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Autore: Ser Balzo    08/03/2024    0 recensioni
Ti hanno detto che la guerra è arte, e che Clove e Dan non potrebbero essere più diversi.
Ti hanno fatto vedere che occorre esercizio, pazienza e una certa dose di estro poetico, e che quella sadica assassina e quello stupido mandriano non sono altro che due patetiche pedine, due profili su una parete scalcinata, miserabili vittime di un gioco ben più grande di loro.
Ti hanno insegnato tutto questo e tu hai imparato. E hai fatto bene.
Fino ad oggi.
Perché i Settantaquattresimi Hunger Games hanno spazzato via tutto, e ora niente ha più importanza. E chiunque tu sia, se un umile pedone, un coraggioso cavallo, un disciplinato alfiere o un'implacabile regina… sai già cosa accadrà, quando ti ritroverai tra il fango e le bombe, a pregare qualunque cosa perché ti rimetta gli intestini nella pancia e ti conceda finalmente l'oblio.
Ora guarda quei due ragazzi, quelle due anime inseguite da eserciti di ombre, braccate da legioni di demoni, e chiediti: qual è la prima regola dell’arte della guerra, la più importante?
Vincere?
Quasi.
Vincere è fondamentale, ma non essenziale.
Dovresti saperlo: prima della regola uno viene la regola zero.
Resta vivo.
Genere: Avventura, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clove, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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25.
Epilogo

Hey, is there a place for us?
Where flames flicker and wave for us


And we can see the future
and the dreams it’s made of


Hey, is there a place
A place for us?

 

– Mikky Ekko, Place For Us

 

 

Un nastro verde. Se lo rigirava tra le mani, come se nascosto da qualche parte tra le pieghe di quella striscia di tessuto ci potesse essere il senso di tutto quello che le era accaduto fin lì.

La gonna del vestito, mossa dal vento leggero, le sfiorava i polpacci. Era tanto che non la vedeva indossare un abito come quello. Semplice. Normale. Quello che avrebbe dovuto sempre essere, ma non era mai stata. E forse non sarà mai.

Al suo fianco, curvo sul proprio bastone, Peeta fece un mite sorriso.

«Verrete a trovarci, spero.»

«Ovvio» disse Johanna. «Anche se devo ancora capire cosa ci trovate di bello, laggiù in culo al mondo.»

«Immagino – ma è solo un ipotesi, eh» disse Gale, «immagino che sia proprio il fatto che è in culo al mondo, che gli piaccia.»

Johanna fece spallucce. «Contenti voi.»

Gli occhi di Peeta si assottigliarono in un’espressione di affetto, poi un tic gli contrasse la bocca in una smorfia che pareva di disgusto. Gale guardò il suo bastone, a cui si appoggiava nonostante avesse alcun problema alle gambe, e il nastro di Katniss che ancora si rigirava tra le mani.

«Posso abbracciarvi?»

Katniss sollevò gli occhi dal nastro e aggrottò le sopracciglia in una strana sorta di garbata, quasi infantile perplessità.

«Certo» disse. «Ma piano.»

Gale li sfiorò appena. Sentì la clavicola di Katniss sotto il vestito, il calore del sole sulla schiena ampia di Peeta. 

«Non so se qualcuno di noi riuscirà mai a stare bene» disse loro. «Ma se c’è qualcuno che se lo merita, quelli siete voi.»

Katniss si staccò da lui. Nei suoi occhi, Gale vide il fuoco che l’aveva condotta fino a lì. 

«Non merito niente più di chiunque altro» disse. «E spero davvero che continuerà a essere così.» 

Il trillo del fischietto del capotreno attraversò la banchina assolata.

«Andate, forza» disse Johanna, «o vi tocca rimanere qui con noi.»

Peeta offrì il braccio a Katniss. Lei lo prese e gli mise il nastro verde nel taschino della giacca.

«Fate buon viaggio» disse Gale. 

«E crepi la fortuna, col cui favore possiamo a malapena pulirci il culo» disse Johanna.

«Sempre» disse Peeta.

Katniss sbuffò dal naso, chiuse gli occhi, sorrise appena e annuì.

Nessuno aggiunse altro. I due Amanti Sventurati salirono sul treno e partirono. Niente fanfare, niente trionfi, niente sfilate. Forse fu quello, più di qualunque altra cosa, che fece capire a Gale che la guerra era davvero finita.

Un piccione zampettò davanti a loro, scese giù tra le traversine e prese a beccare qualcosa.

«Notevole» disse Gale.

«Cosa?»

«Crepi la fortuna, con cui ci possiamo pulire il culo

«Cosa? Qual è il problema?»

«Ah, nessuno.»

«Ecco.»

«Una perfetta frase di commiato.»

«E comunque era a malapena

«Eh?»

«Con cui a malapena possiamo pulirci il culo.»

«Giusto. Scusami, se puoi.»

«Posso, posso.» Johanna sospirò. «Bene, i due piccioncini hanno ufficialmente preso il volo. Ora che ne sarà di noi?»

«Non so te, ma io avrei una certa voglia di fare colazione.»

