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Autore: The Custodian ofthe Doors    11/04/2024    0 recensioni
[Storia interattiva| Deathfic!| Ready? Start!| Iscrizioni chiuse]
In un epoca sorprendentemente di pace, quando nulla turba l'equilibrio del mondo e dell'umanità, il pericolo più grande non è altro che la noia di coloro che hanno e possono tutto.
*
“ Problemi in Paradiso?”.
*
Il foglio volteggiò lento nell'aria densa delle Praterie degli Asfodeli, lì dove sorgeva il muro che li divideva dai Campi di Pena.
L'anima guardò altri fogli colorati svolazzare oltre quelle alte mura scure, caduti dal cielo, forse da quello vero e non dalla volta rocciosa che faceva loro da soffitto.
*
E se è la vita dei loro figli quella che gli dei vogliono veder in gioco, non vi sarà nessuno che potrà impedirlo.
*
“Riuscirai a “sopravvivere”? Sarai in grado di ingannare Thanatos?
Questa è la sfida della morte.
Questa è la Death Race.”
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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XXIII- Meet.
 
 
Le strade di Venezia erano scivolose d’umidità, tra le fughe dei grandi mattonati che coprivano i vicoli ristagnava lucida l’acqua che aveva bagnato anche i muri delle case, un’ondata di acqua alta chiamata a gran voce per le vie da gente comune e negozianti, dai gondolieri e dai marinai che sostavano sulle sponde che si ergevano dalla laguna.
Le vecchie scarpe consunte lo facevano slittare di tanto in tanto, ma Gio era riuscito a non cadere neanche una volta, complici i suoi riflessi pronti e quelli ancor più fulminei di Amore.
La ragazza correva al suo fianco senza perdere il fiato, la gonna tirata su, stretta nel pugno roseo. Se non fossero stati così di fretta Gio si sarebbe concesso il lusso di ammirarla, bellissima e perfetta anche nel pieno di quella maratona improvvisata che li aveva strappati dalla loro corriera quel tardo pomeriggio.
Era stata una giornata piovosa, carica di una pioggia leggera ma fitta che aveva finito per ingrossare i canali e far scattare l’allerta per tutto il centro cittadino, facendo fermare le gondole, alcune ancora legate ai porticcioli lì dove i loro proprietari non erano ancora riusciti a tirarle a terra nelle proprie rimesse. L’aveva costretto a rimanere dentro casa con Maria, seduto a terra davanti alla portafinestra che dava sul balcone, ad ascoltare annoiato le lezioni di francese e quella di letteratura.
Gio aveva alzato gli occhi al cielo e sbuffato in continuazione, infastidito dal divieto d’uscire anche solo nel portico, magari a cercare il corvo che sembrava averlo preso in simpatica. O che lo seguiva in modo ossessivo, come diceva sempre Amore. La ragazza era assolutamente sicura di questo, era suo nonno, il padre di suo padre, ad aver mandato il corvo a spiarlo, a tenerlo d’occhio, un po’ come faceva lei.
Non era riuscito a scorgerlo, per tutta la giornata, aveva guardato fuori da quella finestra, poi da quella che dava sulla strada, sperando di vederlo al riparo sotto qualche tettoia, sotto un cornicione sporgente o una decorazione barocca ed ingombrante. E invece niente, non aveva trovato nulla ed era stato costretto a tornare nel salottino dove un uomo sulla quarantina, tutto impettito e con la faccia contrita cercava di far pronunciare a Maria stupide frasi con lo stupido accento francese.
Gio aveva sbuffato, si era mosso senza pace alla ricerca di una posizione comoda finché Maria non l’aveva fulminato con lo sguardo, spiegandogli piccata quanto fosse difficile quella lezione e quanta concentrazione le servisse.
Cavolate, questo gli aveva detto il ragazzino, quelle mezze frasette facevano ridere, era roba da bambini, roba stupida.
Quando l’aveva raccontato ad Amore la ragazza aveva riso di gusto, facendogli però notare come fosse stato poco delicato, ma ammettendo che avrebbe voluto esserci anche lei, per vedere la faccia indignata dell’insegnante, quella adirata di Maria quando gli aveva chiesto, allora, di ripetere lui al posto suo e per finire i volti scioccati di entrambi quando Giordano gli aveva risposto e anche in un francese di un certo livello.
 
«Me l’ha insegnato Al, lui lo parla. La sua lingua madre è il tedesco, però ha vissuto pe ‘mpo’ d’anni in Francia e ha ‘mparato pure il francese. Veramente parla un sacco de lingue lui, perché ha girato na cifra pe tutta a vita. Certe vorte se mette a parlà polacco co Bas, ma poi ariva Raja e je mena e li minaccia che se non parlano na lingua che tutti possono capì li maledice lei in arabo e poi vedemo se c’hanno ancora voja de scambiasse messaggi segreti.»
Amore aveva riso ancora di più. «Quindi anche tu parli parecchie lingue?»
Si era stretto nelle spalle. «So cresciuto in mezzo a un botto de gente che veniva da tutta Europa e dintorni, ne mastico un ber po’, ma italiano, francese e tedesco so quelli che so mejo, però vado forte pure cor turco e cor greco, pure se non so perché. Thali me stava a insegnà l’indiano, ma poi m’hanno lasciato a Roma.» aveva finito con tono amaro.
La giovane gli aveva dato un colpetto sul braccio. «Non credo che “l’indiano” sia la parola giusta per chiamare la sua lingua, sai?»
Giordano avrebbe voluto risponderle, ma era stato in quel momento che uno dei vetri della corriera aveva preso a brillare fiocamente, come il riflesso di una pozza oleosa illuminata dal sole, un sole che, in quel momento, non c’era.



Giò gettò un’altra occhiata alla sua compagna, che attraversava le pozzanghere senza neanche bagnarsi, aiutata da qualche grazia divina che sembrava aleggiarle sempre attorno.
Erano quasi arrivati a casa Di Angelo, dove si sarebbe tenuta la cena di quella sera, il motivo scatenante, sicuramente assieme alla figuraccia della lezione di francese, che aveva spinto Maria a mandarlo via prima, a congedarlo come un cameriere i cui servigi non sono più richiesti.
Ancora lo innervosiva il modo in cui la ragazza si era liberata di lui, il modo in cui lo trattava, lo comandava a bacchetta come se fosse il suo cagnolino, un cucciolo sovradimensionato che Ade le aveva regalato perché non si annoiasse ed avesse sempre compagnia. Ed ora ecco il bel pasticcio, ecco cosa succedeva quando quella viziata rompipalle si indispettiva e lo scacciava prima del tempo debito. Aveva passato settimane a non fare nulla, a fissare le mura soleggiate della villa in cui lei viveva e quando c’era una situazione particolare, diversa e potenzialmente pericolosa cosa faceva Maria? La mocciosa, ecco cosa faceva. Faceva la mocciosa e lo mandava a casa.

Pe una volta che c’era il rischio de menà le mani quella me manda via perché sta a rosicà che un poveraccio come me sa r’francese mejo de lei.
 
Digrignando i denti alzò il braccio davanti a sé per indicare il vicolo da cui entrava sempre lui, una porta secondaria che conduceva al giardino sul retro, quello con il chiostro dove Gio aveva incontrato Maria per la prima volta.
«Eccolo!»
Amore annuì solo, afferrandolo per la mano e trascinandoselo dietro con rinnovata velocità.
Quando s’infilarono tra le mura alte e strette, Gio sentì di nuovo l’odore di zolfo che aveva avvertito quel giorno che sembrava già così lontano.
L’aria sfrigolò attorno a loro, come il suono del metallo bollente su cui cade qualche goccia d’acqua. Era fastidioso, gli pareva quasi che esercitasse una pressione sempre più forte su di lui, come se qualcosa cercasse di non farli passare.
Voleva dirlo ad Amore, che di solito non era così, che stava succedendo qualcosa di strano, ma lei non gli diede tempo, serrò la presa sulla sua mano e se lo tirò dietro di lei prima di menare un mal rovescio in aria.
Come uno strappo una ventata di profumo floreale squarciò l’odore di zolfo, lo sfrigolio e persino la pressione.
Gio non aveva la più pallida idea di cosa avesse appena fatto la sua amica, ma ogni sua domandò gli morì in gola quando scorse, dalle finestre aperte, le figure ben vestite degli invitati alla cena.

«I vestiti! Non ci faranno mai entrare vestiti co-»
Di nuovo, neanche il tempo di finire la frase che la sua vecchia camicia sformata e troppo grande per lui gli si restrinse addosso, schiarendo il colore grezzo nel bianco immacolato del lino, nelle fibre ben filate e nel colletto inamidato. Un leggero luccichio sul suo polso si materializzò in un semplice polsino dalla forma tondeggiate ma frastagliata, prima d’esser coperto dall’orlo della manica della giacca che gli si era cucita addosso dalle ombre spesse del vicolo.
Sentì la pressione della cinta allentarsi, scendendo precisa sui fianchi, seguita dalla linea dritta dei pantaloni e dalle scarpe in pelle opaca con cui calpestava il suolo bagnato senza neanche alzare uno schizzo.
Quando uscirono dall’ombra, nella luce fioca ma calda che illuminava il chiostro filtrando dall’interno del palazzo, Gio notò che l’abito a fiori di Amore si era trasformato in un più sobrio ed elegante abito di raso verde caldo, dai riflessi quasi dorati.
Non ebbe modo di parlare, di chiederle come ci fosse riuscita o anche solo d’ammirare l’aspetto sicuramente etereo che la ragazza sfoggiava in quel momento, Amore lo condusse senza indulgi verso la porta che s’aprì senza il minimo rumore, lasciandoli entrare direttamente nel corridoio che portava al salone principale dove si trovavano le scale per salire al piano superiore.
«Amore, fermati un attimo.» provò seguendola ed inciampando sul tappeto che copriva il pavimento. «Questa è una cena privata, se non abbiamo l’invito non possiamo entrare.»
Lei sbuffò sarcastica. «Non esiste luogo su questa terra a cui io non abbia accesso, ho sempre qualcosa che mi permette d’entrare.» e come a voler confermare le sue affermazioni un cameriere sbucò da una delle tante stanze presenti nel palazzo, probabilmente uscito dalle cucine, con un vassoio scintillante in mano ed un’espressione crucciata.
 
«Cosa fate qui? Questo non è posto per-»
«Non ora Filippo, non abbiamo tempo per questo.» rispose Amore a bassa voce, mandando via l’uomo con un gesto dismissivo della mano.
Il cameriere sembrò preso in contropiede da quelle parole, i suoi occhi persero per un momento il focus e poi, come una marionetta a cui hanno tirato magistralmente i fili, abbassò la testa in un inchino rispettoso, senza far inclinare il vassoio o far cadere qualunque cosa ci fosse sopra.
«Ha vostro piacimento, mia signora.»
«Andiamo.» sentenziò la ragazza ignorando le parole del cameriere e avviandosi sicura verso le scale.
Giordano si guardò attorno ansioso, cercando di individuare la testolina mora di Maria, pregando tutti gli Dei che conosceva di non trovare ciò che Ade aveva predetto.
 
 

«Giordano!»
La voce di Ade gli aveva fatto accapponare la pelle. Il riflesso cangiante si era espanso per tutto il finestrino, mentre il volto dell’uomo iniziava a prendere sempre più forma e spessore.
Gio era rimasto imbambolato a fissarlo, sconvolto, ma per fortuna Amore si era mossa subito, avvicinandosi al vetro con aria attenta, guardinga.
«Che succede?» aveva chiesto secca, niente saluti, niente convenevoli.
«Non ora nipote, ho bisogno di Giordano. Perché è qui? Perché non è con Maria?»
«Perché la tua mortale lo ha cacciato via, a quanto pare avete qualcosa in comune, tu e lei, non siete in grado di sopportare quando qualcuno sa qualcosa meglio di voi.» aveva risposto freddamente, le braccia incrociate al petto, lo sguardo duro. «Non mi piace come si è comportata, non mi piace come si comporta di solito. E non mi piace neanche come tu ti rivolgi a me, zio, non in una situazione delicata come questa.»
L’ultima frase era suonata più minacciosa delle altre, carica di sottointesi che Gio non era stato in grado di cogliere e che forse Amore avrebbe potuto spiegargli più tardi. In quel momento però non era importante, non quanto l’espressione infastidita di Ade, il volto di chi avrebbe avuto molto da ridire ma sapeva meglio di chiunque altro quanto fosse conveniente per lui tenere la bocca chiusa.
«Ho bisogno di Giordano, anzi, Maria ha bisogno di lui
A quelle parole Gio si era riscosso, avvicinandosi al vetro e al riflesso di Ade, le sopracciglia crucciate. «Sta a casa sua, c’è na cena, non va da nessuna parte e ha detto che non me vole tra i piedi.»
Ade aveva fatto un verso infastidito. «Stupida donna. Non importa cosa voglia o meno lei, è in pericolo, devi andare a controllare.»
«In pericolo?» aveva chiesto Gio.
«Chi?» era stata la sola domanda di Amore.
Il Dio l’aveva fissata dritta negli occhi, un velo cupo gli aveva coperto il volto e le iridi avevano preso una sinistra luminescenza bluastra, come le fiamme del gas delle bombole.
«Qualcuno che dovrebbe temere la mia ira, ma ancora di più quella di sua moglie.»
 
Gio aveva sentito imprecare Amore davvero pochissime volte e l’insulto che le era uscito dalle belle labbra rosate era riuscito a comprenderlo solo in parte, gentile concessione di quel po’ di greco che parlava ma che si discostava comunque molto dai suoni che aveva prodotto la giovane con fare decisamente preoccupato.
Non era stato d’aiuto vederla in quello stato, così come non lo era stato vederla sfrecciare fuori dalla corriera intimandogli di seguila.
Aveva imprecato ancora pochi istanti dopo, masticando a mezza bocca qualcosa sull’aver interdetto una zona, un luogo.
Gio non aveva capito nulla se non che la situazione era delicata e che dovevano agire in fretta, senza perdere tempo.


 
Si alzò sulle punte, scrutando i visi di ogni invitato, mentre Amore marciava con sicurezza e leggerezza tra tutta quella gente, come se appartenesse ad un evento del genere, come se non si fossero imbucati lì a forza, come se un qualunque membro della servitù non potesse scorgerlo da un momento all’altro e correre a prenderlo per un orecchio.
Mordicchiandosi le labbra screpolate Giordano cercò disperatamente di ricordarsi di che colore Maria gli aveva detto si sarebbe vestita, se avesse accennato ad un qualche accessorio vistoso, visibile, un dannato ventaglio con quell’afa umida e appiccicosa che la laguna e la pioggia si tiravano sempre dietro.
Imprecò anche lui, a mente però, domandandosi come diavolo Ade si aspettasse che potesse trovare un uomo che poteva avere letteralmente “qualunque aspetto più gli convenga in quel momento”. Dannati Dei e dannai poteri magici, divini, da prestigiatori i quel che erano.
Poi qualcuno gli tirò il braccio, Gio quasi inciampò fermandosi di colpo contro Amore, il cui corpo longilineo risultava sorprendentemente solido e che non vacillò neanche un istante contro la spinta del corpo del ragazzino.
 
«Di là, è lei, vai, vai. Sono dietro di te.» Non lo fece rispondere, lo tirò ancora e lo spinse verso Maria ed il suo interlocutore.
Giordano riprese il passo con il cuore in gola, le mani tremanti ed un fastidioso sudore freddo che gli colava lungo la schiena e gli appiccicava la camicia alla pelle.
Individuò subito Maria, seduta sull’ottomana color crema, un pezzo d’antiquariato che probabilmente costava più di tutti gli averi di Gio da sola. Era rivolta verso la poltrona dall’alto schienale, anch’essa color crema ma impreziosita da borchie dorate, uno scintillio quasi fastidioso sotto gli accecanti lampadari dai bracci fregiati. La giovane parlava con tranquillità, il volto rilassato in un sorriso di circostanza, ma nulla in lei sembrava tradire disagio ed inquietudine, non come Gio che grondava ansia da ogni poro assieme al sudore che quell’aria irrespirabile, avvelenata di profumi e colone, gli stava provocando.
Rallentò un poco il passo, solo per potare la mano alla tasca dei pantaloni e tastare il profilo del suo coltello a serramanico, pregando di non doverlo sfoderare in una stanza piena di stupida gente dell’alta borghesia e dell’esercito, certo che non sarebbe finita bene per lui, in caso.
Maria però dovette scorgerlo, perché il suo volto si aprì in un’espressione stupita, poi infastidita ed in fine, forse resasi conto di quella di Giordano, preoccupata.

«Perdonatemi.» mormorò rivolta al suo interlocutore, alzandosi di fretta dall’ottomana per andargli incontro. Gettò anche un’occhiata alle sue spalle, sicuramente rivolta ad Amore, e poi tornò a concentrare la sua attenzione di su lui. «Gio che ci fai qui? È successo qualcosa? Perché hai quella faccia?» chiese velocemente, senza neanche prendere fiato.
Il ragazzino, tentennò, incerto se dirle o meno quello che sapeva.
«Stai bene?» le domandò invece. «Con chi stai parlando? Con un uomo? Lo conosci? Ti si è avvicinato nessuno?»
Maria lo fissò accigliata, in parte stupita dall’inflessione perfetta delle sue parole, dimentica di come il suo piccolo amico avesse ricevuto un’educazione ecclesiastica, una dizione impeccabile; in parte allarmata da quelle domande e dalla preoccupazione che poteva leggere negli occhi scintillanti dell’altro.
«Cosa? No, non ho parlato con nessun uomo che non conoscessi, non sta bene, lo sai perfettamente.» le disse confusa, guardandosi attorno come a voler cercare qualcosa, qualcuno fuori posto. «Chi dovrebbe esserci? È stato Ade a dirti qualcosa?» realizzò in fine drizzando la schiena di colpo e facendosi un passo più vicina a Gio.
Lui allungò una mano d’istinto, stringendole l’avambraccio e cercando anche lui freneticamente con lo sguardo qualcosa di strano.
«Ha detto che dovevo correre qui, che qualcuno ti avrebbe fatto visita, probabilmente un uomo di bell’aspetto, con un’aura di potere e di rispetto attorno, se ha senso come cosa.» sibilò infastidito dalla descrizione così vaga che l’amico gli aveva fornito.
Maria però scosse la testa, un altro passo e quasi si ritrovò tra le braccia del ragazzino.
«Parli- parli di suo fratello?» mormorò cauta.

Brava ragazza, non si nomina mai certa gente.
 
Gio annuì solo. «Dobbiamo allontanarci per un po’, puoi farlo? Senza dare dell’occhio a nessuno. Puoi dire ai tuoi che vai un attimo a prendere una boccata d’aria, qualcosa del genere?»
«Credo di sì, sì. Ma se ti dovessero vedere farebbero domande, sarebbero subito sospettosi.»
Lui scosse il capo. «No, non vai da nessun parte da sola, non con il rischio che lui sia qui e che possa fermarti.»
«E cosa puoi fare tu? Come potresti proteggermi?» ribatté Maria con tono stizzito, «Non so neanche perché Ade abbia mandato te, non ha voluto spiegarmi nulla…» sospirò, realizzando con un sorriso dispiaciuto quanto fossero state dure le sue parole. «Non possiamo fare altrimenti, capisci? Andrò a cercare mia madre, le dirò che mi allontanerò un momento per rinfrescarmi, tu cerca di non dare dell’occhio.» disse poi con tono definitivo.
Gio la guardò serrando le labbra, le sopracciglia aggrottate, i pungi stretti. Annuì.
«Ti sto dietro. Se vedo qualcuno di sospetto ti prendo e ti porto via.»
Maria gli posò un carezza sulla testa, gentile. «Non servirebbe comunque a nulla, lo sai vero? Sono Dei, Giordano, e noi siamo solo insetti al loro confronto, non potresti fermarlo, qualunque cosa volesse fare.»
 
Lo so. Per questo devo diventare più forte. Per questo Venezia era solo una tappa. Perché ora come ora, in queste condizioni, non servo a niente e a nessuno.
 
Un altro brivido lo scosse, ma Gio riuscì perfettamente a distinguerlo dall’ansia che l’aveva attanagliato poco prima. Era rabbia questa, cieca, fredda come il ghiaccio, che se stretto in pungo inizia a bruciare come fuoco.
Non serviva a niente. Non serviva a nessuno. Era per questo che Clara e Al l’avevano lasciato a Roma, era per questo che nessuno si era opposto, che tutto quello sgangherato gruppo era stato più che d’accordo con la decisione dell’italiana. Perché Gio, in quel momento, era solo una zavorra inutile.
Tenne la testa dritta, rigida, facendo cenno a Maria di muoversi, di fargli strada. La giovane lo guardò dispiaciuta, con quello stupido sguardo carico di pietà, di quel sentimento così disgustoso da fargli venire il voltastomaco.

Dio. Dio quanto lo odio. Quanto lo odio quando mi guardano così.
Non sono senza speranze. Non sono da compatire.
Non sono inutile. Posso diventare forte, posso fare la differenza se solo me ne dessero la possibilità, se solo potessi imparare a combattere, a farlo davvero.
Combatterei contro tutto.
Combatterei anche contro Giove.

 
Un tuono risuonò in lontananza, la pioggia continuava a cadere fina ma fitta. Ci fu un altro lampo ma nessun rumore riuscì a superare il vociare dei commensali.

«Su, non fare così…» provò a consolarlo la ragazza.
Gio storse il naso, pronto a replicare, a dirle di muoversi e basta, che non aveva bisogno d’esser trattato come un moccioso, ma sembrava quasi che, quella sera, la sua amica avesse deciso di non farlo parlare.
«Puoi risparmiarti la tua accondiscendenza, Giordano non ne ha bisogno, di fatto, sei tu quella che necessita dell’attenzione di altri per non finire nei guai.»
La voce sempre calda ed avvolgente di Amore gli arrivò alle orecchie come una frecciata gelida, un dardo che non mancò di colpire il bersaglio.
Maria spostò immediatamente lo sguardo sulla nuova arrivata, la stessa giovane che aveva scorto alle spalle di Gio quando gli si era avvicinata.
Non l’aveva riconosciuta, malgrado suo padre le avesse presentato ogni invitato alla festa, e Maria aveva quasi contemplato l’idea che potesse essere la figlia viziata e ritardataria di uno dei presenti, ma il modo in cui nessuno, nonostante la sua incredibile bellezza, avesse osato avvicinarlesi, come se un’aura invisibile la schermasse dallo sguardo della gente, le aveva subito fatto accantonare l’idea.
Amore si avvicinò con tranquillità, poggiando una mano sulla spalla di Gio e lasciando scivolare l’altra attorno alla sua vita. Lo tirò leggermente indietro, allontanandolo dalla ragazza che continuò a fissare dritta negli occhi senza il minimo timore.
Maria si sistemò la veste, riprendendo una postura più signorile.
«E tu saresti?» chiese cercando di imitare il tono freddo dell’altra.
Amore non si sprecò neanche in uno dei suoi amabili sorrisetti canzonatori, limitandosi a fissare Maria senza batter ciglio.
«Qualcuno a cui dovresti decisamente portare più rispetto, ragazzina.»
Un verso di scherno scappò dalle labbra leggermente truccate della giovane. «Sei a casa mia, alla festa della mia famiglia, dovresti essere tu a portare rispetto a me. E anche a lasciare Gio, è inappropriato.» disse indicando con un gesto vago la stretta che l’altra teneva sul ragazzino.
Amore continuò a non battere ciglio. «Più inappropriato di una giovinetta appena diciottenne che passa le sue giornate a solleticare la fantasia di un essere millenario?» domandò inclinando leggermente la tesa, la bocca così vicina all’orecchio di Gio da poterne sfiorare la conchiglia. «Credi di essere speciale? Di essere diversa? Ogni giocattolo, prima o poi, si rompe.» sibilò in fine.
Maria fece un passo indietro, colpita nel vivo dalle parole di quella che una volta era una ragazzetta di forse vent’anni ma che, davanti ai suoi occhi, si stava lentamente trasformando in altro.
Provò a balbettare qualcosa, cercando parole, pensieri, qualcosa che potesse permetterle di controbattere, di non sembrare una completa sciocca, senza riuscirci.
 
