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Autore: Shadow writer    03/02/2024    2 recensioni
«Dai, ti do un passaggio, va bene?»
«Non sei costretto».
Lui sorrise. «Non mi sentirei a posto con la mia coscienza lasciandoti qui».
In un diario dell’anno successivo, annotai che, se avessi saputo come sarebbe andata a finire, non avrei accettato quel passaggio. Se avessi potuto avere un’anteprima dei mesi successivi, avrei scosso il capo a Sam, nel momento in cui mi avrebbe allungato una mano per alzarmi dal panettone. Non sarei salita sulla moto, aggrappata al suo busto con l’aria che mi soffiava sul viso e il petto premuto contro la sua schiena. Gli avrei scosso il capo e avrei aspettato il primo pullman del mattino per tornare a casa.
Ma quella sera ero ubriaca e triste e quando Sam era comparso davanti a me, su quella moto mi era sembrato un principe azzurro con il suo cavallo bianco. In quel momento mi ricordava solo il ragazzino di due anni più grande che al campo estivo mi aveva portata in braccio quando mi ero sbucciata il ginocchio e aveva corso sul terreno scosceso tenendomi sotto le cosce, mentre io guardavo il rivolo di sangue che scendeva verso la caviglia. Quella sera era ancora il mio salvatore.
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 15. Fine della sessione

La sessione invernale aveva reso gli studenti nervosi e alcuni reagivano perdendosi in discorsi logorroici con chiunque capitasse loro a tiro, altri invece preferivano chiudersi in un mutismo rassegnato e mesto. Dopo il mio anno a Milano, passeggiare tra quei corridoi luminosi e accoglienti non mi faceva paura e mi godevo ogni giornata in università sapendo che la sera sarei tornata a casa mia.
L’ultimo esame della mia sessione combaciava con quello di Eleonora, così avevamo trascorso lunghi pomeriggi nell’aula studio a ripetere, mentre all’esterno le strade andavano scurendosi e, quando mi dirigevo verso la fermata del pullman, tutto era ormai avvolto dal buio. 
«Pausa caffè?» mi domandava Eleonora a metà pomeriggio, rivolgendomi lo sguardo stanco di chi aveva fissato la carta stampata da quando si era svegliata. Io annuivo e ci trascinavamo verso le macchinette poco distanti. Durante quelle pause a volte lei chiamava Andrea, il suo ragazzo, e io mi distraevo guardando il cellulare. Una volta mi capitò una foto di Sam che sorrideva in un pub alle 4 di mattina.
“Ma tu non studi mai?” gli scrissi in chat. 
“Sei invidiosa?” mi rispose pochi secondi dopo.
“Molto”.
“Ho finito gli esami comunque. Fino a marzo sono libero, tu?”.
“Io ho la settimana prossima l’ultimo”.
Eleonora sbuffò rumorosamente al cellulare e disse qualcosa in tono scocciato. Mi cercò con lo sguardo, poi alzò gli occhi al cielo e ritornò a parlare sottovoce.
“Poi vieni a trovarmi?” aveva risposto Sam.
“E se non lo passo?”
“Lo passerai di sicuro”.
“Fortuna che non sono superstiziosa”.
“Facciamo così: se lo passi vieni qui”.
Eleonora chiuse la chiamata e si sedette al mio fianco sulla scomoda sedia in plastica arancione, poi allungò le gambe davanti a sé e si guardò i mocassini in pelle consunti.
Mi pungolò con il gomito. «Ma a chi scrivi sempre durante le pause?»
Arrossii. «A un amico».
Fece la faccia di una che la sa lunga. «Hai sempre un sorrisone quando parli con lui. Cosa vi dite?»
«Non lo so, parliamo della nostra vita. Oggi mi ha invitata a Budapest».
«Ah sì?»
«Sì, è là fino a luglio. Vuole che lo raggiunga dopo la sessione».
«Wow, sembra figo» disse soltanto, con gli occhi sgranati per l’entusiasmo. In effetti, constatai, non l’avevo pensata in quei termini. La mia testa aveva analizzato la situazione da tutti i possibili punti di vista, senza considerare quello più importante: che io, da Sam, non vedevo l’ora di andare.
 
