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Autore: Shadow writer    10/02/2024    2 recensioni
«Dai, ti do un passaggio, va bene?»
«Non sei costretto».
Lui sorrise. «Non mi sentirei a posto con la mia coscienza lasciandoti qui».
In un diario dell’anno successivo, annotai che, se avessi saputo come sarebbe andata a finire, non avrei accettato quel passaggio. Se avessi potuto avere un’anteprima dei mesi successivi, avrei scosso il capo a Sam, nel momento in cui mi avrebbe allungato una mano per alzarmi dal panettone. Non sarei salita sulla moto, aggrappata al suo busto con l’aria che mi soffiava sul viso e il petto premuto contro la sua schiena. Gli avrei scosso il capo e avrei aspettato il primo pullman del mattino per tornare a casa.
Ma quella sera ero ubriaca e triste e quando Sam era comparso davanti a me, su quella moto mi era sembrato un principe azzurro con il suo cavallo bianco. In quel momento mi ricordava solo il ragazzino di due anni più grande che al campo estivo mi aveva portata in braccio quando mi ero sbucciata il ginocchio e aveva corso sul terreno scosceso tenendomi sotto le cosce, mentre io guardavo il rivolo di sangue che scendeva verso la caviglia. Quella sera era ancora il mio salvatore.
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 16. Nostalgia

Nel secondo semestre cominciai a dare ripetizioni durante la settimana, quando avevo tempo. Prendevo il bus la mattina presto, andavo a lezione, pranzavo con i miei compagni e poi prendevamo il caffè al bar dell’ateneo prima di riprendere le lezioni o lo studio in biblioteca. I ragazzini con cui facevo lezione abitavano sempre vicino all’università, in eleganti appartamenti tenuti con noncuranza da famiglie ricche i cui genitori – avvocati, dottori, imprenditori – erano sempre misteriosamente assenti. 
Sam mi scriveva a ogni ora del giorno e la nostra chat era diventata una lunga conversazione ininterrotta. A volte la sera lo chiamavo mentre camminavo verso la fermata del bus e lui mi raccontava di quello che si stava cucinando per cena o di come era andata la giornata. Sentivo la sua mancanza ogni volta che non lo sentivo, mi chiedevo cosa stesse facendo, cosa pensasse, come fosse vestito. La chat era una piacevole compagnia, ma ciò che più desideravo era poterlo abbracciare, baciare, accarezzare il suo volto e guardarlo negli occhi mentre inspiravo il suo profumo.
Cominciai ad andare a camminare con Erika, soprattutto il sabato mattina. Lei si lamentava perché stava tutti i giorni seduta in ufficio e anche io avevo cominciato a sentire la decadenza del mio corpo. Dove una volta i muscoli erano la tesi, si erano fatti più soffici, e cominciai ad avere il fiatone dopo tre rampe di scale – cosa che non mi era mai accaduta prima – oltre al fatto che stavo perdendo la mia elasticità.
Durante quelle camminate salivamo i tornanti fino alla casa di mio fratello e, se c’era, ci offriva un bicchiere d’acqua, altrimenti ci fermavamo a riposare sulla panca che aveva costruito durante l’inverno e che stava fuori dalla porta d’ingresso.
Erika mi raccontava delle sue difficoltà a trovare una ragazza che le piacesse e che fosse interessata. «Sembra quasi che una cosa escluda l’altra» borbottò un giorno mentre camminavamo in salita, il sudore che colava dalle tempie e le felpe ormai inutili legate in vita.
«E tu?» chiese. «Non hai trovato qualcuno che ti piace a Lettere?»
Provai inutilmente a trattenere un sorriso. «L’ho trovato, ma non a Lettere».
Aspettò che proseguissi, ma quando si accorse che non avrei detto altro mi lanciò guardò male. «Sei seria?».
