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Autore: Zobeyde    07/04/2024    2 recensioni
Prequel de “Gli ultimi maghi”
Sono anni turbolenti per l’Europa: la Belle Époque sta per tramontare, sotto l'incombere di una guerra come non se n’erano mai viste, e nella millenaria città di Arcanta, dove la magia esiste e i suoi abitanti hanno da sempre vissuto al riparo dalla corruzione del mondo, c’è chi non può restare indifferente ai cambiamenti fuori dalle sue mura incantate:
Abigail Blackthorn, in fuga da una gabbia dorata per aiutare chi soffre nelle trincee, dove inaspettatamente troverà amore e dannazione.
Solomon Blake, cinico, ladro, machiavellico, determinato a rendere la magia grande come un tempo, fino al giorno in cui scoprirà che ogni cosa ha un prezzo.
Zora Sejdić, maga decaduta che ha fatto dello spiritismo la propria arma per la scalata al potere. Un’arma però che si rivelerà presto a doppio taglio…
Dal testo:
[…] Vede, ambasciatore, io non credo né negli dei, né negli uomini. Credo che ognuno di noi, presto o tardi, venga chiamato a giocare un ruolo in una partita ben più grande. Deve solo capire qual è il suo. […]
Genere: Angst, Fantasy, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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IL FULMINE

 
 
“Despite all my rage,
 I am still just a rat in a cage…”
https://www.youtube.com/watch?v=8-r-V0uK4u0
 
 


 A tre giorni dal ritrovamento del corpo di Jonathan Blake, ad Hurtgrove Hall regnava un silenzio di piombo. Tende nere erano state affisse a tutte le finestre, e i domestici continuavano le loro attività quasi senza far rumore, le teste chine e gli occhi rossi di pianto.
Lavinia Blake era barricata nella sua stanza, e si rifiutava di mangiare. Alastor Blake passava le giornate nel suo studio.
Anche Solomon trascorreva tutto il tempo da solo. Vagava per la proprietà ignorato da tutti, con l’unica compagnia del suo corvo albino; parlava poco, mangiava appena, e dormiva anche meno.
Ciononostante, non era ancora riuscito a piangere. Nemmeno durante il rito funebre, di fronte alla disperazione di sua madre, che urlava e si tirava i capelli fino a strapparseli davanti al cairn di pietre bianche eretto in cima alla collina.
Solomon osservava tutto ciò come se lo vedesse a distanza, come se non fosse davvero lì, galleggiando dentro e fuori lo stato di coscienza; era come in una bolla, a malapena consapevole di ciò che gli stava accadendo attorno.
Quando se ne era accorta, Lavinia era barcollata verso di lui e gli aveva tirato uno schiaffo, gridandogli in faccia che era un piccolo mostro senza cuore. Ma neppure il dolore alla guancia aveva smosso in lui qualcosa.
 
Una sera, Lord Blake lo fece convocare nel suo studio.
Solomon apri la porta lentamente; era entrato poche volte in quella stanza, e non ne conservava ricordi piacevoli, visto che ne usciva quasi sempre malconcio. Ma dentro la sua bolla, nulla era in grado di scalfirlo, neanche il terrore verso suo padre.
La stanza era cupa, fredda e zeppa di teste di animali impagliati, e il ritratto dell’antenato Merlino lo scrutava con severità dalla sua maestosa cornice.
Stagliato contro la finestra con le mani strette dietro la schiena, Alastor Blake restò in silenzio a lungo, e infine disse: «Tuo fratello è stato assassinato.»
Il cuore di Solomon prese a galoppare, ma il suo sguardo rimase fermo. «Da chi?»
Alastor si volse, e afferrò dalla scrivania uno strano giornale, nelle cui vignette animate dalla magia le persone si muovevano e gesticolavano.
«Da Arcanta» disse, colmo di disprezzo. «Quell’infida città lo ha masticato e sputato. Dopo anni di dedizione, dopo tutti i sacrifici che abbiamo fatto per dimostrarci degni, per essere accettati…ha infangato per sempre il nome della nostra famiglia!»
Solomon non era ancora sicuro di capire, ma poi suo padre gettò il giornale sul pavimento, proprio ai suoi piedi. Il ragazzo lo raccolse e lesse l’articolo riportato in prima pagina: qualcosa a proposito di una Disputa, un torneo di magia organizzato dai Decani per intrattenere la cittadinanza. I partecipanti erano i migliori allievi delle quattro Corti di Arcanta, e tra loro vi era anche Jonathan.
«Jon è stato sfidato» ringhiò Alastor. «Da un rampollo della Corte dei Sofisti, Cassian Scrope. Non ha potuto rifiutarsi; si è battuto con onore, come gli ho insegnato, ma quel vile lo ha umiliato di fronte a tutta la città, raggirandolo con degli sporchi trucchi!»
Alastor batté con forza il pugno sopra la scrivania, e Solomon sussultò di riflesso, senza tuttavia staccare gli occhi dalle pagine.

