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Autore: pansygun    19/03/2024    0 recensioni
Raccolta di one-shot su vari personaggi (di vari fandom se mi riesce).
Cosa troverete?
• Possibili spoiler
• Personaggi singoli
• Ship varie
• Turpiloquio q.b.
• Fuffosità a tratti
• Disagio talvolta
• Sesso? Sì, grazie

mi trovate anche su Wattpad come veciadespade
Tutti i diritti riservati ©️ | 2023
Genere: Erotico, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Dabi, Izuku Midoriya, Katsuki Bakugou, Shigaraki Tomura
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Violenza
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...but everything ends | Katsuki's grief


 

TAGS: angst
RATING: verde
TW: morte
💧: 4/5 (mi sono commossa, lo ammetto...)

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Il leggero picchiettio della pioggia contro il vetro della finestra riempie la stanza altrimenti silenziosa, mentre fisso il mio riflesso nello specchio.

Allungo una mano e mi sfioro la guancia, l'immagine mi rimanda una smorfia di fastidio; l'estesa cicatrice che deturpa il lato destro del mio viso non è ancora guarita e sembra più evidente che mai. Così rossa e raggrinzita che sembra quasi quella del bastardo a metà... Solo che questa è diventata il costante promemoria del prezzo che ho pagato.

«Dannazione!» impreco a denti stretti, mentre la mano torna in basso e le dita tremano, lottando per avvicinare i lembi della camicia candida e, nel contempo allacciare i bottoni sulle asole corrette. Avrei dovuto diventare ambidestro, lo dicevo io!

Il fatto è che quella metà mancante del mio braccio destro rende quasi impossibile qualsiasi compito semplice.

Mi mordo il labbro inferiore e trattengo una bestemmia quando, per l'ennesima volta il bottone sfugge senza neppure aver avvicinato quella stramaledetta asola!

Grugnisco. Credo sia l'unica cosa che riesco a fare in questi giorni.

Mi viene difficile fare tutto. E non è per il braccio, né per l'occhio destro, che mi fa vedere solo ombre e contorni sfocati. Né per le mie orecchie, che pure loro hanno deciso di non collaborare.

Una cospirazione, ecco cosa sta avvenendo nel mio corpo.

Mi sembra di essere passato fisicamente sotto una schiacciasassi. Non che di spirito vada tanto meglio.

Lo vedi? Mi riduco a fare discorsi con la mia testa e mi sembra di essere pazzo.

Tanto matto che mi tocca pure sobbalzare a vedere dietro di me il riflesso di mio padre. È lì che alzo il braccio e me lo porto al petto, dove questo cuore malandato batte un po' troppo in fretta.

Il mio vecchio mi sorride, nel riflesso. Mi sorride e si avvicina, allunga delicatamente una mano e mi accende gli apparecchi, prima uno poi l'altro. «Ecco perché non rispondevi.»

E neppure adesso rispondo. Cosa dovrei dirgli? Che sarebbe meglio senza questi affari infernali sulle orecchie? Che ogni tanto mi pento di non aver chiesto a quella mocciosa di aiutarmi?

«Katsuki...», e ci sento tanta tenerezza nel mio nome, pronunciato così sommessamente che mi ritrovo solo a chinare il capo per non guardarlo in faccia. Non voglio vedere i suoi occhi scuri guardarmi con compassione. Non lo sopporterei. Non oggi. «Lascia che ti aiuti...».

Vorrei avere la fermezza che ha lui nelle dita ora, vorrei riavere la mia abilità innata di fare le cose bene al primo colpo.

Andare per tentativi è frustrante.
Essere improvvisamente incapace è frustrante.
Sentirmi in questo modo... è frustrante.

Il mio sguardo segue quelle dita sul bottone che sta per chiudersi sul mio petto, sulla cicatrice frastagliata nel suo centro, un fuoco d'artificio come un altro doloroso ricordo di ciò che è passato. Mi costringo a fare un respiro profondo quando pure il bottone più alto viene stretto e papà mi alza il colletto.

Si allontana di poco, si sporge verso il letto a recuperare la cravatta nera, per gettarmela al collo, fare un nodo con quelle dita abili.

