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Autore: Shadow writer    10/03/2024    2 recensioni
«Dai, ti do un passaggio, va bene?»
«Non sei costretto».
Lui sorrise. «Non mi sentirei a posto con la mia coscienza lasciandoti qui».
In un diario dell’anno successivo, annotai che, se avessi saputo come sarebbe andata a finire, non avrei accettato quel passaggio. Se avessi potuto avere un’anteprima dei mesi successivi, avrei scosso il capo a Sam, nel momento in cui mi avrebbe allungato una mano per alzarmi dal panettone. Non sarei salita sulla moto, aggrappata al suo busto con l’aria che mi soffiava sul viso e il petto premuto contro la sua schiena. Gli avrei scosso il capo e avrei aspettato il primo pullman del mattino per tornare a casa.
Ma quella sera ero ubriaca e triste e quando Sam era comparso davanti a me, su quella moto mi era sembrato un principe azzurro con il suo cavallo bianco. In quel momento mi ricordava solo il ragazzino di due anni più grande che al campo estivo mi aveva portata in braccio quando mi ero sbucciata il ginocchio e aveva corso sul terreno scosceso tenendomi sotto le cosce, mentre io guardavo il rivolo di sangue che scendeva verso la caviglia. Quella sera era ancora il mio salvatore.
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 20. Camera da letto



Quel sabato i genitori di Sam sarebbero andati a Firenze con sua sorella, così mi invitò a casa sua. Avevo accompagnato mia mamma a fare la spesa e le chiesi di lasciarmi vicino al lungolago, dove sarebbe passato a prendermi. Era una giornata invernale fredda e soleggiata, diverse persone passeggiavano sulla passerella in legno o portavano a spasso i cani a bordo della spiaggia. Un golden retriver particolarmente affettuoso mi si avvicinò, così – con il permesso del padrone – lo coccolai un po’ e poi lo guardai allontanarsi nella direzione opposta rispetto alla mia. Quando riportai gli occhi sulla strada, notai una macchina familiare che si avvicinava. Era quella di Sam, distinsi il suo volto attraverso il parabrezza. Mi raggiunse e mi superò senza vedermi e solo quando fu a un metro da me mi accorsi che non era da solo in auto. C’era qualcuno sul sedile del passeggero. Una ragazza. Non riuscii a vederla in faccia perché era china in avanti e stava cercando qualcosa – probabilmente nella sua borsa – così i capelli scuri le avevano coperto il volto. 
Mi sentii gelare. Il primo impulso fu quello di prendere il cellulare e chiedere a mia mamma di tornare a prendermi, ma feci un respiro profondo e continuai a camminare verso il club. Il cuore mi martellava il petto e il battito riecheggiava nelle tempie. Arrivai al club e aspettai nel parcheggio. Continuavo a pensare alle parole di Erika, mi davo della stupida per averla contraddetta quando, palesemente, aveva ragione lei. Mi pizzicava il naso e sentivo gli occhi lucidi. Non ero riuscita a vedere con chiarezza la ragazza, non sapevo chi fosse e il pensiero mi assillava con persistenza.
L’auto di Sam entrò pochi minuti dopo. Salii in silenzio e rimasi immobile quando lui si allungò per baciarmi sulla guancia.
«Sei fredda» commentò toccandosi la bocca con due dita. «Aspetti da molto?».
«Ho camminato sul lungolago. Ti ho visto passare prima».
Sorrise e mise in moto l’auto. «Ah sì? Ho una storia interessante da raccontarti».
«Ok».
Mi guardò. «Tutto bene?».
«Sì, raccontami la storia».
Lanciò un’altra occhiata verso di me, poco convinto. «Elena è passata dal club prima, voleva parlarmi».
Strinsi i denti e il naso prese a pizzicarmi in modo ancora più fastidioso. Guardai fuori dal finestrino per nascondere le mie smorfie. Elena aveva i capelli scuri come quelli che avevo visto.
«È innamorata» disse ridendo.
Il battito del cuore si era fatto assordante. «Di te?»
«Ma va, cos’hai capito?» rise di gusto e mi appoggiò una mano sul fianco per assicurarsi di avere la mia attenzione. «Di Gio».
Sgranai gli occhi. «Davvero?»
Annuì. «Assurdo, no? Non ci avevo mai pensato».
«E cosa voleva da te?»
«Mi ha chiesto consigli. Non sa bene come muoversi, né se Gio ricambi, così vuole andarci piano».