Io annuii, lei sospirò in modo spazientito e non aggiunse altro. Nessuno sapeva del mio viaggio a Budapest e costudivo gelosamente quel segreto, come qualcosa che appartenesse solo a me. 
Due settimane più tardi Erika festeggiò il compleanno in un bar del suo paese, adiacente a quello in cui vivevo io. Eravamo solo ragazze: io, Ginny, le sue amiche delle superiori e alcune compagne di basket. 
Debora, ancora con i lunghi capelli ricci che circondavano il viso dai lineamenti marcati, mi si avvicinò ancheggiando nel suo tubino nero e mi mise un braccio sulle spalle. «Meeg» cinguettò. «Indovina chi mi ha ri-scritto qualche giorno fa?»
«Non ne ho idea» risposi. Vicino a me, Ginny aveva un’aria di sufficienza.
«Giorgio Raggi» disse sottovoce. «Ti ricordi che ci eravamo incontrati al Paradise? C’eri anche tu, no? Be’, non lo avevo più visto, ma l’ho incrociato in banca due settimane fa e poi lui mi ha scritto».
«Bene, vi rivedrete?»
Lei ammiccò. «Chi lo sa? Speriamo, non lo vedo da un sacco di tempo, ma quella sera non era andata male».
Intervenne Ginevra, che stava accanto a me, quando Debora si fu allontanata. «Quando siete andate al Paradise
«Due estati fa, tu eri in Sardegna, credo» risposi.
«E Debora e Gio…?»
Scrollai le spalle. «Non so bene cosa sia successo. Sai com’è Gio, gli piacciono le ragazze» ridacchiai.
Ginny sbuffò e roteò gli occhi. «E a Debora piacciono i ragazzi a quanto pare». Non c’era traccia della ragazza che voleva spontaneamente rifilarmi al padrone di casa a Capodanno, dicendo che non dovevo fare la “suorina”. A Ginny era sempre piaciuto cambiare il suo punto di vista sulle cose in base all’umore del momento e in quel momento si sentiva una bacchettona cattolica.
Erika attirò la nostra attenzione e, con fare complice, disse: «Anche io ho delle novità». L’attenzione di tutte si spostò su di lei che, fissata da diverse paia di occhi, arrossì. «Ho conosciuto una ragazza. Si chiama Annalisa e durante il finesettimana fa la cameriera nel ristorante dove sono andata con i miei colleghi». Si dilungò nel raccontarci come si erano parlate mentre lei era in coda fuori dai bagni e come si fossero scambiate i numeri quando avevano scoperto che a entrambe interessava un fumetto poco conosciuto in Italia. Era stato quello l’amo che le aveva attirate e la calamita che le aveva portate a scriversi per diversi giorni.
«Vedremo come andrà» concluse stringendosi nelle spalle.
Allungai una mano e le strinsi il braccio, sorridendo. «Sono felice per te. Si vede come ti brillano gli occhi». 
Erika cercò di minimizzare, ma non riusciva a cancellarsi un sorrisetto dalle labbra. 
 
***
 
Ad aprile mi arrivò un messaggio di Gio per chiedermi se volessi andare a Budapest a inizio maggio per il compleanno di Sam. Quasi in contemporanea mi chiamò Ginny: anche lei era stata invitata – quello era il suo gruppo di amici dopotutto – e cercò di convincermi ad andare perché «Vanno tutti, anche Elena e Chiara!». 
Le dissi che ci avrei pensato e mentre chiudevo la chiamata già immaginavo quale sarebbe stata la mia risposta. Qualche giorno più tardi accettai. Erika non sarebbe venuta perché in quei giorni era al mare con Annalisa, la loro prima notte insieme lontano da casa.
Sam lo venne a sapere alcune settimane dopo e mi scrisse immediatamente per chiedere conferma che ci fossi anche io. 
«Ti giuro, è tutto il giorno che sorrido come un idiota» disse durante la chiamata della sera stessa. «Sono contento che Gio rovini sempre le sorprese».