«Lo so che la odi, ma fai uno sforzo oggi, va bene?», mi dice, sistemandomi quell'affare infernale sulla gola, due dita passate tra la stoffa della cravatta e quella dela camicia: «...così non ti sentirai soffocare.».

Ha la voce bassa, dolce.

Non mi sono mai davvero sforzato di capire come una persona così calma come lui potesse stare con quell'arpia di mia madre.
Ora lo so. È tardi, ma l'ho capito.

«Va bene, pa'», sussurro. Mi fa strano: ho la voce così roca e stanca che quasi non la riconosco. E lui interpreta male la mano che mi metto sulla gola. Ma non è stretto il nodo, quello va bene.

È tutto il resto che dentro mi stringe: il fegato, lo stomaco, l'intestino. Sembra che tutto stia collassando dentro di me. Pure il cuore.

È tutto così stretto e compresso che non sembra neppure fare male. Ma, forse, sono solo gli antidolorifici. O i tranquillanti.
O forse sono solo stanco. Perché mi sono alzato oggi? Ah, sì...

«Posso?».

Allargo le braccia, o ciò che ne resta, e non dico una parola, lasciandomi vestire, come quando avevo cinque anni. Solo che stavolta non protesto, non piagnucolo né mi dimeno. E papà... Beh, è papà: sta zitto e non dice nulla. Mi guarda, di tanto in tanto e sospira. Cos'altro potrebbe fare?

Però si sta impegnando, a mettermi bene la camicia nei pantaloni, senza fare troppe pieghe. È un precisino del cazzo, come me. Ecco da chi ho preso.

Solo che mettere dei jeans e una camicia dopo settimane di vita perennemente in tuta... Un supplizio, ecco cos'è.

«Solo per oggi...». Lui lo capisce. A volte credo che tu e lui siate più simili di quanto abbia mai immaginato.

Mi aiuta con la manica destra della camicia, la arrotola bene, appena al di sotto del moncone. Arrotola anche l'altra alla stessa altezza e mi prende per le spalle, voltandomi verso lo specchio, avvicinandosi al mio orecchio e parla piano-piano, come se dovesse dirmi un segreto, quando in realtà sta solo cercando di farmi sorridere un po': «Mi sa che la giacca la lasciamo a casa, non credi?».

Ma se devo essere vestito da damerino, beh... Meglio farlo bene, no?

«No.», mormoro, sfuggendo dalla sua presa lieve e prendendo la giacca nera dal letto e porgendogliela. «La metto. Per una volta...».

Mi aiuta ad indossarla con cura, una smorfia di fastidio ogni volta che muovo la spalla destra. Dio! Come lo odio.

Sa che oggi è particolarmente difficile per me e sta facendo del suo meglio per sostenermi. Lo apprezzo, davvero. Credo di non essere mai stato più sincero di così.

Ha tanto senso ancora mentire a se stessi?
Ha senso dopo tutto quello che è successo?

«Katsuki...» mi chiama lui, di nuovo le mani sulle mie spalle mentre mi sistema i revers della giacca. Ha almeno la decenza di non volermi vedere in faccia, anche se il suo viso disteso cela in malo modo tutta la sua preoccupazione: «Ricordati di respirare. Siamo qui per te.».

Facile.

Non so quante volte in questi giorni ho sentito frasi simili. E mi facevano solo imbestialire.

In realtà ho una rabbia dentro anche adesso che non so come far uscire. Non ci riesco più. Credo che la mia rabbia si sia trasformata in rassegnazione

Lo credo perché, se mi guardo allo specchio, stento a riconoscermi. E non è per l'aspetto fisico.

Non è per la vista a metà.
Non è per l'udito andato a puttane.
Non è neppure per il braccio mancante.
Credo mi sia perso qualcosa dentro.

«Lo so.».

Lo vedo riflesso nello specchio, il mio vecchio. Gli vedo più rughe attorno agli occhi, qualche capello bianco in più. E mi verrebbe da scusarmi, perché so bene che quelle sono le preoccupazioni che gli ho dato io.

«Ti aspettiamo giù.», e fa per andarsene.

Almeno fino a che non lo richiamo. «Pa'?».

«Mh?».