 
Passai l’esame e comprai il biglietto aereo per la settimana seguente. Non lo dissi a nessuno, se non ai miei genitori e a mio fratello, che mi accompagnò in auto all’aeroporto. 
«Stai attenta» mi salutò prima dei controlli. «E salutami Samuele».
Sventolai la mano fino a che riuscii a vederlo, poi svoltai dietro una parete di cartongesso e rimasi da sola. 
Sam sarebbe dovuto venire all’aeroporto, ma il giorno prima l’università gli aveva dato un appuntamento per compilare alcuni documenti importanti, così mi inviò le indicazioni dettagliate sul bus da prendere e sulla fermata a cui scendere. Sul mio diario appuntai che prendere l’aereo da sola mi preoccupava, ma allo stesso tempo mi faceva sentire indipendente e in grado di fare qualsiasi cosa. 
Non fu difficile seguire le indicazioni di Sam: una folla di turisti italiani prese il mio stesso bus e scese alla medesima fermata. Mi ritrovai sul ciglio di una strada ampia e trafficata, contornata da palazzi enormi dall’aria antica, che si protendevano verso il cielo nuvoloso. Cercai Sam, ma la folla di persone era così magmatica e densa che non riuscii a distinguere alcun volto familiare.
Il cellulare vibrò. “Sono stato trattenuto in ufficio, ti mando l’indirizzo del mio appartamento”.
Volevo piangere. “Davvero?”
“Si, ma è facile, vedrai. È tanto pesante la valigia rossa?”
Alzai gli occhi dal cellulare e lo vidi, al di là della strada. Alzò una mano per farsi riconoscere, sorridendo. Feci per attraversare, ma un tram passò rapido davanti a me, così mi paralizzai sul marciapiede, poi cercai il primo semaforo e corsi sulle strisce pedonali. Quando lo raggiunsi lo abbracciai e lui mi strinse a sé con entrambe le braccia. Odorava di vento e di sapone di Marsiglia e la sua stretta aveva la familiarità di un gesto naturale, ma che non si compie da tanto tempo.
Il suo appartamento era poco distante, oltre un alto portone di legno e affacciato dal secondo piano su una piccola corte interna. Attraverso un corridoio di parquet scricchiolante mi condusse nel salotto, dove c’era un tavolo e sei seggiole, un divano con penisola e un vecchio televisore. 
«Questa è la tua camera» disse con un sorrisetto, poi indicò un tavolo da caffè accanto al divano. «Puoi appoggiare lì le tue cose, ma se ti serve altro o hai bisogno di privacy c’è anche la mia stanza».
«E non disturberò gli altri stando qui?» chiesi. Vedevo le tracce di altre persone che vivevano in quell’appartamento: un tappetino da yoga arrotolato dietro alla porta, alcune riviste abbandonate sulla libreria accanto ai giochi in scatola, degli occhiali da sole sul tavolo.
Sam mi tranquillizzò dicendo che quella sera sarebbe partito un ragazzo spagnolo e nell’appartamento sarebbero rimasti solo lui e Matteo, l’altro italiano, e che c’era spazio più che a sufficienza per tre persone. Ancora non sapevo che non avrei mai dormito su quel divano. 
La sera del mio arrivo fui invitata a bere in un pub poco distante dall’appartamento per salutare il coinquilino spagnolo in partenza. Eravamo così tanti che i camerieri ci fecero distribuire su più tavoli nella stessa sala. Sam conosceva tutti, li salutava con un abbraccio e due baci sulle guance e poi mi presentava a loro e subito cominciavano a farmi domande come da dove venivo o cosa studiavo. Credo di aver parlato con almeno trenta persone quella sera e di aver imparato i nomi di neanche una decina. Erano tutti amichevoli, accoglienti e sempre pronti a fare due parole.
A mezzanotte ci spostammo in una sorta di discoteca composta da diverse sale che riproducevano differenti generi musicali. A esse si accedeva tramite un grande cortile coperto solo da un telo trasparente, sotto cui si accumulava il fumo delle sigarette. Dall’alto pendevano lampadine, finte piante, e oggetti di ogni tipo, anche peluche impolverati e un jukebox in polistirolo dipinto. Gli amici di Sam ci condussero attraverso una stretta scala che scendeva verso delle sale sotterranee rivestite di mattoni e così poco illuminate che ci si scontrava continuamente l’uno con l’altro. I drink costavano poco e ne bevvi uno dopo l’altro fino a che le persone presero a girare intorno a me. Non era solo l’alcol però che mi scioglieva i muscoli e mi faceva ballare così liberamente. Mi sembrava di respirare nell’aria un senso di libertà e di abbandono totale alla vita, come in quei momenti di gioia sublime in cui si racchiude una certa tristezza perché già sai che sentirai la mancanza di quegli istanti mentre ancora li stai vivendo.
Io e Sam tornammo all’appartamento a piedi lasciando i suoi coinquilini a ballare fino all’alba. Le strade della città erano ben illuminate e le auto continuavano a scorrere sulla carreggiata, una ogni tanto, nonostante l’ora.
«Ti è piaciuta la serata?» domandò Sam, camminando al mio fianco. Per il sudore i capelli gli si erano arricciati e teneva la giacca aperta contro l’aria dell’inverno.
«Molto. È questo che fai tutte le sere al posto di studiare?»
«Esatto» rispose. «È questo che finanzia l’Unione Europea».
L’androne del suo palazzo era flebilmente illuminato da una lampadina traballante e usai la torcia del cellulare per trovare i gradini che salivano verso l’appartamento. Sam mi condusse nella cucina per prendere un bicchiere d’acqua. Era una stanzetta piccola, con una parete ricoperta di mobili ed elettrodomestici e un tavolo sottile dall’altro lato. 
«Hai fame?» domandò aprendo il frigorifero. 
All’interno vidi bottiglie di alcolici aperte e cibi precotti. «No, sono a posto così».
Si voltò a guardarmi, il lato destro del volto illuminato dalla luce del frigo. «Sicura?»
Annuii, così lui richiuse l’anta, prese il mio bicchiere vuoto e lo infilò nella piccola lavastoviglie. Nessuno parlò per qualche secondo. Fuori si sentivano le auto che passavano sulla strada e la sirena lontana di un’ambulanza. Sam si era tolto il maglione, che aveva appoggiato all’unica sedia presente nella stanza, ed era rimasto solo con la maglietta bianca. Pensai che mi sembrava dimagrito, ma non dissi nulla. Lui mi si avvicinò a piano, posò una mano sul mio fianco, poi si chinò lentamente, come per darmi tutto il tempo di fermarlo, se avessi voluto. Vedevo le sue pupille che si facevano più vicine, distinsi le righe nelle iridi e i puntini di un blu più scuro. E infine mi baciò. Dischiusi le labbra e accettai quel bacio con il suo corpo che premeva sul mio. Fu come essere strappata da quella cucina e precipitata fuori dalla realtà. Le mani di Sam salirono fino a prendermi la testa tra le mani, senza smettere di baciarmi.
«Spero non ti dispiaccia» mormorò dopo un po’. Il suo respiro sapeva della mentina che aveva gli avevo offerto mentre tornavamo all’appartamento.
«Per niente» replicai cercando i suoi occhi. Le gocce più scure dei suoi occhi parevano mobili, come se orbitassero intorno alla pupilla.
«Non volevo rimandare il momento in cui sarebbe successo». 
Sorrisi. «Ne eri così certo?».
Le sue labbra si piegarono, divertite. «Mi sbagliavo?»
Era una domanda retorica, così mi limitai a sorridere e ad allungarmi per baciarlo ancora. Mi prese per mano e mi condusse verso camera sua, dall’altra parte della casa. Alla lentezza del bacio sostituì una nuova frenesia, mentre mi toglieva i vestiti e accarezzava la pelle che si faceva nuda. Rabbrividivo, e non per il contatto diretto con l’aria. Quasi mi mancava il respiro nel sentirlo così vicino dopo tanto tempo. Non mi sembrava vero. Gli sfilai la maglia e lui si tolse i pantaloni da solo, poi tornò a incollare le labbra sulle mie, come se non ne avesse abbastanza. 
«Mi sei mancata» sussurrò e rimase qualche istante a fissarmi senza parlare, le guance arrossate e i capelli gonfi e spettinati. Pareva trattenesse il fiato, come per paura di cambiare qualcosa e interrompere il momento. Mi misi seduta sul materasso, lo presi per un braccio e lo trascinai al mio fianco. Mi abbracciò, pelle nuda su pelle nuda. Almeno il suo profumo non era cambiato. «Anche tu».
Fui sul punto di piangere nel sentire quel contatto, il respiro nell’orecchio che mi faceva accapponare la pelle, le sue dita che mi percorrevano il corpo come se non aspettassero altro.
 