Presi un respiro profondo e l’aria mi liberò la gola e distese i nervi. Arrivati a casa sua, lasciò l’auto nel garage e mi condusse in salotto, dove la stufa in ceramica chiara aveva riscaldato l’ambiente. Lasciai il cappotto sull’attaccapanni sopra a quello di Sam e mi voltai verso di lui. «Devo chiederti una cosa».
Lui era in piedi tra i due divani, al centro della stanza e teneva in mano un accendino e una candela spenta. «Dimmi».
Deglutii e strinsi le mani in pugni per fermare il tremore che le aveva prese. Solo formulare quelle parole mi costava un considerevole sforzo fisico e mentale. «Ti vedi con altre ragazze?».
Smise di provare ad accendere la candela e mi guardò. «Oddio, Meg, perché dovrei?»
Strinsi le braccia al petto ed evitai il suo sguardo. Appoggiò accendino e candela al tavolo da caffè e scavalcò un divano per avvicinarsi a me, poi si bloccò.
«Perché me lo chiedi?». Il suo tono si era fatto sospettoso. «Tu vuoi… vuoi vedere altre persone?»
Feci cenno di no con la testa, senza parlare. Avevo la vista appannata dalle lacrime.
«È successo qualcosa?» chiese. «Con un altro ragazzo?».
Scossi ancora il capo.
«Perché me lo stai chiedendo, Meg? Sii onesta per favore».
Serrai la mandibola, poi asciugai nervosamente una lacrima con il dorso della mano. «Volevo solo essere sicura».
La sua espressione rimase diffidente, ostile. «È questo il vero motivo? Se c’è un altro voglio saperlo». Avanzò ancora verso di me. «Chiaramente non mi farà piacere, ma… non abbiamo mai parlato di questo, quindi sei libera di comportarti come vuoi».
«Quindi a te andrebbe bene uscire con altre ragazze?» domandai con la voce incrinata dal pianto.
«Non ho detto questo». Si era fatto gelido. «Ho detto che se ti scopi altre persone lo voglio sapere». 
Quelle parole mi lasciarono raggelata e sgomenta. «Come potrei?» sbottai. «Cristo, pensavo fosse palese che sono così innamorata di te da non riuscire neanche a guardarli, gli altri ragazzi. In confronto sono insignificanti. Non ti sei reso conto di come ti guardo? Di come di parlo, di come ti ascolto? Ti amo così tanto che è imbarazzante e a volte sono contenta di dover far finta che non sia così, perché altrimenti non sarei altro che una ridicola bambinetta ossessionata». Presi fiato, tremando. «E sono talmente pazza di te che se mi dicessi che vuoi vedere altre ragazze morirei dentro, ma ti direi di sì, perché mi va bene tutto pur di averti nella mia vita». Piangevo a dirotto, con il fiato corto e le guance in fiamme. 
«Oddio, Meg» mormorò lui e mi prese tra le braccia. Mi sollevò da terra come una bambola e mi portò sul divano. Nascosi il volto contro la sua maglietta, continuando a piangere. Mi accarezzò i capelli e mi baciò la testa, sussurrandomi che non c’era bisogno di piangere. Per un po’ mi cullò tra le sue braccia poi, quando cominciai a calmarmi, mi guardò negli occhi.
«Anche io sono innamorato di te» disse con dolcezza. «La tua domanda mi ha sorpreso, perché credevo che fosse chiaro».
«Forse non lo era così tanto».
Sorrise. «No, forse no».
Mi tenne ancora un po’ tra le braccia, poi chiese se volessi qualcosa per recuperare il buon umore. «Ho del gelato, oppure possiamo guardare una commedia» propose.
Ci pensai un attimo, poi scossi il capo. «No» dissi. «Voglio vedere la tua camera».
Sollevò le sopracciglia e rise, mostrando il suo dente scheggiato. «Solo quello?»
Arrossii e cercai di non cambiare espressione. «Non l’ho ancora vista».
«Certo, perché era sempre in disordine e non mi andava di fartela vedere in quelle condizioni». Mi baciò su una guancia, poi l’altra, poi sulla fronte e infine sulle labbra.
«Oh, davvero?»
«Be’, sì. Se avessi saputo che ci tenevi a vederla, l’avrei lucidata bene bene già la prima volta che sei venuta».
Mi prese la mano, intrecciò le dita alle sue e poi mi fece alzare in piedi. «Lo hai voluto tu, quindi non hai diritto a criticare il disordine».