Cassian Scrope, allievo della Corte dei Sofisti. Eccolo là, che sorrideva tronfio ai giornalisti nella sua preziosa redingote blu e argento, accanto all’Arcistregone dell’Ovest in persona.
Lo Sciacallo d’Argento. Absalon Grey.
«Nessuno ha avuto compassione per lui» stava intanto sbraitando Alastor, che adesso aveva il fiato corto, e le iridi azzurre che sprizzavano scintille. «Nessuno, neppure i Decani. Lo hanno deriso, reso uno zimbello…e il mio prezioso ragazzo, il mio erede…ha preferito la morte a una vita di vergona.»
Solomon tacque, continuando a fissare l’Arcistregone dell’Ovest e il suo sorriso spavaldo. E di colpo, quella bolla di apatia in cui era rimasto chiuso per giorni, esplose, e un odio più forte di qualsiasi cosa avesse mai provato in vita sua si riversò come un’onda dentro di lui.
Tornò a incrociare lo sguardo pieno di furia di suo padre.
«Tutti in quella città sono falsi, spregevoli e corrotti» concluse Alastor. «Non meritano ciò che è stato donato loro. Non meritano di governarci tutti e non meritano di essere chiamati maghi! E tu…»
Lo stregone puntò il dito contro il suo unico figlio e i suoi occhi lo inchiodarono sul posto. «Tu sarai la loro rovina, lo giuro su tutto ciò che è sacro. Vendicherai tuo fratello e la nostra famiglia.»
«E come?» domandò Solomon. «Non so neanche fare magie…»
«Imparerai.» Non era una richiesta, non era un incoraggiamento. Era un ordine. «Ti tirerò fuori il potere, fosse l’ultima cosa che faccio.»
 