Quando mi svegliai la mattina successiva ripensai a come mi ero immaginata Sam con il pigiama stropicciato che mi augurava “Buongiorno”. Mi era sembrato un miraggio lontano e impossibile da realizzare. Invece ero nel letto con lui – senza pigiama – che mi aveva stretta sé e mugugnava qualcosa che sembrava più che altro “Ancora cinque minuti”.
Dopo colazione mi disse che avremmo visitato il Palazzo reale a Buda e così scoprii che Buda e Pest erano due città diverse separate dal Danubio e unite dai ponti. Costeggiammo il fiume a piedi e salimmo fino al Palazzo attraverso dei giardini con l’erba rinsecchita dal freddo e poi tramite una scala mobile ferma. Tirava un vento chiassoso e insistente, che ci costrinse a parlare a voce alta tutto il tempo per sentirci. Una volta arrivati, mi indicò il grande palazzo del parlamento che si specchiava sulla curva del fiume, dal lato opposto rispetto al nostro.
«Possiamo visitarlo se ti va» disse, scostando dagli occhi le ciocche di capelli portate dal vento.
«Tutto quello che vuoi» risposi.
Mi mostrò il Bastione dei Pescatori – una costruzione in pietra chiara affacciata sul resto della città – e la Chiesa di San Mattia con il suo tetto colorato, poi ci riparammo in un cafè per sottrarci al freddo pungente. Era un locale piccolo e all’antica, con le pareti verniciate di bianco e le poltrone sgualcite, e i camerieri parlavano a fatica in inglese. Sam ordinò per me una torta a più strati rivestita di glassa di cioccolato. 
 