«Ingoi l’orgoglio, signorina Di Angelo, non c’è parola terrena o divina che possa sconfiggerlo. Dopotutto, anche noi soccombiamo all’amore, proprio come ha fatto mio fratello con lei.»
 
Gio si irrigidì leggermente, l’istinto gli gridava di sciogliersi dall’abbraccio di Amore, mettersi in posizione difensiva, proteggere la sua amica e anche Maria, ma il fiato caldo che gli batteva sul lato del volto lo rendeva più rilassato, costringendolo quasi a lasciarsi andare contro il corpo morbido alle sue spalle, sciogliendo tutti i nodi che la rabbia aveva stretto lungo i muscoli della schiena, del collo. Giordano poté solo guardare una figura vestita anch’essa di verde alzarsi dalla poltrona borchiata, lisciandosi le pieghe inesistenti della lunga gonna che sfiorava perfettamente il pavimento.
Si voltò lentamente verso di loro, ad agio, stringendo le mani guantate in grembo, un’espressione neutra sul viso bello ed austero, dai lineamenti morbidi come le curve del suo corpo, quelle larghe dei fianchi, quelle prosperose ma non eccessive del seno coperto dallo stesso tessuto lucido della gonna, in uno scollo a barca che ospitava una pietra di smeraldo grande quanto il pungo di un bambino.
Aveva i capelli castani raccolti in una classica acconciatura da galà, quello chignon stretto ed impeccabile, adornato da una spilla di cui Gio poteva vedere solo dei vaghi bordi tondeggianti.
Quando però riuscì a concentrarsi finalmente sui suoi occhi, ignorando i movimenti a scatti di Maria, che non sapeva chi guardare, Giordano seppe subito, per certo, che quella donna tutto era tranne che una semplice donna e che sarebbe bastato il suo aspetto a farglielo capire, senza neanche dover far affidamento sulle sue parole.
La Dea, perché questo era, lo guardò con l’attenzione curiosa di un rapace che fissa un altro animale, in attesa di decidere se quello possa essere una preda o un pericolo.
Lo studiò per quelli che parvero interminabili minuti, per poi spostare lo sguardo leggermente più in alto, accennando un leggero increspamento di labbra.

«Sapevo che fra tutti saresti stato tu a cogliere l’occasione.»
Un risolino divertito vibrò nell’orecchio di Gio, facendolo rabbrividire.
Quella non era la voce di Amore. O per lo meno, non della sua Amore.
«Sarebbe stato sciocco da parte mia non vegliare il frutto nato dal mio lavoro.» rispose.
La Dea alzò un sopracciglio, poco impressionata. «Un tuo lavoro? Credevo fosse stata tua madre, la colpevole.»
Un altro risolino. «Mamma ha tirato le fila, ha chiuso il cerchio, ma quando poi è stato sciolto il nodo ed ogni cosa è stata ridata in mano al Fato, è stato il mio di domino, quello su cui le nostre anime si sono rincontrate.» le sue parole suonarono criptiche e quasi crudeli, ma Gio non seppe spiegarsi perché, così come non seppe spiegarsi subito come il corpo morbido della sua Amore si fosse trasformato in quello ugualmente caldo ma solido di un uomo.
Non osò però distogliere lo sguardo da quello della Dea, ipnotizzato da ricordi sbiaditi ed estremamente chiari che si susseguivano come una pellicola impazzita davanti ai suoi occhi, sovrapponendosi alle figura della Dea, a quella di Maria, ora immobile e muta, a quelle di tutti i commensali che continuavano la loro cena come se nulla fosse.

«Voi due provate troppo piacere nel giocare con queste cose.» lo ammonì la Dea.
Amore sorrise, Gio non poteva vederlo, ma sapeva per certo che stesse sorridendo, lo percepiva dalla sua voce. «Non sei forse venuta anche tu qui per giocare un po’ con l’amore?» domandò divertito.
La Dea alzò gli occhi al cielo, come se quella non fosse la prima volta che le venisse posta quella domanda.
«Tu giochi decisamente troppo con l’amore, io metto a posto i danni che fai.»
«O che fa tuo marito.»
Questa volta lo sguardo che lei gli lanciò fu decisamente più duro. «E nonostante tutto ciò raramente riesco a sistemare le cose, figuriamoci prevenirle. Sarà di nuovo una tragedia, ne sei consapevole, vero?» domandò dal nulla, senza che Gio riuscisse a capire a cosa si stesse riferendo.
Amore si strinse nelle spalle, lo sentì sussultare contro la sua schiena.
«Non è certo colpa mia se tutti voi fratelli fate scelte così pessime. Non che tu ne abbia davvero avuto l’opportunità…»
«F-fratelli? Avevate detto qualcosa su vostro fratello, prima.» La voce di Maria arrivò flebile e tentennante. «Intendente- i-intendente, Ade?» chiese infine.
La Dea si voltò finalmente verso la giovane, negando a Gio pieno accesso ai suoi occhi.
«Ovviamente mi riferivo a lui, o intrattiene forse intercorsi segreti anche con gli altri miei fratelli? La informo che per la maggior parte sono sposati o sono mostri, o entrambi se prende per esempio mio marito.»
La ragazza la guardò con gli occhi sgranati, scioccata e incapace di replicare, di comprendere cosa stesse effettivamente dicendo quella donna con cui aveva scambiato convenevoli per quasi un’ora.
«Quindi eri tu, non Zeus.» commentò casualmente Amore. «Hai fatto prendere un bell’infarto ad Ade e quasi uno anche al nostro piccolo, dolce Giordy.»
La Dea tornò a prestare completa attenzione al ragazzino, che si fece istintivamente ancora più vicino ad Amore. Fu però con una certa sorpresa che la divinità osservò Gio allargare leggermente le braccia, come a voler far da scudo ad Amore.
Lo vide deglutire e, seppur ora a fatica, mantenere lo sguardo fisso nel suo.
«Se fissi il fuoco troppo a lungo finirai per vedere solo fiamme.» mormorò.
Gio provò a deglutire di nuovo, ma la sua bocca era così asciutta da non riuscir neanche a mandar giù una boccata d’aria.
«Non si distoglie mai lo sguardo da un nemico più grande di te, non puoi permetterti di mancare anche solo un fremito.» disse con voce lontana, meccanica, ripetendo le parole che Raja gli aveva inculcato in testa a forza per giorni, settimane, mesi.
Quella risposta sembrò colpire ancora la Dea che questa volta si aprì in un sorriso più ampio, più caldo, sempre educato e composto ma quasi materno.
«La tua compagna aveva ragione.» iniziò col dire. «Ti ha insegnato una lezione importante.»
Gio annuì, senza neanche domandarsi se non gli avesse appena letto nel pensiero. «Più di una. Non solo lei.»
Anche la Dea annuì, poi gli porse la mano, in un gesto dal sapore formale.
«Non capita spesso che qualcosa colga la mia attenzione, che susciti curiosità in me, ma tu ci sei riuscito, Giordano.»
Il ragazzino allungò la mano, tremante ma diretta senza indulgi verso quella della divinità.
«Giordano Rioni.» precisò con una stretta salda.
La Dea replicò con la stessa intensità, mentre uno strano calore si disperdeva dal palmo al resto del braccio, come se la donna stesse spingendo ondate calde contro di lui.
«Piacere di conoscerti, Giordano Rioni. Io sono Era, la reggina degli Dei.»



 
*



 
I templi dei Grandi Dodici si chiudevano in una piazza perfettamente circolare. Gli imponenti edifici lasciavano a mala pena un vicolo di un metro e mezzo tra loro, il mattonato che ricopriva le strade era coperto dall’ombra delle alte mura, dai tetti spioventi che non lasciavano passare luce. C’era una leggera patina d’umidità sulle pietre, il muschio luminescente dell’Ade brillava fioco tra le fughe, disegnando un pattern irregolare e morbido al tatto.
Cade osservò senza troppo interesse l’alone azzurrino che emanava la pavimentazione, trascinandovi sopra i piedi come se potesse sentirne la texture sotto la pianta, direttamente sulla pelle. Chissà cosa sarebbe successo se si fosse tolto scarpe e calze e fosse rimasto così, fermo in piedi sul muschio umido e luminoso.

«Ehi?»

Il rosso alzò la testa, incontrando subito lo sguardo crucciato di Jonas, intravedendo con la coda dell’occhio il modo in cui giocava distrattamente con il laccio sporco di quella che era stata la gonna di Jane ed ora era un povero quanto gradito sostituto del suo vecchio bracciale.
Rispose con un mugugno, giusto per fargli capire che lo stesse ascoltando, mentre spostava gli occhi alle spalle del ragazzo, dove più avanti, nello stretto vicolo che si trovava tra due templi di chissà quale Dio, gli altri stavano avanzando con passo deciso ma non troppo veloce.
Li aveva sentiti discutere vagamente sulla possibilità di incontrare, in quella che probabilmente era una piazza, molti altri semidei, la possibilità di ritrovarsi di nuovo in mezzo a tanta gente, a tante anime. Avrebbero avuto una più chiara visione di chi fosse rimasto, Eliza voleva prendere nota di quanti figli di quali divinità erano ancora in gara e Nathan si era dimostrato perfettamente d’accordo, avrebbero cercato di fare un calcolo veloce finché Lea e Cicno fossero stati impegnati nel tempi di Apollo e poi, una volta usciti loro ed entrato lui nel tempio di Ares, sarebbe toccato a Cicno stesso individuare le parentele divine dei rimanenti.
Cade storse il naso, mancavano solo due templi e, a voler essere onesti, temeva seriamente che Lea potesse tirarsi indietro, potesse accettare qualche compromesso, tornare a vivere magari con i figli di suo fratello ancora in vita, i suoi nipoti o quel che erano- sì, forse nipote, dopotutto non erano morti a distanza di troppi anni, loro due. C’erano grandissime probabilità che Lea avesse dei nipoti che l’attendevano nel mondo mortale, esattamente come lui.

«- e non mi stai decisamente ascoltando, magnifico.»
 
A quelle parole Cade riportò la sua attenzione su Jonas, che lo fissava con le bracci incrociate ed un broncio che rispecchiava perfettamente la sua età.
 
Mocciosetto, piccolo Bineas.
 
«Stavo pensando, scusa.» rispose sinceramente.
Non doveva essere però ciò che il ragazzo si aspettava, perché la sua espressione divenne più preoccupata.
Jonas si gettò uno sguardo alle spalle e poi gli si fece più vicino, tornando sui suoi passi, calpestando il muschio luminescente con quegli enormi scarponi che non gli si addicevano proprio.
Cade non se ne rese conto, ma accennò un sorriso: chissà se, crescendo, il suo amico avrebbe finito per riempirle quelle scarpe.
 
Non che io possa vederlo, un giorno.
 
«Che hai?» lo richiamò per l’ennesima volta il ragazzo.
Cade alzò il capo ma tenne gli occhi puntati sugli stivali dell’altro.
«Chissà se ti staranno mai bene.» mormorò sovrappensiero, perdendosi l’espressione quasi ferita che per un momento passò sul viso di Jonas.
«Ho visto mia sorella.» continuò tranquillo l’irlandese, come se nulla fosse, «Mi ha detto che ho un botto di nipoti e bisnipoti su, in Irlanda, non so bene dove, ma so che potrei trovarli in caso, mi ci porterebbe il vento.» gli fece cenno di riprendere a camminare, indicandogli con il mento la fine del vicolo, dove i loro compagni erano quasi arrivati. Quei templi erano enormi, Cade non aveva camminato così tanto in quello di suo padre.
Jonas si mosse, aspettandolo comunque per camminargli vicino, per quanto lo spazio glielo permettesse.
«Bene, sono felice per te. È stato bello rivederla? Cioè, so che probabilmente è stato triste e- non so come sia morta sinceramente o se fosse davvero tua sorella-»
«Era lei, lo so per certo, non era un’illusione come tua madre o quella di Jane, era vera.»
«Bene, bene. E… era felice? Ti ha raccontato qualcosa di brutto?» provò ancora Jonas, cerando di soppesare le parole, di non sembrare ridicolo: aveva rincontrato la sua sorellina morta, possibilmente vecchia visto che aveva avuto figli e nipoti, da quanto diceva Cade, cosa si diceva in quei casi? C’era un’etichetta? Discorrere educatamente su parenti morti e tornati nella morte per parlare del loro vissuto passato, qualcuno avrebbe dovuto fare una guida, forse all’inferno già esisteva, chissà se avrebbe potuto trovare un banchetto o una libreria che vendeva opuscoli.
Dandosi del cretino da solo Jonas quasi sussultò quando Cade riprese a parlare, lo sguardo ancora perso, il tono abbastanza neutro.
«Dice di aver passato una bella vita, faticosa, ci sono state molte guerre e molte rivolte dalle mie parti, a quanto pare. Nathan ha parlato a te della storia del tuo paese, ma del mio non ha mai detto nulla, eppure a sentire mia sorella è successo il finimondo.»
Jonas annuì. «Non l’ho mai studiato a scuola, ma sì, c’erano state un po’ di agitazioni in Irlanda, soprattutto contro l’Inghilterra. Ma non ne so molto, per questo non ti ho mai detto nulla. Non ho mai prestato troppa attenzione, in vita, dico, ero-»
«Va bene così, non ti preoccupare.» lo rassicurò accennando un sorriso. «I report di guerra me li aspetto da Nathan, non da te.»
Stettero in silenzio, finché Cade non si fermò di nuovo, a qualche metro da Jane e Cicno, gli ultimi due della loro piccola combriccola ad essere rimasti al sicuro tra le mura dei templi. Il figlio di Apollo gettò loro un’occhiata interrogativa, indicando la piazza che ora potevano scorgere anche loro oltre il vicolo.
Jonas non lo vide, ma Cade dovette avergli fatto cenno d’andare avanti senza aspettarli perché Cicno annuì e spinse gentilmente Jane fuori dall’ombra senza dire nulla.
A quello il ragazzino si girò verso l’amico, crucciato.
«Che c’è?»
«Sai dov’è l’Irlanda?» domandò solo Cade.
Jonas batté le palpebre perplesso, poi annuì.
«Sai se c’è rimasto nessuno della tua famiglia su?» lo incalzò.
«No. Non lo so per certo ma no, nessuno della mia famiglia stretta, probabilmente solo qualche parente alla lontana. Ma lo sai, te l’ho detto, mia madre non si è mai risposata, non ho mai avuto contatti con la famiglia di quello che si presupponeva fosse mio padre e-»
«Se vincerai, se tornerai in vita, vai in Irlanda. I miei nipoti sono tutti lì, se gli dirai che sei mio amico ti crederanno, o meglio, ti crederà mio nipote Cade, è il quarto di cinque fratelli, prima di lui ci sono tre sorelle, mia sorella si chiamava Annie, nostra madre Eilin. Ricorda Griffith, il mio cognome, e i Libery Birds. Quando tornerai su non so cosa potrebbero offrirti gli Dei, non so se ti daranno spontaneamente una mano, ma puoi chiedere a tuo padre. Pregherai lui e gli chiederai di farti arrivare dai miei nipoti, okay?»
L’aveva afferrato per le spalle, guardandolo dritto negli occhi, serio.
Non c’era traccia del suo solito sorriso, del suo sguardo canzonatorio, delle sue espressioni beffarde. Non c’era nulla se non sincerità e serietà sul suo volto.
Jonas lo guardò in silenzio, scioccato, senza sapere cosa rispondere.
Balbettò poche parole senza senso, scosse il capo e provò a parlare ancora, senza sapere cosa dire.
«Okay?» lo incalzò Cade e Jonas si riscosse.
«Che diavolo stai dicendo?»
«Non potremmo vincere tutti, lo so io, lo sai tu, lo sanno gli altri. Può vincere un’anima sola e dovrà sconfiggere le altre per farlo.»
«Certo che lo so! Che cazzo di ragionamenti fai? Ma che ti prende tutto d’un tratto?»
Ma l’altro scosse il capo, scuotendolo leggermente per farlo zittire.
«Stammi bene a sentire: quando arriveremo alla fine devi preoccuparti solo se io non dovessi arrivare all’ultima sfida con te, allora dovrai combattere con tutte le tue forze, capito?»
«Cade…»
«Ma se dovessimo arrivaci insieme allora non dovrai preoccuparti di nulla, perché se c’è una cosa che so per certo è che non potrei mai ucciderti. Contro di me vinceresti sicuramente e allora, quando tornerai su, dovrai andare in Irlanda, dalle parti di Dublino, cercare la mia famiglia e loro ti aiuteranno.»
Jonas lo fissò immobile, incapace di annuire, di dire qualcosa.
Cade gli aveva appena detto che se fossero arrivati insieme in finale avrebbe rinunciato alla vittoria, alla possibilità di tornare a vivere, per far vincere lui. Un beato, morto per difendere la sua patria, il suo popolo, la sua famiglia, avrebbe rinunciato a tutto, per un dannato che si era tolto la vita perché troppo debole, perché vigliacco.
Come si rispondeva in questi casi?
Cade gli sorrise, riprendendo un po’ di quel colorito che le gare stavano riconcedendo loro, un po’ di sangue che non avrebbero dovuto avere. Gli occhi verdi scintillarono di nuovo, animati da una scintilla che fino a quel momento sembrava essersi sopita.
«Tua sorella…»
«Ha detto che è stata, è e sempre sarà fiera di me, che io vinca o no. Ha detto che a quel punto dovrò rinascere, che siamo fratelli e che è inevitabile per noi ritrovarci anche nella prossima vita.»
«Cade.» lo chiamò ancora, questa volta con un tono pericolosamente lacrimoso.
Il figlio di Eolo gli prese il volto con una mano, avvicinandolo verso di sé, premendo la propria fronte contro la sua.
«Non è stato un caso che io ti abbia trovato in quel labirinto, non è stato un caso che tu ti fossi perso. Il fato lavora in modi assurdi e misteriosi, ma se c’è una cosa che so è che per tutta la vita ho sempre avuto un po’ di fortuna irlandese con me e che questa mi ha sempre, sempre portato a trovare pezzi della mia famiglia in giro per tutta Dublino. L’Ade non è Dublino, ma la mia fortuna non ha fatto cilecca. Che ti piaccia o no, ragazzino, sei mio fratello ora e tutto quello che non ho potuto fare per i miei fratelli lo farò per voi, tutto quello che non ho potuto fare per mia sorella lo farò per te qui giù, chiaro?»
Jonas annuì, liberandosi dalla sua presa solo per poterlo abbracciare come si deve, colpito da quelle parole quanto dalla realizzazione che il suo amico – poteva chiamarlo anche fratello ora, no? – avesse già messo in conto di sacrificarsi, ancora, per mandare avanti lui, anche se questo avrebbe significato perdere la possibilità di tornare in vita.

Ha messo in conto che non lo farà, non si è arreso, ma è come se l’avesse fatto.
Non combatterà contro di me, non permetterà che mi buttino fuori, né le altre anime né- né i nostri compagni.

Perché non possiamo vincere tutti. Siamo solo alla sesta prova, ma sembra così vicina, sembra così imminente la fine.
 
«Su, non piangere bineas, come ritroverò Annie ritroverò anche te, okay? Magari becchiamo anche gli altri, se angioletto non ci fa tutti fuori.» provò a consolarlo, stringendolo più forte.
Jonas rise. «Se non lo facciamo fuori prima Cicno farà fuori tutti noi dopo per certo.»
«Anche Nathan.»
«Soprattutto Nathan.» rise ancora.
Cade gli diede un colpetto sulla schiena, scompigliandogli poi i capelli con un gesto affettuoso. «Andiamo, va bene? Ci staranno aspettando.»
Il ragazzino si rimise dritto, strofinandosi la mano sugli occhi, sotto il naso e poi sui pantaloni per pulirsi da quella fastidiosa acquetta che gli era colata dal naso. Non poteva credere di riavere il moccio ma non gli organi interni.
Cade gli sorrise, gli occhi lucidi ma asciutti. «Se non si sono rotti le palle e non sono già entrati, ovviamente.»
«Mi dispiacerebbe non aver augurato loro buona fortuna.» ammise Jonas.
«Sì, anche a me. Lea ne ha davvero bisogno. Angioletto un po’ di meno, anche se forse a te interessa più salutare lui che la nostra bella italiana.» ammiccò Cade.
Jonas alzò gli occhi al cielo pronto a replicare prima di rendersi conto di quale fosse l’implicazione a quella battuta e congelarsi sul posto.
Abbassò lo sguardo in quello di Cade, incapace di formulare una frase che non sembrasse troppo compromettente, mentre una voragine gli si apriva all’altezza dello stomaco, facendogli tremare le gambe e sudare le mani.
 
Cazzo.

L’irlandese gli scoppiò a ridere in faccia. «Su! Non guardarmi così!»
«I-io non-»
«Ehi, sono più grande di te, ne ho viste di cose al mondo. Era solo una battuta, okay? Riferita ai metodi poco ortodossi di cura di Cicno. Insomma, non è il mio tipo, gli mancano due cose, no tre- ne ha tre di meno e due, tre di troppo… diavolo l’ho già fatto questo ragionamento, quando? Con angioletto proprio forse? Sì, mi sa di sì. Che cazzo, sto davvero perdendo colpi, mia sorella a ottantuno anni si ricorda la cose meglio di me!»
Jonas deglutì, cercando di abbozzare un sorriso che però dovette uscirgli davvero male dato il modo in cui Cade rise di nuovo. Voleva vomitare.
«Dovresti vedere che faccia che hai!»
L’altro digrignò i denti. «Non sei divertente.» sibilò.
«Al contrario, sono estremamente divertente.»
«Non sto scherzando!»
«Neanche io.» rispose con più serietà.
Aspettò un momento, dandogli la possibilità di replicare, dopodiché Cade lo prese sotto braccio e lo costrinse a tornare a camminare. «Quando dicevo che l’unica cosa che mi turbava era la vostra differenza d’età non lo stavo dicendo solo per dire. Però se quello era il modo più veloce per guarirti allora mi va più che bene. E tu sei un moccioso morto al pieno dei tuo “istinti”, così li chiamavano ai miei tempi, gli “istinti giovanili”, Cicno è bello, non lo chiamo angioletto per nulla. Se fosse stato una donna c’avrei già provato, ma non ti biasimo di certo.» si fermò sul limitare del vicolo.
Jonas deglutì pallido e a disagio, troppe emozioni tutte insieme. Primi gli diceva quelle cose su sua sorella, sul trovare la sua famiglia se fosse stato lui a tornare in vita, su come fossero fratelli, gli scombussolava ogni singola cellula del corpo, lo faceva piangere dalla commozione e poi quello? Era troppo chiedere un po’ di pace, un po’ d’aria?
«Possiamo non parlarne?» chiese con voce flebile.
Cade si strinse nelle spalle. «Possiamo fare quel che ti pare, è un problema per te, mica per me.»
A quella semplice e banale affermazione Jonas non poté trattenersi dal sussultare e guardare allibito l’amico.
«Cosa?»
«Ho detto che per me non è un problema, è un problema per te; quindi, se ti mette a disagio possiamo non parlare, posso anche non farci battute se vuoi. Ma se poi sei tu, a voler dire qualcosa, allora sappi che potrai farlo quando ti pare, perché per me non è un problema.»
L’aveva ripetuto con chiarezza e tranquillità, come se stesse parlando del tempo, come se gli stesse spiegando il funzionamento di un oggetto. Gli fece tornare in mente quella volta che quasi vomitò addosso a Lu, la vergogna, l’umiliazione che gli provocava anche solo pensarci e la calma con cui invece ne parlava lui, perché chiunque può star male, è capitato a tutti ed è assurdo vergognarsi per qualcosa di così naturale come i sintomi di un’indigestione. 