Risi. «C’è anche Ginny lo sai?»
«Sarò bravissimo. Un maestro di autocontrollo, vedrai».
Il solo pensiero di rivederlo mi faceva aumentare i battiti e un fremito percorreva il mio corpo. L’attesa per la partenza fu un tormento e non riuscii neanche a godermi le vacanze di Pasqua, che trascorsero in un lampo di giorni confusi che non vedevo l’ora passassero. Continuavo a pensare al momento in cui me lo sarei di nuovo trovato davanti, ipotizzavo cosa avremmo potuto fare e poi censuravo tutte le cose che avrei dovuto nascondere davanti agli altri. Nessuno sguardo troppo lungo. Nessuna carezza. E decisamente nessun bacio. Ma solo immaginare di stare nella sua stessa stanza dopo quella lunga separazione mi faceva girare la testa.
Il giorno della partenza fu il padre di Diego a portarci all’aeroporto con il suo furgone a nove posti, ma eravamo così in anticipo che trascorremmo un paio d’ore nei negozi dell’area duty free. I ragazzi andarono a rimpinzarsi al McDonald’s e noi girovagammo nel grande negozio accanto al nostro gate.
«Come l’ha presa Carlo quando gli hai detto del viaggio?» chiese Elena a Ginny mentre provavamo i profumi.
Ginny scrollò le spalle. «Bene, mi ha solo detto di stare attenta, sapeva che sarei stata con voi tutto il tempo». Poi inclinò il capo indietro e si spruzzò il profumo sul collo.
Appena Elena e Chiara si allontanarono alla ricerca del bagno, non riuscii a trattenermi. «Carlo non sa di Sam, o sbaglio?»
Ginevra sbuffò scocciata, poi mi rivolse uno sguardo colpevole. «Sa che Sam è il mio ex, non ho proprio specificato che è lui che andiamo a trovare a Budapest»
«Ah. E se lo scopre?»
Strinse le labbra e incrociò le braccia al petto. «Non lo scoprirà».
L’eventualità la preoccupava, riuscivo a vederlo, ma cercava in ogni modo di non pensarci e io non le dissi nulla. Non ero certo nella posizione per farle la morale. 
 
 
***
 
Budapest era diventata una città diversa con l’arrivo della primavera. Il sole brillava in un cielo turchese, l’aria era tiepida e piacevole, le persone oziavano all’aperto, ai tavoli dei cafè o sull’erba dei prati.
Vedere Sam mi mise in subbuglio lo stomaco e il cuore, ma fui costretta a fingermi indifferente. Dopo il fallimento con il parrucchiere ungherese, i suoi capelli avevano ripreso a crescere, ma erano ancora molto corti e facevano risaltare gli occhi azzurri sul volto più libero e più magro. Gli altri lo presero in giro per il nuovo taglio e Gio gli sfregò il proprio palmo aperto sulla testa. Sam ci abbracciò a uno a uno alla fermata del bus e, quando fu il mio turno, gli sussurrai nell’orecchio quanto mi era mancato e lui mi strinse ancora più forte. 
Fummo entrambi dei maestri di autocontrollo. Era un gioco adrenalinico – e anche eccitante – fingerci diversi rispetto a quando eravamo da soli. In ogni suo gesto percepivo quello che tratteneva, in ogni sguardo capivo quello che mancava e intuivo le parole che evitava di rivolgermi.
Alloggiavo con le ragazze in un albergo poco distante dal suo appartamento, dove invece stavano Gio, Diego e Luca. Sam ci portò a visitare la città e io guardavo i posti come se fosse la prima volta. Ignoravo la panchina su cui avevamo chiacchierato per ore, il ristorante dove avevamo cenato insieme o il cafè dove lui aveva ordinato per me una torta ricoperta di cioccolato. Dovevo stare attenta e non perdere mai la concentrazione, anche se non era facile. Quando passammo davanti al museo di storia nazionale fui sul punto di commentare le nuove insegne – le precedenti erano così vistose che le avevo ben impresse nella memoria – ma mi morsi la lingua e improvvisai un’altra frase.