Così, l’addestramento di Solomon Blake ebbe inizio.
Ogni mattina, suo padre andava personalmente a tirarlo giù dal letto prima che sorgesse l’alba, dandogli a malapena il tempo di mangiare qualcosa, per poi tenerlo chiuso nel suo studio a eseguire esercizi di resistenza di cui il ragazzo il più delle volte non comprendeva l’utilità, come restare immobile per ore in posizioni scomodissime, o riprodurre centinaia di volte gli stessi movimenti con le mani.
«La magia non è altro che la capacità di un mago di piegare il Tutto al suo volere» non faceva che ripetergli. «E per farlo è necessario possedere una Volontà forte, temprarla.»
Ma c’erano volte in cui Alastor irrompeva in camera del figlio a notte fonda e lo trascinava sul prato di fronte al maniero per metterlo alla prova, anche se fuori infuriava un temporale; solitamente quel tipo di test consisteva nel lanciargli contro vari tipi di incantesimi, in attesa che un qualche istinto assopito dentro di lui si risvegliasse e reagisse. Ma non accadeva mai niente di tutto questo, e il ragazzo non poteva fare altro che subire scosse elettriche, vedersi piovere addosso sassi, o essere scagliato come una bambola a vari metri di distanza. Il solo risultato era che nel giro di un paio di mesi, Solomon era riuscito a collezionare un numero impressionante di fratture alle ossa.
Ma non c’era tempo per leccarsi le ferite, né per piangersi addosso o per riprendere fiato…
«Rialzati!» gli ordinava Alastor, mentre il ragazzo si rimetteva faticosamente in piedi, scivolando nel fango gelido, sotto la pioggia battente. «Inutile storpio! Dimostra di essere degno del nome che porti!»
E Solomon si rialzava tutte le volte, malgrado i lividi e i muscoli doloranti, malgrado gli insulti e le umiliazioni, senza mai lamentarsi; il ricordo di Cassian Scrope e di Absalom Gray, che ricevevano gli applausi di Arcanta, incuranti di aver causato la morte di Jonathan, teneva viva dentro di lui la fiamma dell’odio, che suo padre alimentava giorno dopo giorno.
Intanto, i mesi passavano, ma la magia del Tutto non venne in aiuto del ragazzo neppure una volta. Così, Alastor iniziò a sperimentare metodi più drastici; ogni due settimane, calava il figlio dentro il vecchio pozzo ormai inutilizzato da decenni, e lo lasciava laggiù a marcire per tre giorni e tre notti. Solo, al buio e al freddo, tra umide pareti di pietra, Solomon restava rannicchiato sul fondo a battere i denti e a fissare l’apertura lassù in alto, in attesa che un domestico calasse limitate razioni di cibo e acqua.
«Padre!» Le sue urla echeggiavano inascoltate nell’angusto cunicolo. «Vi prego, fatemi uscire! Ho freddo!»
«Sei un mago» gli aveva risposto solo una volta Alastor. «Se hai freddo, trova il modo di scaldarti!»
E Solomon provava e riprovava, eseguendo con le dita intirizzite gli schemi che suo padre gli aveva insegnato, sforzandosi di mettere in pratica le nozioni di teoria magica che aveva letto sui libri. Ma la filosofia gli sembrava di poca utilità quando i morsi della fame e il freddo e la paura erano intollerabili. Allora il ragazzo si rassegnava ad aspettare che quella tortura volgesse al termine, fissando le lancette dell’orologio appartenuto a Jonathan rincorrersi lentamente mentre scandivano secondi e minuti.
L’unico conforto in quei momenti era Wiglaf, che lasciava cadere coperte e tozzi di pane dentro al pozzo, e poi si appollaiava sulla sua spalla beccandogli affettuosamente le guance.
Lavinia Blake non interveniva mai per porre fine a quel supplizio; usciva dalle sue stanze unicamente per presenziare alla cena, ma per tutto il tempo restava in silenzio ad ascoltare i vaneggiamenti del marito, scollando vino e sghignazzando da sola come una bambina. Di tanto in tanto organizzava delle festicciole nella sua ala del palazzo, ma Alastor era troppo concentrato sulla sua vendetta per curarsene. Dalla sua camera, Solomon udiva la musica e le risate protrarsi fino al mattino dopo, e quando scendeva di sotto per la colazione, trovava sua madre che russava ubriaca fradicia sulle scale, i capelli e i vestiti in disordine e il trucco sfatto. Una sera, Lavinia raccontò sprezzante di essere andata a letto con diversi uomini nell’ultimo periodo, ma suo marito reagì con la solida, gelida indifferenza.
Andò avanti così per mesi, finché una mattina, al risveglio, Solomon trovò nell’atrio di casa una dozzina di valigie e grossi bauli.
«Madre, stai partendo?» chiese, avvicinandosi alla donna, intenta ad allacciare il mantello da viaggio. Una piccola speranza si accese dentro di lui, quella che sua madre avesse deciso di portarlo lontano da quel posto, e ricominciare una nuova vita insieme.
Lavinia si volse a guardarlo, il volto rubicondo e gli occhi luccicanti, e gli rivolse un tiepido sorriso. Poi si chinò per accarezzargli una guancia.
«Sei identico a tuo padre» sussurrò. «E diventerai un bastardo proprio come lui.»
Un gelo paralizzante scivolò dentro le ossa di Solomon, ma dalla sua bocca non uscì neppure un suono. Lavinia invece si alzò, ordinò ai bagagli di sollevarsi in aria e lasciò Hurtgrove Hall senza guardarsi indietro. Quella fu l’ultima volta che Solomon la vide.
Un anno passò, e l’addestramento proseguì senza miglioramenti. Stremato da quei ritmi pressanti, il ragazzo, ormai quindicenne, non conosceva altro che dolore e solitudine, mitigati dalla presenza costante del suo Famiglio. Finché un giorno, di punto in bianco, anche il corvo albino sparì.
Preoccupatissimo, Solomon lo cercò per ore, chiamando il suo nome tra gli alberi del bosco di Hurt, scrutando le biforcazioni dei rami disseccati dal freddo, setacciando tutti i suoi nascondigli preferiti, soffitte, grondaie e sottotetti zeppi di pipistrelli e ragnatele.
«Smettila di perdere tempo» lo rimproverò suo padre, dopo averlo fatto convocare nel suo studio per i consueti esercizi. «È uno stupido pennuto. Sarà migrato per l’inverno.»
«I corvi non migrano» ribatté caparbio il ragazzo. «E Wiglaf non se ne andrebbe mai senza salutarmi. Gli è accaduto qualcosa, lo sento.»
Alastor emise una risata di scherno. «Magari si è solo stufato di inseguire un moccioso senza poteri. I demoni sono creature dalle facoltà illimitate: non tollerano la debolezza.»
Solomon serrò i pugni, sentendo montare la rabbia. «Io non sono debole.»
«Ah, no?» fece Alastor. Tirò fuori da un cassetto della scrivania un tagliacarte in argento e lo gettò ai suoi piedi. «Allora avanti, tiramelo contro senza toccarlo.»
Le unghie conficcate nei palmi, Solomon fissò la lama con tutto l’odio di cui era in grado. Il coltello tremò appena, ma rimase ben saldo sulle assi del pavimento. Alastor fece una smorfia e tornò alle sue carte. «Come pensavo.»
 