È come un’indigestione, è come quella volta: chi non ha mai quasi vomitato addosso al proprio migliore amico perché si era incaponito a mangiare qualcosa che non avrebbe dovuto mangiare?
Che cosa stupida, che collegamento del cazzo, eppure- eppure mi sembra tutto così sciocco ora.
 
Era un problema per lui, non per Cade.
Non gli rispose subito, ma allungò la mano per stringergli leggermente il braccio, per fargli capire quanto avesse apprezzato.
Forse era così, avere un fratello. Forse era semplicemente esser accettati, esser compresi anche senza parole.
«Spero non siano ancora andati.» mormorò invece.
Cade gli sorrise e incoraggiante e lo trascinò finalmente fuori dal vicolo.
«Speriamo di no, o ce lo rinfacceranno a vita.»
 
Mestamente, senza neanche farci troppo caso, osservando l’espressione fintamente esasperata di Jonas e ascoltando le sue lamentele su quanto anche gli altri, in passato, li avessero fatti attendere per le più svariate motivazione, Cade si ritrovò a pensare quanto quelle parole suonassero bene.
Sì, gli sarebbe piaciuto.
 
 
“… a vita.”
 


 
*




La roccia contro cui poggiava la schiena era abbastanza liscia e regolare. Le pietre erano state impilate con cura, creando un muro di mattonato grezzo che il tempo e le intemperie avevano levigato con maestria.
Aveva passato anni della sua vita poggiata a quella parete, per ripararsi dal sole, dal freddo, dal vento e alle volte anche dalla pioggia, ma erano ormai passati i giorni in cui erano i fenomeni metereologici quelli da cui cercava riparo, le cose spaventose da cui cercava di fuggire.
Fece scrocchiare il collo nel modo più silenzioso possibile, allentandosi leggermente la cinghia sulla spalla destra, prima che un brontolio basso e quasi infastidito la richiamasse all’ordine.
Clara voltò il capo di lato, alla sua destra, lì dove Quarto stava accucciato, in attesa del momento giusto per scattare.
 
«Che c’è?» sussurrò piano.
Il lupo non distolse lo sguardo da qualunque fosse il suo obiettivo, rispondendole comunque a mezza bocca.
«C’è un motivo se quelle cinghie sono così strette ed è per far sì che l’armatura non cada durante il duello.»
Clara tornò a guardare dritta davanti a sé. «Avrei detto che so così strette pe non famme passà il sangue, sai?»
«Fai poco la spiritosa, bambina. Non hai un pelo folto come il mio e neanche una pelle così resistente, ti serve la corazza.»
«Infatti la ‘ndosso, così come m’è stato ordinato.» gli fece notare rotando leggermente le spalle, come a voler sciogliere i muscoli tesi. «Mi sta solo dando un po’ fastidio.»
«Impara a sopportarlo.»
«Di solito lo faccio, ma oggi-»
«Non sei più la mortale spaurita ed inesperta di un anno fa, questa volta puoi sconfiggerlo senza problemi e io sarò qui per aiutarti.»
Clara strinse le labbra ed annuì. Aveva ragione Quarto, la sua era tutta ansia per il mostro che avrebbe dovuto affrontare, per la prima volta da sola con il suo compagno, senza altra assistenza o senza supporto logistico nelle vicinanze nel caso in cui il Cinghiale dovesse sfuggirgli.
Un cinghiale che, per altro, non sarebbe neanche dovuto esser affar loro, bensì dei loro illustri cugini.
«Sono sempre gli stessi, cambiano nome ma i problemi che portano con sé son sempre quelli.» Le rispose Quarto senza che lei neanche aprisse bocca.
Avrebbe dovuto fargli di nuovo il discorso su quanto posse poco educato e a modo spiare nella mente di una signorina, quando quella missione fosse finita.
Se avesse potuto guardare con attenzione il muso del lupo avrebbe potuto vederlo alzare gli occhi al cielo, ma per il bene dell’incarico decise di tacere ed osservare come i piccoli cinghiali, quelli mortali, di una giusta dimensione, pascolassero tranquilli tra le zampe della bestia che Diana aveva liberato sulla terra.
Le stava simpatica Diana, continuava a preferire sua sorella, ma anche la Dea della Luna le piaceva molto.
L’aveva incontrata un paio di volte, al campo base, di passaggio o per riposarsi dopo una delle sue cacce. Se ne stava in disparte, solitaria ma mai maleducata, sempre a modo, seppur un po’ fredda con gli uomini, che le portavano un rispetto che non avrebbero mai portato ad una ragazzina della sua età. Clara aveva osservato con ammirazione quel corpo ancora prepuberale eppure più forte e scattante di quello di tanti guerrieri adulti, aveva osservato come dirigesse con gentilezza le sue cacciatrici, altre bambine, ragazze o giovani donne tutte vestite di bianco, con quelle strane divise così simili a quelle dei signorotti inglesi ritratti a caccia. Molto azzeccato in effetti, a pensarci bene.
Le prede che la Dea Diana e le sue cacciatrici riportavano erano sempre impressionanti, mostri che avrebbero dovuto disintegrarsi sotto i colpi dei loro dardi ma che rimanevano invece intatti, perfetti per essere trascinati indietro e consegnati nelle mani degli artigiani e dei cuochi.
Clara inclinò in capo pensosa, chissà se anche lei sarebbe riuscita a riportare la sua preda indietro, quell’enorme cinghiale che la Dea bambina le aveva proposto di cacciare al posto suo, per poter “riequilibrare” il mondo. Qualunque cosa significasse.
Prendendo un respiro profondo la ragazzina strinse la presa sulla lunga spada d’oro, rimpiangendo quasi d’aver rifiutato la proposta delle Cacciatrici di portare con sé arco e frecce, decisa invece a sconfiggere la bestia con quella stessa arma con cui, mesi prima, non era riuscita a sfiorarla.

«Quarto…» mormorò appena.
Il lupo annuì. «Al tuo comando, bambina, ti guardo le spalle.»
Gli sorrise, anche se lui non poteva vederla. «Lo so, grazie.»
Allungò la mano per sfiorare il fitto pelo marrone ed il lupo indietreggiò leggermente, facendole spazio vicino al bordo del muro.
Con un altro respiro profondo Clara strinse la spada con entrambe le mani e si sporse oltre il loro nascondiglio, giusto il necessario per vedere l’enorme Cinghiale darle le spalle, intento a brucare. Si ritrovò a pensare dispiaciuta che in quel momento la bestia non stesse facendo nulla e che alla fin fine non le piaceva neanche l’idea di attaccarlo così, alla traditora, prima che Quarto le desse un colpetto col muso, spingendola ad agire.
Clara si lanciò così verso il Cinghiale, il passo sicuro e veloce sul terreno battuto e leggermente secco, la fine dell’estate si sentiva nell’erba ora più verde che cresceva in macchie sempre più grandi nei campi già mietuti, che avrebbero riposato per l’intero inverno prima di ricevere la prossima semina.
Alcuni dei cinghiali più piccoli si accorsero velocemente di lei e Clara quasi si stupì di come quello più grosso si decise a voltarsi nella sua direzione solo quando ormai era a portata di spada.
Disegnò un arco ampio davanti a sé, facendo scintillare la lama d’oro sotto il sole settembrino, ferendo il fianco destro dell’animale che, sorpreso dal dolore, lanciò un suono stridulo e alto, mettendo in fuga tutti gli altri cinghiali.

«Difesa alta. Mira dietro la testa, un fendente secco e non lo fai neanche soffrire.»
 
Abbaiò Quarto, il latrato animalesco che si traduceva in parole nelle sue orecchie tese a cogliere ogni minimo suono.
Non gli rispose, fece a mala pena un cenno d’assenzo, mantenendo tutta la sua concentrazione sul Cinghiale, sul grugno sporco di terra e gli occhi porcini fissi su di lei, furiosi.
Fu facile prevedere la mossa successiva del suo avversario, Clara lo vide scalpitare un paio di volte prima di abbassare la testa e caricarla a piena potenza.
Si spostò di lato, alzando la spada e calandola velocemente sulla bestia, cercando di mirare dietro il collo riuscendo però a colpirlo solo all’altezza delle clavicole.
Il Cinghiale si lamentò di nuovo, incespicando nel tentativo di frenare e di rigirarsi velocemente per poter tornare ad attaccare, ma Clara non aspettò certo che tornasse in posizione, non avrebbe gettato al vento quel vantaggio.
Si guardò intorno velocemente, cercando un rialzo, qualcosa che le permettesse di colpire dall’alto, con più forza, aiutata magari da uno slancio maggiore. Il Cinghiale le sembrava più grande di quello che aveva affrontato l’estate scorsa, le sembrava più alto e anche dal pelo più chiaro, quasi dorato, ma poteva anche esser dovuto alle condizioni metereologiche: quel giorno il cielo era abbastanza limpido mentre la volta precedente era nuvoloso, cupo, minacciava pioggia e c’era addirittura un arcobaleno sbiadito se non ricordava male.
Corse verso quello che era stato il suo nascondiglio, l’unico edificio nelle vicinanze che poteva far al caso suo, sperando che Quarto le leggesse nella mente e capisse quali erano le su intenzioni.
Il lupo dovette intuirle facilmente perché si spostò rapido davanti al muro, accucciandosi per farle da supporto, spingendola verso l’alto nel momento esatto in cui Clara poggiò il piede sul suo dorso, issandosi verso le travicelle che spuntavano dal muro di pietra, ringraziando silenziosamente gli interminabili turni d’allenamento in cui le avevano fatto scalare pareti rocciose con le armi strette in pungo ed i pesi legati alla vita.
Udì il Cinghiale grugnire e riprendere la carica e scorse, con sollievo, Quarto allontanarsi velocemente dal casolare, lasciandola combattere da sola il suo primo, verso scontro.
Le scappò un sorriso, ma durò solo una frazione di secondo, prima che riprendesse bene la presa sulla sua spatha e flettesse leggermente le gambe, pronta, in posizione, per saltare addosso alla bestia al momento giusto.
Eppure c’era qualcosa, come un vago brusio di sottofondo, lo sfrigolio lontano dell’acqua su di una piastra bollente, che le solleticava la mente, qualcosa che avrebbe dovuto sentire ma a cui invece sembrava quasi sorda.
 
«CLARA! NON È QUELLO GIUSTO!»
 
La voce di Quarto la raggiunse come uno dei dardi della Dea Diana, dritto sulla tempia nel momento esatto in cui il Cinghiale si era quasi schiantato contro il muro, il momento esatto in cui Clara aveva spinto con tutte le sue forze ed era saltata in aria, la spada impugnata due mani, la lama rivolta vero il basso e tutta la potenza del suo attacco concentrata sulla punta affilata che trapassò la pelle spessa della bestia, affondando nei muscoli tesi, entrando precisa dentro la ferita che aveva inferto precedentemente.
Il Cinghiale lanciò un grugnito ferito, ma Clara si rese ben presto conto di aver lisciato la spina dorsale e che il suo colpo, per quanto doloroso, non doveva aver preso nessun organo vitale, nessun tendine o muscolo impostate.
 
Dannazione!
 
Piegò le braccia, stringendosi all’elsa, cercando di far forza per tenersi alla spada quando il Cinghiale iniziò a scuotersi, a correre in circolo per liberarsi di lei e della sua lama.
 
«Tieni duro! Non mollare!»
 
Quarto scattò verso di lei, Clara riuscì a scorgere solo frammenti di immagini, il corpo del lupo che cresceva, diventando più grande ma non abbastanza da poter doppiare la stazza della bestia.
La ragazza chiuse gli occhi, spingendo con le ginocchia contro il dorso del Cinghiale, le mani iniziarono a bruciarle tanto la stretta sull’elsa era serrata. Doveva resistere e rimanere in sella, se fosse caduta a terra quel mostro l’avrebbe calpestata a morte, poco ma sicuro.
Un latrato familiare le risuonò vicino ed il Cinghiale cacciò un altro gemito di dolore, barcollando pericolosamente.
 
«Fianco destro, destro!» le gridò Quarto.
Clara spalancò gli occhi, buttando tutto il proprio peso verso sinistra, un ginocchio sulla schiena della bestia ad un piede impuntato, pronta a sfruttare l’attimo giusto per estrarre la sua spada e saltare via, di nuovo.
Quando le zampe del Cinghiale cedettero Clara strappò l’arma dal dorso del mostro e si buttò a terra nella direzione opposta, rotolando velocemente prima di issarsi sulle ginocchia. Quarto le si affiancò subito, il muso sotto il braccio, ad incitarla ad alzarsi in fretta.
 
«Che vuol di’ che non è quello giusto? Quanto ce ne stanno, dio santissimo?» chiese con voce affannata.
Quarto ringhiò. «Più di uno, per certo, ma non tutti nostri. Questo ha il pelo dorato, è il loro, non quello di Diana.»
Clara si mise in posizione difensiva; di fianco a Quarto, al pieno della sua forma, sembrava una bambolina, un giocattolo, ma la spada sporca di sangue che stringeva tanto da non sentire più le dita, parlava per sé: non era un gioco, non era un allenamento, era la vita che l’aspettava, che avrebbe vissuto fin all’ultimo respiro, fino all’ultimo scontro.
«Zampe? Lo tiramo giù così e quando sta a terra gli taglio la testa.» propose cercando di stabilizzare il respiro.
Quarto non le rispose subito, osservando invece il Cinghiale rimettersi in piedi a fatica.
«Non so se possiamo, te l’ho detto, non è uno dei nostri.»
«Non possiamo neanche lasciarlo così qui, non dopo che l’ho attacco pe prima.»
«Allora lo stordiremo, ma non lo uccideremo, capito?»
Clara digrignò i denti ma annuì. «Sì, Comandante.» asserì secca.
Anche il lupo fece un cenno con il capo e poi, senza neanche una parola, i due si gettarono di nuovo verso la bestia, pronti ad atterrarla, sfinirla finché non avesse avuto più forse per rialzarsi.
Nel cielo nuvole sporadiche avevano iniziato ad ammassarsi assieme, coprendo parzialmente il sole e gettando ombre leggere sulla terra asciutta, sui fili d’erba che gli zoccoli del Cinghiale aveva calpestato, sporcandoli di sangue denso e scuro, così diverso da quello degli animali terrestri eppure così simile.
Clara puntò con precisione alle zampe della bestia, al muscolo ampio e guizzante della coscia, ripetendosi a mente tutti i punti dolorosi ma non fatali in cui affondare la lama, mentre al suo fianco Quarto puntava direttamente al collo del Cinghiale, per tenerlo occupato mentre lei lo feriva.
Il lupo gettò facilmente il mostro di nuovo a terra, facendolo rotolare sulla schiena, le zampe posteriori che scalciavano nervose. Clara si ritrasse appena in tempo per schivare un calcio, menando un fendente dietro la parte alta della coscia, quasi all’attaccatura della coda. Il Cinghiale gemette ancora e Clara vide quasi a rallentatore la bestia abbassare il muso per colpire il suo compagno, una delle zanne del Cinghiale paurosamente troppo vicina alla gola di Quarto.
Con uno scatto felino la ragazza menò un mal rovescio il aria, un gesto involontario ed inutile, che non le avrebbe mai permesso di parare il colpo per il suo amico, era troppo lontana, la spada troppo corta. Un brivido le percorse tutto il braccio, vibrando nell’elsa fasciata di cuoio, propagandosi per tutta la lunghezza della spatha come una scintilla risale il cordino di una miccia. Fu una questione attimi, la lama brillò fiocamente prima di rompersi in una decina di frammenti e scattare veloce verso il suo obiettivo.
La punta d’oro tranciò di netto la zanna, che volò via, sotto i grugniti del Cinghiale ed il latrato sorpreso di Quarto.
Il lupo si spinse via con le zampe anteriori, saltando indietro e voltandosi subito verso Clara, verso la frusta d’oro in cui si era divisa la lama, che tornò perfettamente integra nel momento in cui la ragazzina la ritirò a sé.
Si fissarono per un momento, sconcertati, mente il Cinghiale grugniva e gemeva a terra.
 
«Cosa hai fatto?»
«Non lo so-»
 
Un tuono rimbombò nel cielo, le nuvole s’addensarono velocemente sopra di loro ed un lampo illuminò l’intero campo al posto del sole ora coperto.
Non appena la luce si estinse un rumore familiare ma estraneo iniziò ad avvicinarsi, sempre più, sempre più, finché un’enorme figura animalesca non apparve davanti a loro, chiudendo la via di fuga al Cinghiale, ferito, irrequieto e ora anche spaventato.
Clara si spostò in automatico verso Quarto, allungando la spada verso di lui, come a proteggerlo dall’arrivo di quello che riconobbe facilmente come un gigantesco lupo grigio.
 
Quel lupo grigio. È lui.
 
Quarto dovette pensare la stessa cosa, perché il ringhio basso che si lasciò sfuggire sembrava più di fastidio che di minaccia.
Il lupo grigio fissò l’altro per un momento prima di puntare gli occhi color ghiaccio sul Cinghiale, scoprendo le zanne e abbassando le orecchie appuntite, sfidandolo quasi a muoversi.
A quel gesto, dalla groppa del lupo, fece capolino una testa nera che a Clara sembrò d’aver visto una vita fa.
 
Lo era, era una vita fa, prima che iniziasse questa, prima che iniziassi quella vera.
 
Era il ragazzo tedesco dell’estate scorsa, quello che l’aveva aiutato proprio con il Cinghiale. Beh, non quel Cinghiale, a quanto sembrava.
 
«È roba loro, se la sono presa con calma.» borbottò la voce infastidita di Quarto direttamente nella sua testa.
Clara annuì, ma non ritrasse la spada, non la richiuse, portandola invece davanti a sé, bassa, ma in una posizione abbastanza comoda per poterla alzare subito e parare eventuali attacchi. Anche se non sapeva quanto avrebbe potuto parare un attacco di un lupo di quelle dimensioni e di un guerriero, perché ormai sapeva che quello era il ragazzo: un guerriero che combatteva con due spade elettrificate.
 
Infami fortunati, tutti quei semidei con poteri divini.
 
Il ragazzo dovette leggere fin troppo bene l’aria che tirava in quel campo, perché lo sguardo curioso che aveva sfoggiato sporgendosi oltre la testa del suo lupo venne velocemente mutato in un’espressione più seria ma aperta: era palese come non volesse porsi come una minaccia.
Scese quindi dalla sua cavalcatura con movimenti lenti e plateali, atterrando senza barcollare e alzando subito le mani vuote, disarmante.
Clara lo osservò con occhio critico, dal pantalone stretto e la casacca precisa, entrambi di ottima fattura, di stoffa pregiata. Gettò un’occhiata agli strani stivali di pelle e poi a ciò che aveva in spalla, quella che sembrava una corda dal vago luccichio metallico. In fine guardò il ragazzo in volto, dritto negli occhi.
Se un anno prima gli era sembrato un giovane molto bello ma dal volto ancora immaturo, era evidente che quei lunghi mesi avevano scolpito spigoli più definiti, scavando a colpi di scalpello le guance da bambino, senza però riuscire ad intaccare gli occhi blu, scintillanti e gentili.
Il ragazzo le sorrise esattamente come aveva fatto la prima volta, con una punta di timidezza ed incertezza.
Clara serrò le labbra e fece poggiare la punta della spada a terra, presupponeva quello fosse un segno abbastanza gentile da parte sua.
 
«Non credo tu abbia imparato l’italiano, vero?» chiese a voce alta, scandendo le parole con attenzione e nascondendo qualunque traccia di dialetto.
L’altro inclinò il capo di lato, una smorfia imbarazzata a piegargli il sorriso.
«Es tut mir leid, ich verstehe dich nicht.» rispose lui stringendosi nelle spalle.
Clara sospirò. «Dannati crucchi.» borbottò rivolta a Quarto, che annuì concorde.
«Posso comunicare con il suo lupo.» la informò il compagno.
La ragazzina alzò un sopracciglio, sorpresa. «Sai il tedesco dei lupi e non quello degli uomini, seriamente?»
Quarto proruppe in un brontolio che sembrava quasi un ringhio. «Non parliamo in tedesco, sciocca. Così come non parlo italiano con te.»
«A me continua a suonare come italiano.» replicò lei.
«Non mi pare il momento per discutere ancora di questa cosa.»
 «Geht es euch allen gut? Vielleicht seid ihr verletzt?» li richiamò il Tedesco.
Clara gli lanciò uno sguardo confuso per poi girare a mala pena il volto verso Quarto.
«Cosa vuole?» chiese con un sorriso palesemente imbarazzato.
Il lupo alzò gli occhi al cielo, un’azione a cui Clara non riusciva ancora a venire a capo, ed abbaiò un suono secco, rivolto al lupo grigio.
Quello non si mosse e non sembrò neanche rispondere all’altro, ignorandolo.
«Bastardo.» ringhiò chiaro Quarto.
Il ragazzo dovette aver in qualche modo compreso quel aveva chiesto o detto Quarto, perché si affrettò ad avanzare, allungando le mani in avanti, scuotendole leggermente.
«Tut mir leid, ignorieren sie ihn. Wir sind wegen des Wildschweins hier, wir wollen keine. Ich entschuldige mich.» disse rivolto a loro, poi si voltò verso il lupo e disse qualcosa in una lingua completamente diversa.
Tornò a sorridere a Clara, sfilandosi lentamente la corda di spalla ed alzandola leggermente, prima di indicare il Cinghiale.
La ragazzina annuì piano. «Vuoi legarlo?» gli chiese, cercando di mimare il gesto di un nodo, malgrado dovesse sembrare abbastanza ridicola vito che teneva ancora la spada nella mano sinistra.
Il moro le sorrise più sinceramente, ridacchiando come un qualunque adolescente, cosa che lo fece sembrare incredibilmente più umano e che fece sembrare la situazione incredibilmente più ridicola.
«Binden?» disse lui imitando i gesti di Clara.
Lei annuì ancora. «Legare.»
«Leghere?» Ripeté incerto.
A quello Clara annuì con più decisione. «Quasi, ma buono.» rispose mostrandogli il pollice volto verso l’alto. Deglutì poi, morsicandosi piano l’interno guancia. «Vuoi una mano?» chiese rivolta a lui. «Posso dargli una mano?» rivolta questa volta Quarto.
Il lupo annusò l’aria, fissando malamente l’altro lupo. «Stai attenta agli zoccoli, rifodera la spada ma tienila a portata.»
Non appena ebbe ottenuto il permesso Clara poggiò una mano sul piatto della lama, spingendola leggermente sino a farla richiudere in un coltellino tascabile.
Il ragazzo osservò l’azione rapito, battendo le palpebre prima di rialzare la sguardo su di lei, inclinando ancora una volta la testa in quello che era diventato il suo gesto più esplicativo di chiedere qualcosa.
«Ti aiuto, vuoi?» scandì mostrandogli i palmi delle mani e indicando prima la corda e poi il Cinghiale.
«Willst du mir helfen? Helfen?» domandò dubbioso.
Clara sospirò pesantemente, sarebbe stato davvero difficile così.
«Aiutare, tipo, insieme? Lo leghiamo? Elf- elfem?» provò questa volta lei a ripetere, indicando di nuovo la corda, sé stesse, l’altro e il Cinghiale.
Il ragazzo premette le labbra in un’espressione confusa, ma sembrò volersi ugualmente fidare, perché annuì lentamente, allungandole un capo della corda con fare incerto quando Clara la indicò ancora.
Lei gli sorrise incoraggiante, poggiandosi una mano sul petto.
«Clara.» disse solo, poi indicò il suo compagno. «Quarto.» e fece il numero quattro con la mano libera.
Le presentazioni sembrarono molto più chiare, perché il giovane s’illuminò, annuendo entusiasta.
«Alphonse und Enny»
Clara gli porse la mano ed Alphonse gliela strinse subito, saldo ma dal tocco freddo, come se fosse stato in mezzo alla neve fino a quel momento e non in un prato vicino ai castelli romani sul finire dell’estate.
«Bene, leghiamo questo mostro, va bene? Legare- come avevi detto prima, bind?»
Alphonse rise piano, una risata quasi timida, annuendo leggermente mentre tirava la corda metallica tra le mani fredde e pallide, tenendo lo sguardo fisso sul Cinghiale. «Binden, ja, leghere
Si misero a lavorare in silenzio, sotto lo sguardo freddo e immobile di Enny e quello caldo e attento di Quarto.
Il Cinghiale sembrava quasi aver perso ogni voglia di combattere, di scappare, rimase fermo per tutto il tempo che servì ai due ragazzini per legare la corda saldamente attorno alle zampe della bestia ed assicurarsi che i nodi fossero ben stretti.
A Clara fece quasi pena, abbandonato così sul terreno, sconfitto. Alla fine in Cinghiale non le aveva fatto nulla, non aveva ferito o fatto danni, era stata lei ad averlo attaccato per primo, ad aver optato per la violenza invece che per un approccio più- diplomatico?
Neanche la Dea Diana le aveva detto alcun che, però, eppure lei doveva saperlo che quello non era il suo Cinghiale, che era quello di qualcun altro, perché le aveva detto di ucciderlo? Se sapeva che quello non era lo stesso mostro che l’aveva attaccata l’estate prima, mostro che doveva invece essere quello creato dalla Dea stessa, presupponeva, perché Diana aveva proposto proprio a lei di andare in missione, di rifarsi contro una bestia che non le aveva fatto nulla?