Il cielo rimase coperto per i primi due giorni, ma la terza mattina mi svegliai con un sole brillante che batteva sulle strade. Mi portò all’isola Margherita e passeggiammo per un po’ accanto ai runner e agli anziani che respiravano l’aria del parco, poi ci fermammo a riposare sul ciglio del percorso. Sam sedeva con la schiena appoggiata al legno della panchina e un braccio allungato verso di me. 
Incrociai le gambe e chiusi gli occhi, con il volto rivolto verso il sole. «Hai fatto caso che per noi è sempre così?»
«Cioè?» domandò.
«O momenti, fugaci, di estrema felicità, o il nulla».
«Non avevo mai sentito fugaci in una conversazione».
Aprii gli occhi e lo guardai. Mi stava rivolgendo un sorrisetto. «Non fare lo scemo».
Si fece assorto. «Non pensi che potremmo avere un’estrema felicità continuata?».
Sospirai. «Non funziona così la vita».
«È un peccato».
Non risposi, perché sapeva di avere ragione. Due signore con il pancione ci passarono davanti, fasciate in completi sportivi coloratissimi. L’eco delle loro chiacchiere si spense in lontananza.
Fissai gli occhi sul chiosco di fronte a noi e dissi soltanto: «Forse ti amo».
«Perché forse?»
Gli lanciai uno sguardo veloce, poi tornai sul chiosco e sospirai. Il cuore martellava il petto come se volesse uscirne. «Ho paura che non duri».
Sam allungò una mano e me la posò sulla gamba. «Allora forse ti amo anche io».
 
 
La sera successiva mi portò a cena in un ristorante in cui suonavano musica dal vivo. Come gran parte della città, si trattava di un palazzo vecchio riempito con mobili di recupero eterogenei. Faretti colorati spruzzavano una luce che si spalmava sulla pietra a vista delle pareti e le sedie del ristorante erano rivestite di velluto blu scuro. Alcuni uomini in abiti eccentrici suonavano su un piccolo palco.
Ero un po’ triste, perché era il mio penultimo giorno, e Sam cercò di tenermi allegra raccontandomi episodi divertenti o dedicandomi piccoli gesti affettuosi, come accarezzarmi una mano.
«Ho una sorpresa per te» disse quando i musicisti annunciarono che avrebbero fatto alcuni minuti di pausa. Mi passò il suo cellulare e sullo schermo vidi un biglietto aereo per l’Italia.
«È tra una settimana» commentai, confusa. «Ma tu hai lezione».
Sam sorrideva, sfacciato e ammiccante. «Ma tu no».
Il mio cuore accelerò. «Cioè?».
«Ti va di fermarti ancora una settimana?».
Esultai a voce alta e alcune persone si voltarono a guardarci. Mi scusai imbarazzata.
«Mi hai comprato un biglietto aereo?»
Lui scrollò le spalle. «Stavo guardando il sito e ho visto che costavano poco, allora ne ho preso uno. Se non riesci non è un problema, non preoccuparti».
Chiusi gli occhi, li strizzai forte e quando li riaprii sentii le lacrime rigarmi le guance. In poco tempo mi ritrovai a piangere senza controllo.
Sam si alzò e venne accanto a me per potermi abbracciare. «Oddio, non volevo farti piangere».
«Grazie» mormorai stringendomi a lui. «Grazie, grazie, grazie».
 
