto di tutto per mantenere quella promessa, fino alla fine dei suoi giorni. E al matrimonio di zia Maisie e zio Ryan, la nonna aveva dato quello stesso braccialetto a sua figlia, con l’augurio che potesse regalarle tanta gioia quanta ne aveva donata a lei.
Era il ricordo più prezioso del nonno. Un regalo che, Lydia ne era sicura, zia Maisie aveva intenzione di donare al suo stesso figlio. A Jack.
Dovevano ritrovarlo. A qualunque costo.
Il sole stava ormai tramontando, ben presto sarebbe stato impossibile riuscire a scorgere qualcosa tra i ciuffi di erba incolta.
Lydia sfilò di nascosto la bacchetta dalla tasca. Voleva solo fare un regalo, per zia Maisie, per zio Ryan e il piccolo Jack.
I suoi zii però non conoscevano la sua vera identità, la nonna era l’unica della famiglia, insieme ai suoi genitori, a sapere che lei era una strega. Doveva prestare particolare attenzione, per questo motivo si voltò dalla parte opposta e bisbigliò con il tono di voce più basso che riuscì a produrre. «Accio braccialetto.»
Il ciondolo si sollevò da un punto imprecisato vicino all’ingresso del parco e sfrecciò nella sua mano. Fu semplice chinarsi e fingere di trovarlo.
«È qui!»
Zia Maisie corse da lei, gli occhi velati dalle lacrime di panico. «Oh, grazie, grazie, grazie!» Prese il ciondolo dalle sue mani come se fosse il tesoro più prezioso del mondo. E lo era per lei. «Grazie, Lydia, sei un angelo.» La strinse in un veloce abbraccio. «Ryan! L’ha trovato!»
Ma zio Ryan non la stava ascoltando. Era a pochi metri da loro, intento a guardare l’orizzonte.
Lydia seguì il suo sguardo. Non c’era nulla. Solo la macchina parcheggiata vicino all’ingresso e le distese infinite di campi. Poi un movimento attirò la sua attenzione. Delle ombre si addensavano a diversi metri dalla staccionata che delimitava il parco. Lydia strinse le palpebre per vedere meglio. E le ombre si voltarono nella loro direzione. Indossavano maschere d’argento.
I suoi polmoni si svuotarono.
Non era possibile. Non poteva essere. Non…
Le ombre si lanciarono verso di loro.
«Scappate!»
Lydia non sapeva come aveva fatto ad arrivare in camera sua.
Il presente si intrecciava con i ricordi del passato.
L’unica certezza era che Lance era lì.
Era lui. Non l’ombra di se stesso che era diventato nelle ultime settimane. Era Lance, il suo Lance, con la sua stupida ruga sulla fronte che gli compariva sempre quando era preoccupato, come stava accadendo proprio in quell’istante.
Lydia era seduta sul bordo del letto, con lo sguardo rivolto verso la finestra. Non che importasse, il buio aveva ammantato la foresta rendendo impossibile riuscire a distinguere qualsiasi cosa. C’era solo l’oscurità assoluta. E Lance seduto al suo fianco. Le stava dicendo qualcosa che Lydia non riusciva a comprendere, le parole soffocate dai singhiozzi e dalle lacrime che le scorrevano ancora sul volto, fuori dal suo controllo. Si sforzò e si concentrò sulla voce di Lance.
«Non sei costretta, se non vuoi.»
«Cosa?»
Lance le sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, scoprendole la cicatrice.
«Non sei costretta a raccontarmi cosa è successo, se non vuoi.»
Ed era sincero.
E fu per questo che Lydia iniziò a parlare.
Gli raccontò delle lacrime di Henry sulla scalinata, di come si era sentita in dovere di fare qualcosa per lui; del luna park, della scoperta della mancata assunzione della Pozione Anti-Traccia. E poi, per la prima volta nella sua vita, per Lydia fu naturale, anzi, essenziale continuare a raccontare, questa volta partendo dal principio, dal viaggio a sorpresa con i suoi zii all’inizio dell’estate di due anni prima, della fermata al parco giochi, e, mentre raccontava, la sua mente continuava a rivivere quei momenti che aveva cercato di soffocare troppo a lungo.
Erano troppi. Lydia lo sapeva.
Dovevano andarsene da lì.