«Geht es dir gut, fraulein Clara?» le domandò Alphonse tirandosi in piedi e porgendole una mano.
Clara si riscosse dai suoi pensieri, guardando il ragazzo per un momento prima di accettare, seppur con un po’ di titubanza, la mano che gli stava offrendo.
«Il Cinghiale. L’ho ferito, anche se non stava facendo nulla di male. È ferito, capito? Ferita, qui vedi? Puoi farlo curare? O lo ucciderai?»
Sapeva che quello era un discorso troppo complesso per poter essere spiegato a gesti, ma ci provò ugualmente, indicando la ferita che lei stessa aveva inferto al Cinghiale, poggiandoci una mano sopra, lievemente.
Alphonse la guardò crucciato.
«Was? Konnen sie das wiederholen?» mosse la mano a farle cenno di ripetere e Clara provò a scandire lentamente.
«Fe-ri-ta.» disse indicando il pelo macchiato di sangue del Cinghiale.
«Wunde?» provò lui, indicando a sua volta lo squarcio e poi, tirandosi su una manica, una vecchia cicatrice.
Clara annuì. «Curare. Cu-ra-re.» ripeté puntando il dito sulla cicatrice del ragazzo.
«Behandeln?»
«Non lo so, non- dannazione.» si inginocchiò di nuovo vicino al Cinghiale e si frugò nelle tasche, cercando il suo fazzoletto e piegandolo con attenzione prima di premerlo sulla ferita della bestia.
Alphonse la guardò sorpreso, ripetendo ancora quella parola.
«Behandeln, ja. Willst du ihn heilen? Du?» la indicò, Clara scosse la testa e indicò lui. «Mich?»
«Te, si tu, non io. Io non sono capace. Te- come hai detto, du? Curare… ilen? Lui.»
Lui la guardò davvero confuso, ma annuì lentamente.
«Ja, wir konnen es heilen.»
Intuendo più dal suo linguaggio del corpo che dalle sue parole che il ragazzo avrebbe aiutato il Cinghiale, Clara gli sorrise più ampiamente, sollevata.
«Bene.» sospirò. Si volse verso la bestia, facendogli qualche leggera carezza. «Mi dispiace, non era nulla di personale, solo ordini. Non sapevo fossi tu.» si scusò a mezza voce.
Si rialzò in piedi, spolverandosi i pantaloni e ritrovandosi, impacciata, davanti allo sguardo curioso e limpido dell’altro.
Alphonse le sorrise e le porse ancora la mano, stringendogliela.
 
«Du hast wirklich schone augen.» le disse indicandosi vagamente la parte alta del volto ed indicando dopo lei.
Clara inclinò il capo senza capire.
«Cosa?»
Lui rise. «Augen. deine augen. Da ist etwas in deinen augen. Sind wunderbar.»
Questa volta indicò più chiaramente i suoi occhi e Clara si ritrovò a ritrarsi sorpresa.
I suoi occhi? Gli occhi dei gatti? Quelli maledetti che tutti le avevano sempre detto quanto fossero strani, come fossero il simbolo evidente dei peccati di suo padre?
Alphonse dovette intuire che quel commento, benché non compreso, non dovesse essere molto gradito e si affrettò, imbarazzato, a replicare con una serie di commenti mezzi balbettati che suonarono ancora più confusi ed estranei delle sue precedenti parole.
Alla fine sospirò, sgonfiandosi come un impasto mal lievitato. Alzò lo sguardo impacciato, sorridendo appena e mormorando, ancora, qualcosa di incomprensibile.
 
«Ti sta facendo un complimento, bambina, è sincero.» le sussurrò la voce di Quarto nella testa.
Clara deglutì, reticente nel credere a tale possibilità, ma certa che il suo compagno non le avrebbe mai detto una bugia.
«Anche i tuoi sono molto belli.» si risorse a dire, indicando a sua volta gli occhi del ragazzo e rendendosi conto di come questo ancora non le avesse lasciato la mano.
Alphonse le sorrise più convinto. «Danke.»
Questo Clara lo capì subito. «Prego.»
Rimasero fermi a guardarsi di sottecchi, imbarazzati dalla piega che quel tentativo di conversazione aveva preso, finché Quarto non proruppe in un ringhio che sembrò quasi un colpo di tosse ed i due ragazzi saltarono sul posto, lasciandosi la mano, proprio come avevano fatto al loro primo incontro.
Solo che Clara non era più la ragazzina spaventata e confusa che era l’estate scorsa, indifesa e ignara del suo mondo. Chissà com’era cambiato l’altro, chissà se anche lui non era più quello stesso ragazzino che Clara aveva incontrato in una situazione tanto simile quanto differente. Chissà se aveva una storia simile alla sua, dei genitori così diversi da lui, ormai distanti.
Alphonse posò lo sguardo sul Cinghiale e si piegò su di lui, allungandosi verso il fazzoletto che Clara aveva posato sulla ferita che lei stessa aveva inferto all’animale, ma la ragazza lo fermò, scuotendo la testa.
«Non è molto, ma tampona un po’ il sangue. È tutto quello che posso fare.» replicò debolmente.
«Scusa ancora.» ripeté al Cinghiale carezzandolo sul fianco. «Per questi e anche per la zanna.» continuò adocchiando l’osso rotto.
Il grande lupo grigio si mosse d’improvviso, abbandonando la posizione da caccia e volgendo il muso lungo ed affilato verso Alphonse, parlandogli probabilmente come faceva Quarto con lei.
Clara vide il ragazzo annuire e voltarsi un’ennesima volta verso di lei, sorridendole ancora.
«Ich gebe es dir eines tages zuruck.»
Lei gli sorrise con un pizzico di ironia. «Non c’ho capito niente, ma presumo vada bene lo stesso.» disse sincera stringendosi delle spalle.
Alphonse dovette capirla perché scoppiò a ridere di gusto, strappando un ghignetto soddisfatto anche all’altra. Le rivolse un ultimo sorriso ampio, mettendo in mostra i denti candidi e dai canini quasi affilati, o forse era stata solo una sua impressione.
Alphonse strinse la corda, tirandola con gesti secchi per farne un cappio e porlo ad Enny, che lo morse senza pensarci troppo.
Salì poi in groppa al lupo con agilità, salutandola da là su.
«Auf Wiedersehne, fraulein Clara, ich hoffe wir sehen uns bald wieder. Tante hatte es mir versprochen.»
Con quelle parole che per Clara potevano significare tutto e nulla, il ragazzo diede un leggero colpo al collo del Enny ed il lupo, senza il minimo sforzo, balzò verso l’alto, verso il cielo, trascinandosi dietro il peso inerme del Cinghiale dorato e sparendo con un lampo tra le nuvole accorse ad oscurare il sole.
Clara osservò i cumuli diradarsi con lentezza, lasciando spazio ai raggi iridescenti del sole che le brillarono negli occhi da gatto come avrebbero fatto con delle pietre preziose.
La ragazzina si girò con pacatezza verso Quarto, una strana calma a correrle nelle vene, come se le nubi avessero portato via con sé tutta l’ansia e la tensione di quella sua prima missione.
 
«Cos’è successo?» domandò rivolta al lupo.
Quarto le si avvicinò sedendolesi accanto, le sue dimensioni tornate ad essere quelle sopra la media dei lupi normali, ma non più sproporzionato come prima.
«Hai incontrato di nuovo uno di loro, degli altri.»
«Il Cinghiale era loro.»
«Sì, perdonami, me ne sono reso conto solo quando era ormai troppo tardi.» le rispose dispiaciuto.
Clara scosse il capo. «Ci hanno dato una missione, degli ordini, perché avremmo dovuto dubitare?»
«Si deve sempre dubitare, bambina.»
«Anche delle parole di una Dea?»
«Soprattutto delle parole di una Dea, o di un Dio. Loro non sono come noi, non hanno le nostre stesse preoccupazioni, non vivono i nostri stessi pericoli.»
Lei espirò, sedendosi a terra. «La Divina Diana lo sapeva, vero?»
«Probabilmente è per questo che ha mandato te, era la tua prima missione, se non ti fossi accorta di nulla sarebbe stato più facile da giustificare.»
«Per me forse, ma per te?»
Lui sbuffò, come solo un lupo poteva fare. «L’unica punizione che temo è quella di mia Madre, gli altri Dei non possono toccarmi.» rispose con una certa arroganza.
Clara rise «Cosa ti ha detto l’altro lupo?» domandò allora curiosa.
«Nulla. Il bastardo era troppo occupato a sottomettere quell’altra povera bestia con il suo sguardo di ghiaccio.» ringhiò infastidito.
La ragazzina annuì, rimanendo poi in silenzio per lunghi minuti, a fissare le trace di terra smossa dagli zoccoli del Cinghiale, quelle di sangue dello stesso animale. Fu proprio tra tutte quelle orme e quelle zolle che Clara scorse qualcosa di chiaro e quasi lucido.
Si alzò facendo leva sulla mani, strofinandole poi per togliersi il terriccio di dosso.
Quarto la seguì con passo felpato, curioso, il muso abbassato ad annusare il terreno, quello circostante e anche quello su cui poggiava l’oggetto del loro interesse.
Clara si abbassò per raccogliere quella che si rivelò essere la parte superiore della zanna del Cinghiale, rigirandosela tra le mani ed osservandola con attenzione.
«Sembra quasi avorio, tanto è lucida e splendente.»
Il lupo la annusò con attenzione, facendo poi uno strano verso che Clara aveva imparato ad associare alla risata ironica del suo compagno.
«Tienitela, è un bel trofeo di guerra.»
«Non mi sembra giusto, sai? Forse dovrei ridargliela. Se mai rivedrò quel ragazzo…»
«Oh, ma certo, magari lo rivedrai quando ti ridarà il fazzoletto, principessa.» la prese in giro lui bonariamente.
Clara lo guardò arricciando il naso, combattendo contro la voglia di fargli la linguaccia. Avevano ragione i suoi superiori, passare troppo tempo con i cuccioli le stava facendo prendere cattive abitudini.
«Potrei, sì.» rispose quasi con tono di sfida.
Se Quarto fosse stato umano probabilmente avrebbe alzato un sopracciglio scettico.
«Come no, se non lo recuperiamo prima noi.»
«E come pensi di fare? Gli corriamo dietro? Sai volare per caso e non mi hai mai detto nulla?»
Lui latrò una risata decisamente divertita. «No, bambina, lo andiamo a recuperare verso la fine del campo. Hai lasciato un quadrato di stoffa sulla coscia di un animale che è stato appeso per le zampe. Ormai è un anno che studi con noi, sono sicuro che sai cos’è la gravità, vero?»
Clara si sentì arrossire, anche se era più che consapevole che probabilmente nessun rossore stesse veramente coprendo le sue guance.
Dio, che cosa imbarazzante, non c’aveva minimamente pensato, aveva solo lasciato il fazzoletto poggiato così, a reggersi alla ferita solo grazie all’umidità del sangue.
«Hai visto dov’è caduto?» preferì chiedere imbronciata.
Quarto annuì solo, incamminandosi verso il punto in cui aveva visto svolazzare il pezzo di stoffa, annusando il terreno alla ricerca del sangue della bestia, dell’odore di Clara stessa.
Fu con una discreta confusione però che Quarto non trovò nulla: niente fazzoletto, niente tracce di sangue, del pelo dell’altro lupo, nulla.
La ragazzina lo guardò confusa a sua volta, senza capire cosa ci fosse di strano, magari il vento l’aveva soffiato via e ormai il suo fazzoletto era perduto per sempre, perché l’altro sembrava così perplesso, così-
 
«Non mi piace. Non mi piace per niente.»
«Cosa? Che c’è che non va? Era solo un fazzoletto, lo sai che non-»
«Dobbiamo tornare al Campo, e velocemente anche.» tagliò corto lui, la sua struttura ossea che iniziava ad ingrandirsi, pronta per supportare il peso di Clara nel momento in cui gli sarebbe salita in groppa.
La ragazzina aspettò pazientemente che il lupo arrivasse alle giuste dimensioni, prima di salire velocemente e con un pizzico d’ansia che tornava a farsi vivo.
«Perché? Puoi dirmi che succede? Me fai peroccupà.» disse a bassa voce, incapace ormai di trattenere il pesante accento romano con cui era cresciuta.
«Non ce n’è motivo, sei al sicuro ora, ma il fatto che non ci siano odori non mi piace. È come se qualcuno avesse cancellato ogni traccia. E una cosa del genere può farla solo un dio.»
Clara annuì, improvvisamente più attenta, vigile. «E se un dio si spreca a cancellare le tracce di una semplice caccia vuol dire che c’è qualcosa che non va.»
Quarto ringhiò in assenso, balzando in avanti e iniziando a correre rapido verso la zona centrale di Roma, lontano dai campi e dai vigneti della periferia.
 
«O qualcuno.»
 


 
*
 



Nathan allargò leggermente le braccia, sfiorando con le punte delle dita i muri che chiudevano lo stretto passaggio tramite cui stavano camminando. Le suole dei suoi scarponi stridevano di tanto in tanto, il mattonato era scivoloso ma a voler essere onesti lui, tutta quell’umidità, non la percepiva per niente.
Malgrado fossero ormai alla sesta prova Nathan ancora non aveva capito esattamente come funzionasse il tempo nei Campi Elisi.
 
E dire che c’ho passato tutta la dannata morte.
 
Ma non era mai stata un’informazione che lo riguardasse davvero, che lo interessasse in alcun modo. Quando si allenava con sua madre nessuno dei due si preoccupava del tempo o della temperatura, non c’era pericolo che piovesse, che fosse nuvoloso, che tirasse troppo vento. Lucy si era domandata per molto tempo come fosse possibile che le piante dell’Ade continuassero a vivere e prosperare pur senza pioggia e non si era data pace finché Shilon Yu non le aveva mostrato gli scheletri giardinieri che si occupavano d’annaffiare ogni aiuola troppo distante dai laghetti o dai fiumiciattoli che percorrevano gli Elisi.
Cosa poteva importar loro della temperatura, dopotutto? Erano morti tanto.
Adesso invece la storia era diversa, le condizioni climatiche e ambientali potevano giocare un ruolo importante nelle prove, così come l’aveva giocato l’edera della prova di Persefone, pianta fin troppo viva e quasi cosciente, o la Foschia, anche se questa non aveva senso annoverarla tra le condizioni metereologiche visto che erano stati gli Dei stessi a muoverla e comandarla.
Se fosse stato necessario, però, almeno avevano Cade, capace di manipolare le correnti e di allontanare da loro “nuvole” indesiderate.
Gettò uno sguardo sopra la spalla, cercando di scorgere la fine della fila, dietro Eliza e Lea che ostruivano la sua visuale. Il figlio di Eolo era ovviamente indietro insieme a Jonas e la cosa non lo sorprendeva affatto: dopo una prova così impegnativa, emotivamente parlando, specie per uno come lui che non faceva altro che parlare della sua famiglia, di sangue o putativa che fosse, era ovvio che il giovane dovesse esserne uscito come minimo provato e benché non fosse tornato allucinato come Eliza o con gli occhi lucidi come Jonas, Nathan aveva notato perfettamente l’espressione vacua che gli sbiadiva il volto ogni volta che l’attenzione generale si spostava su qualcun altro. Non doveva essergli andata male, ma doveva esser stata decisamente una bella batosta e se quello che gli serviva per riprendersi era starsene in disparte e distrarsi parlando con il ragazzino, Nathan non glielo avrebbe certo impedito.
Tornò a guardare davanti a sé, attento allo vista che gli si apriva davanti sempre di più, al profilo di un enorme tempio bianco, scintillante di paramenti oro e dei colori brillanti, quasi cangianti con cui erano state dipinte statue e bassorilievi. Era senza ombra di dubbio il tempio di Zeus e Nathan si sentì un completo idiota ad aver pensato che Cade, tra tutti loro, potesse essere suo figlio. Probabilmente quelli che ricadevano di più nello stereotipo del figlio del re degli Dei erano lui e Cicno, altro che quel roscio mal pelo.
Si costrinse a mantenere lo sguardo dritto davanti a sé e non girarsi per cercare il figlio di Apollo, che probabilmente si trovava dietro tutte le ragazze, lontano da Cade ma a portata di mano nel caso si fosse sentito male.
Stringendo la mascella Nathan si domandò ancora una volta quale fosse il gioco del greco: gli costava ammetterlo ma tra di loro era probabilmente quello con più possibilità di tutti di vincere, forse persino più di lui. Sì, certo, Nathan era un figlio della guerra, era stato addestrato dal Campo, da Chirone e poi anche dai Marines, ma Cicno era cresciuto sfruttando tutti i suoi poteri al massimo, fortunato figlio di puttana dotato di tutti i poteri del suo maledetto padre. Eppure il suo nome continuava a stridergli in testa, letteralmente, come unghie su una lavagna, un suono fastidioso, qualcosa che non era proprio giusto, a cui mancava un pezzo.
Qualunque cosa fosse, però, se ne sarebbe dovuto occupare poi.
Uscì dal vicolo con più sicurezza di quanta non ne avesse davvero, infastidito dalla quantità di anime che si aggiravano per la piazza, capannelli di semidei provenienti da ogni angolo della terra, ogni singola epoca della storia, tutti riuniti in gruppi e nessuno, neanche uno, sorpreso di vedere altri gruppi proprio come loro.

Lo sappiamo tutti, siamo tutti consapevoli di come ci siamo divisi, di essere tutti squadre pronti a combattere gli uni contro gli altri. Ormai non possiamo più ignorarlo e non possiamo neanche più fingere che questa sfida non sia una cazzo di battaglia d’élite.
 
Malgrado non volesse dar troppo spazio alla speranza, Nathan non riuscì ugualmente ad esimersi dal cercare volti famigliare, amici morti prima di lui magari, di cui poteva ancora ricordare chiaramente il volto.
 