I giorni passarono, ma di Wiglaf ancora nessun segno. La sua assenza pesava sul cuore di Solomon come un macigno, e rendeva ancora più tetre le sue giornate. Ogni sera lasciava avanzi di cibo e piccoli oggetti luccicanti sul davanzale della finestra, pregando silenziosamente di non trovarli più al mattino. E puntualmente, rimaneva deluso.
Adesso, era davvero solo. Jonathan, sua madre, e infine Wiglaf, tutti coloro a cui aveva tenuto alla fine lo avevano abbandonato. E la sola cosa che gli dava la forza di tirare avanti, ormai, come un faro nell’oscurità, era la vendetta…
Quella mattina, Alastor gli ordinò di raggiungerlo nel querceto.
Solomon lo trovò ai piedi di un possente albero che sorgeva solitario in mezzo a una radura. In mano reggeva una gabbia di acciaio liscio come acqua. E nella gabbia, era rinchiuso Wiglaf.
«Lo hai trovato!» esclamò Solomon con sollievo, ma subito dopo un pensiero terribile lo attraversò; quella gabbia era fatta di acciaio alchemico, il solo materiale in grado di neutralizzare la magia, persino quella dei demoni.
«L’hai tenuto lì per tutto il tempo» realizzò. «Fallo uscire! Detesta stare rinchiuso!»
Alastor sorrise. «Se ci tieni così tanto, allora costringimi. Hai innumerevoli strumenti a tua disposizione: puoi ammaliarmi, colpirmi, farmi contorcere a terra in preda ai dolori più atroci.»
Solomon aveva la bocca secca. «Non posso…non ci riesco…»
«Lo so» disse Alastor, controllato. «Per questo, sarai alla mercè di chiunque. Ogni mago o Mancante potrà fare di te quello che vuole, avere il controllo sulla tua vita e su quella delle persone a te care.»
Abbassò lo sguardo sulla gabbia. «Proprio in questo modo.»
Serrò il pugno e Wiglaf emise un grido sofferente.
Solomon andò nel panico. «Smettila, gli fai male!»
Ma Alastor non si fermò. Continuò a torcere le dita, e il corvo a sbattere le ali e a dimenarsi tra le sbarre in preda al dolore.
«Basta!» urlò Solomon, impotente, disperato. «Ti prego! Lui non c’entra niente, non è giusto! Punisci me!»
«La vita è ingiusta» ruggì Alastor, sovrastando le grida del corvo. «Non c’è spazio per i deboli e gli storpi: perciò, tira fuori gli artigli, o finirai i tuoi giorni da preda!»
Wiglaf gemette e si raggomitolò sul fondo della gabbia, un cumulo di piume penne bianche percorse da fremiti.
Solomon urlò così forte da lacerarsi la gola. Nessuno sarebbe corso in suo aiuto. Nessuno lo avrebbe più difeso. Jonathan era morto. Sua madre se ne era andata. Doveva salvarsi da solo, ma non ne era in grado, nonostante avesse trascorso gli ultimi anni a convincersi di essere più in gamba della maggior parte dei maghi. Suo padre aveva sempre avuto ragione: era difettoso, vulnerabile e solo, e Arcanta e il mondo intero lo avrebbero schiacciato.
Quel pensiero avrebbe dovuto spezzarlo totalmente, indurlo a crollare in ginocchio e a supplicare pietà. E invece, fece crescere in lui la rabbia. Una rabbia pura e coente, urla e scalcia come un animale selvatico. Era stata la rabbia a dargli la forza necessaria in quei mesi, a spingerlo a rialzarsi dopo ogni caduta. La rabbia era tutto ciò che gli era rimasto, un’antica alleata che non lo avrebbe mai abbandonato.
No, lui non avrebbe pianto. Non avrebbe supplicato.
Solomon strinse con forza i pugni, sentendo quella rabbia incandescente scorrere in ogni parte di sé, accendergli un fuoco dentro. Ma sentì anche qualcos’altro, una vibrazione elettrica che risaliva dal basso e si spandeva nell’aria, rendendola più calda. Percepì il tempo cambiare, la luce diminuire di intensità e un cupo ruggito trasportato dal vento. In pochi attimi, il cielo si era riempito di grosse nuvole scure.
Un altro tuono, molto più vicino, spinse Alastor ad alzare la testa. Solomon vide qualcosa di diverso nel suo sguardo, la sua bocca schiudersi lentamente dallo stupore. Poi, il mondo divenne bianco.
Solomon chiuse le palpebre, mentre una luce improvvisa e intensa gli esplodeva davanti agli occhi. Sembrò riempirgli la testa, sommergerlo totalmente. Quando il fulmine cadde, sentì l’elettricità trasmettersi dall’aria alla terra, una scia blu e sensuale che scivolava di goccia in goccia, venendo giù con la pioggia.
La sua mano parve muoversi da sola, si protese verso l’alto come se potesse afferrare quell’energia, imbrigliarla e farla sua.
Io sono il fulmine. Il fulmine è in me.
Veloce come era arrivato, l’istante passò, l’elettricità si disperse.
Solomon riaprì gli occhi e vide che la maestosa quercia era stata squarciata a metà, una ferita nera da cui fuoriuscivano volute di fumo.
Alastor era come pietrificato, gli occhi fissi su quello stupefacente spettacolo. Si girò a guardare suo figlio, senza fiato e scosso da brividi, mentre la furia pian piano lo abbandonava, lasciando il posto a una profonda stanchezza. Un torrente di sangue sgorgava dalla narice, gocciolandogli sulle labbra. Ma l’energia del fulmine crepitava ancora nelle sue iridi azzurre.
«Bene» disse Alastor Blake, con un breve cenno. «Finalmente qualcosa su cui lavorare.»
 