I suoi zii non si fermarono a chiedere cosa stesse accadendo. Le ombre si stavano avvicinando al parco giochi, forme indistinte che sembravano uscite direttamente dai loro peggiori incubi. Lei e gli zii scattarono verso l’automobile, superando i giochi mentre il cielo si oscurava. Erano quasi arrivati.
Cinque metri. Quattro. Tre…
Zio Ryan spalancò la portiera del guidatore, le chiavi già pronte in mano. E poi un lampo passò sopra la testa di Lydia.
Riconobbe il colore dell’incantesimo.
«Giù!» fece per afferrare sua zia e spingerla via da lì, ma l’incantesimo fu più veloce. E la macchina esplose.
Lydia non capì cosa accadde negli istanti immediatamente successivi. Solo in seguito comprese che l’onda d’urto dell’esplosione l’aveva scaraventata a terra, a diversi metri dalla macchina in fiamme. Ma in quel momento il mondo era per lei solo un fischio, una visione appannata di fiamme alte fino al cielo e un intenso odore di bruciato che le provocò un conato di vomito. Doveva alzarsi. Lo sapeva. Ma ogni singola cellula del suo corpo la implorava di restare lì, immobile.
Sentì qualcun altro pregare. Una voce famigliare.
«Vi prego… vi prego…»
«Avada Kedavra!»
«No!» L’urlo di Lydia si perse nel vento.
Il lampo verde riverberò nei suoi occhi.
Vi erano altri istanti che mancavano nei suoi ricordi.
Non sapeva come aveva fatto ad alzarsi. L’unica consapevolezza era che l’istante successivo si trovava con la bacchetta stretta in mano e puntata contro le ombre che la circondavano.
Tremava e la bacchetta rischiava di scivolarle dalla presa. Era ancora frastornata per l’esplosione, una parte di lei continuava ad illudersi che si trattasse solo di un incubo, il peggiore, ma pur sempre un incubo. E invece loro erano lì, la circondavano, ed erano in troppi. Sapevano di esserlo. Ridevano. Le maschere calate sui loro volti non potevano nascondere il loro divertimento. E ai loro piedi…
«Zio…» La voce di Lydia si spezzò.
«Non ti preoccupare, sudicia Sangue Sporco. Molto presto la rivedrai.»
Il Mangiamorte sollevò la bacchetta dritta contro il volto di Lydia.
Poi un altro vuoto nella memoria di Lydia. Doveva essersi buttata dietro alla macchina in fiamme, un’azione guidata dall’istinto e che non aveva fatto altro che aumentare il divertimento dei suoi aguzzini. «Vuoi giocare a nascondino? E allora giochiamo.»
Lydia non riuscì più a parlare. L’angoscia le chiuse la gola, impedendole di respirare.
Aveva provato a nascondersi.
L’avevano trovata.
Aveva provato a scappare.
L’avevano bloccata.
Aveva provato a combattere.
Avevano riso di lei.
E avevano continuato a ridere mentre lei era a terra, chiedendo pietà. Se solo avesse potuto tornare indietro non lo avrebbe fatto, si sarebbe morsa la lingua a sangue pur di non farlo.
Ridevano anche mentre la torturavano, ebbri delle sue urla, impazienti di sentirle ancora e ancora.
I nervi di Lydia tremavano al ricordo della Maledizione Cruciatus che scorreva nelle sue vene, incendiando ogni singolo centimetro del suo corpo.
Lei urlava.
Loro ridevano.
E infine Lydia aveva implorato di morire.
Il suo più grande errore.
«Oh, no, Lydia, perché l’hai detto?» La voce che proveniva dalla maschera era gelida quanto l’anima a cui apparteneva. «Abbiamo fatto il voto di non sottometterci mai ai voleri dei Sangue Marcio. Cosa facciamo adesso, ragazzi?» E gli altri avevano davvero risposto, proponendo le più orribili torture, mentre Lydia tremava e singhiozzava, l’erba che le pungeva la schiena, il rumore delle altalene scricchiolanti ancora nelle orecchie.
Infine una risposta si era fatta largo tra le altre.
«Falle ricordare per sempre la nostra generosità.»
Il ricordo successivo era la maschera d’argento che si chinava su di lei, la bacchetta impugnata come un coltello, puntata sul suo viso.
Non riuscì a raccontare nulla di tutto quello.