E adesso? L'ho richiamato... Ma adesso? Che gli dico?
Da dove comincio?

Ho fatto due settimane di mutismo, di testa sbattuta contro il muro, di denti conficcati nel labbro per non urlare.
Da dove si comincia a parlare?
Come cazzo ci riuscivi tu, ah?

«Come... Come fai a sapere quali ricordi salvare?».

La sua espressione si addolcisce e afferra con la mano lo stipite della porta, un piede fuori, uno dentro.

«Lascia... Lascia stare...». Ti concedo la possibilità di scappare. Fallo, tu che puoi, che io sono ancora chiuso da qualche parte nel buio, con un chiavistello a doppia mandata. In titanio, presumo, perché non riesco a toglierlo, non riesco a spaccarlo. Con una mano sola poi...

«Non voglio lasciar stare, ma sarebbe meglio parlarne dopo, con più calma. Va bene?»

Annuisco. Tiro le labbra in una smorfia piatta e annuisco. Cerco di trattenere l'ondata di emozioni che si infrange contro i muri che mi sono costruito attorno al cuore. Ma sono muri vacillanti; una nuova scossa e cadrà tutto, me lo sento.

Infilo la mano in tasca e poi gli faccio un cenno col capo: «Vai. Io arrivo subito.».
E con un cenno di rimando lo vedo scappare in corridoio.
Scapperei anche io da me stesso, se potessi.

Con calma abbasso lo sguardo, attendo il ronzio degli apparecchi acustici che si spengono sotto i miei polpastrelli. E poi lo guardo di nuovo allo specchio.

Un ultimo sguardo a quel riflesso, solo per vederti lì, su un letto su cui non ti siedi da una vita...

Hai gli occhi vispi, che si alzano da uno dei tuoi cazzo di fumetti e mi guardano, un sorriso accennato sulle labbra. "Se puoi vedermi è tutto nella tua testa."

Le posso sentire quelle parole. Da solo, nel silenzio della mia stanza, posso sentire la tua presenza.
Accanto a me, le mani sulle spalle nell'esatto punto dove le aveva lasciate mio padre, esortandomi a essere forte.

«Dannazione, Izuku...», sussurro, trattenendo le lacrime dietro le palpebre serrate, il pugno stretto, trovando conforto nel dolore che mi attraversa le dita.

La voce squillante di mia madre arriva dal piano di sotto senza che nemmeno accenda questi cosi. «Katsuki! Faremo tardi!».

Sospiro.
Unica nota positiva credo sia la pioggia, così cliché.
«Arrivo!», grido di rimando, dando un'ultima occhiata al mio riflesso prima di lasciare la stanza, cercandoti ancora su quel letto.

Un gradino dopo l'altro sento le gambe cedere, tanto che mi tocca appoggiarmi al muro con discrezione, per non far preoccupare i miei vecchi.

«Andiamo.», ma la voce non mi sembra proprio la mia, mentre oltrepasso mia madre e apro la porta d'ingresso, uscendo sotto la pioggia. Ci dirigiamo verso la macchina e non riesco a fare a meno di dare un'ultima occhiata a casa nostra, prima che lei chiuda a chiave la porta, come se cercassi qualche segno di te: un'ombra fugace, una voce familiare, qualsiasi cosa. Ma sembra tutto così strano e assurdo e irreale, perché in questa casa è una vita che non ci metti piede ed ora te ne sei andato e mi restano solo i vaghi ricordi che condividevamo.

Appoggio la fronte al finestrino fresco, osservo per un po' le gocce e il mio fiato appanna di poco il vetro. Faccio per alzare la mano, ma grugnisco. La destra, giusto.
Tu la mano destra non ce l'hai più, coglione.

Volevo disegnare un cazzetto sul vetro appannato, per sdrammatizzare.
Come quella volta nella macchina di Endeavor, ricordi? Chissà se se ne è mai accorto...

Sui sedili davanti sento i miei parlottare, ma non so bene di cosa. Vorrei spegnere gli apparecchi, ma non posso.
Becco mia madre lanciarmi un'occhiata fugace, ma faccio finta di niente.
Abbasso le palpebre. Vorrei stare a casa, ma non posso.
Non è più il tempo di abbandonarti, di lasciarti in un angolo.
Devo pur ripagare tutta l'incrollabile fiducia che riponi in me, giusto?