Salimmo dalle scale rivestite in legno fino a un piccolo corridoio, lo attraversammo e aprì la porta in fondo a sinistra. Nella stanza c’era un letto matrimoniale con la testiera verniciata di blu e il piumone azzurro chiaro che era stato sistemato alla buona, infatti dallo stesso lato toccava terra vicino al cuscino ma a malapena copriva il materasso ai piedi del letto. Dato che la stanza era all’angolo del piano, c’erano due finestre su due pareti contigue e una di queste illuminava con abbondante luce naturale un’ampia scrivania. Da lì si vedevano i rami degli alberi più vicini, il resto del giardino e, poco lontano, il lago. Aveva una cabina armadio, una libreria dello stesso blu della testiera e una sedia su cui aveva accumulato dei vestiti. Perlustrai i mobili con gli occhi: i libri dell’università, una scatola con il coperchio di vetro che conteneva alcuni orologi, la fotografia di lui e sua sorella su una barca a vela, un braccialetto di pietre scure abbandonato tra alcuni dvd e dei contenitori di latta. Guardai anche i cassetti della scrivania (oggetti di cancelleria buttati senza ordine casuale, una calcolatrice, caricatori e cuffie, alcuni mazzi di carte, un borsellino chiuso male da cui sbucava una banconota).
«Non credo troverai nulla di sconvolgente» mi disse, fermo sulla soglia, con una spalla appoggiata allo stipite e le braccia conserte. «Le cose segrete le tengo nel cassetto delle calze, se ti interessa».
Mi avvicinai al letto e gli chiesi se potessi sedermi.
«Certo» rispose e si staccò dalla porta per avvicinarsi. Una volta seduta, stesi la schiena sul piumone, con le gambe che pendevano dal bordo e inspirai profondamente. Dal letto traspirava il suo odore.
Sam si stese accanto a me. «Soddisfatta?»
«Molto».
Rotolai verso di lui fino a che il mio corpo aderì al suo attraverso i vestiti pesanti, poi mi sollevai su un gomito per guardarlo negli occhi. 
Lui allungò una mano e sistemò dietro al mio orecchio una ciocca di capelli che mi era caduta sul viso. «Forse sono sempre stato innamorato di te» disse. «Ancora prima di conoscerti».
Sorrisi. «Questo è impossibile».
«Non lo so. Non ricordo un momento in cui non lo ero».
Mi chinai verso la sua bocca e lo baciai. Profumava di zucchero e sapone. «Non sai quanto mi rende felice sentirti dire queste cose» mormorai.
«Voglio renderti felice».
Accarezzi la sua pelle dove il maglione si era sollevato e aveva lasciato scoperto uno spazio sopra ai jeans. «Lo fai già. Basta che non vai a letto con altre ragazze».
Gemette e si coprì il volto con le mani. «Oddio, scusami per come sono sbottato prima. Ma l’idea di te con qualcun altro…»
«Lo so» dissi e lui sospirò, poi tolse le mani dalla faccia e tornò a guardarmi con le sue iridi azzurre. «È normale».
«Non saprei, non ho mai avuto grandi riferimenti di cosa sia “normale” in una relazione». 
«Parli dei tuoi genitori?»
Annuì, fissando il soffitto come se riuscisse a vedere oltre. «Credo che non si siano mai amati neanche un giorno della loro vita». Il suo corpo era teso. Gli dissi di proseguire e ubbidì. «La loro relazione si basa sul semplice fatto che appartenevano alla stessa classe sociale, ai loro occhi almeno. Era mia mamma quella con i soldi e i suoi genitori non erano così contenti di farla sposare con il figlio del canottiere. Ma il club continuava a espandersi e attrarre clienti, così alla fine hanno ceduto. Mio papà ha ottenuto il capitale e mia mamma la “fama” nel paese, se così si può dire. Il perfetto investimento» commentò amaramente. «Con Ginny mio papà voleva che la storia si ripetesse. Lui lo ha detto a mia mamma, mia mamma ha cominciato a parlare con me dicendomi quanto fosse carina Ginevra e lo stesso faceva con lei quando io non c’ero. Lo sai che eravamo andati al mare insieme quell’anno, prima di fidanzarci?»
Le iridi azzurre si spostarono dal soffitto verso di me. Scrollai le spalle. «Non mi ricordavo».
«Ti rendi conto? Ero un ragazzino e la mia vita privata era parte di una macchina aziendale».
«Credevo fossi stato innamorato di lei, almeno all’inizio».
Piegò le labbra in una smorfia indecifrabile, poi allungò una mano, mi accarezzò la guancia e infilò le dita tra i capelli. «A quell’età, chi lo sa davvero cosa vuol dire amare? Ginny era una brava ragazza, ma non ho mai provato per lei quello che provo guardando te».
«Che adulatore».
«No, sono serio».
Il viso mi si scaldò al punto che temetti di sciogliermi. «Perché?» gli sussurrai.