«Colazione, eh? Mi piace il concetto. Conosco giusto un posto qui vicino… se non è saltato per aria.»

«Direi che vare la pena tentare.» Gale accennò all’uscita dal binario. «Guidami, allora.»

Lei lo prese per mano.  

«Come sempre, Gale Hawthorne» gli disse. «Come sempre.»

Uscirono dalla banchina. C’era un bel venticello.

Da qualche parte, un uccellino lanciò il suo richiamo.

 

 

Dopo aver riletto per tre volte la stessa frase, Conrad si rese conto che forse era giunta l’ora di andare a dormire. Posò il libro a terra – per i comodini ci sarebbe voluto ancora un po’ – e fece per spegnere la luce, quando si rese conto che affacciato alla porta della stanza c’era qualcuno.

Sobbalzò, preso alla sprovvista.

«Scusa» disse Dana.

«Tranquilla…»

«Mi dispiace.»

«Figurati.» Conrad fece un piccolo sospirò di sollievo. «Che succede?»

«Io… no, niente. Scusa.»

La testa bionda sparì dalla porta.

«No, Dana – aspetta…»

Le molle del letto cigolarono.

«Che succede?» borbottò Ayla.

«Dana. È sveglia.»

Ayla si tirò su a sedere.

«Dana?» chiamò.

«Sì?» rispose la sua voce, dal corridoio.

«Non riesci a dormire?»

Dana riemerse dallo stipite.

«No. Ma non è un problema. Mi faccio una tisana.»

«Dana» disse Conrad.

 «Scusatemi ancora, tornate a dormire.»

«Non preoccuparti, lo faremo. Solo una cosa, poi ti lascio andare a prendere la tisana.»

«Ok.»

«Se hai incubi e… insomma, la stanza o la solitudine ti fa paura…» Poggiò la mano sullo spazio di letto tra lui e Ayla. 

Lei guardò la mano, poi risalì fino ai suoi occhi. «Non sono una bambina.»

«Lo so. E noi non siamo i tuoi genitori. È per… ci facciamo la guardia a vicenda.» Girò la testa verso Ayla. «Giusto?»

Lei lo guardò con affetto e annuì. «Certo.»

«La guardia» disse Dana. «Ok.»

Salì sul letto e si infilò sotto le coperte. Aveva i piedi gelati e i capelli che sapevano di lavanda.

Conrad spense la luce. 

Dopo poco, dormivano tutti e tre.

 

 

Virgil calciò un sasso. La pietra rimbalzò un paio di volte e si fermò davanti a un cancello di ferro scuro. Dietro si intravedeva una corte, una fontana, una statua.

«Chissà chi ci abita.»

«Un tizio» disse Maia. «Uno importante. Era nell’esercito. Tipo.»

«Quale, il nostro?»

Maia gli tirò uno scappellotto.

«Ahia!»

«Non si dice più nostro, cretino. Guarda che ti fucilano.»

«Scusa.»

«Ecco. Che non è che mi vada che ti sparino, eh.»

«Chi te l’ha detto?»

«Cosa?»

«Chi abita qui.»

«Nessa.»

«L’amica della zia? Ma quella puzza.»

Maia gli tirò un altro scappellotto.

«Ahia!»

«Si pensa ma non si dice.»

«Ti dico io cosa—»

«Comunque, la cosa è che la sua domestica lavora anche da lui. Dice che la casa è grande e vuota e lui è sempre solo. Sta tutto il giorno a giocare a scacchi, e guarda fuori dalla finestra.»

«Ah.»

«Già.»

«Ma scusa… se è solo, come gioca a scacchi?»

«Ah boh. Mi sa con se stesso?»

«Si può?»

«Ah boh.»

«Mi sembra una cosa piuttosto triste.»

«Sì, anche a me.»

I due fratelli rimasero qualche momento a osservare la grande casa elegante; poi la vita li richiamò indietro, ripresero la strada di casa e l’uomo triste e solo sparì dai loro pensieri.

 

 

Bussò. Attese.

Alla porta comparve una signora.

«Posso aiutarla?»

Deglutì. Pensò di andare via. D’altronde, che senso aveva?

«Salve.» Si schiarì la gola. «Salve. Mi chiamo Penelope O’Brian. Sono una… ero… conoscevo vostro figlio. Lee.»

«Oh.»

Penny avvertì un prurito fortissimo all’avambraccio. Mosse la mano per grattarsi, ma le dita incontrarono solo aria. Le avevano detto che sarebbe successo. Sindrome dell’arto fantasma. Prima o poi, forse ci avrebbe fatto l’abitudine.

«Ero con lui quando… noi… non so se vi hanno…»

«Sì» disse la donna. «Sì, ci hanno… una lettera.»

«Ecco, io – io ci tenevo a dirvi…» Deglutì. «Vi hanno detto com’è morto. Io vorrei dirvi com’è vissuto.»

La donna rimase in silenzio. Una busta di plastica strusciò sulla strada terrosa. Un suono remoto di campanacci giunse portato dal vento.

«Penelope, giusto?»