«Katsuki...», il tono di mia madre è dolce, forse continua a guardarmi ma non ci do peso. «Vedrai che tutto si rimetterà a posto.».

A posto?
Cosa deve rimettersi a posto? Una vita di sbagli?
So già che niente andrà mai più veramente bene.
Perché avevo un amico che non meritavo. Come la rimetti a posto questa cosa, ma'?

Come la rimetteresti a posto se ti dicessi che vorrei cento volte fare a cambio?

L'auto si ferma e qualcuno si affretta ad accostarsi alla macchina, ombrelli neri che ci riparano dalla pioggia. Che cliché.
La pioggia continua a cadere, il cielo cupo riflette il mio umore mentre mia madre mi si stringe contro sotto l'ombrello. Mi stringe fino a che non arriviamo all'entrata di una sala gremita di persone. Fiori bianchi agli angoli, un puzzo d'incenso da far venire il vomito.

Questa cos'è? Opera di tua madre?
Pff! Pacchiano.
Ma non gliene faccio una colpa solo perché ha trovato una bella foto da mettere sull'altare. E mi mozza il fiato.

Ho passato due settimane senza vedere il tuo viso. Ho un ricordo confuso, della guerra.
Ma il tuo sguardo lo ricordo bene.
Forse mi hai guardato così per tutta la vita e io me ne sono accorto solo in quel momento.
Sciocco da parte mia non accorgermene prima.

Una mano mi si posa sulla spalla destra.

«Vuoi dire qualcosa Bakugō?».                             "Vuoi dire qualcosa Kacchan?"

Volto il capo e osservo Aizawa, in piedi a braccia conserte accanto a me, dall'altro lato Eijiro mi preme la mano sulla spalla. È un conforto silenzioso, lo apprezzo.
Non sono in vena di farlo esplodere. Non oggi.
Ha gli occhi lucidi e le labbra massacrate dai suoi stessi denti.

Esito, incerto se davvero ho la forza di parlare qui, davanti a tutti. Davanti a te.
«E io in queste cose faccio schifo, lo sai.».

Non so nemmeno se le ho dette davvero quelle parole.

Alzo lo sguardo. Mi sembri reale adesso, con la tua tuta verde, una gamba piegata sotto l'altra a penzoloni, le mani a tenerti la caviglia e la tua faccia da schiaffi che mi guarda e sembra prendermi in giro per la mia goffaggine nei sentimenti. Come prima. come sempre.

Mi sembri così reale...
Mi sembra che se provo ad allungare il braccio riesco a raggiungerti e toccarti. Ma tu mi fai solo un cenno col capo: lo inclini, arrossisci e mi sorridi.

Mi giro, di poco. Guardo papà. Non so bene perché, in tutta la mia costante ricerca di indipendenza e di autoaffermazione io mi metta a cercare proprio lui, il suo sguardo, la sua approvazione.
Ma forse è solo perché mi ricorda te...

«Poco fa ho chiesto al mio vecchio come si fa a sapere che ricordi salvare...», mi blocco. Faccio fatica. Fa quasi male respirare.
Quella frase rimane nell'aria, senza risposta. Come posso davvero scegliere quali momenti con Izuku fossero stati più preziosi degli altri? Ogni ricordo occupa un posto particolare nel mio cuore e il pensiero di perderne anche solo uno mi risulta insopportabile.
Stringo la mascella e la mano in tasca. L'incenso continua a darmi la nausea, come l'odore di marcio di tutti questi cazzo di crisantemi.

«Da bambini passavamo ore a fingerci eroi, combattendo contro cattivi immaginari.»

Gli occhi pizzicano in maniera maledettamente fastidiosa, faccio un respiro profondo, tiro su col naso, perché a soffiarlo con la sinistra ho difficoltà e mi renderei ridicolo.
«Hai sempre creduto di poter fare la differenza, anche prima di avere qualsiasi potere.».

Li sento, i babbei dietro di me. Tutti quelli che di te non sanno un cazzo. Sentili come frignano per quattro parole in croce.