«Cerchi i tuoi?»
Neanche gli avesse letto nel pensiero Eliza gli si affiancò, le mani sui fianchi e la schiena dritta, impettita nella postura ma anche guardinga.
Nathan annuì lentamente. «Non voglio illudermi, ma sarebbe stupido pensare che nessuno dei miei amici o dei miei compagni al Campo sia arrivato qui troppo presto e che ora voglia tornare su.»
Lei fece un verso d’assenso, poi girò appena la testa per far cenno a qualcuno di avvicinarsi.
«Possiamo cercarli assieme mentre Lea e Cicno svolgono la loro prova, lasciamo Cade, Jonas e Jane davanti al tempio di Apollo e io e te andiamo a cercare i tuoi amici.» gli propose con semplicità.
Nathan non riuscì a non sorridere, non provò neanche a negarsi quel semplice gesto e allungò una mano alla cieca per posarla sulla spalla dell’altra e stringere gentilmente.
«Grazie, potrei accettare.» ammise grato. Eliza era probabilmente la sola, insieme a Cade, che potesse capire il suo bisogno d’assicurarsi che non ci fosse nessuno dei suoi compagni, quanto fosse importante per lui, nel caso contrario, sapere che stavano bene, che erano morti con onore, che non avessero sofferto troppo, che avessero avuto una morte degna.
«Lo hai appena fatto.» gli rispose lei sorridendogli a sua volta.
«Non è quello centrale, presumo.» s’intromise Jane affiancandosi alla figlia di Nike ed indicando col mento il tempio davanti a loro.
Nathan scosse il capo. «Palesemente Zeus, ma non credo che quello di Apollo sia molto diverso.»
Jane alzò un sopracciglio, guardandolo scettica. «Che hai?» chiese secca.
Lui scrollò le spalle. «Cazzi miei.»
«Visto che il nostro amico è impegnato a parlare con Jonas tocca a me fare battute a sfondo sessuale?» domandò a sua volta Cicno fermandosi dietro ai ragazzi, osservando il tempio di Zeus con occhio critico. «Questo è decisamente più simile a ciò che ricordo dei miei tempi, le case degli Dei erano sfarzose e piene di colore, non sbiadite e pallide come quelle che abbiamo incontrato sulla via.»
Lea sospirò guardandosi attorno. «C’è anche quello di nostro padre?»
Con un gesto ampio Cicno indicò un edificio sulla sinistra, la cui facciata era rivolta verso l’interno della piazza, a guardare i tre edifici posti al suo centro.
«Oh. Anche lui è molto… bianco.» commentò lei accigliata.
«Non hai detto che dovrebbero essere colorati?»
«Il maledetto Sole brilla di luce candida, maschera perfetta dell’oscurità che cela nel suo cuore. Il bianco delle nuvole, il giallo dei pistilli ed il rosso delle fiamme sono i colori che più lo rappresentano, quelli che tingono il cielo al tramonto, quando guida il suo cocchio oltre l’orizzonte, per condurre il nostro astro altrove.»
La figlia di Apollo inclinò il capo, ascoltando rapita quella spiegazione così poetica per cui, ne era sicura, Cicno non avesse neanche dovuto riflettere. Era sempre affascinante il modo in cui suo fratello parlava.
Facendo vagare lo sguardo Lea ritrovò tanti gruppi di anime riuniti in vari punti, un numero abbastanza nutrito davanti al tempio di suo padre, simbolo di quanto prolifico fosse stato il dio nel corso dei millenni.
«Siamo ancora tantissimi.» mormorò ai suoi compagni, che asserirono tutti, molto più seri di qualche momento prima.
«Lo sapevamo, è solo la conferma definitiva.» disse Eliza muovendo qualche passo verso il tempio di Apollo. «Mentre voi due sarete dentro noi faremo un giro ricognitivo per vedere se riusciamo ad identificare la maggior parte dei semidei.»
«Non c’è più dubbio, vero?» domandò Jane seguendo la figlia di Nike. «Ormai siamo solo noi, solo i bastardi degli Dei.»
«Perché lei può dire queste cose e nessuno le dice niente e a me invece dite che sono un maleducato del cazzo?» ritorse Nathan infastidito.
Gli altri lo ignorarono seguendo tutti Eliza. Lea si volse a controllare che anche Cade e Jonas fossero con loro, ma Cicno la richiamò a sé, sfiorandole un braccio e facendole cenno di lasciar perdere.
«Non siamo in un luogo sterminato, sapranno trovarci.»
Lea annuì mestamente. «Pensi stia bene? Cade, dico.»
L’altro si strinse nelle spalle. «Qualunque sia il suo stato d’animo in questo momento non deve concernerci, sorella. Concentrati sulla tua prova, a Cade penserà Jonas.»
«Stai seriamente affidando la sicurezza del rosso al ragazzino?» fece Jane sorpresa.
Cicno le sorrise da sopra la spalla. «Emotivamente? Ad occhi chiusi.»
Con quelle parole accelerò il passo, falcate più ampie e regolari che fecero velocemente realizzare a tutti quanto fino a quel momento Cicno avesse camminato a piccoli passi, per accomodare i loro.
Eliza se lo ritrovò vicino in appena due mosse, vedendosi superare con facilità.
Non era difficile per nessuno comprendere come quella situazione dovesse infastidire il greco, anche perché tutti loro erano sicuri di chi Cicno avrebbe potuto rivedere nel tempio di suo padre. Era ridicolo credere che Estia avrebbe fatto comparire l’anima di sua madre, erano passati secoli e Cicno non sarebbe stato ugualmente affetto da quella visita, non dopo più di un millennio di torture.
Se quindi qualcuno doveva presentarsi al suo cospetto molto probabilmente, così com’era stato per Eliza, sarebbe stato Apollo a fronteggiare il suo stesso figlio e l’unica preoccupazione che chiunque di loro poteva contemplare era quella per cui Cicno avrebbe provato ad uccidere il dio.
Lea si era chiesta se non fosse pericoloso quel più che probabile incontro, se non avrebbe fatto meglio a chiedere a suo fratello di farla entrare per prima, così che nel caso in cui Cicno avrebbe indisposto Apollo in alcun modo, Lea sarebbe già stata salva.
Ad esser onesti, Lea non si era neanche domandata se fosse possibile entrare insieme.
Guardò di sottecchi Jane, lei era entrata nel tempio di Pothos mentre la prova di Jonas era ancora in corso, quindi se non era vietato per altri semidei entrare nelle dimore di divinità che non gli appartenevano, sicuro non sarebbe stato un problema per due figli dello stesso dio entrare assieme.
«Cicno?» lo chiamò allora affiancandoglisi il più velocemente possibile. «Pensi che potremmo entrare insieme?»
Lui annuì. «Non vedo perché dovrebbe esser vietato. Fino ad ora abbiamo visitato i templi di divinità “minori”, ma sarebbe sciocco pensare che solo un semidio alla volta possa accedere alla casa del proprio genitore divino.»
«Nel tempio di Ecate c’era di sicuro altra gente.» disse Jane da dietro.
«Certo, non ci si può aspettare che i semidei si mettano in fila.» continuò Eliza.
«O più semplicemente non puoi sapere quando qualcuno arriverà. Adesso che stiamo dai dodici pezzi grossi sicuro i templi saranno molto più affollati.» concluse Nathan.
Lea annuì, pronta a dire che sì, aveva senso, ma con gli Dei non si poteva mai dar nulla per scontato, quando Cicno si fermò, facendola quasi inciampare sui suoi stessi passi.
In silenzio l’italiana alzò lo sguardo, già conscia di cosa avrebbe trovato, di dove erano finalmente arrivati.
Il tempio di Apollo era decisamente più grande di quello di Ecate e di Eolo, molto più grade di quello di Nike, per non parlare di quello di Pothos.
La struttura candida si ergeva su di un enorme piano di marmo grigio, lucido, venato di bianco e di una qualche pietra granulosa che brillava come sabbia nell’acqua. Sette gradini perfettamente scolpiti la dividevano dal terreno piastrellato, sul limitare della scalinata piccoli bracieri d’oro accoglievano braci ardenti e acqua limpida, in un’alternanza perfetta.
Le colonne che reggevano il porticato ed il tetto spiovente erano scanalate e ben limate, i capitelli verdeggianti di piante incise con maestria e colorate con ancor più realismo, tanto da farle sembrare fronde pensili.  Lo stesso realismo era stato applicato nell’esecuzione del timpano, nella rappresentazione del Dio Apollo, vestito solo da un candido panno drappeggiato sul corpo longilineo.
Così com’era successo con altre divinità, Lea si rese presto conto di non esser in grado di distinguere davvero i tratti della scultura: riusciva a percepirne la bellezza, quando quel volto fosse affascinante, ma non poteva dargli dei connotati precisi, se non gli occhi scintillanti d’oro ed i boccoli biondi come il grano.
Apollo teneva una lira in mano, suonandola mollemente, senza troppo impegno, eppure se si fosse concentrata abbastanza, Lea avrebbe giurato di poter sentire della musica provenire da quelle corde di marmo scolpite a bassorilievo. Così come avrebbe potuto sentire le risa lievi delle donne che circondavano suo padre, ognuna con un oggetto diverso in mano, tutte ugualmente bellissime, tutte ugualmente leggiadre in ogni movimento, in ogni sospiro.
 
«Sono le Muse.» spiegò Cicno monocorde.
Lea abbassò il capo per guardare suo fratello, ma non trovò voce per chiedergli altro, per dire d’aver capito.
«I bracieri ed i kylix sono invece rappresentativi di due delle tecniche più comuni di preveggenza.» continuò senza che nessuno gli avesse chiesto nulla. «Anche se i kylix dovrebbero avere dei manici. Sono coppe.»
Non aggiunse altro, a riguardo, non continuò ad ammirare la bellezza eterea del tempio di Apollo, ignorando apertamente il gruppo di semidei che si trovava vicino alla scalinata, ora fermo ed in silenzio a guardarli, ad ascoltare le parole del greco.
«Vi pregherei di non iniziare nessuna discussione o scontro con le altre anime. Prima di allontanarvi da qui assicuratevi che Jonas e Cade rimangano davanti al tempio, possono sedersi sui gradini, nessuno dirà loro nulla. Jane, ti sarei grato se anche tu non ti muovessi di qui.» parlò con voce calma, scandendo per bene ogni parola, senza aspettarsi una risposta, figurarsi un’opposizione.
Quando si accorse che Lea non lo stava seguendo si volse a guardarla, porgendogli una mano.
«Dobbiamo andare, sorella. Il nostro maledetto padre attende, il divino Crono no.»
Lea lo guardò titubante, uno strano senso d’inquietudine la prese alla bocca dello stomaco, ma non era la paura della prova a preoccuparla, quanto più il comportamento freddo di Cicno, la sua espressione impenetrabile, immobile come quella di una statua, bella come quella di una statua. Aveva dato ordini precisi, come non aveva mai fatto se non in situazioni di pericolo e dalle espressioni degli altri anche loro dovevano aver percepito chiaro e forte il cambiamento, il gelo che animava il loro compagno.
Annuì lentamente, ponendo la mano su quella di Cicno, morbida e tiepida, che per un attimo le sembrò quasi rilucere, come aveva fatto in un indefinito tempo passato, quando Cade l’aveva costretto per troppo tempo ed il suo braccio aveva preso a brillare dall’interno, la pelle resa trasparente come il paralume di una lampada accesa.
Cicno non strinse la presa, tenne la mano aperta, fornendole solo un minimo di appoggio, quasi come la stesse aiutando solo a salire le scale.
 
«Buona fortuna.» proruppe Eliza, riscossasi da quella strana trance che le parole del greco le avevano fatto calare addosso.
«Vedete di sbrigarvi, noi vi aspettiamo qui.» gli diede manforte Nathan. «Ricordatevi che tutto quello che vedete è finto.» sembrava insicuro anche lui, così come lo erano stati i gesti di Lea, ma nessuno di loro poteva biasimarlo. I cambi di comportamento di Cicno certe volte eran così repentini ed intensi da lasciar tutti scioccati.
«Cade e Jonas sono appena usciti dal vicolo. Ci hanno visti- sì, stanno arrivando.» aggiunse Jane, pensando che magari quell’informazione potesse esser loro di conforto.
Lea voltò il capo verso la strega, salendo gli scalini alla cieca. Le sorrise incerta, girandosi e rigirandosi per riuscire a vedere gli altri due avvicinarsi, mettendosi a correre verso il tempio di Apollo, sbracciandosi e gridando incitamenti le cui parole faticarono ad arrivare fino a lì, ma che attirarono l’attenzione di molte anime li vicine.
Lea li salutò con la mano libera, cercando di sorridere rassicurante, ma non appena ebbe messo piede sul piano di marmo le colonne le coprirono la visuale sui loro amici e l’ombra dell’imponente architettura la fece rabbrividire, portandola a stringersi a Cicno.
«Andrà tutto bene, li saluterai dopo.» disse lui trascinandola ora con più decisione verso le enormi porte dorato.
La giovane non ebbe neanche il tempo di ammirare gli intricati decori a sbalzo sulle lastre lucide che le porte si aprirono, mostrando loro l’ingresso del tempio di Apollo.
«Cicno…» provò a protestare rallentando.
«Non ora. Prima entreremo, prima ne usciremo.»
Un’ampia anticamera circolare si aprì subito dopo l’entrata, il pavimento era composto da grandi mattonelle bianche e grigie, che si alternavano nel disegno a mosaico di una sfera divisa in spicchi. Colonne fine e lisce delineavano il perimetro della sala, oltre cui Lea riuscì a scorrere una lunga, lunghissima navata che conduceva ad un altare su cui era posta una statua di Apollo dall’aspetto familiare.
Cicno non le permise di fermarsi, la presa sulla sua mano si fece più salda e Lea quasi slittò sul pavimento lucido, incapace di opporsi ma anche di articolare i suoi pensieri, la mente troppo occupata ad immagazzinare tutto ciò che vedeva, i giardini verdeggianti che si aprivano ai lati delle navate, il patio al cui centro brillava una luce così simile a quella che ricordava d’aver visto in superficie, al sole. Scorse stralci di una fontana, gli zampilli di giochi artistici, il loro suono scrosciante che si mescolava a quello di un flauto o forse di un’arpa?
«Cicno.» disse ancora e le porte si chiusero alle sue spalle.
Lea si girò di colpo, domandandosi quando avesse superato la soglia d’entrata, se avesse continuato a camminare, se non l’avesse solo trascinata a forza l’altro.
Il figlio di Apollo le asciò la mano, facendola ricadere a peso morto lungo il fianco.
Lo osservò prendere un respiro profondo, lo sguardo perso sul pavimento, in un punto lontano ed indefinito.
«Stai bene?» gli domandò incerta.
Lui annuì, le labbra serrate e le spalle rigidamente aperte. «Come potrebbe esserlo un condannato a morte nella casa del suo esecutore.» poi sorrise, quasi schifato. «Anche se nel mio caso il boia non si è mai preso la briga di sporcarsi le mani, ho fatto tutto da solo. Più di una volta.»
Un senso di nausea le si spanse in corpo al sentire quelle parole. Spesso Lea dimenticava che Cicno si fosse tolto la vita, che l’avesse fatto per ben due volte.
Abbassò lo sguardo senza sapere cosa dire, respirando piano in quel luogo così-
 
Gioioso?
 
Sì, il tempio di Apollo sembrava quasi la dimora di un re, di un nobile. I materiali pregiati, le rifiniture artistiche, bellissime. Il giardino con la fontana, la navate e l’altare con l’idolo posto al centro dell’attenzione.
Fu osservando in lontananza la statua di suo padre che Lea si rese conto della mancanza di un braciere, l’oggetto più importante di tutti.

O almeno il più importante per noi.
 
Si schiarì la voce, cercando di non suonare tesa com’era.
«Non vedo il braciere da qua giù, forse tu puo-»
«Non c’è. Non qui. Questo è solo l’ingresso, un oggetto così simbolico viene posto nella parte più profonda del tempio, lì dove si trovano le insegne del Dio.»
«Ma la statua- perché una statua di Apollo allora?» chiese indicando la fine della navata. «E poi a me sembra abbastanza in profondità…»
Lui scosse il capo. «Il tempio è molto più grande di così, quella statua serve solo per i fedeli che ogni giorno vengono a venerare quel maledetto, ma chi vuole interloquire con lui deve spingersi più in là.»
Mosse qualche passo nell’anticamera, osservando i dintorni, i corridoi che si aprivano ai lati della sala, che si collegavano direttamente al porticato, ad altri archi posti lungo il perimetro del chiostro.
Cicno assottigliò leggermente lo sguardo e poi indicò alla sua destra.
«Le nostre strade si dividono, ora. Vai da quella parte, troverai la tua prova ad attenderti. Io andrò a scovare la mia.»
Lea lo guardò accigliata. «Come fai ad esserne così sicuro? Vedi per caso i Fuochi Fatui?» era probabilmente la cosa più logica da pensare, non sarebbe stata la prima volta che quelle piccole fiammelle indicavano loro la giusta strada da percorrere, e Lea si sforzò con tutta sé stessa per riuscire a scorgerne anche solo l’ombra, una vaga sagoma, qualcosa.
Cicno però scosse il capo. «No, non ci sono Fuochi Fatui.»
Lei si riscosse sorpresa. «Allora come fai a saperlo?»
«Perché sento il suono del mare venire da sinistra e sono sicuro che il nostro dannato padre non rischierebbe mai di farci affrontare questa prova assieme, così come non lo farebbe la divina Estia. Se venissi con te non mi farei scrupoli ad uccidere l’anima che si paleserebbe al tuo cospetto.» disse con estrema freddezza, fissandola dritta negli occhi. «Dovesse essere anche la proiezione di un tuo caro. Estia vuole proporti di rinunciare e tornare a rivivere con chi ti ha amato in vita, se tu avessi il mio sostegno sarebbe impossibile convincerti. Devi resistere da te, non posso essere io a scegliere al tuo posto.»
Il greco accennò un leggero sorriso che risultò molto più simile ad una smorfia triste. Per un momento rimase fermo, come se volesse aggiungere qualcosa, come se volesse toccarla e confortarla, ma si limitò a farle un altro mezzo sorriso, prima di voltarsi ed incamminarsi verso la sua destinazione.
 
«Che Nike ti sorrida, Elena.»
 
 

 
*




Il corridoio era luminoso e chiaro, risuonante di tutti quei rumori così cristallini, vivi, da fargli venire la nausea.
Era un insulto, una presa in giro, che la casa di suo padre fosse così gioiosa, ma non si sarebbe potuto aspettare altro dal dio protettore della musica e delle arti.
Nonostante il suono gentile del liuto, quello vibrante della lira, Cicno non faticò affatto a seguire il vago eco della risacca, delle onde che si infrangevano su scogli lontani.
Era dunque questa la sua prova? Tornare dove tutto era finito, il luogo che per ben due volte l’aveva visto perire con il cuore gravido di rabbia, rancore, dolore?
Poteva accettarlo, poteva superarlo. L’avevano torturano per secoli e secoli, rivedere la sua vecchia scogliera non gli avrebbe portato altro che nuova determinazione e altra ira.
Superò con sicurezza uno degli archi che costeggiavano il muro interno, senza neanche degnare di uno sguardo la fonata ed il piccolo giardino che si trovavano ormai alle sue spalle, senza voltarsi per assicurarsi che Lea fosse andata dalla parte opposta, verso la sua prova.
Non gli interessavano tutti quei convenevoli, non gli interessava cosa Estia gli avrebbe proposto, cosa suo padre, se mai avesse avuto il coraggio di presentarsi, avrebbe potuto dirgli.
Qualunque fossero state le sue parole, Cicno gli avrebbe solo sputato in faccia tutto il risentimento che ancora covava, tutto l’odio che la luce del Sole ancora gli scaturiva. E le sue maledizioni, rinnovate e più crudeli, augurio di solitudine e desolazione, la stessa a cui era stato condannato lui.
Mentre si aggirava per quegli infiniti corridoi, Cicno si domandò se forse non sarebbero stati così folli da farlo giungere al cospetto dell’anima di Filio, ma anche il sol pensarci gli scaturì una leggera risata amara. Sciocchi, sarebbero stati sciocchi a farlo, Cicno l’avrebbe pugnalato dritto al cuore esattamente come un millennio prima aveva fatto lui.
 
Gli restituirei il favore e lo vedrei morire, lentamente, finalmente consapevole di quanto grande possa essere il dolore del tradimento.
 
Un leggero fruscio, come d’acqua sulla battigia, lo fece rallentare. Alla sua sinistra un’ennesima porta ad arco si aprì placita, lenta, come la risacca.
Cicno guardò l’uscio da prima socchiudersi e poi spalancarsi del tutto, lasciando libero accesso ad una stanza apparentemente spoglia, dai pavimenti chiari e lucidi come in tutto il resto tempio.
Vi entrò senza troppa titubanza, attento il giusto alla possibilità di incontrare qualcuno del suo passato, forse anche un’anima con cui aveva condiviso i tormenti, o per sino Thanatos. Ma nulla.
La stanza era vuota, fatta eccezione per un piccolo altare su cui era posto un kylix simile a quelli presenti sulla scalinata esterna, ma dall’aspetto decisamente più classico, nero e rosso, con disegni zoomorfi dipinti con maestria.
Un verso di scherno gli scappò dalle labbra incurvate in un sorriso amaro: cigni, la coppa era decorata con la rappresentazione di un volo di cigni.
 
Appropriato direi, visto che sono stato io il primo di quella specie.
 
Si avvicinò all’altare, scolpito con semplicità, come una cassapanca di buona fattura, per guardare cosa vi fosse all’interno del kylix, anche se già ne aveva una vaga idea.
Non fu quindi sorpreso nello scorgere un liquido perfettamente piano, rosso come il fondo della coppa. Così come non fu sorpreso nel riconoscere, dipinto assieme ai cigni, il profilo della scogliera da cui si era buttato da un lato e quello di una donna in preghiera al Sole dall’altro.
Cicno serrò i denti, digrignandoli con forza. Non gli interessava vedere le scene della sua morte riportate come atti di una tragedia, non gli interessava sentire ancora l’odore salmastro del mare. Non gli interessava nulla, voleva solo che si presentasse a lui l’anima che gli avrebbe posto, inutilmente, la famosa domanda, per poi andar a recuperare Lea ed uscire il più in fretta possibile da lì.
Già la sola idea di dover chiedere la benedizione a suo padre lo disgustava pesantemente, dover anche attendere nella sua bellissima dimora era al limite dell’umiliante.
Voltò così le spalle alla coppa, poggiandosi con la schiena all’altare e, incrociando le braccia al petto, attese in silenzio l’arrivo di qualcuno, chiunque.
Si sarebbe davvero aspettato di veder comparire Apollo, a quel punto, ma il rumore di passi che sentì farsi sempre più vicini gli diedero la certezza che quello in arrivo non fosse il dio, bensì qualcun altro, un’anima con tutta probabilità. Un anima moderna i cui rumore dei passi rassomigliava un poco a quello di Nathan.
 
Suole moderne.
 
Aggrottò le sopracciglia, curioso.
Non conosceva molte persone che vestivano “moderno”, anche se per lui anche le vesti di Jane lo erano e lo erano state quelle di Úranus, sapeva per certo che quello non fosse il modo di camminare di Jonas, neanche quello del figlio di Ares, anche perché i suoi compagni non avrebbero avuto alcun motivo di fare irruzione nel tempio di Apollo, a meno che non fosse passato troppo tempo, impossibile, o non fosse successo qualcosa di grave.
I suo dubbi però si dissolsero in fretta quando vide passare davanti l’entrata un giovane dalla maglia arancione, i capelli ricci ed una lunga lancia di bronzo celeste in pungo.
Superò la porta senza neanche guardarvi dentro e Cicno non riuscì a trattenere la sua sorpresa.
 
«Michael?» chiamò con voce alta e chiara.

Lo sentì fermarsi di colpo, lo stesso suono scivoloso e gracchiante che producevano gli stivali di Nathan sulle pietre umide del lastricato.
Tornò sui suoi passi e poco dopo il volto gioviale e giovanile del ragazzo fece capolino oltre lo stipite di marmo.
 