 L’addestramento si intensificò, ma se prima Alastor lo costringeva a esercitarsi a orari prestabiliti, ormai coglieva ogni momento per metterlo alla prova.
All'inizio Solomon riusciva a eseguire solo incantesimi basilari: spegnere una candela col pensiero, o al contrario ravvivarla; spostare piccoli oggetti. Passarono diverse settimane prima che il ragazzo imparasse ad allacciarsi gli stivali unicamente guardandoli.
Su finire dell’inverno, Alastor decise di portarlo qualche giorno sulla costa, e lì Solomon trascorreva le sue giornate su una barchetta in mezzo al mare, ad esercitarsi nel controllo dei venti, e ad acquietare le onde per non schiantarsi sulla scogliera.
 Gli incantesimi di guarigione erano i più difficili da eseguire, ma anche quelli che gli davano maggiore soddisfazione: suo padre gli incideva i polpastrelli con un coltello, uno dopo l'altro, mentre Solomon digrignava i denti e inghiottiva il dolore. Una volta acquistata la calma necessaria si concentrava sui tagli finché le gocce di sangue non iniziavano a scorrere al contrario su per la mano, e i lembi di pelle a riunirsi.
Quando fu in grado di farlo a tutte e dieci le dita in un colpo solo, Alastor gli lasciò il coltello, dicendogli di continuare con altre parti del corpo a suo piacimento.
Solomon prese l’abitudine di mutilarsi tutti i giorni, e man mano che i suoi poteri si rafforzavano, scopriva il piacere di superare i propri limiti; osservava il palmo in cui aveva infilzato il coltello, e mentre il foro si rimpiccioliva fino a scomparire, e percepiva ogni cellula, fibra nervosa e muscolo combaciare, si sentiva potente, indistruttibile. Amava quella sensazione.
 
«A maggio si terrà la Selezione» annunciò una sera suo padre, senza alzare gli occhi dal giornale aperto sulla sua scrivania. «Gli Arcistregoni di Arcanta apriranno le porte delle loro accademie a un numero ristretto di allievi.»
«Come se non sapessero già chi scegliere» ribatté Solomon, seduto di fronte a lui con le braccia incrociate. «È una farsa, i posti saranno assegnati ai rampolli delle famiglie più in vista.»
«Ovviamente. Ma tu troverai il modo di farti notare.»
«Non sono abbastanza bravo.»
«Questo non ha importanza» disse Alastor. «Tu hai una motivazione che gli altri non hanno. Entrerai nella Corte dei Sofisti, costi quel che costi.»
Solomon si accigliò. «Nel covo degli assassini di Jon? Piuttosto la morte!»
«Lo Sciacallo d’Argento è il miglior truffatore di Arcanta» replicò suo padre. «Dovrai apprendere il più possibile da lui, se vogliamo distruggere la città dall’interno.»
«Non a questo prezzo.»
Alastor strinse gli occhi. «Decido io qual è il prezzo. Tu limitati a eseguire gli ordini.»
Solomon sostenne il suo sguardo con cipiglio di sfida, premendo le mani sul tavolo. I fogli di giornale si sollevarono e si piegarono in forme elaborate; piramidi, barchette, uccelli dalle ali fruscianti.
Irritato, Alastor afferrò un pesante posacenere di marmo e glielo sbatté sulla mano sinistra, così forte da spezzargli il polso. Gli origami si sfaldarono all’istante.
«Dovresti tornare a esercitarti» riprese con calma, lisciando le ultime pieghe sulla carta. «Manchi ancora di controllo.»
Solomon contrasse la mascella, lottò per non svenire dal dolore. Quando suo padre lo congedò con un gesto distratto, lasciò la stanza senza emettere neppure un lamento, tenendo stretto il polso ferito. Gli ci volle quasi un’ora per riassemblare tutti i frammenti di osso.
 
Nelle settimane che precedettero la partenza, Solomon si preparò al suo debutto imparando a menadito leggi, titoli e nomi importanti.  Con l’avvicinarsi del grande giorno, sentiva macerare in lui emozioni contrastanti; il timore di fallire, di scontentare suo padre. Ma anche una segreta eccitazione per ciò che lo aspettava.
Non era mai stato ad Arcanta, ma aveva letto tutto su di lei, su come, più di mille anni prima, i tre Fondatori avessero eretto una grandiosa città dove custodire il sapere magico, che dopo la distruzione della Biblioteca di Alessandria aveva rischiato di scomparire.
Da allora, i Decani si erano impegnati per razionalizzare la conoscenza del Vecchio Mondo, donando agli stregoni una Legge con cui vivere in armonia e bandire tutto ciò che di oscuro c’era nella magia. E per farlo, nel corso dei secoli aveva fatto affidamento sui Quattro Arcistregoni: i più potenti, i più fedeli e i più letali, soldati al servizio di Arcanta e pronti a difenderla da qualunque minaccia esterna.
Al momento dei saluti, suo padre non fu di molte parole. Tutto ciò che disse, davanti al guardaroba incantato che lo avrebbe condotto ad Arcanta, fu: “Vedi di non deludermi.”