E tu sei lì, che mi osservi, con una strana luce negli occhi, come se fossi fiero di me.
Fiero di cosa? Del grumo di rabbia inespressa che sono diventato per te?

Sento il mio corpo dolorante, oppresso dal peso del dolore che porto, e ogni respiro che faccio è una lotta contro me stesso. Il me stesso che vorrebbe girare i tacchi e andarsene nel silenzio, fuori da qui.
Ma te lo devo. Almeno questo te lo devo.

Anche io so mantenere le promesse, nerd.

Una pausa, deglutendo a fatica quelli che mi sembrano sassi mischiati a saliva, mentre i ricordi riaffiorano ogni volta che sbatto le palpebre, tentando di sopraffarmi. «Io... Io voglio salvare questo ricordo di te. Di noi.»

"Solo questo?"

Ti sento. Sei accanto a me, più basso e magrolino; la divisa nera delle scuole medie.
Chiudo gli occhi e li riapro. Pizzicano e pizzica pure il naso.

«Questo basta.».

Basta davvero. Basta tutto questo. Finiamola.
Giro i tacchi, strattono le spalle per scrollarmi di dosso quelle mani che mi vogliono afferrare, trattenere.

Lasciatemi stare, andatevene tutti a fanculo.

La mano sinistra va di nuovo alle orecchie, spengo tutto.
L'unica cosa che non spengo sei tu. E questo va bene.
Va bene vederti. Va bene che sia solo nella mia testa. Mi regala l'idea che tu ci sia ancora.

Mi sembri reale, anche quando non lo sei più.

Il corridoio lo faccio quasi di corsa, il passo malfermo sulle assi di legno, fino a trovarmi la porta a vetri dell'edificio di fronte al naso. Una spallata per aprirla e uscire. Fuori, alla pioggia.
I capelli che si bagnano e si appiattiscono sulla fronte, i vestiti che si infradiciano man mano che procedo, senza meta, a sinistra, lungo la strada che sale. La direzione opposta rispetto a quella da cui sono venuto con l'auto dei miei.

Importa? Ma proprio un cazzo.

Ad ogni passo che faccio lontano dalla tomba di Izuku, lontano da quel memoriale, mi ritrovo a respirare sempre più velocemente, il cuore che pare schizzarmi fuori dal petto, tanto da dovermi fermare e affiancare a un muro, lungo la via; ci poso la fronte e chiudo gli occhi, concedendomi un paio di profondi respiri e poi un urlo.

Lungo, liberatorio. Vorrei crepare questo muro con la mia sola voce.

Lo prendo come ultimo momento di dolore prima di voltarmi e tornare ad affrontare un futuro che mi sembra solo fatto di incertezza e solitudine.

Ma è solo quando stacco la fronte dal muro freddo, il fiato ancora corto, che mi giro indietro e ti vedo.
Ti vedo che mi sorridi, con gli occhi luccicanti e la figurina stretta in mano. I tuoi piedi non stanno fermi per la contentezza e mi raggiungi. Mi raggiungi e mi allunghi quel foglietto plastificato che tieni tra le mani.

In tutto questo assordante silenzio, che so che mi circonderà per il resto della mia vita, tu mi stai parlando, chiedendomi di onorare la tua memoria nell'unico modo che conosco.

E in quella figurina stropicciata ci vedo la mia faccia, il mio ghigno. Che sovrasta quella scritta in nero e arancione. "Kacchan."

Ti guardo. Ti guardo e ti prometto che diventerò l'eroe che hai sempre creduto io potessi essere.
Per tutti e due.

Mi sento prendere per mano. La destra.
Cosa può prendere un fantasma bambino se non un arto fantasma?

E io rido, mentre la pioggia non cessa di cadere.
Certo che potevi essere più fantasioso, no?
Mai una volta che a un funerale ci sia il sole!
Ah, no, giusto.

Il sole è morto con te.
 

How do you know which time might be the last?
What I would give just to see you again
I'd walk to the depths of a world down below
And demand to get back what some circumstance stole
I still remember the last look of hope in your eyes
Oh, I wish I had stayed just a little while
~ Vincent Lima~

 

   
 
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