Continuò ad accarezzarmi i capelli, il volto, le labbra, senza togliermi gli occhi di dosso. «Mi sento bene quando sto con te, quando penso a te. Sono in pace. Nulla è veramente terribile se so che mi guarderai ancora con i tuoi occhi enormi e mi abbraccerai e io potrò sprofondare dentro di te e dimenticare tutto il resto. Vorrei dire al mondo che sono la persona più fortunata tra tutte loro perché posso averti qui, tra le mie braccia, posso guardarti negli occhi, posso baciarti e nessuno di loro può fare queste cose».
Mi morsi le labbra e mi si inumidirono gli occhi. «Presto potrai farlo» sussurrai, senza sapere quando “presto” sarebbe arrivato.
 
 
 
A febbraio, dopo aver finito i pochi esami della sua sessione invernale, Sam cominciò uno stage presso un’importante azienda che si occupava di organizzare eventi per clienti di alto profilo.
Spesso andavo in città con lui e mi fermavo in università a studiare con Eleonora e altri ragazzi. Dopo pranzo prendevo la metropolitana e scendevo alla fermata successiva, così potevo bere un caffè nel bar dove lui pranzava. Sedevamo ai piccoli tavolini rettangolari, Sam mi raccontava cosa aveva fatto in ufficio e io gli riportavo le ultime novità dall’università. Eleonora era in crisi con Andrea perché lui voleva “provare nuove esperienze” e ogni giorno c’erano aggiornamenti che riferivo fedelmente durante quella pausa caffè.
A fine mese, dopo una giornata di studio particolarmente impegnativa, salutai Eleonora sulle scale della metropolitana e, quando raggiunsi la palazzina dove lavorava Sam, lo trovai già in strada. Stava parlando al cellulare, mi salutò alzando una mano.
«Sì, posso passare subito» stava dicendo, poi guardò l’orologio al polso. «Dammi cinque, massimo dieci minuti e sono lì».
Chiuse la chiamata e mi accolse con un bacio sulla guancia. «Devo fermarmi a prendere una cosa, ma faccio veloce, va bene?»
Annuii. L’alternativa era tornare in pullman da sola nel buio di quella sera invernale. Camminammo per poco meno di un chilometro, tra le vie pedonali strette da palazzi alti ed eleganti. Tutto era illuminato da vecchi lampioni che creavano un’atmosfera romantica ed enigmatica. 
Sam si fermò davanti a un portone e suonò il campanello. Si sentì un ronzio, poi con uno scatto il portone si aprì davanti a noi. Salimmo fino al terzo piano attraverso delle scale strette che ruotavano intorno alla gabbia dell’ascensore. Davanti a noi stava un corridoio con tre porte, di cui una era già socchiusa e una lama di luce filtrava dallo spiraglio. Sam si diresse verso quest’ultima e si affacciò all’interno chiedendo permesso. Gli rispose un ragazzo poco più vecchio di noi. Ci fece entrare in quello che pareva un appartamento scarsamente arredato e ci condusse attraverso le stanze. C’era una piccola sala-cucina che si affacciava su uno stretto terrazzo, poi un esiguo disimpegno conduceva al bagno e a una stanza arredata solo con un armadio a tre ante. Cominciò a parlare a Sam del vicinato, del supermercato in fondo alla strada, poi della caldaia e di come funzionava il piano a induzione.
«Perfetto, va benissimo» disse Sam. L’altro gli pose dei fogli e si appoggiarono al tavolo della sala-cucina per firmarli, poi lo sconosciuto gli lasciò un mazzo di chiavi, lo salutò e se ne andò augurandoci buona serata.
Rimasti soli, Sam mi guardò con un sorrisetto soddisfatto. 
«Io non ho capito» gli dissi.
«Non è molto difficile» mi punzecchiò. «Questo è il mio nuovo appartamento. E sei la benvenuta tutte le volte che vorrai fermarti a dormire».
Mi guardai attorno, esterrefatta. Nonostante le dimensioni modeste, si trattava di un posto di alta qualità: lo si vedeva dalle finiture dei mobili, dalla porta-finestre che conduceva al terrazzino e dal parquet che c’era in tutte le stanze. Ero senza parole.
«Stare in città mi fa risparmiare due ore al giorno e anche un sacco di benzina, quindi mio papà non ha avuto molto da ridire».
«Perché non me lo hai detto prima?»
Sam mi prese una mano e mi tirò verso di sé. «Volevo che fosse una sorpresa, non sei contenta?»
Annuii. «Certo che lo sono». Mi alzai sulle punte e lo baciai, poi, contro alle sue labbra, gli sussurrai che lo amavo.
   
 
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