«Cicno! Proprio te cercavo! Ho visto i tuoi fuori e speravo di trovarti qui, da qualche parte.»
Entrò nella stanza senza curarsi di nulla, senza neanche guardarsi attorno.
«Sono qui da poco, attendo la venuta di un’anima pronta a propormi di ritirarmi per rinascere vicino a coloro che ho amato. Ma credo non abbiano trovato nessuno, non per me.» spiegò con una strana calma, qualcosa che non si aspettava visti i sentimenti turbolenti che anche solo scorgere il tempio dall’esterno gli aveva suscitato.
Michael annuì, posando la lancia contro il muro e facendoglisi più vicino.
«Me lo sono chiesto anche io, sai? Chi ti saresti ritrovato davanti, ma non solo tu, tutti coloro che sono nati decisamente troppi anni fa per poter aver ancora qualcuno sulla terra.»
«Un mio compagno ha ricevuto la visita dell’anima già rinata più volte del fratello. Ha accettato la proposta.» confidò senza problemi.
Il ragazzo abbozzò un sorriso. «Anche io ho perso uno dei miei.» disse facendo poi una pausa, abbassò lo sguardo e poi sospirò, forzando un sorriso quando tornò a guardare Cicno negli occhi. «Purtroppo prima di arrivare a questa prova. Lo ha ferito una Guardia. Ha superato la prova ma non- non sono mai stato un curatore, papà non me l’ha passata questa.» mormorò infine.
Cicno fece un cenno d’assenzo. «Mi spiace per te e per i tuoi compagni.»
«Già… non l’hanno presa troppo bene. Tim aveva a mala pena sedici anni.» disse amaramente.
Una strana idea sibilò nella mente del greco e Cicno si ritrovò a maledirsi da solo pur decidendo d’aprir bocca e dargli fiato.
«Se durante le prossime prove dovesse servirti, puoi cercare me. Finché non sarà la sfida finale e ci saranno altri che potranno perire al posto dei miei compagni, non mi recherà nessun male salvare i tuoi.»
Michael lo guardò scioccato, la sua espressione parlava da sé, ma lui provò ugualmente a balbettare qualcosa, dei ringraziamenti forse, prima che i suoi occhi diventassero lucidi ed alzasse il capo verso il soffitto.
«Ah. Ah-ah. Sì, ecco- Okay, lo terrò a mente, grazie. Perché io non- non sono minimamente capace, sai? Solo cose stupide, ma curare ferite serie? Mh, no, quello- sono un po’ inutile come figlio di Apollo.» rise senza gioia.
Cicno gli rifilò un’occhiataccia. «Non dirlo mai più. L’unica cosa inutile è nostro padre, non noi. La nostra vita non lo è.»
Il giovane riabbassò la testa, il suo sguardo acquoso pareva sconcertato, come se fosse indeciso tra il chiedergli di ripetere o il lasciar perdere e Cicno, maledicendosi ancora, si rese conto di cosa avesse appena detto con un attimo di troppo.
Arricciò il naso, una smorfia di puro disappunto verso sé stesso, infastidito dalle sue stesse parole.
«Spero tu abbia capito cosa intendevo dire.»
Michael annuì, tirando su con il naso. «Bella differenza da “mi sono ammazzato due volte”. Il suicidio è visto come uno spreco della vita, spero che tu-»
«Sì. Lo so.» sibilò con astio. «Mi sto già pentendo di averti proposto il mio aiuto, sappilo.»
L’altro abbozzò un sorriso. «Mi stanno venendo un sacco di dubbi, mi si sta incasinando un botto la testa. Tutta questa storia mi sembra sempre più assurda, soprattutto se penso ai ragazzi.» si avvicinò a Cicno, poggiandosi all’altare come aveva fatto in precedenza il greco.
«Posso capire.» annuì l’altro.
Michael si lasciò scivolare fino al pavimento, piegando le ginocchia e poggiandovi sopra i polsi.
«A te ha detto niente?»
«Il nostro signore?»
Il giovane fece una smorfia. «Sembra che parli del messia, così. Ma sì, lui. Ti ha detto cosa- cosa dovremmo fare con i ragazzi? Con i nostri compagni?» domandò incerto.
Cicno scosse il capo e si sedette anche lui a terra. «No, mi ha solo detto che il mio compito è quello di farli arrivare fino alla fine.»
«Ma non ti ha detto quand’è la fine, vero?»
«No.» sospirò. «Non credo che gli interessi chi vincerà o chi morirà.»
«Su questo non sono d’accordo. Credo che gli interessi tanto chi muore e chi no. Non gli interessa chi vincerà in seguito, ma in quanto a chi scompare… mi ha salvato, sai? Durante la prova di Persefone. Stavano per uccidermi ma lui mi ha salvato.»
Cicno lo guardò con la coda dell’occhio, poi si passò una mano tra i capelli, tirandoli indietro.
«Anche me. Quindi sì, posso capire.»
«Ma so anche che ha uccido degli eroi.»
Quella gli suonò nuova. Cicno si voltò completamente verso suo fratello, la mente che lavorava a mille per cercare di capire. In che senso aveva ucciso “degli eroi”?
«Eroi?» domandò. Poi l’intuizione. «Dei veri eroi? O quelli che gli Dei hanno reputato tali?»
Michael gli sorrise, ammiccando. «Sta facendo il Batman della situazione, sì.»
Quando Cicno fece per chiedergli cosa diavolo fosse un batman l’altro alzò subito le mani, facendogli cenno di lasciar perdere.
«Citazione dalla cultura pop, lascia stare.»
Rimasero in silenzio per un po’, persi ognuno nei propri pensieri.
«Credo abbia eliminato, quando ne ha avuto la possibilità, la gente che non reputava degna di una seconda possibilità.» continuò il ragazzo.
«Secondo il suo senso di giustizia, non quello divino.»
Michael si strinse nelle spalle. «In ogni caso Minosse è uno stronzo, quindi non è che ci sia tutto sto criterio nell’essere spedito da una parte o dall’altra.»
«Non so chi sia costui, ma non mi interessa minimante. Ciò che vorrei sapere ora è come portare a termine la mia prova.» tagliò costo Cicno, alzandosi da terra senza neanche l’ausilio delle mani.
Michael lo guardò di sottecchi e provò a fare lo stesso, ma barcollò e se non fosse stato per i riflessi pronti di Cicno avrebbe probabilmente sbattuto la testa contro l’altare.
Il più grande lo guardò con rimprovero e non mollò la presa sul suo braccio finché l’altro non si fu tirato completamente in piedi.
«La tua prova è finita?»
«Non ti va proprio di chiacchierare del capo?» ritorse lui.
Cicno scosse il capo. «No, non mi interessa sapere nulla di lui se non le direttive che mi ha comunicato. Hai finito la tua prova? Hai bisogno d’aiuto?»
Michael rise leggero. «Sono cambiate decisamente tante cose! Guarda come sei diventato gentile!»
Il greco lo fulminò. «Non sono mai stato null’altro che gentile nei tuoi riguardi.»
L’altro fece un mezzo inchino. «Concesso.» ammise. «E no, non ho bisogno d’aiuto, la mia stanza era vuota come la tua. Sono il primo della mia famiglia ad essere morto, ironico vero? I miei genitori, i miei nonni, gli zii… sono ancora tutti vivi, sono io l’unico cretino che si è fatto ammazzare giovane.» rise amaramente.
Cicno sospirò, allungando una mano per posarla sulla spalla del ragazzo e dargli un qualche tipo di conforto.
«Non sei stato sciocco, purtroppo la vita di un semidio è piena di insidie.»
Michael annuì. «Lo so, grazie.» poi sorrise, lieve. «Nella mia stanza non c’era una coppa, ma dei fogli, erano dei moduli a dirla tutta, moduli medici. Di mia cugina. C’era una casella cerchiata in rosso- sulla possibilità che fosse o meno incinta. Credo volessero farmi rinascere figlio suo, questa era la mia proposta, ma… non avrei mai accettato, non posso. E poi nella penna non c’era inchiostro.» concluse divertito.
Cicno lo ascoltò con attenzione, pur non capendo di cosa stesse parlando e glielo disse anche.
«Ah, la penna e l’inchiostro dici?»
«Anche i luogo in cui erano scritti.» ammise con franchezza.
«I moduli sono fogli, li avevate voi i fogli? Sono fatti di carta e- ah, sì, giustamente non vuol dire nulla per te. Beh, sono dei… dei…supporti! Sì, ecco, sono supporti scrittori, fini, leggeri, ci scrivi sopra con una penna che è tipo un calamo? Ma con dentro un tubo con dentro dell’inchiostro. Un liquido nero, o colorato, non sempre liquido in effetti, può essere anche gel e-»
«Michael?»
«Sì?»
«Non mi interessa.» disse secco.
«Oh. Sì, scusa. In ogni caso, mi hanno proposto di rinascere come mio nipote. Ugh, è terribile da dire ma-»
«Michael.»
«Sì, sì, scusa.» rise a disagio grattandosi la nuca con fare imbarazzato. «A te non hanno proposto nulla? Che c’è nel vaso?» e così dicendo si sporse verso i kylix, aggrottando la fronte nel trovarvi dentro solo acqua.
Rimase proteso sulla coppa ma volse il capo verso Cicno, interrogativo.
Lui espirò pesantemente. «Sono morto annegato. Entrambe le volte. L’acqua deve rappresentare quello, ho motivo di credere che sia salata.»
«Ti sei buttato in mare?» domandò cauto.
Cicno annuì. «Da una scogliera. Non so quale sia la proposta che mi viene fatta però. Non ho nessuno, neanche discendente. Il mio lignaggio è finito con me.»
Il ragazzo lo guardò dispiaciuto, stirando le labbra in un sorriso di circostanza, prima di alzarsi sulle punte, spiando oltre l’altare e ritraendosi di colpo.
Fu impossibile non notare un’azione così repentina e Cicno ne chiese spiegazione alzando un sopracciglio, poco impressionato.
«Non hai guardato lì dietro, vero?» chiese Michael deglutendo teso.
Cicno scosse il capo e senza dir nulla fece il giro dell’altare, fermandosi subito davanti a ciò che giaceva a terra, privo di vita.
Il figlio di Apollo si ritrovò a sorridere con tristezza, dispiaciuto a quella vista, malgrado in vita non si fosse mai fatto scrupoli del genere.
 
Sto diventando un debole quindi.
 
Si piegò sino ad inginocchiarsi a terra, davanti al corpo esanime di un cigno.
Sembrava dormisse, a dir il vero, accovacciato su sé stesso, con le ali ben ripiegate sulla schiena, ma il collo lungo e delicato giaceva molle sul pavimento, il petto immobile nella stasi della morte.
Cicno allungò una mano, carezzando con la punta delle dita le piume candide e lisce, provando un moto malinconia nel farlo. Avevano davvero ucciso un animale innocente solo per mandargli un messaggio? Era forse legato al ruolo di protettore degli oracoli di suo padre? Alla divinazione tramite lettura delle interiora? Eppure il cigno non era ferito in alcun modo, che gli stessero chiedendo di farlo lui stesso?
La tristezza fu spazzata via con un soffio, come quello che Zefiro usò per ferire Giacinto, per togliere l’ennesimo amore ad Apollo. Cicno si alzò di colpo, un verso sprezzante gli irruppe dalla gola mente voltava le spalle al cigno e afferrava la base del kylix.
 
«Se pensano che mi sporcherò le mani per dimostrar loro che ho reciso ogni legame con il mio passato si sbagliano di grosso.»
Con un gesto secco scagliò la coppa contro il muro, facendola andare in pezzi, facendo sussultare Michael che si ritrasse inizialmente prima di avvicinarsi a quella stessa parete, riprendendo la sua lancia e stringendosela al petto.
«Ehi! Potevi prendere la mia lancia!»
Cicno fece una smorfia dismissiva. «È fatta di bronzo, non si sarebbe rotta per un po’ di terracotta.»
Fissò per un momento i frammenti, l’acqua che colava lentamente lungo il muro e poi, per puro masochismo, tornò a guardare il cigno.
Non aveva idea di cosa fare di quella povera bestia, ma l’idea di lasciarlo lì, a terra, nascosto dietro uno degli innumerevoli altari di suo padre, lo faceva ribollire di rabbia.
Decise così di sollevare il cigno, sotto lo sguardo perplesso e forse disgustato di Michael, posandolo poi con delicatezza sul piano di marmo, ben attento a sistemare il lungo collo con cura.
Ma non appena ebbe fatto un passo indietro, pronto a scusarsi almeno tra sé e sé con l’animale, questo prese a brillare, fiocamente.
Con un’esplosione improvvisa il cigno si disintegrò in una miriadi di fini e tintinnante aghi dorati, luccicanti come il metallo di cui parevano fatti, rimbalzando con un suono cristallino sul pavimento di marmo.
Cicno saltò indietro, un braccio aperto verso Michael, per spingere anche lui lontano da quella pioggia d’oro che una volta aveva composto il bel cigno morto.
I due rimasero immobili ad osservare gli aghi saltellare sino a fermarsi in una pozza di filamenti rigidi e lucenti.
 
Fili d’oro.
 
Un brivido gli si spanse dietro al collo, scivolando verso la nuca e le scapole, arrotolandosi attorno alla gola, spingendosi giù, per tutta la spina dorsale.
Michael sussultò dietro di lui e Cicno mosse a mala pena la testa per scorgere anche il ragazzo rabbrividire, portandosi la mano libera dietro al collo e stringendo la presa, come se quel gesto potesse fermare il fremito che lo stava scuotendo.
L’aveva sentito anche lui, l’aveva percepito nei muscoli, sulla pelle tesa, nelle ossa aride che i loro corpi non avrebbero dovuto avere.
 
Avevate già fatto la vostra scelta per me, vero?
 
Un verso d’assenso gli si insinuò nell’orecchio, lieve come il tintinnio dei gli aghi d’oro, ma sicuro, chiaro.
Cicno deglutì. Non voleva pensare, non voleva pensare a nulla, voleva solo uscire di lì.
 
«Andiamo.» disse con voce rauca.
Michael annuì con forza. «Sì, usciamo. È- è stato lui, vero?»
Fu il turno di Cicno di annuire. «Probabilmente l’ha fatto anche con te. Hai notato nulla…?»
«D’oro? Le graffette. Le graffette del plico erano dorate. Non c’ho pensato. C’ho fatto caso, ma non gli ho dato molta importanza.»
«Va bene, va bene, non crucciarti. Usciamo di qui, reputo la mia prova terminata.»
Il ragazzo lo seguì docilmente, lasciandosi prendersi per mano e trascinare fuori, dove il rumore dell’acqua e della musica tornò ad essere chiaro e forte.
Le porte della stanza non si chiusero, non ci fu nessun suono particolare, nessun fuoco si accese nei dintorni, nulla.
Cicno si fece scappare uno sbuffo divertito: ovviamente suo padre non si sarebbe sprecato neanche a fargli sapere d’aver superato la sesta prova. Né lui né Estia.
I due figli di Apollo si incamminarono lentamente lungo il corridoio da cui erano venuti, in silenzio finché Michael non si fermò, trattenendo Cicno per la mano che ancora stringeva la sua.
 
«Cosa?» chiese solo l’altro.
«Hai- hai un filo…» si chinò, togliendo uno di quegli aghetti dorati dalla piega del pantalone mimetico del fratello. «Ecco. Fa strano vederti vestito così. Come mai il cambio d’abito?» domandò porgendogli l’ago e cercando di far conversazione, di distrarsi probabilmente da quello che aveva appena visto.
Cicno accennò un sorriso. «Grazie. Ho dovuto prendere in prestito degli abiti da un mio compagno, il più giovane in anno di morte.»
«Il gonnellino era scomodo?» giocò lui dandogli un leggero colpetto con il braccio.
L’altro scosse il capo. «No, sono finito sotto lo sguardo infuocato del Guardiano, mi ha corroso fino alle ossa.» disse con semplicità. «Trovo questi pantaloni piuttosto scomodo in realtà, preferivo le mie vesti.»
Michael però lo guardava a bocca aperta, l’espressione inorridita. Lo afferrò per le spalle e iniziò febbrilmente a controllare ogni lembo di pelle non coperto dai vestiti, facendo piroettare il greco su sé stesso, divertito.
«Sto bene, ho guarito sia me che il compagno che sono andato a soccorrere.»
«Ci siete finiti in due? Sei serio? E stai bene?» chiese allarmato.
Cicno annuì. «Ho subito torture indicibili per tutta la mia permanenza oltre i Cancelli Neri, il fuoco del Guardiano è stato doloroso, ma nulla più di quello. Dolore.» minimizzò, deciso a non entrare nei dettagli, specie quelli più personali.
Michael continuò però a fissarlo scioccato, prima di prendere un respiro profondo ed abbracciarlo.
L’uomo ne rimase incredibilmente sorpreso, insicuro su cosa fare, come comportarsi, se rispondere all’abbraccio o meno. Mosse lentamente le mani, posandole con delicatezza sulla schiena del ragazzino che lo stringeva come se ne andasse della sua stessa vita.
Il comportamento delle genti moderne ancora lo stupiva, ma poteva facilmente interpretare quel gesto come atto di sollievo, di preoccupazione.
Era preoccupato per lui, malgrado avessero passato così poco tempo assieme, malgrado non avessero nessun tipo di relazione se non quella che li legava al loro signore e al maledetto Sole. Eppure poteva capirlo, poteva capire il bisogno atavico di avere un legame, di ritrovare sé stessi in altri e partecipare così alle loro sventure, ai loro dolori.
Cicno era come lui, diverso, ma in una situazione estremamente simile.
Sarebbe potuto capitare a lui, sarebbe potuto cadere lui sotto il fascio di luce del Guardiano.
 
Ma non è stato così ed io e lui non potremmo essere più diversi.
Lui è giovane, ha una famiglia, una vita in superficie.
Io non ho nessuno, non ho scopo se non la vendetta che non potrò mai davvero ottenere.

 
Ingoiando il boccone amaro della consapevolezza Cicno strofinò la mano sulla schiena del ragazzo, in cerchi confortanti, gentili.

«Sto bene.» disse ancora e Michael annuì.
Da quanto tempo era che quel ragazzo non riceveva l’abbraccio di un adulto?
Probabilmente dall’ultima volta in cui era stata sua madre a farlo.
Quand’era stata l’ultima volta che aveva rischiato di perdere un compagno?
 
Oh. Durante la sfida del Guardiano.
 
Aveva perso un amico per colpa di una Guardia dell’Ade, non lo aveva potuto salvare. Lui invece aveva rischiato volontariamente l’anima ed aveva potuto prestare soccorso al suo compagno.
Con un sospiro pensante Cicno finì per abbracciare più saldamente il ragazzo, posandogli un bacio sulla sommità del capo, cercando di respirare regolarmente, di calmarlo così, in modo naturale.
Lo sentì tirare su con il naso ancora ed ancora e per un attimo Cicno si disse che Cade sarebbe stato fiero di come si stava comportando.
Quel pensiero lo riscosse di colpo, ma nonostante questo non riuscì a sciogliere quell’abbraccio, pur trovandosi ad alzare gli occhi al cielo e maledire qualunque divinità gli passasse per la mente.
Sapeva di dover rimare così finché non fosse stato l’altro a distaccarsi, ma qualcuno decise diversamente.
Un grido straziante rimbombò per i corridoi, esplodendo oltre gli archi e riempiendo anche i giardini, che rimasero comunque indifferenti a quell’urlo di dolore che fece sobbalzare i due semidei.

«Era la voce di una persona?» chiese Michael asciugandosi gli occhi con il doso della mano sinistra, la destra strinse invece la lancia in una presa ferrea, pronto per attaccare al minimo accenno di pericolo.
Cicno invece si sentì gelare il sangue nelle vene. Tutto il sangue che non avrebbe dovuto avere e che invece scorreva copioso dal suo corpo ogni qual volta venisse ferito.
Non respirò, paralizzato da quel suono.
Non poteva essere.
 
Non posso essere così sfortunato.

«È la mia compagna.» mormorò.
«Cosa?» gli chiese Michael con voce strozzata.
«È la mia compagna.» ripeté lui. «Questa è la voce di Lea.»
«Cazzo. Okay, okay, corri, corri!» e senza pensarci due volte il ragazzino lo afferrò per il polso ed iniziò a correre a perdifiato nella direzione da cui era giunto il grido.
Cicno digrignò i denti e lo affiancò, portando subito una mano alla cinghia dei suoi coltelli.
 
Non di nuovo.
Non due in una sola prova.
 
Il suono dei loro passi scomparve presto per i mille e mille corridoi che si aprivano in ogni angolo del tempio di Apollo, ingoiati dalle musiche allegre e melodiche della lira e del liuto, dal gorgogliare delle fontane e dal canto di inesistenti uccellini.
Sul pavimento un filo d’oro rigido e lucido iniziò a tremare, saltellando su sé stesso prima di sollevarsi in aria e schizzare rapido nella stessa direzione in cui si erano precipitati i figli di Apollo.
 


 
*
 



Doveva immaginare che tra tutte le persone che avrebbe potuto incontrare sarebbe apparso proprio lui.
Per una frazione di secondo aveva pensato che, magari, avrebbe potuto vedere Paolo, ma non avevano passato abbastanza tempo insieme per poter essere una buona motivazione per rinascere con lui.
La stanza in cui era entrata era semplice, vuota, chiara come tutto in quel tempio. C’era solo un piccolo podio a tre gambe, sul cui piano era poggiato un oggetto che, purtroppo, Lea conosceva fin troppo bene.
 
Un proiettile, uno di quelli che mi ha ucciso.
 
L’aveva pensato senza particolari sentimenti, una semplice constatazione dei fatti, nulla di più. Quando però si era avvicinata per osservarlo meglio aveva notato che sotto al bossolo c’era qualcosa, come un impasto mal amalgamato. Era poco, davvero pochissimo, le aveva ricordato le innumerevoli ore passate a pesare al milligrammo i medicinali, le polveri richiuse poi in piccoli quadratini di carta, pronti per essere presi dalle infermiere e mischiati all’acqua, per somministrarli con più facilità ai pazienti.
Questo però sembrava granuloso, come se avesse preso umidità, come il fondo che andava a depositarsi in un bicchiere pieno di una soluzione satura. Se lo ricordava fin troppo bene quanto fosse fastidioso vedere tutta quella polvere rimanere nel bicchiere dopo che il paziente aveva bevuto il liquido, le occhiate delle infermiere di anziane che le consigliavano di mescolare meglio la prossima volta, perché ora, tutto il medicinale sarebbe andato sprecato.
Ricordava come prendesse sempre una spatolina per raccogliere quei grumi e staccarli meglio dal vetro, ricordava fin troppe cose, tutte assieme.
Non le era sembrato strano quindi riuscire a sentire l’odore della vecchia colonia di suo fratello, quel profumo che Giuseppe si picchiettava addosso per poter coprire l’olezzo d’ospedale che lo seguiva ovunque.
Non si era girata subito, aveva atteso, prendendo profondi respiri, lasciandosi trascinare verso memorie perdute e lontane, indietro sino a quando era davvero una giovane di vent’anni e non un’anima centenaria bloccata all’ultimo stadio della sua passata vita. Aveva atteso così tanti anni per rivedere suo fratello che prendersi qualche minuto per racimolare le forze, per comporsi ed evitare di saltargli addosso non sembrava uno spreco di tempo.
 
Ne avremmo in futuro, ne sono certa.
 
Aveva trattenuto il sorriso che le forzava le labbra per poco, si era messa ben dritta con la schiena e poi, preso un ultimo respiro, si era voltata, dando le spalle al piccolo podio.
Ma il sorriso le era presto morto in viso, lentamente ed inesorabilmente come era stato per la sua stessa vita.  Lea si era sentita scivolare di dosso tutta la gioia, tutta l’euforia esattamente come le era scivolata via l’energia, la lucidità, la coscienza nei suoi ultimi attimi sulla terra.
 
«Giuseppe?»
 
Le era uscito un suono strozzato, incredulo. Non era riuscita a dire altro mentre fissava la figura davanti a sé, l’anima di quello che era stato senza ombra di dubbio l’uomo più importante della sua vita e che ora la fissava con sguardo sbiadito, quasi vuoto se non per quell’unica scintilla di- qualcosa, che animava l’iride opaca.
 
«Ciao, Lea.»
Quanto tempo era che non sentiva parlare in italiano? Che non lo sentiva davvero? Sì, nelle sue orecchie le voci dei suoi amici erano tutte comprensibili, parlavano tutti un italiano carico di accenti ma comprensibile. La voce di suo fratello invece… quello era italiano vero, era la stessa voce, la stessa lingua, la stessa inflessione, lo stesso accento che l’aveva apostrofata per gran parte della sua vita. E veniva dalle sue labbra, piegate in un sorriso debole, appena accennato.
Lea si portò d’istinto una mano al petto, stringendo il pungo sulla camicia, sul tessuto morbido come lo erano tutte quelle stoffe lavate e rilavate, indossate e rindossate. Come probabilmente lo era anche la camicia di suo fratello se solo non fosse stata incrostata di sangue.
L’uomo non sembrava molto più grande di quanto non lo ricordasse, non sembrava invecchiato per niente se non fosse per la palese stanchezza che gli si poteva legger in visto, ma Lea iniziava a dubitare che quella fosse davvero debolezza dovuta agli anni quanto più a ciò che aveva passato.
O al luogo da cui proveniva.
Suo fratello non aveva provato neanche ad avvicinarlesi, non aveva fatto nessun movimento troppo veloce, non si era proprio mosso. Lea lo aveva fissato battendo le palpebre velocemente, cercando di non soffermarsi sul viso graffiato, sulla barba corta e dall’aspetto spinoso. Spostava lo sguardo dai capelli arruffati e sporchi alle macchie di terra sulla fronte, a quelle di sangue sulla tempia, alle ecchimosi sul lato destro del volto, sul collo, attorno ad esse come una collana.
 
Come la collana di Jonas.

Aveva cercato di non guardare la grande macchia rossa sul suo fianco, sul torace, la camicia strappata sulla spalla, i pantaloni rovinati, lacerati sino alle ginocchia, i piedi nudi, feriti, sporchi di fango, fuliggine e altro sangue.
Poteva avvertire come le tremassero le labbra, mentre cercava in tutti i modi di non scoppiare a piangere, come i denti battessero piano, scossi dai tremori, dagli spasmi muscolari.
Alla fine non si era potuta esimere dal fissare Giuseppe dritto negli occhi.
Occhi grigi, spenti, vuoti, feriti.
Feriti come lo era il suo corpo.
Come lo era la sua anima.
Come lo era ogni dannato.
 
Non sapeva per quanto tempo era rimasta in quella posizione, ferma ad osservare il fratello, la persona che l’aveva cresciuta, che l’aveva amata, che le aveva insegnato tutto quello che sapeva.
Era per questo quindi? Lea lo aveva aspettato per un secolo, aveva chiesto sue notizie ogni giorno, aveva passato interminabili ore del suo infinito tempo ad attendere, a sperare di vederlo entrare da quelle porte prima e poi, quando ormai aveva iniziato a perdere la speranza, a scrutare fuori dalle Bianche Mura, sperando, pregando, illudendosi, di poterlo scorgere a vagare solo e senza memorie per le Praterie degli Asfodeli.
Ma non era mai successo, non c’era mai riuscita, non era mai tornato da lei, non l’aveva mai più abbracciato.
E non era stato possibile perché suo fratello era finito nei Campi di Pena.
 