Ma Lance meritava di sapere la verità. Lo guardò ed incrociò i suoi occhi, trovandoli intrisi di dolore. Lance le prese il volto tra le mani e con un dito accarezzò la sua cicatrice.
E Lydia capì che Lance aveva compreso, che non l’avrebbe costretta a dirlo ad alta voce.
«Sei al sicuro ora. Non sei sola, non dovrai esserlo mai più.»
Lydia si costrinse a respirare, e quando riuscì a parlare di nuovo, la sua voce era spezzata, ma piena di una forza che non pensava di poter avere. «Se ne sono andati.»
«Devi riposare, Lydia. Potrai raccontarmi quando starai meglio, se lo vorrai ancora.»
«Ma voglio farlo adesso.» lo interruppe Lydia. Lo voleva e lo doveva, non solo a Lance, ma anche a se stessa. Chiuse gli occhi per un istante e si costrinse a rimettere ordine nei suoi pensieri, a cercare di dare un senso a quello che voleva dire. «Dopo avermi fatto…» La sua voce si spezzò di nuovo. Si sfregò le mani sul volto e poi tentò nuovamente. «Se ne sono semplicemente andati. Non so se perché avevano portato a termine quello che volevano fare o per l’arrivo della polizia babbana.» Una volta iniziato a parlare, scoprì che diveniva più facile continuare. Parlare la aiutava a non perdersi nell’oscurità. «È stato un contadino ad accorgersi di cosa stesse accadendo. I campi attorno al parco appartenevano a lui, ha sentito le urla e visto la macchina in fiamme, ed ha chiamato i soccorsi. È arrivata la polizia, mi hanno raccolta da terra e hanno cercato di chiedermi cosa era successo. O almeno penso, non mi ricordo bene. So solo che a un certo punto sono comparse altre persone, hanno detto di essere un Dipartimento speciale o qualcosa del genere, ma io li ho riconosciuti subito: erano Auror. Era solo qualche giorno dopo che Tu-Sai-Chi era stato avvistato al Ministero, costringendo tutti a credere nel suo ritorno. L’allerta era massima e gli Auror erano pronti ad intervenire in casi di attacchi a Babbani o Nati Babbani, ma sono arrivati troppo tardi per noi. Non che si siano fatti molti problemi.» ricordò con una smorfia «Si sono limitati ad interrogarmi, e farmi le condoglianze per…» deglutì «E poi hanno semplicemente fatto sparire ogni traccia. Hanno modificato i ricordi di tutti coloro che erano intervenuti: il contadino, la polizia, tutti loro furono confusi a sufficienza da venir indotti a credere che si fosse trattato di un tragico incidente causato da problemi al motore della macchina. Una fatalità, non un omicidio. E poi gli Auror se ne sono andati, così, come se fosse successo qualcosa di poco importante. Come se l’assassinio di mio zio non valesse nemmeno un minuto del loro tempo.» Non ricordava cosa aveva provato in quel momento, quando aveva visto gli Auror andarsene, lasciandola in attesa dell’ambulanza babbana e in compagnia di persone che parlavano di cortocircuiti e batterie difettose. «Non so come ci sono arrivata, ma mi sono ritrovata in ospedale, con i medici che discutevano tra di loro mentre cercavano di ricucirmi.» Lydia fece scorrere l’indice sui bordi frastagliati della sua cicatrice «Ma una ferita causata da una Maledizione è ben diversa da un taglio normale, i dottori non riuscivano a spiegarsi come mai i punti si scioglievano ogni volta che venivano applicati. Papà ha provato a rivolgersi al San Mungo, ha dovuto sborsare un sacco di galeoni per far arrivare un Guaritore nell’ospedale in cui ero ricoverata, non che lui sia riuscito a fare tanto meglio dei medici babbani.» La sua cicatrice appariva ancora come se fosse stata appena inferta; nonostante gli anni trascorsi, era arrossata, profonda e spessa, il dolore aveva impiegato mesi a diminuire, e sarebbe rimasta così per sempre. «Ma almeno ha utilizzato un crine di Abraxan per i punti di sutura ed è riuscito a chiudermi la ferita.»
Lance continuava ad accarezzarle il braccio, il calore del suo tocco che scacciava il gelo dei ricordi e la aiutava a continuare a parlare.