«Sì.»

«Stavamo per metterci a tavola. Ma posto in più ce n’è. Che dici, vieni dentro?»

«Ah. Io… è sicura?»

«Sicura.»

Penelope guardò la strada. Era morto, andato, perduto. Che senso aveva?

«D’accordo. Se per voi non è… certo. Con piacere.»

Tutto.

 

 

Una lacrima.

Fu l’ultima cosa che sentì.

Prima venne il buio e il silenzio. Per quanto, non seppe dirlo. Ma era piacevole.

Forse un po’ troppo.

Dopo vennero le voci. Prima sussurri spezzati e inconcludenti, poi parole sconnesse, infine frasi compiute.

«Abbiamo rischiato di perderlo parecchie volte, ma ora è stabile.»

Stabile.

Parlavano di lui? No, non era possibile. Lui era morto. Ricordava i tre proiettili che gli avevano trapassato il petto. Il resto, però era oscurato. Come se una fitta nebbia fosse caduta sui suoi ricordi. Non riusciva a ricordare di chi fossero le lacrime che l’avevano toccato. Era una tipa minuta, questo sì. Ma la sua faccia era sfocata.

Come ti chiami?

Cercò di far riaffiorare quel nome dalla palude stagnante che era diventata la sua mente.

Rose?

No, quel nome era importante – fondamentale, anzi – ma non era quello giusto.

Clove.

E finalmente venne la luce.

 

 

Non ci fu alcuna esplosione di sentimenti quando lo vide muoversi. Nessuna sensazione intollerabile, nessuna grande energia vitale che rifluiva nelle vene, nelle ossa, nel cuore e nell’anima.

Una strana calma si era impossessata di lei. Non aveva mosso un dito quando l’hovercraft era atterrato nella piazza, né quando i soldati li avevano trascinati via; non aveva chiesto a Plutarch Heavensbee con fare beffardo cosa avrebbe voluto in cambio di quello che lui sosteneva essere nient’altro che un regalo; non aveva neanche pensato a come uccidere Rorke. Tutto le sembrava lontano, tutto le sembrava vuoto. Ma un vuoto strano. Uno di quelli che, forse, chiedeva di essere riempito con calma, nel tempo, piano.

Aveva ucciso, era morta, aveva ucciso di nuovo.

Ma adesso, forse, era libera.

Ora non avrebbe dimenticato.

Ora non sapeva più, ma forse cominciava a capire.

 

Danyl Martin.

 

Posso vivere con Danyl Martin.











L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Ho iniziato questa storia nel febbraio del 2014. Oggi, dieci anni e qualche giorno dopo, arriva la parola fine.
In dieci anni ne cambiano di cose: come si scrive, quello che si scrive, quello che si pensa, l'angolazione con cui si pensa quello che si pensa. Il me di dieci anni fa stava in fissa con il grimdark e sognava che Clove entrasse nella villa di Rorke e uccidesse lui e le sue guardie del corpo in un frullatone sovraesposto di Kick Ass e V per Vendetta; il me di adesso pensa che beh, figo è figo, ma forse non è poi così necessario. Forse sti poveri cristi hanno già combattuto abbastanza, ed è giusto che li si lasci andare per la loro strada.
Hunger Games è stata la mia fissa Young Adult: ancora oggi, non so esattamente cosa mi attraesse (e mi attrae ancora) di questa saga. Ma le voglio ancora bene, e sono molto contento che la cara Susanna, al contrario di certune altre personalità, se ne stia tranquilla e non scriva stronzate su Mojo Dojo Casa House (pardon, X – pardon, twitter). Così come sono felice, davvero felice, di aver portato questa storia a compimento. Chi seguiva dall'inizio probabilmente adesso sarà da qualche parte a fare il 730 e altre cose sensate da bravi adulti; a voi, o prodi, posso solo dire che mi dispiace tanto averci messo tutto questo tempo a finire quella, che, in effetti, non è altro che una sciroccata fanfiction. Ma è per voi che l'ho finita: vi meritavate almeno questo. Per chi altri è giunto qui per qualsivoglia strano accidente del caso: felicissimo di vedervi qui, spero che questo ottovolante di pallottole pugnali cannoni adolescenti e piani che non sono piani che sono partite di scacchi 5d senza alcun capo né coda vi abbia intrattenuto – per non dire piaciuto. È stato un onore scendere dai mezzi da sbarco con voi, e seguire Clove Senza Madre e Dan Senza Gloria mentre sbattono il muso contro il muro della vendetta e cercano di capire se c'è qualcosa dietro. Saranno due disgraziati non proprio mentalmente stabili, ma li porterò sempre nel cuore.
Bene, direi che tutto quello che era da dirsi è stato detto. È il 2024, ho trentadue anni e sono ancora qui su efp. Come si suol dire, ho anche dei difetti.


Vi direi buona fortuna, ma la penso come Johanna; quindi solo: tanti cari saluti, tante – tante – care cose, e alla prossima storia (qui o da qualche altra parte)!

Il vostro cavaliere fittizio, 
Ser Balzo 

 

  
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