«Tu-»
Parlò appena, ma non riuscì a finire la frase, non senza piangere.
Chiuse gli occhi, aprendo la mano che stringeva la camicia per poi richiuderla, le unghie corte a graffiarle la pelle pallida di morte ma più colorita del dovuto, come le strisce rossastre che apparvero subito dopo, nascoste alla vista.
Prese un respiro profondo, ingoiando la saliva che le si era accumulata in bocca, che quasi la soffocava, l’annegava e le ostruiva le vie respiratorie come il muco che le impediva di respirare dal naso.
Si sentiva così stupida, così infantile. Era tornata ad essere la bambina che piangeva strofinandosi gli occhi e storcendo la bocca in una smorfia penosa, in piedi immobile davanti a suo fratello che le diceva di smettere, che non era nulla, che dentro alla clinica i mostri non potevano entrare, non le avrebbero mai fatto del male.
Ma se Giuseppe era stato mandato nei Campi di Pena forse i mostri non erano solo fuori, forse erano anche dentro e potevano farle più male di quanto non credesse.
Non voleva neanche chiedergli cosa avesse fatto, non voleva assolutamente saperlo.
Sperava, pregava, che avesse rubato qualcosa, magari medicinali o cibo, magari le armi ai soldati austriaci, ma in cuor suo sapeva che se così fosse stato, Giuseppe sarebbe stato destinato ai Campi Elisi, esattamente come Cade. Forse allora aveva partecipato alla rivolta ed aveva ucciso qualcuno, ma di nuovo, Cade stesso aveva avuto una simile esperienza e se pensava ad Eliza e Nathan… loro erano soldati, avevano sicuramente ucciso molte persone, eppure erano stati graziati.
Forse… forse era scappato.
 
Ti prego, ti prego, dimmi che è scappato.
 
«Lea.» la chiamò a bassa voce l’uomo. «So di non aver alcun diritto di chiedertelo, ma per favore, parlami, così questa prova finirà subito.»
Lei però scosse la testa, ostinandosi a tenerla bassa, a tenere gli occhi chiusi.
«Non voglio convincerti ad abbandonare la gara.» continuò lui.
«No.» disse lei flebile. «Non lo voglio sapere. Non voglio.» balbettò.
Cosa poteva aver fatto? Furto, tradimento, omicidio, suicidio? Si era forse suicidato? Il proiettile era per quello? Era il proiettile con cui si era tolto la vita? No, non poteva essere, era da fucile quello, non da pistola, sembrava appartenere ad una carabina e poi cos’era quella poltiglia biancastra?
Ma se non si era sparato da solo voleva forse dire che l’avevano ucciso, che gli avevano sparato. Ma sì, certo, dovevano avergli sparato e lui era finito nei Campi di Pena perché- perché-
 
«Elena.»
«Non chiamarmi così.» scattò alzando finalmente il capo, fissandolo in quegli occhi che una volta erano stati azzurri e brillanti. «Non lo sopporto. Lo odio.» disse con astio, con più acredine di quanta non avrebbe usata in altre situazioni.
Non lo odiava, non odiava davvero il suo nome, ma sentire suo fratello chiamarla così… non riusciva a pensare, dannazione. Aveva così tanti dubbi, così tante paure, così tante voci che le si affollavano per la testa e non riusciva a pensare, non poteva pensare.
«Ascoltami, te ne prego.» Giuseppe mosse qualche passo verso di lei, lentamente, come se stesse approcciando un animale ferito. «Finirà tutto presto, devi solo ascoltarmi. Solo ascoltarmi e poi dirmi “no”. Tutto qui.»
«No!» gracchiò con voce acuta, indietreggiando. «No.» ripeté. «No.»
Giuseppe le regalò un altro sorriso triste. «Devi prima lasciarmi parlare.»
«Per dirmi cosa? Hai detto che non mi fermerai, non c’è niente che possa convincermi e poi non voglio- non voglio sapere…»  continuò con voce tremante. «Non voglio… perché- non voglio sapere.»
Lasciò che le parole si perdessero nel silenzio della stanza, nell’eco fastidioso ed ipocrita del giardino e delle fontane, delle musiche e degli uccelli. Come poteva esser il mondo così tranquillo e felice quando lei stava affrontando una situazione del genere? Come potevano essere tutti felici quando lei aveva appena scoperto che suo fratello era un dannato, era un peccatore.
 
Peccatore. Come me, come mia madre. Dicevano questo le suore. Peccatori, tutti peccatori, tutti nati nel peccato.
 
Quel pensiero però le permise di accendere una luce tremula, una speranza fumosa, che fosse…? Che fosse la storia di suo fratello con Marco ad averlo mandato all’inferno? Che le suore, il prete, l’intera religione Cristiana avesse ragione? Che fosse davvero un peccato così grande amare una persona del proprio stesso sesso?
Ma quella stupida speranza scomparve subito, specie di fronte ai numerosi racconti sui miti che conosceva, davanti alle spiegazioni dei suoi amici.
Amici che l’aspettavano fuori, che pensavano che sarebbe stato più facile per lei, perché ormai sapeva cosa sarebbe successo, come doveva comportarsi, che trucchetti avrebbero potuto usare per farla cedere.

E Cicno. Cicno è qui, da qualche parte ad affrontare la sua prova.
 
Non aveva alcuna importanza però, tutto perdeva di significato davanti al corpo martoriato, torturato per dio solo sapeva quanti anni, di suo fratello.
 
«Non mi pento di nulla.»
 
La voce di Giuseppe le giunse per la prima volta più salda e sicura.
Guardandolo con cautela Lea poté leggere la sincerità delle sue parole anche nel volto serio e duro, nella mascella serrata e nelle sopracciglia aggrottate.
Era vero, qualunque cosa avesse fatto, Giuseppe non se ne pentiva minimamente.
Forse c’era speranza, forse aveva fatto qualcosa di brutto sì, ma per qualcosa di buono. Magari i giudici infernali non l’avevano pensata come lui o forse erano solo di cattivo umore quel giorno, magari-
 
«Hai combattuto.» provò tirando su con il naso, strofinandocisi contro il dorso della mano.
Giuseppe abbozzò un sorriso. «Non proprio. Non sono sceso in piazza se è quello che credi. Ma ho, diciamo, combattuto sul mio campo.»
A sentire quelle parole Lea si ritrovò divorata dall’ansia tanto quanto dalla curiosità, divisa tra il voler sapere e il non volerlo, tra il voler disperatamente credere che ci fosse una giustificazione ed il terrore di sentirsi dire qualcosa di terribile, di vedere tutte le sue speranze infrante.
«Ascolta. Io- tutto ciò che desideravo era vederti, sapere che stessi bene, sapere che eri riuscita a superare tutte le prove, che non eri sola, che… che stai cercando di vincere e che farai del tuo meglio per arrivare fino in fondo.» riprese a parlare, la voce ora più morbida, più gentile.
 
La stessa voce che usava con i pazienti, con quelli più piccoli… o con i più gravi.
 
E sfortunatamente per lei Lea era e sarebbe sempre stata la “piccola” tra i due, al contempo però quell’intera situazione le faceva pensare che fosse anche davvero, davvero grave.
 
«Non lo voglio sapere.» ripeté per l’ennesima volta.
Giuseppe scosse il capo. «Ed io non te lo dirò. Ma devi- devi promettermi che lotterai con tutte le tue forze, che non ti farai abbattere e non ti farai dire da nessuno che non puoi farcela.»
 
Come facesti con te.
 
Lea lo pensò ma non lo disse, le parole ugualmente pesanti e sentite, presenti nell’aria tesa.
«Ti ho aspettato per tutto questo tempo, sai?» mormorò improvvisamente stanca. «Ogni giorno chiedevo a Shilon Yu se non fosse arrivato nessun Giuseppe Pozzi, perché mi aveva detto che spesso le anime non vengono smistate in ordine d’arrivo, spesso- spesso alcune si spaventano o si distraggono e perdono il turno e io lo so- me lo ricordo sa? Me lo ricordo che ti perdevi a chiacchierare con la gente, che se l’argomento era interessante allora-»
«Mi hanno smistato quasi subito.» la bloccò lui. «Minosse mi ha subito relegato ai Campi di Pena.»
Ci fu un lungo momento di silenzio, carico di tensione. Poi Giuseppe sospirò, cedendo.
«Sono stato mandato nel girone dei traditori. Più precisamente tra coloro che hanno infranto un voto. Io ho infranto il mio.»
A quelle parole Lea lo fissò sbalordita. Poteva sentire le labbra schiudersi per lo shock, la lingua pesante nella bocca, gli occhi sgranati.
Il suo voto. Giuseppe era un medico, aveva fatto un solo voto in vita sua e se l’aveva infranto poteva significare che-
 
Si è rifiutato di prestare cure a qualcuno. Può essersi rifiutato di farlo se non sotto compenso, può aver trattato in modo impari due pazienti o… o può aver ucciso qualcuno.
 
Quasi d’istinto Lea voltò il capo verso il podio, sulla pallottola da moschetto e sulla poltiglia che si stava asciugando.
Come il deposito di un medicinale non ben mescolato sul fondo di un bicchiere.
 
Deglutì. «Cos’è quello?» chiese in modo meccanico, la mente in vuota, un blackout intermittente, che alternava il buio a flash di scaffali strapieni di bottigliette, di polveri, di liquidi.
Giuseppe non batté ciglio. «Atropina.» disse solo e Lea chiuse di nuovo gli occhi.
Questa volta non provò a restare dritta, in piedi. Allungò la mano per poggiarsi al trespolo e poi, lentamente, sedersi a terra, mentre tutta l’energia che le era rimasta defluiva fuori dal suo corpo, dalla sua anima.
«Non sono mai stato un guerriero, potevo combattere solo dietro le quinte.»
«Hai ucciso- hai ucciso i tuoi pazienti…» soffiò fuori assieme alla poca aria che gli era rimasta nei polmoni.
«Gli austriaci.» annuì lui, anche se Lea non poteva vederlo. «Una volta guariti sarebbero tornati per le strade, a portarci di nuovo via quel poco che avevamo conquistato. Quello per cui e-» si bloccò, stringendo le labbra come se volesse fisicamente impedirsi di dire altro. Annuì ancora. «Non mi pento di nulla. La guerra è anche questo.»
A quelle parole Lea scattò, guardandolo con un astio che non si sarebbe mai sognata di rivolgergli.
«Sei un medico. Hai fatto un giuramento! Sei un figlio di Apollo per l’amor del cielo! Hai giurato, hai fatto un giuramento a ben due Dei! Hai giurato a tuo padre! Avevi l’obbligo morale di salvare ogni paziente, ogni ferito, senza distinzione alcuna e invece-»
«E invece ho preferito ucciderli. Sì, Elena. Ho infranto il mio giuramento di Ippocrate e ho recato danno, ho somministrato un medicinale mortale e lo rifarei.» lo disse con freddezza, quella scintilla che aveva illuminato i suoi occhi in vita tornò a brillare, animata dall’ardore con cui, ancora ad oggi, Giuseppe credeva nelle proprie azioni, nelle proprie scelte.
«Ho infranto il giuramento, ne conoscevo le conseguenze, decisamente più alte e terribili di quanto non lo fossero per qualunque altro medico mortale e ho agito comunque. Non sono qui per giustificarmi, non sono qui per fare ammenda, per pentirmi e dolermi, per aver rimorso e implorare perdono. Sono qui solo per dirti che anche se tu ora non avrai più nei miei confronti lo stesso affetto che avevi prima, io continuo invece ad averlo e ad essere orgoglioso di saperti giunta fino a qui, di saperti in grado di affrontare il mondo.» la sua voce si affievolì sulle ultime parole, sembrava quasi che tutta quella forza che aveva appena dimostrato si stesse dileguando velocemente. «Dovrebbe essere più sicuro ora, dovrebbe essere più… equo. Potrai studiare medicina, se è ancora quello che vuoi fare. Potrai avere un conto tutto tuo in banca, possedere proprietà, fare scelte libere senza che siano altri a farle per te e- e potrai vivere come viveva un uomo. Potrai fare quello che vuoi o almeno questo è quello che vociferavano gli altri dannati della mia terrazza.»
Elena stette in silenzio, incapace di dire nulla, di continuare quella conversazione. Giuseppe lo capì perfettamente e, ancora una volta, come tanti anni prima, decise di prendere lui in mano la situazione, di indicarle quale fosse la via, di mettere fine a quel supplizio.
«Questo è quanto, Lea.» mormorò lentamente. «Sono- sono davvero fiero di te. Quando sei uscita, quel giorno, ero così arrabbiato, così… deluso, dal fatto che tu non mi stessi ascoltando, dal fatto che fossi scesa per le strade anche contro la mia volontà, che non capissi le mie ragioni.» accennò un sorriso e scosse il capo. «Sai cos’ero, cosa sono ancora, sai che non avrei mai potuto avere figli miei ma- in un qualche modo, più che mia sorella, sei stata mia figlia e sebbene all’inizio la tua presenza per me fosse un’imposizione dall’alto, sebbene mi sembrasse ingiusto che tra tutti i suoi figli nostro padre avesse scelto proprio me per crescerti, per proteggerti… ne sono stato felice. Alla fine dei miei giorni ho avuto qualcuno che mi ha amato e qualcuno che ho amato.»
 
 
“Avete fatto, in vita, l’unica cosa degna, per ambire al perdono?”
 

Giuseppe fece un passo indietro, strofinando le mani sui pantaloni consunti in un gesto impacciato, imbarazzato. «Penso di averti anche odiata, sai?» domandò retorico.
Lea lo guardò con espressione crucciata: se le ricordava le occhiate scocciate di suo fratello all’inizio, il modo sbrigativo con cui la trattava, prima di costruire un rapporto, prima che diventassero una famiglia vera.
«Non volevi una bambina tra i piedi.» disse solo.
Lui scosse ancora la testa. «No, non ti ho odiata all’inizio, eri solo molto fastidiosa, come un- te li ricordi i fratelli obbligati dalle madri a portare i più piccoli in clinica? Così, mi sentivo così.»  fece un verso divertito a ripensare alle facce scocciate di quegli adolescenti, ma subito dopo un velo di tristezza lo coprì: chissà se non fossero divenuti adulti, chissà se fossero sopravvissuti abbastanza per poter chiamare quegli anni vita. «No.» ripeté. «Ti ho odiata dopo. Ti ho odiata quando hai chiuso quella porta e te ne sei andata.»
«Cosa?» non riuscì ad impedirsi di chiedere lei, scioccata.
«Quel giorno. Quanto te ne sei andata.» ripeté. «Ti ho odiata tantissimo, perché non mi avevi ascoltato, ancora una volta, perché sapevi bene quanto me che avresti rischiato la vita, o forse non riuscivi a capirlo e solo io l’avevo visto chiaramente, ma in quel momento ero sicuro che anche tu lo sapessi e ti ho odiata perché stavi andando incontro alla morte invece di rimanere vicino a me, al sicuro.» rise senza gioia. «Lo so, è stupido, sembra senza senso, ma… ho scoperto che i genitori sono ipocriti, sono gelosi, anche irragionevoli, dalla mia prospettiva vedevo solo una ragazza, la mia bambina, ancora troppo giovane e ingenua, che sceglieva di abbandonare me per andare a morire. Anche se l’avrebbe fatto per la giusta causa. Non mi interessava, non mi interessa ancora oggi che tu sia morta per fare del bene. Ai miei occhi sei solo morta.»
Rimase in silenzio, spostando lo sguardo dalla sorella al proiettile alle sue spalle.
«Per anni non sono stato in grado di comprendere il comportamento delle madri, dei padri dei miei pazienti. I genitori dei soldati… sapere che chi ami è morto per fare la cosa giusta non aiuta a far andare via il dolore, soprattutto se quel qualcuno era l’unica famiglia che avevi.»
Lea deglutì a forza. «Avevi detto di essere fiero di me.»
Lui annuì. «Lo sono. Questo non cambia il fatto che tu sia morta, che la mia famiglia fosse andata distrutta e che sia successo perché hai voluto fare ciò che reputavi giusto, onesto.» chiuse gli occhi, sospirando. «Sono fiero di te, ma devi capire- no, no, non devi capire, non c’è nulla che tu debba capire.»
«Dimmi. Fammi capire invece. Cosa vuoi da me?» gli chiese con voce tremante.
Giuseppe provò a sorriderle, ma nel farlo indietreggiò ancora. «La mia è pura ipocrisia, Lea. Sei un’eroina, lo sei, sono fiero di te. Ma sei morta. La mia sorellina è morta e io lo sapevo che sarebbe successo, te l’ho detto, ma non mi hai voluto ascoltare.» sbuffò con sarcasmo e si portò una mano trai capelli sporchi, scompigliandoli più di quanto già non lo fossero. «Ma sono stato così orgoglioso, lo siamo stati entrambi quel giorno: tu per aver ignorato le mie parole, per essere andata a prestare soccorso anche se ti avevo detto che non potevi farlo, che non sarebbe finita bene e io- io per non averti seguito. Per essere rimasto in clinica, ad aspettare che i feriti arrivassero da soli, da me. Eri brava Lea, saresti potuta diventare grande, ma in quel momento le tue capacità curative non erano tali da permetterti di operare sotto pressione, da sola, in situazioni di pericolo.
Ma sono rimasto lì. Questo è il mio unico rimpianto, non averti seguita.»
Lea non provò a trattenere le lacrime, non provò a trattenere i singhiozzi.
«Quindi è stata colpa mia? Mi stai dicendo questo?» chiese con voce rotta.
Giuseppe scosse la tesa. «No, no, ma che diamine dici! Non è colpa tua-»
«Hai detto che mi avevi avvertita e io-» si bloccò, guardando suo fratello, quello che era stato davvero un padre per lei, improvvisamente conscia di qualcosa.
Lei lo sapeva. Sapeva che sarebbe andata a morire, sapeva che avrebbe potuto fare poco, per poche persone, ma era comunque andata.
 
Lo sapevo che sarei morta, ma non potevo rimanere con le mani in mano, non potevo rimanere al sicuro mente la gente combatteva e moriva a sua volta.
Ho pensato a loro, agli altri e –

 
«Non ho pensato a te.» ammise con un filo di voce, strozzato dai singhiozzi sempre più forti. «Non ho pensato che ti avrei lasciato solo. Non ho pensato che ne avresti sofferto, io ho- ho pensato solo a me stessa, ho pensato solo che potevo farcela, che non mi mancava nulla e che se fossi morta almeno l’avrei fatto per un motivo, avrebbe avuto senso- sono- sono stata così stupida. Ti ho lasciato solo a vedere tutti quei mostri, a curare i feriti, a curare i semidei, gli innocenti e chi- chi aveva ucciso me.» lo disse con una consapevolezza che le illuminò chiaramente quel nugolo oscuro e sfocato che era diventata la sua testa.
Una luce forte e accecante come quella del Sole, che tanto calore dona ma anche tanto dolore infligge.
 
«Ti hanno portato le stesse persone che mi hanno ucciso… le hai uccise perché avevano ucciso me.»
Lea fissò suo fratello dritto negli occhi, ma lui fuggì il suo sguardo con decisione, voltando il capo, fissando il pavimento liscio e lucido.
Giuseppe aveva ucciso i soldati austriaci, infrangendo il suo giuramento, conscio che sarebbe finito nei Campi di Pena, per lei.
Aveva ucciso per vendicarla.
Suo fratello, l’uomo più importante di tutta la sua vita era finito a dannazione eterna per colpa sua.
La nausea che l’assalì in quel momento le fece perdere quasi il contatto con la realtà. Si strinse le mani allo stomaco, poi ne portò una alla bocca, premendosela contro con forza.
No, no, non era possibile. Non poteva essere così. Era colpa sua. Tutta colpa sua.
Non riuscì a sentire le rassicurazioni di Giuseppe, non lo vide avvicinarsi tentennante ed allungare una mano per carezzargli il capo, ma Lea si ritrasse comunque da quel contatto, urlando di lasciarla, di non toccarla, che era tutta colpa sua.
Com’era possibile? Lei voleva solo fare del bene, si era buttata nella mischia, aveva messo la propria vita a rischio per salvare quella di altri, ma a quale costo? Lei voleva solo fare la cosa giusta, solo questo. Aveva aiutato dei feriti, aveva fatto quello che ogni medico doveva fare anche- anche se lei non era un medico, però era una figlia di Apollo! Doveva valer qualcosa! Aveva fatto del bene, aveva fatto la cosa giusta, la cosa giusta da fare, aiutare i bisognosi, accudire i malati, curare i feriti, come ogni brava persona, come ogni Dio aveva sempre detto si dovesse fare.
E invece cosa aveva ottenuto? Aveva forse salvato quel ragazzo? O dopo aver ucciso lei il soldato aveva ucciso anche lui e tutti gli altri? Come si chiamava? Glielo aveva detto il suo nome? E lei? Lei si era presentata?
Lea pianse ancora più forte, un grido straziante a squarciarle il petto al solo pensiero di esser morta per nulla, di aver sprecato la sua vita per niente. Oh, no, non per niente, ma per rendere Giuseppe ancora più solo, ancora più arrabbiato verso il regno, verso gli invasori. Era morta per nulla e suo fratello aveva odiato così tanto lei, la sua morte, le sue azioni, da esser diventato un assassino.
 
«Sono io… la colpa è mia. È tutta colpa mia.» cantilenava ad occhi sgranati, le lacrime che scendevano copiose, le mani stretta ai capelli corti.
I suoi tanto amati capelli corti, quelli per cui aveva lottato, per cui tante donne e uomini le avevano lanciato occhiate dispiaciute, convinti che se li fosse tagliati per denaro, per poter pagare magari qualche conto della clinica, come tante donne aveva fatto prima di lei. Ma no, per Lea quello era un segno di libertà, era un segno d’indipendenza. I suoi bei capelli corti, che sfuggivano ai fermaglietti che avrebbero dovuto tenerle il capellino in testa. Il suo grembiule bianco, la spilla con l’orologio. Tutti quegli oggetti di cui era andata fiera, tutte quelle cose che Giuseppe le aveva fatto conoscere e amare e che ora riusciva a ricordare solo sporchi di sangue.
Era tutta colpa sua.
 
«Lea, Lea ti prego, non dire sciocchezze, non è colpa tua. Non mi hai obbligato a fare nulla, è stata una mia scelta.» provava a calmarla Giuseppe, cercando di farla venire a ragione, di farle capire quanto fosse stupido addossarsi ogni responsabilità.
«Lo hai fatto per me!» pianse ancora lei.
«L’ho fatto perché ti ho persa, non per te. L’ho fatto perché stavo soffrendo e non volevo che nessun altro soffrisse come me-»
«Anche loro avevano una famiglia! La loro famiglia ha sofferto per colpa mia!» insistette singhiozzando, cercando disperatamente quell’aria che non riusciva a far arrivare ai polmoni.
 
«LEA!»
 
La figlia di Apollo non sentì subito quella voce, non vide le due figure apparire sulla soglia della porta e neanche Giuseppe tirarsi di colpo indietro, ponendosi davanti a lei, a farle da scudo.
L’uomo allargò le braccia, lo sguardo sospettoso puntato dritto su quel giovane dai tratti statuari vestito con abiti moderni, ben più dei suoi.
Era una strana accoppiata, il suo volto pareva ripreso a quello dell’Apollo esposto nei giardini vaticani ma le sue vesti erano così nuove. Quel giovane, senza ombra di dubbio anche lui figlio del dio del Sole, era anacronistico.
Dietro di lui c’era anche un altro ragazzo, molto più piccolo, almeno una decina d’anni in meno del primo. Questo però pareva vestire i giusti abiti, il suo viso giovane e pieno, i ricci morbidi e castani, si accostavano bene alla maglia arancione, ai riflessi della sua lancia di bronzo celeste.
Quei due non sembravano una minaccia, il primo aveva chiamato sua sorella per nome, ma Giuseppe non si mosse comunque, rimanendo davanti a Lea, a nasconderla, a celare il suo dolore dagli occhi dei nuovi arrivati, senza però poter impedir loro di sentire i singhiozzi della giovane.
 