Sam ci portò a ballare e rimanemmo svegli fino all’alba per vedere il sole sorgere dal Bastione dei Pescatori. Mentre percorrevamo, alticci e stanchi, la salita, mi ritrovai a metà gruppo, con alle spalle Ginny e Sam, che l’aveva affiancata dopo essere stato lasciato solo da Diego. Nei giorni precedenti si erano ignorati vicendevolmente e quella era la loro prima conversazione insieme. Sam le chiese come stava e le disse che Gio gli aveva parlato di Carlo, per cui voleva sapere se le cose andassero bene.
«Certo» rispose Ginny con eccessiva enfasi. «Magari te lo farò conoscere».
«Per me va bene» rispose lui con cortesia.
«Meg lo ha incontrato a Capodanno» Ginny aveva alzato la voce per attirare la mia attenzione, così fui costretta a voltarmi e a rallentare per farmi raggiungere da loro.
«È simpatico» dissi. «E anche molto intelligente. Non credo sarei in grado di sostenere una discussione con lui».
«Allora sarà un ottimo avvocato» commentò Sam.
«O magistrato» aggiunse Ginny. «Probabilmente farà quello».
Trattenni lo sguardo d’intesa che avrei voluto scambiare con Sam.
Arrivammo a destinazione quando il cielo era già chiaro e il sole si intravedeva sulla linea dell’orizzonte. Ci sistemammo sulle panche di marmo del bastione e Ginny rivolse un’occhiata a me e Sam, che ci eravamo ritrovato seduti vicini. Cercai di non cambiare espressione. 
Sorrise per qualcosa che ancora non sapevamo, poi disse: «Avete mai fatto caso che voi due vi assomigliate? Potreste essere fratelli».
Questa volta mi ritrovai a cercare lo sguardo di Sam e lui lo ricambiò, ma Ginny dovette interpretarlo come una ricerca di conferma rispetto alle sue parole. Lui aveva l’aria divertita di chi coglie una battuta implicita, mentre mi guardava.
«Probabilmente è solo per il colore dei capelli e degli occhi» stabilì Ginny, prima che la sua attenzione fosse completamente assorbita dall’alba. 
 
 
Uscimmo per ballare anche la sera successiva. Prima ci fermammo per alcuni drink in un locale vicino all’appartamento di Sam. Capitai seduta accanto a lui, talmente vicini che la mia gamba nuda era schiacciata sul tessuto dei suoi pantaloni e riuscivo a sentire il calore della pelle che traspirava attraverso. Indossavo un abito corto e, al secondo giro di birre, mi resi conto che Sam aveva poggiato una mano sulla mia coscia. Le sue dita parevano incandescenti e, mentre stringeva leggermente la carne, mi si bloccò il fiato. Chiara, seduta di fronte a me, mi chiese se stessi bene. Paonazza in viso, annuii e mi sforzai di riprendere a respirare. Cacciai una gomitata discreta a Sam e, per tutta risposta, le sue dita risalirono la coscia, sotto il vestito. Trangugiai un sorso di birra ghiacciata sperando che spegnesse il rossore, ma ottenni solo di aggiungere l’arrossamento per l’alcol a quello dell’eccitazione. Le dita erano ancora lì, ad accarezzarmi la pelle. Sfiorò il tessuto degli slip e trattenni il respiro. Cominciò a muoversi in maniera circolare, deglutii a fatica un sorso di birra mentre un formicolio mi attraversava tutto il corpo.
«Comunque Budapest è una città molto bella» stava dicendo Luca a capotavola. «Non me l’aspettavo proprio».
«Ve lo avevo detto io, malfidenti» replicò Sam con una calma inverosimile, mentre le sue dita continuavano a torturarmi attraverso il tessuto leggero.