Solomon s’infilò nel guardaroba, stupendosi di trovare, dietro la schiera di vecchi vestiti, una lussuosa cabina foderata di velluto. Una porta dorata si chiuse scorrendo, e Solomon sedette rigido su una panca imbottita, domandandosi con ansia crescente cosa il destino avesse in serbo per lui.  Accarezzò Wiglaf per infondersi coraggio, e il corvo ricambiò mordicchiandogli il lobo dell’orecchio.
Le porte del Meridiano si spalancarono improvvisamente, e Solomon fu travolto da un’orgia di sensazioni nuove e disorientanti; una voce sconosciuta avvisò che si trovava nell’Arboreto del Parnaso, un’oasi lussureggiante popolata da piante esotiche e fiori variopinti. Solomon mosse i suoi primi passi incerti in quel nuovo mondo, venendo subito dopo investito da una folla rumorosa di dame e gentiluomini magnificamente vestiti, con anelli a ogni dito e pietre preziose infilate nelle parrucche, sui cappelli e nelle barbe. Per Solomon avrebbero potuto essere tutti re e regine, e lo fecero sentire infinitamente provinciale e fuori moda, nella sua antiquata redingote di panno nero.
Seguendo il flusso di persone, si ritrovò in una specie di stazione ferroviaria, priva di rotaie; i colori erano troppo vivaci, i profumi talmente forti da nausearlo, le voci e le risate si sovrapponevano le une alle altre in una sinfonia di accenti e inflessioni diverse. Dopo tutti quegli anni trascorsi nell’opprimente solitudine di Hurtgrove Hall, quel caleidoscopio sfolgorante gli tolse il respiro. Temette di avere un attacco di panico…
Mantieni la calma si impose, sistemando il colletto della redingote. Sei un mago, adesso.
In fondo, per quale ragione avrebbe dovuto sentirsi inferiore o intimidito dagli altri? Era diventato un ottimo stregone, e lo avrebbe dimostrato a tutti.
Le dita strette attorno all’orologio di Jonathan, raddrizzò la schiena e avanzò deciso in quel mare di sconosciuti festosi, tra turbinii di stoffe luccicanti e cappelli piumati. Si accorse che molti stavano osservando con curiosità Wiglaf, e in effetti non gli parve di vedere altri Famigli in giro. Ma all’improvviso, la sua attenzione fu catturata da una creatura enorme, che atterrò proprio di fronte al marciapiede di imbarco trasportando tra gli artigli una grossa carrozza. Solomon inghiottì bruscamente il fiato, e sulla sua spalla, Wiglaf sventolò freneticamente le ali.
Era un drago. Un vero drago, come quelli raffigurati sui libri di fiabe, il dorso irto di aculei e le squame verdastre. Ma il suo aspetto era tutt’altro che spaventoso, e si limitò ad aspettare pazientemente che tutti i viaggiatori fossero saliti in carrozza, prima di spalancare le immense ali e spiccare il volo. Sorvolò Arcanta, i cui tetti d’oro e le torri d’avorio scintillavano al sole come gioielli. Solomon osservò rapito il paesaggio, finché il drago atterrò in una grande piazza gremita di gente, al cospetto di un edificio a torre talmente alto che la sua sommità si perdeva tra le nuvole.
Solomon non conosceva nessuno, e non aveva la più pallida idea di dove dovesse andare. Per un po’ stette lì impalato a osservare il via vai di persone, e a un certo punto, qualcuno batté una mano sulla sua spalla.
«Ciao», disse una voce roca e amichevole. «Sei qui per la Selezione?»
Solomon si volse, e il suo sguardo percorse lo sconosciuto da cima a fondo; un ragazzo robusto come un armadio, con crespi capelli neri e il naso leggermente adunco. Malgrado l’altezza e la stazza considerevoli, doveva avere la sua stessa età.
«Sono Boris» esordì, allungandogli una mano. «Boris Volkov, ma tutti mi chiamano Bo. Tu, invece?»
Solomon fissò le sue dita tozze come salsicciotti e le unghie mangiucchiate, e non si mosse. «Solomon Blake.»
«Prima volta ad Arcanta, Solomon?» domandò con entusiasmo il ragazzo. «Deve essere la prima volta, te lo si legge in faccia! Anche io sono un Esterno, sono venuto in visita solo tre volte con mio zio Igor. La mia famiglia vive in Siberia. Sei mai stato in Siberia?»
Solomon sbatte piano le palpebre. «Mai avuto il piacere.»
Il ragazzo di nome Boris scoppiò a ridere. «Be’, fa molto freddo e c’è un sacco di neve. E di renne! Tu invece da dove vieni? Quello che hai sulla spalla è un corvo ammaestrato?»
Solomon trasse un profondo respiro. Quel tipo parlava troppo per i suoi gusti, ma in compenso sembrava saperne molto più di lui su come funzionavano le cose laggiù. Avrebbe potuto tornargli utile. «Senti, devo incontrare l’Arcistregone dell’Ovest, Absalom Grey. Sai dove si trova?»