 
Sam ricominciò le lezioni due giorni più tardi. A volte rimanevo a letto quando lui si alzava, sbirciavo mentre stava di fronte all’armadio e sceglieva i vestiti – con la faccia assonnata e i capelli spettinati – poi mi lasciava un bacio sulla guancia e mi diceva che ci saremmo visti più tardi.
Qualche volta cucinai per entrambi, così che potevamo mangiare insieme al suo ritorno. In un giorno particolarmente piovoso decisi di pulire la casa mentre erano fuori tutti gli inquilini – che nel frattempo erano arrivati – e per ringraziarmi mi offrirono tutti un drink la sera stessa. 
Poiché era la prima settimana, molte lezioni furono sospese o rimandate, così io e Sam ci ritrovammo ancora a passeggiare per la città, mangiare torte in piccoli cafè polverosi e visitare musei quando c’era troppo freddo o troppo vento.
«Sto pensando di tagliarmi i capelli» mi disse in un pomeriggio nuvoloso. Ci eravamo rintanati in una libreria con bar e sedevamo a un tavolino rotondo in legno scolorito. Lui stava scorrendo i programmi dei corsi dal suo pc, mentre io leggevo un libro.
«In effetti sono diventati lunghi» commentai.
Lui si prese una ciocca tra le dita e la guardò incrociando gli occhi. «Ho visto un barbiere qui fuori, posso andare a chiedergli se ha posto ora, non dovrei metterci molto».
Annuii e lui chiuse il computer. Prima di alzarsi, sollevato dalla sedia ma con le ginocchia ancora flesse, si sporse verso di me e mi lasciò un bacio veloce che mi scaldò le guance, poi uscì dalla porta a vetri facendo tintinnare la campanella.
Dieci minuti più tardi gli scrissi un messaggio per sapere se andasse tutto bene.
“Ho sopravvalutato le mie doti con l’ungherese” rispose.
Replicai con una serie di punti interrogativi.
“5 min e sono lì” scrisse soltanto. 
Quando Sam rientrò nella libreria trattenni a stento una risata. Tutti i suoi capelli erano spariti, rasati. 
«Non dire niente» borbottò sedendosi davanti a me. Aveva le guance arrossate e il fiato corto per la corsa. 
«Stai bene».
«Non devi dirlo per gentilezza».
Sorrisi e allungai una mano per accarezzare la sua testa rasata. «No, lo penso davvero. Sembri un po’ un rapper, però stai bene. O anche un soldato».
Alzò gli occhi al cielo. «Sempre meglio dell’obbrobrio che mi ha fatto prima. Gli ho detto di rasarmeli per rimediare».
Più tardi, quando mi chiese se fossi pronta a tornare all’appartamento risposi con: «Signorsì capitano», facendo il gesto con la mano.
E lui sbuffò. «Ah ah, molto simpatica». Poi mi tirò a sé e mi baciò sulla fronte.
 
 
A inizio marzo anche Matteo, l’ultimo inquilino rimasto dal primo semestre, cominciò a fare le valigie. Sam era dispiaciuto di doverlo salutare e così passammo un pomeriggio insieme a lui in giro per la città e poi ci unimmo ad altri studenti per l’ingresso serale alle terme.
Mentre Sam e Matteo ripercorrevano i momenti più divertenti di quel semestre – quando si era rotta la tapparella della cucina, quando la signora dell’appartamento di fianco aveva inseguito il marito sulle scale gridandogli parolacce in ungherese, quando si erano persi a Buda di notte – mi immersi fino al collo nell’acqua calda della piscina all’aperto e guardai la cupola nera senza stelle del cielo sopra di noi. La temperatura non raggiungeva neanche i dieci gradi e nuvole di vapore si sollevavano dall’acqua per disperdersi nell’aria gelida. Una signora accanto a me si faceva un video e mandava baci allo schermo, ruotando su se stessa e passeggiando per la piscina. Due uomini discutevano di un affare serio senza che io potessi capire di cosa si trattasse. Alcuni studenti internazionali, seduti vicino al bordo e immersi fino alle spalle passavano in rassegna gli eventi previsti per il mese di marzo per decidere a quali andare. 
Incrociai lo sguardo di Sam, che stava ascoltando Matteo, e mi sorrise, dente scheggiato, fossetta tra le sopracciglia. Pregai di poter rimanere per sempre così, nell’acqua calda come un bambino non ancora nato, illuminata dal sorriso dell’unica persona che avessi mai amato.
 

Ciao,
Questa settimana ho ritardato l'aggiornamento perché non ero totalmente convinta di questo capitolo e, ancora adesso, non sono soddisfatta della sua forma finale, ma ho pensato che fosse meglio pubblicarlo e ricevere eventuali feedback piuttosto che rimanere a fissarlo sul pc. Quindi eccolo ahah
A presto,
M.
   
 
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