«Sono stata dimessa in tempo per il funerale dello zio Ryan. Siamo andati a casa della nonna. Era lì che tutta la famiglia si era ritrovata prima di andare in chiesa per il funerale. C’erano tutti: lo zio Michell e la zia Leilah, i loro figli, anche lo zio Fergus, la zia Keitha e i miei cugini erano corsi lì dalla Scozia. Persino zio Ellar aveva lasciato l’università per restare vicino alla sua famiglia. E poi c’era la zia Maisie. Era la prima volta che la rivedevo dopo l’attacco. Era aggrappata alla nonna, piangeva, ma quando mi ha vista…» Lydia rabbrividì «È diventata furiosa. Ha iniziato a urlare; che non avevo nessun diritto di essere lì, che ero un pericolo, un’assassina, che era solo colpa mia. Che ero un mostro.» Lydia si tormentò le mani «Nessuno capiva. Tutta la mia famiglia ascoltava ma non riusciva a comprendere perché dovesse essere colpa mia, cosa mai potevo aver fatto. Io invece ho compreso subito. Ho scoperto che la zia è stata scaraventata verso l’ingresso del parco quando la macchina è esplosa, fuori dalla loro vista. Ha capito che ci stavano attaccando e… si è nascosta nei cespugli incolti, tra i rovi, e ha visto… ha visto i Mangiamorte, e tutto quanto: lo zio Ryan, loro che…» ‘Mi torturavano’ avrebbe dovuto dire. Non ci riuscì. «Avevo dato per scontato che quando gli Auror avevano cancellato la memoria a tutti i presenti al parco giochi, avessero fatto lo stesso anche alla zia. E invece la zia ha subito sospettato cosa stavano per farle, che volevano eliminare dalla sua mente la verità sulla morte dello zio, e così ha fatto finta di aver sempre saputo che ero una strega. Non so come mai gli Auror non abbiano insistito, o almeno controllato. Forse avevano ricevuto altre segnalazioni e avevano fretta, forse non gli importava. So solo che la zia è riuscita a tenere i suoi ricordi ed aveva assistito abbastanza da comprendere che i Mangiamorte volevano me, non loro. Che era colpa mia se si erano trovati coinvolti in un agguato. Che era colpa mia se lo zio era stato ucciso. Ed aveva ragione, non provare a negarlo.» Sapeva che Lance avrebbe subito provato a confutare le sue convinzioni, ma non aveva senso illudersi. I suoi zii si erano ritrovati nel posto sbagliato al momento sbagliato, o meglio, al suo fianco nell’istante in cui aveva compiuto un incantesimo. Lydia, nelle settimane successive all’aggressione, aveva pensato spesso a come avessero fatto a trovarla, ed aveva trovato la risposta in quel semplice incantesimo d’Appello pronunciato di fronte a due babbani. I Mangiamorte dovevano aver trovato il modo per intercettare la violazione dello Statuto di Segretezza prima del Ministero e localizzarla. Lydia riprese il suo racconto «Lei mi accusava e i miei parenti non capivano. Loro conoscevano la versione modificata dagli Auror: la macchina era esplosa per un guasto al motore, lo zio Ryan era rimasto ucciso nell’esplosione ed io ero stata colpita al viso da un pezzo di carrozzeria. Solo la nonna e i miei genitori sapevano la verità. Loro e la zia. E quello che aveva visto le era bastato per capire che io ero un mostro e anche la causa della distruzione della sua famiglia. Non aveva più suo marito, e Jack, il bambino che i miei zii avevano tanto desiderato, era stato affidato ad un’altra famiglia.»
«I miei genitori mi hanno riportata a casa, ed è stato un sollievo per me; non sopportavo gli sguardi della gente, la loro commiserazione, la loro pietà. È stato fin troppo semplice chiudermi in camera mia e fingere che il mondo non esistesse più. Sono stati i miei genitori a contattare Alice e raccontarle cosa era successo. Io non volevo… io…» Alzò brevemente lo sguardo verso Lance. Voleva che capisse, perché in fondo era quello il motivo per cui non aveva più risposto a nessuna delle sue lettere. Voleva spiegare, voleva scusarsi per tutte le parole che aveva rinchiuso nel suo cuore fino a quella notte. Ma le bastò quel semplice sguardo per comprendere che a Lance non servivano le sue scuse, lui capiva più di quanto avesse mai fatto nessun altro, e la stringeva dolcemente, come se il passato fosse ormai trascorso e non potesse più ferirli. E Lydia lo amò per questo.
 
 
   
 
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