«Magari era solo una scusa per attirarci qui» commentò Elena con un sorrisino.
La pressione dei polpastrelli sui miei punti più sensibili aumentò, così come il colore del mio viso. Mi portai il bicchiere alla bocca e lo tenni sollevato per nascondermi per qualche secondo.
«Be’, se lo era ha funzionato» continuò Gio senza accorgersi di niente. «Siamo tutti qui per questo bastardo».
Gli altri risero e io per poco non soffocavo.
«Che ne dite? Andiamo?» chiese infine Diego e la mano di Sam batté in ritirata.
Mentre ci spostavamo, gli mandai un messaggio. “Guarda che così impazzisco”.
“Io sto già impazzendo” mi rispose, digitando a pochi passi da me.
Mi sforzai di camminare in modo composto e di non attirare l’attenzione su di me, perché mi sentivo sul punto di prendere fuoco.
Durante il resto della serata cercai di stargli lontana e non bevvi nient’altro. Al contrario fu Ginny a darci dentro e si mise anche a chiacchierare con alcuni ragazzi canadesi, che offrirono a entrambe un Moscow Mule, ma solo lei accettò. Dovetti accompagnarla in bagno per assicurarsi che nessuno approfittasse di lei in quello stato e mi sorbii un discorso incoerente sul corpo femminile mentre stava dietro a una porta piena di graffiti e io mi sistemavo il rossetto allo specchio appannato.
«Il fatto è che Carlo mi piace» disse quando barcollò verso il lavandino. «Ma non riesce a farmi… a farmi provare certe cose a letto. Capisci cosa intendo?»
«Sì, capisco, ma non so se vorresti parlarne da sobria» replicai e la aiutai a lavarsi le mani. Aveva la fronte madida di sudore e le si era disfatta la treccia.
«No, mia mamma ha detto che le signorine non parlano di queste cose» acconsentì, «ma sono cose vere. Non so se voglio stare con una persona che non mi fa sentire quelle cose, capisci?»
Aveva cominciato a storpiare le parole, così le dissi che potevamo tornare all’albergo se era troppo stanca.
«No, no, non sono stanca. Sono giovane e devo godermi la vita. Andiamo a ballare» mi afferrò per un polso e mi trascinò nella sala più vicina. 
Ritrovammo gli altri solo mezz’ora più tardi. Ballammo ancora per un po’, Diego mi prese una mano e mi fece fare delle piroette, Gio e Luca salirono in piedi su dei tavolini scatenando le grida entusiaste dei presenti e Sam dovette rifiutare le avances di una donna che aveva almeno quindici anni più di lui, mentre Chiara ed Elena scappavano da una coppia di fratelli che le aveva puntate. Decidemmo che la serata era finita e ci salutammo a metà strada, dove i ragazzi svoltarono verso l’appartamento di Sam e noi proseguimmo in direzione dell’albergo. C’erano tante persone in giro, soprattutto giovani che andavano o tornavano da locali, o innocui barboni che sonnecchiavano sul ciglio dei marciapiedi.
«Mi sento così viva!» esclamò Ginny a gran voce. Io e Elena – che camminava al mio fianco – ci scambiammo un’occhiata che ci fece ridere.
«Che c’è?» commentò Ginevra voltandosi a guardarci. «Voi non vi sentite così? L’aria è calda, le persone sono belle e siamo qui con tutti i nostri amici».
Chiara le diede ragione e la prese a braccetto, poi saltellarono insieme per qualche metro canticchiando una canzone che avevamo ballato durante la serata.
«Ragazze» disse d’un tratto Ginny bloccandosi al centro del marciapiede. «C’è un problema».
«Dicci amica» la esortò Chiara barcollando.
«Credo che Sam sia l’amore della mia vita».
Mi sentii il cuore di pietra. 
Guardai Elena. Aveva gli occhi sgranati come i miei. «E Carlo?» chiese.