«Oh» fece Boris, sorpreso. «Be’, non qui alla Cittadella, ovviamente. È alla Corte dei Sofisti.»
«Bene. Come ci arrivo?»
Boris ridacchiò. «Non funziona così, non puoi semplicemente presentarti alla porta di un Arcistregone! Saranno loro a cercarci.»
Solomon si spazientì. «E quando?»
Boris scrollò le spalle. «Quando ne avranno voglia. Noi per il momento staremo tutti nel Formatorio. Sto andando lì anche io, se vuoi ti accompagno!»
Solomon acconsentì di buon grado, e lasciò che il ragazzo gli facesse da guida. Boris Volkov non smise un istante di parlare, al punto che Solomon si domandò se ogni tanto respirasse.
Seguirono un sentiero di ghiaia delimitato da siepi che girava dietro la Cittadella, fino a una biforcazione: la stradina a destra si inoltrava in un vasto parco, oltrepassando un prato ondulato e una sfilza di grandi serre con i vetri appannati dalla condensa.
«Di là si va al Cerchio d’Oro» spiegò Boris. «Ma l’accesso è consentito solo agli alchimisti.»
Prese il sentiero di sinistra ed entrarono in un gruppo di alberi, abbastanza folti da sembrare un piccolo bosco. Quando le fronde si diradarono, spuntò un edificio chiaro sovrastato da cupolette dorate; nel giardino, bambini e ragazzi vestiti di bianco si divertivano a far levitare cubi di legno colorato, oppure a passarsi una palla senza toccarla. Il tutto sotto lo sguardo attento di un gruppo di maghi adulti dalle tuniche grigie.
«Tutti i maghi passano dal Formatorio» raccontò Boris. «Quelli nati ad Arcanta vengono mandati qui dalle famiglie appena iniziano a manifestare i propri poteri, e sono formati dai Pedagoghi della Cittadella.»
Solomon osservò la folla di ragazzetti privilegiati alle prese coi loro primi incantesimi, ripensando alla sua infanzia senza magia e alle parole di suo padre:
“Non meritano ciò che è stato donato loro”.
Cercò di restare concentrato sulla prossima mossa. «E agli Esterni che succede?»
«Be’, quelli che hanno già avuto un primo addestramento possono seguire i corsi propedeutici alla Selezione» rispose Boris. «Ti viene data la possibilità di scegliere che disciplina perfezionare, in base alla Corte in cui vorresti entrare.»
Solomon si sforzò di tenere a bada l’impazienza. Gli pareva un percorso inutilmente lungo. «Vorrà dire che inizierò subito.»
«Sembri avere le idee molto chiare» commentò Boris. «Sei proprio sicuro di voler entrare nella Corte dei Sofisti? Non ha una gran bella fama. Potresti tentare l’ammissione a quella delle Lame, Fenrir Sigurdsson è un ottimo insegnante. Mio zio Igor è stato suo allievo ed è diventato un valoroso guerriero...»
Solomon lo fulminò con lo sguardo, sentendo riaccendersi in lui una scintilla di rabbia. Anche Jonathan lo era, e guarda che fine ha fatto…
Quel Boris doveva essere fatto della stessa pasta di suo fratello: un animo gentile, pronto ad aiutare chi era in difficoltà. L’esatto opposto di cosa Solomon sarebbe dovuto diventare, se voleva far strada laggiù.
«Grazie del consiglio» disse, con freddezza. «Ma non me ne frega niente di tuo zio Igor. Da qui in avanti me la caverò da solo.»
«Oh» fece l’altro, deluso. «Ehm… va bene, come preferisci. Allora, in bocca al lupo per la Selezione.»
Gli offrì un’altra stretta di mano, più insicura stavolta, ma Solomon lo scansò senza una parola ed entrò nell’edificio.
Passò al Formatorio due settimane, durante le quali dovette seguire noiosissime lezioni tenute da maghi di discutibile talento, e su argomenti che già padroneggiava. Così, Solomon ne approfittò per studiare invece i suoi potenziali rivali, analizzandone i punti di forza e le debolezze, in modo da poterle sfruttare a suo vantaggio al momento opportuno. Individuò subito un paio di giovani maghi abbastanza promettenti da dargli filo da torcere in un’eventuale competizione: uno di loro era Macon Ludmoore, particolarmente portato per le illusioni. Solomon era cascato più di una volta negli scherzi che lui e i suoi amici tendevano a chiunque e in qualsiasi momento, dandogli degli ottimi motivi per vendicarsi. Ma capì subito che sarebbe stato controproducente farselo nemico: era sveglio e molto popolare, sempre circondato da un drappello di maghi altrettanto abili, il che lo rendeva un bersaglio difficile. No, uno così era meglio averlo dalla sua parte.
E poi, c’era Ezra Ashdown.
Schivo e preciso, trascorreva tutto il tempo col naso ficcato nei libri e raggiungeva sempre il punteggio più alto nei test. Nessuno lo aveva in gran simpatia, ma con un cervello come il suo avrebbe potuto suscitare l’interesse di Absalom Grey. Solomon decise che andava eliminato.