Ginny si portò le mani al volto e strabuzzò gli occhi. «Carlo non può competere e stiamo insieme da neanche un anno. Quattro anni della mia vita con Sam e da quando ci siamo lasciati sento che mi manca continuamente qualcosa. Ora ho capito che è lui che mi manca».
Con il cuore in gola, mi avvicinai e le poggiai le mani sulle spalle, costringendola a guardarmi negli occhi. «Non dire cazzate. Litigavate un giorno sì e l’altro pure».
«È comunque l’amore della mia vita».
Cercai l’aiuto di Elena con lo sguardo, ma Chiara fu più veloce e mi sottrasse Ginny strattonandola per un braccio. «Litigare vuol dire tenerci, se non discuti mai significa che non ti importa».
«Io e Carlo non discutiamo mai».
«Ecco, visto!»
Sbuffai e finalmente intervenne anche Elena: «Ginny, sei ubriaca e stai dicendo cose che non pensi. Torniamo all’albergo e al massimo ne riparliamo domani».
Concordai con lei, ma Ginevra prese a scuotere nevroticamente il capo. «No, no, domani è troppo tardi. Devo parlare con Sam, devo parlargli ora!». Il suo tono di voce concitato aveva attirato diverse occhiate di passanti. Un uomo ci chiese se ci fosse qualche problema ed Elena si affrettò a dire che andava tutto bene.
«Devi chiamarlo ora» esclamò Chiara saltando. «Devi combattere per voi».
«Cristo santo, non darle queste idee» sbottò Elena. 
«Esatto, torniamo all’albergo» mi accodai.
Ginny picchiò i piedi a terra come una bambina e si mise a strepitare che voleva chiamarlo. Non appena estrasse il cellulare, Elena glielo strappò di mano e lo infilò nella propria borsa, ma ottenne solo di farla gridare ancora più forte. Cercai di calmarla, ma più andava avanti e più attenzione attirava dalla strada buia. 
«Va bene, va bene, però basta urlare». Elena prese a frugare nella sua borsa. «Chiamalo tu, Meg, ho troppa roba».
Rimasi paralizzata qualche secondo, con tre paia di occhi puntati su di me. Poi mi riscossi, presi il cellulare e digitai il numero di Sam. Mentre ascoltavo il suono della chiamata in vivavoce, pregavo dentro di me che non rispondesse. Mi tremavano le mani e temetti di far cadere il cellulare.
«Ehi, tutto bene?»
Sospirai e gli dissi che Ginny stava facendo la matta e voleva parlargli. Ci disse di andare al suo appartamento, dato che era più vicino rispetto all’albergo. Mi diressi in quella direzione come se stessi camminando in un corteo funebre.
Quando arrivammo, lui ci aspettava sulla porta, ci sussurrò di entrare e di aspettare in corridoio, o di andare in cucina se volevamo qualcosa da bere. I ragazzi si erano messi a dormire nel salotto. Con un’espressione tremendamente seria, chiese a Ginny di seguirlo e la condusse in camera sua. Rimasi con le altre nel corridoio, passeggiando nervosamente avanti e indietro, facendo attenzione a non camminare sulle assi che cigolavano. Ci arrivavano di tanto in tanto stralci di conversazione. 
«Non mi stai ascoltando» diceva Ginny, ma non riuscivamo a sentire la risposta.
«Ecco, vedi» sbottava Sam poco dopo, ma non sapevamo cosa avesse provocato la sua reazione.
Dopo circa dieci minuti, la porta della camera si riaprì e Ginny ne uscì inespressiva. Altrettanto indecifrabile era l’espressione di Sam, dietro di lei. «Vi chiamo un taxi» disse soltanto e digitò qualcosa sul cellulare. Le altre lo ringraziarono. L’ultima cosa che vidi, mentre scendevo le scale, fu la sua sagoma ferma sulla porta, illuminata da dietro, con il viso troppo in ombra per capire cosa stesse pensando.
 


 
   
 
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