Il giorno della Selezione, i Pedagoghi chiamarono uno alla volta gli aspiranti candidati alle Quattro Corti, per un breve colloquio a tu per tu con gli Arcistregoni.
Ezra Ashdown sarebbe stato convocato prima di lui. A colazione, Solomon fece in modo di versare “accidentalmente” una qualche goccia di una pozione a base di aconito nel suo tè, e poco prima che fosse chiamato il suo nome, vide Ezra sfrecciare come un razzo verso i bagni con un colorito verdastro in faccia. L’intossicazione non sarebbe stata letale, ma lo avrebbe trattenuto sul gabinetto il tempo sufficiente per estrometterlo dai giochi.
Solomon si alzò e procedette sicuro verso l’aula, incontro al suo destino.
Absalom Grey sedeva con le gambe accavallate dietro una scrivania, sorseggiando una tazza di tè; un uomo di età indefinibile, asciutto ed elegante, vestito con un completo bianco, giacca stretta e code fino al ginocchio. La sua pelle era olivastra, i capelli un manto di seta argentea, e i baffi sottili e dalle punte ruotate all’insù. Di fianco alla scrivania, era posato un sottile bastone nero dall’impugnatura d’argento a forma di sciacallo, e poco distante riposava acciambellato un bel levriero dal manto grigio chiaro.
«Tu non sei Ezra Ashdown.»
Solomon prese posto sulla sedia di fronte, e guardò il mago senza timidezza. «No, infatti. Il mio nome è Solomon Blake, e credo di avere le carte in regola per essere ammesso alla sua Corte.»
Gli occhi dorati dell’Arcistregone dell’Ovest luccicarono, pieni di malizia. «Davvero? E in base a che cosa lo credi?»
«Sono intelligente e ambizioso» rispose Solomon. «Tutte qualità che alla Corte dei Sofisti vengono apprezzate.»
«Anche Ezra Ashdown è intelligente» replicò Absalom Grey, tranquillo. «Il più intelligente del vostro anno, almeno, stando ai suoi voti.»
«I voti dicono poco sull’intelligenza» fu la pronta risposta di Solomon. «Un mago intelligente avrebbe riconosciuto un tè avvelenato dall’odore.»
Il sorrisetto dell’Arcistregone si allargò. «Hai avvelenato il tè del giovane Ezra, Solomon?»
«Potrebbe averlo fatto chiunque. Le serre degli alchimisti sono a due passi.»
«Questo ti costerebbe l’espulsione dal Formatorio, lo sai giovanotto?»
Solomon fece spallucce. «Non era comunque mia intenzione restarci più a lungo del necessario.»
Invece di rimproverarlo, Absalom Grey posò delicatamente la tazzina, e si rivolse sogghignando al levriero: «Tipetto alquanto sfacciato, eh, Ozymandias?»
Il levriero sollevò il muso appuntito, sbadigliò in faccia a Solomon e tornò a sonnecchiare.
«Blake…» mormorò poi Absalom. «Ho già sentito questo nome. Sbaglio o un altro Blake si presentò qui esattamente un anno fa? Jonathan, mi pare si chiamasse.»
Solomon stavolta dovette sforzarsi per non mostrare il ribollire delle sue emozioni. «Era mio fratello.»
«Era?»
«È morto.»
«Oh.» Absalom si portò nuovamente la tazzina alle labbra. «Le mie condoglianze.»
Solomon inspirò profondamente. Non doveva cedere proprio ora. «Grazie, signore.»
«Se non ricordo male, entrò a far parte della Corte delle Lame» proseguì Grey, amabile. «Come mai tu hai deciso di presentarti a me?»
«Io e mio fratello siamo molto diversi. Lui aveva le sue idee sulla magia. E su come fosse giusto utilizzarla.»
«Mhmm e quali sarebbero le tue idee in proposito?»
«Jonathan credeva che un mago avesse il dovere di mettere i propri poteri al servizio degli altri» spiegò Solomon. «Io, che un mago non sia tenuto ad avere alcun tipo di dovere.»
Seguì un lungo silenzio, durante il quale Absalom Grey studiò il ragazzo con un misto di divertimento e curiosità. «Visione interessante. Ma poco in linea con la politica dei Decani: il rispetto della Legge è un dovere sacro ad Arcanta. E dunque, lo è anche per gli Arcistregoni.»
«Ma alla Corte dei Sofisti nessuna verità è assoluta» replicò Solomon. «Lei manipola la verità, come gli illusionisti della Corte dei Miraggi manipolano le percezioni: dunque, cosa importa quello che penso, se convinco gli altri del contrario?»
La risposta gli era piaciuta, di questo Solomon era sicuro: malgrado l’aspetto da gentiluomo, ormai sapeva riconoscere un predatore quando ce lo aveva davanti. Tuttavia, lo stregone non espresse alcun commento, se non un educato: «Grazie per il tuo tempo, Solomon. Puoi andare.»
Tre giorni dopo, ricevette la lettera di ammissione alla Corte dei Sofisti.


 


 
  
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