«Chi siete?» domandò con voce ferma, autoritaria, quella con cui si rivolgeva a chiunque provasse ad imporsi nella sua clinica.
Il più grande dei due lo studiò per un momento, un’analisi velocissima che dovette dargli quegli ultimi indizi di cui necessitava prima di farsi avanti, sicuro.
«Il mio nome è Cicno di Tebe e sono un compagno di viaggio di nostra sorella.» rispose senza batter ciglio. «Lui è Michael, un altro nostro fratello, di un’epoca più recente alla nostra.»
Giuseppe annuì. «Siete suoi amici?»
Michael scosse il capo. «Solo lui, io non la conosco.»
«Cos’è successo?» chiese Cicno.
L’uomo sospirò, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. «Le ho detto perché sono finito nei Campi di Pena, crede sia colpa sua.» riassunse in breve.
«Dove eravate?»
«Oh, non c’è bisogno di darmi del voi, puoi chiamarmi Giuseppe, se non ti spiace.» provò ad abbozzare un sorriso, poi si voltò verso Lea, accucciandosi vicino a lei, sfiorandole i capelli con un gesto lieve e leggermente tremante. «Ero tra i traditori.» mormorò.
A sentire ancora quelle parole Lea singhiozzò ancora più forte, premendo il mento contro il petto, le mani a coprirle il viso.
«Un po’ più su di me.»
A quella risposta Giuseppe volse di scatto la testa verso Cicno, guardandolo scioccato.
«Cosa?»
Cicno.
Cicno di Tebe, figlio di Apollo.
Cicno. Il cigno, la costellazione del cigno.
L’italiano drizzò la schiena, per quanto la posizione glielo concedesse, un’espressione dura ad animargli il volto. 
«Il crudele.» disse solo.
L’altro gli sorrise, accondiscendente, facendo un leggero cenno con il capo. «Sono ben tre prove che svolgo al fianco di nostra sorella, se avessi voluto tradirla l’avrei fatto ben prima.»
Giuseppe si morse la lingua per non dir nulla, perfettamente conscio della scelta di parole del suo illustre fratello.
 
Non l’ha tradita.
 
«Sei tu la sua prova?» chiese Michael intromettendosi d’improvviso. «Ha finito? Può uscire di qui?»
Giuseppe deglutì ed annuì, senza trovare il coraggio di guardare ancora sua sorella.
«Bene.» sentenziò Cicno avvicinandosi con passo sicuro e leggero.
Si piegò verso Lea e le posò una mano sulla spalla.
«Lea? Hai concluso la tua prova, dobbiamo tornare dagli altri, anche Nathan deve affrontare le anime dei suoi amati.»
Un leggero alone luminoso si espanse dal palmo della mano di Cicno, emanando un calore tale da esser percepito anche da Giuseppe.
L’italiano guardò con stupore il fratellastro, soprattutto quando Lea smise di singhiozzare, alzando il capo verso Cicno con gli occhi arrossati e le guance bagnate.
«È stata tutta colpa mia, Cicno. È perché sono morta io-» iniziò ancora, ma l’altro non parve per nulla interessato alle sue parole.
«Non dire sciocchezze inutili. Non mi pare tu gli abbia puntato una lama al collo obbligandolo a fare qualunque cosa abbia fatto.» tagliò corto, il tono duro e severo.
Lea batté le palpebre smarrita. «Ma- ma se io non fossi morta… ha ucciso i suoi pazienti e-»
«Evidentemente se lo meritavano, non credi?» ritorse alzando un sopracciglio.
Lei scosse il capo. «Avevano una famiglia! Non erano stati loro ad uccidermi eppure lui ha tradito il suo voto!»
«Elena, ascoltami attentamente perché te lo dirò una sola volta, dopodiché lo dirò a Nathan e sarà lui a dirtelo in modo decisamente meno gentile del mio, capisci?»
La ragazza annuì incerta, asciugandosi le lacrime.
«Sei morta per un motivo onorevole, per salvare la vita di un altro essere e questo non potrà mai esserti portato via. Ma non è così che funziona il mondo, non è così che le cose vanno la maggior parte delle volte. Eravate in guerra, giusto? Lo era anche tuo fratello? La guerra è questo: ingiustizia. Presumo non fossero pazienti qualunque, erano nemici, soldati, vero? Una volta guariti, sarebbero tornati a combattere e ad uccidere altra gente, la tua gente. Loro sono stati pianti dalla loro famiglia, le loro azioni avrebbero fatto piangere decine di famiglie. È giusto? No, probabilmente non lo è e mai lo sarà, ma i conflitti non sono mai giusti.
Tuo fratello è un figlio del dannato Sole, è un medico, conosceva le conseguenze delle sue azioni e le ha pagate tutte.» poi si rivolse a Giuseppe. «Ti penti di ciò che hai fatto?» chiese impassibile.
Giuseppe lo guardò dritto negli occhi, certo della sua risposta. «No.»
Cicno annuì. «Non si pente, non ha rimpianti. Ha fatto il suo dovere, ha curato gli innocenti e ha accettato la dannazione eterna per uccidere i vostri nemici.»
Si tirò in piedi, dritto e minaccioso dall’alto della sua postura altera e sicura. «Mi spiace informarti di questa cosa in un momento di dolore e di lutto, ma non sei così importante da essere causa e motivazione delle azioni di una persona, della morte di altre. Sei solo una donna, Lea, non sei una divinità, ciò che tuo fratello, che nostro fratello ha fatto è stato dettato dal suo volere. Probabilmente avrebbe fatto lo stesse se tu fossi stata viva.»
Le parole di Cicno le arrivarono addosso come uno schiaffo secco e potente, Lea guardò con occhi sgranati prima il greco e poi Giuseppe, incapace di battere le palpebre.
 
Non sei così importante.
Sei solo una donna, non una divinità.

Avrebbe fatto probabilmente lo stesso.
 
Lea continuò a fissare il fratello senza dire una parola, osservando le labbra tese dell’uomo rilassarsi in un sorriso triste.
«Ognuno doveva fare la sua parte. Non ho neanche fatto abbastanza. Non è colpa tua.»
«Esatto. Fustigarti per qualcosa che è avvenuto dopo la tua dipartita è inutile e stupido, te lo diranno anche i nostri compagni.»
A quell’affermazione Cicno porse la mano a Lea, incitandola ad alzarsi. «È arrivato il momento di tornare da loro.» disse semplicemente.
Lea tentennò, afferrando tremante la mano di Cicno, riuscendo a tirarsi in piedi al primo tentativo solo ed unicamente grazie al sostegno del greco.
Quando si fu stabilizzata guardò suo fratello senza sapere cosa dire, sfinita dal pianto, dal dolore, dal tradimento.
 
Ma non ha tradito me. Ha tradito il voto dei medici, ma non me.
No, non mi ha tradita. Forse è stato l’esatto contrario. Non voleva combattere, non voleva schierarsi, voleva rimanere neutrale e invece ha preso posizione.

 
A quel pensiero Lea si rese conto che se Giuseppe fosse rimasto fedele alle sue idee, a quelle per cui avevano tanto litigato, forse non si sarebbero più rivisti, non davvero, non la sua vera anima. Se non avesse preso posizione, se non avesse deciso di combattere, seppur a modo suo, Giuseppe sarebbe stato destinato alle Praterie degli Asfodeli, condannato a perdere sé stesso e tutte le sue memorie.
Ma sarebbe stato così sbagliato? Avrebbe sofferto di meno a saperlo smarrito per sempre? Avrebbe preferito saperlo perduto?
Non lo sapeva, mentre guardava suo fratello per quella che sarebbe stata l’ultima volta, Lea non seppe dirsi se avrebbe preferito perderlo ma saperlo innocente, o averlo rivisto ma saperlo colpevole.
 
Ma sarebbe stato innocente se non avesse fatto nulla? Se avesse fatto il minimo, se non avesse preso una parte, una posizione?
 
Forse la sua coscienza sarebbe stata più tranquilla, ma con suo grande orrore Lea vide chiaramente come ciò avrebbe fatto del bene solo a lei.
Con un brivido di vergogna dovette ammettere a sé stessa che la cosa che la disturbava di più fosse il fatto che Giuseppe aveva agito dopo la sua morte, che si era schierato perché gli austriaci l’avevano uccisa: Giuseppe aveva preso posizione solo perché qualcosa l’aveva colpito direttamente, solo perché la sua famiglia ne era rimasta ferita, perché altrimenti sarebbe rimasto al sicuro nella sua piccola bolla, nel suo voto, nella sua “morale”.
Ma invece aveva agito e l’aveva fatto spinto dalla sua morte, per lei ma non per colpa sua.
Giuseppe sarebbe rimasto indifferente a tutto il conflitto, a tutto il dolore e la morte, se questa non avesse colto anche lei.
E se lei fosse stata viva, se fosse rimasta alla clinica, probabilmente avrebbe finito per curare i soldati austriaci ed i loro simpatizzanti, sì, ma non l’avrebbe fatto con piacere, forse non avrebbe alleviato le loro sofferenza, non avrebbe dato loro alcun palliativo, nessun antidolorifico. Avrebbe cucito le loro ferite con mano pesante, non sarebbe accorsa subito ai loro richiami, alle richieste d’aiuto, non li avrebbe consolati.
No, non li avrebbe uccisi, ma non avrebbe neanche sofferto per la loro dipartita. Soprattutto se avesse saputo che questi avevano ucciso i suoi concittadini.
Neanche lei si sarebbe schierata apertamente, in quel caso, non avrebbe avuto il coraggio di fare il passo finale.
No, Lea avrebbe preferito morire piuttosto che uccidere, ed era quello che aveva fatto.
Mentre Giuseppe aveva preferito uccidere piuttosto che rischiare la vita. Ed era quello che aveva fatto.
Guadò ancora suo fratello, ne studiò il profilo, i dettagli e le sfumature, le ombre, le cicatrici, i colori sbiaditi dal tempo, dalla morte e si rese conto di non averlo abbracciato, di non averlo fatto dal giorno prima della sua morte.
Con passi incerti si staccò da Cicno, avanzando verso Giuseppe, tendendo le braccia verso di lui.
L’uomo non perse un secondo, le si fece incontro con due passi ampi e Lea si ritrovò stretta al petto della stessa persona che le aveva insegnato tutto quello che sapeva, che le aveva dato una casa, uno scopo, una famiglia.
Chiuse gli occhi, inspirando a fondo, cercando una traccia del profumo che l’aveva contradistinto per tutta la vita, cercando di ricordare il calore del suo corpo, la solidità, la sicurezza che le dava abbracciare suo fratello e che le era stata portata via troppo presto.
Lea non aveva avuto una famiglia per tanto tempo, aveva passato gli anni più lontani della sua infanzia in un orfanotrofio, con le suore, sotto la protezione di una religione che non le apparteneva e che non l’aveva mai davvero protetta ma solo fatta sentire più inadeguata, più strana.
Poi suo padre le aveva mandato Giuseppe, o forse era più corretto dire che aveva mandato lei nella vita di Giuseppe e tutto era cambiato.
Trattenne il respiro, decisa a non piangere più. Non aveva senso, così come ora non ne aveva litigare su chi avesse la colpa di cosa. Lea non sarebbe mai potuta tornare indietro nel passato e sistemare le cose, non sarebbe mai potuta tornare indietro e decidere di rimanere in casa, di non entrare in quella stanza, di non curare quel giovane, di non cercare di far venire a ragione quel soldato, di non afferrare il fucile. Di non morire.
E Giuseppe non avrebbe mai potuto fare altrettanto.
L’uomo la strinse un po’ più forte e fece per allontanarsi, lasciandosi sfuggire una risata bassa quando la sorella cercò di ritrarlo a sé.

«È ora di andare, Lea, non puoi rimanere qui con me, devi finire la gara ed il tempo scorre.»
Le prese il volto tra le mani e la guardò con affetto, con la stessa luce con cui la guardava un tempo.
«Vai e vinci, va bene? Torna lì su e diventa dottore, fai del bene, ma soprattutto, vivi tutta la vita che non hai potuto vivere. Me lo prometti?»
Lea sentì il labbro inferiore tremarle ma lo strinse tra i denti pur di non farsi sfuggire un altro singulto. Annuì.
Giuseppe le sorrise. «Bon.» disse solo, l’accento così marcato nella sua voce da far scoppiare Lea a ridere, un po’ più leggera prima che il cuore le sprofondasse un po’ più in basso.
«Ora vai.»
Le diede una bacio in fronte, poggiandovi poi sopra la guancia per un attimo, abbracciandola di nuovo prima di lasciarla andare definitivamente.
Giuseppe fece qualche passo indietro e così fece anche Lea.
Stettero per un lungo momento a guardarsi, per l’ultima volta.
Un rumore ruppe il silenzio ed i due si voltarono verso gli altri semidei: Michael aveva gentilmente battuto il bastone della lancia a terra, chinando la testa a mo’ di saluto verso il fratellastro, che rispose con lo stesso cenno.
Lea si avvicinò a Cicno, continuando a fissare suo fratello finché non fu sulla soglia della porta, batté le palpebre un paio di volte, sorridendo mesta nel ritrovare sul volto di Giuseppe la stessa espressione che probabilmente appariva in quel momento sul suo volto.
 
«Addio, Giuseppe.» mormorò.
Lui sorrise. «Addio, Elena.»
Sorrise più ampiamente anche lei. «È Lea.» lo corresse, cercando di imitare quel tono che le era stato così naturale una vita fa.
«Lo so.»
 
Quando ebbe fatto l’ultimo passo fuori dalla stanza, Lea gettò uno sguardo al posio, alla pallottola, alla polvere mal disciolta che vi era sotto. I fuochi illuminavano entrambe facendole quasi brillare di luce propria ed Elena ebbe la sensazione che quella non fosse tanto la polvere con cui suo fratello uccideva i suoi pazienti, quanto quella che aveva ucciso lui.
Non gli chiese se si fosse suicidato, non gli chiese se i sensi di colpa ad un certo punto fossero diventati così insopportabili da avere la meglio su di lui. Non gli chiese, ancora, se si fosse pentito.

«Ti ho voluto tanto bene.» gli disse però.
«Spero troverai qualcun altro da amare così tanto.» le rispose lui
«Spero di ritrovare te.»
 


Cicno non disse nulla, ma percepì perfettamente il disagio di Michael, che si muoveva infermo da un piede all’altro, aspettando pazientemente nel corridoio.
Quando incrociò il suo sguardo il ragazzino fece una smorfia che forse voleva essere un sorriso. Cicno gli annuì in risposta, ma non proferì parola,
Non lo fece mentre Lea dava l’ultimo saluto a suo fratello, mentre camminavano silenziosamente per il tempio luminoso, invaso da musiche e suoni della natura.
Non le disse nulla mentre tutti e tre gettavano uno sguardo alle fontane, alle piante, agli strumenti musicali, ai bracieri in fondo alla navata che sfrigolavano come se qualcuno avesse buttato acqua sulle fiamme.
Non disse nulla mentre Michael apriva la porta e faceva, cavallerescamente e in modo decisamente esagerato, cenno a Lea di precederlo.
Non disse nulla mentre scendevano le scale e Jonas, seduto sugli ultimi gradini assieme a Cade e Jane, si alzava di scatto guardandoli sorridenti, sollevato. 
Non disse nulla mentre tutti gioivano, mentre Lea versava ancora qualche lacrima, forse di commozione, forse di dolore, ma sorrideva alle battute di Cade.
 
Non le disse che non avrebbe mai più incontrato l’anima di suo fratello, perché non era un concorrente, perché era un dannato ed i dannati non possono rinascere, i dannati possono solo soffrire e poi sparire.
Quella non era stata solo l’ultima volta che Lea aveva visto suo fratello, ma anche l’ultima volta in cui l’anima di Giuseppe Pozzi sarebbe esistita sulla faccia della terra e nelle profondità dell’Ade.
 
Un rivolo di fumo lieve uscì dalla sommità del tempio, da una canna fumaria che nessuno poteva vedere.
Era bianco, impalpabile, si disperse nell’aria facilmente, così come l’anima che era stato.
 


 
*
 



Eliza aveva voltato il capo non appena aveva sentito la voce esuberante di Cade chiamare il suo nome.
Anche a quella distanza non le era stato difficile vedere l’irlandese saltare sul posto, sbracciandosi, così come non le era stato difficile individuare nelle due figure vicino a lui Cicno e Lea. Ma chi era l’altra? La macchia arancione?

«Ehi.» chiamò Nathan dandogli una pacca sul braccio.
Il figlio di Apollo si girò verso di lei con un grugnito interrogativo, mentre continuava a fissare il gruppetto di semidei che aspettava, come molti altri, ai pedi del tempio di Poseidone.
«Sono usciti.» disse solo la donna afferrandolo e riportandolo indietro, verso il tempio di Apollo.
Nathan si voltò completamente, inciampicando sui suoi stessi passi prima di alzare il capo, mettere a fuoco quanto possibile la scena e riconoscere a colpo d’occhio un elemento di troppo.
«Chi cazzo c’è con loro? Abbiamo raccattato un altro randagio?» domandò accelerando il passo.
«Non saperi dirlo, ma forse è solo un altro figlio di Apollo che hanno incontrato nel tempio.»
L’altro annuì poco convinto, maledicendo già qualche divinità per avergli messo tra capo e collo un altro rompipalle, quando si rese conto di ciò che indossava il ragazzo, o forse ragazzino, ma da quella distanza era difficile dirlo. Eppure la maglia arancione spiccava abbastanza chiaramente e per quanto non potesse metter a fuoco i tratti somatici del suo viso, la sua mente riconobbe subito, nella macchia nera al centro della maglia, il logo del Campo Mezzosangue.
Una scossa lo pungolò, più si avvicinavano e più i suoi abiti sembravano moderni, dai jeans alle scarpe da ginnastica, dalla cinta al taglio di capelli, il visto sempre più chiaro.
Una scintilla di speranza gli si accese nel petto e Nathan si ritrovò quasi a correre verso i suoi compagni, verso quel nuovo arrivato, per poi frenare bruscamente non appena vide il volto di Lea.
Aveva pianto, su questo non c’erano dubbi, ed aveva dei segni rossi sulla fronte, sul collo, sulle braccia. Non erano ferite, non era stata di certo attaccata da qualcuno, sembrava molto più probabile che se li fosse fatta da sola, come se si fosse tirata i capelli, se si fosse afferrata con forza la maglia, graffiandosi il petto.
Non doveva esser decisamente andata bene, o meglio: doveva esser andata bene, perché la ragazza era lì fuori, ma doveva esser stata dura, doveva esser stato penoso.
Al suo fianco, tra lei ed il nuovo arrivato, Cicno pareva invece non esser stato minimamente turbato dalla prova e gli sorrise anche una volta arrivato abbastanza vicino.
 
«Cade dice che siamo stati i più veloci, vuoi provare a batterci?» gli chiese con una nota ironica nella voce.
Nathan gli prestò poca attenzione però, deciso a non cadere nella sua provocazione, voltandosi invece verso Lea.
«Che hai fatto? Chi hai visto?»
La giovane sussultò alla durezza del suo tono, ma provò ugualmente a sorridere.
«Mio fratello. Non proprio l’incontro che mi sarei aspettata.» ammise, poggiandosi a Cade quando questo le passò un braccio sulle spalle, tirandola a sé.
«Non è mai bello rivederli. È bello solo finché non ti ricordi che poi non li vedrai più.» concordò lui.
«È finito nei Campi di Pena.» continuò Lea, cercando di non guardare in faccia nessuno. «Ha uccido dei soldati e-»
«Ed era in guerra, ha fatto la sua scelta e questa non ha nulla a che vedere con te.» la interruppe Cicno freddo. «Ti prego di non ricominciare a fustigarti.»
«Te lo ha detto anche lui, no?» intervenne il ragazzo nuovo, sorridendole incoraggiante.
Lea cercò di fare lo stesso, annuendo. «Sì, me lo ha detto, ma credo mi servirà un po’ di tempo per scendere a patti con la realtà.»
«Se ha ucciso dei nemici in guerra, Lea, per quanto possa essere una cosa orribile, ha solo fatto il suo dovere.» le venne incontro Eliza. «Anche io e Nathan abbiamo ucciso, credo l’abbia fatto anche Cade.»
L’irlandese annuì. «Non ne vado fiero, ma lo rifarei per salvare la mia gente.»
«È così che funziona la guerra.»
«Non era proprio una guerra, era l’impero austriaco che stava prendendo il controllo di Milano…»
«Invasori, peggio ancora. Bastardi.» sputò secco Cade. «Ha fatto bene.»
«Era un medico, Cade, ha ucciso i suoi pazienti.» cercò di spiegare lei.
Nathan annuì. «Ha infranto il giuramento di Ippocrate, ha infranto un giuramento agli Dei e questo lo ha mandato dritto tra i traditori, vero?»
Ci fu un lungo momento di silenzio, poi Jonas si schiarì la voce, cercando di cambiare discorso, di alleggerire la situazione. «Te Cicno? Chi hai visto?»
Lo sguardo che tutti gli rivolsero, in tandem, fece immediatamente rimpiangere al ragazzo anche d’aver aperto bocca.
Giusto, sua madre era morta secoli orsono e il suo amato l’aveva tradito, non c’era poi molta scelta.

«Nessuno.»
Quella risposta però non se l’aspettava nessuno.
Cicno accennò un sorriso. «C’era un cingo morto, molto significativo. L’unico umano che ho incontrato è stato Michael.»
A quelle parole tutta l’attenzione si concentrò sul nuovo arrivato e questo si schiarì la voce, drizzando la testa un po’ impacciato.
«Salve.» disse solo portando le braccia dietro la schiena, quasi a nascondere la sua lancia scintillante e decisamente difficile da ignorare.
Cade batté le palpebre senza sapere cosa dire, poi gli sorrise: «Che hai fatto per aver la fortuna di conoscere il nostro angioletto?» chiese gentile.
Michael gli sorrise a sua volta. «Oh, veramente l’ho incontrato prima della prova di Ermes! Era un po’ schivo ma molto gentile e poi ha fascino mio fratello, vero?» disse prendendo un po’ di confidenza e dando di gomito a Cicno.
Il greco scosse la testa divertito. «Grazie del complimento, fratello, posso dire che anche la tua presenza non mi è sgradita.»
Il ragazzino si portò una mano al cuore, teatralmente ferito. «Ah! Che colpo! Io ti dico che sei affascinante e tu mi dici che non ti sono sgradito.»
Cade sorrise più ampiamente a quel teatrino. «Mi sta simpatico!» affermò rivolto verso gli altri. «Mi stai simpatico!» ripeté guardando il ragazzo. «Sei arrivato fino a qui da solo? Hai un’arma vedo, quindi devi saper combattere bene per aver superato tutte le prove!» gli chiese con entusiasmo.
Michael annuì e poi scosse la testa. «No, sì, insomma! No, non sono arrivato fino a qui da solo, ma sì, so combattere, sono stato addestrato al Campo Me-»
«Che anno?» Nathan lo interruppe velocemente, le mani strette a pungo lungo i fianchi.
«Cosa?» domandò quello senza capire.
«In che anno. In che hanno ti hanno addestrato o sei stato al Campo o quando sei morto, da che anno vieni?»
Michael aggrottò le sopracciglia. «Sono morto nel 2012, sono stato al Campo dal 2005 fino alla mia morte.»
Il figlio di Ares parve illuminarsi di colpo.
«Quindi sai della profezia?» gli chiese concitato. «Sai se si è già avverata? Se succederà a breve? Hanno formato una squadra per poter-»
«Wo-wo-wo! Calmo.» lo bloccò subito Michael. «Troppe cose tutte insieme e una che ha meno senso dell’altra.»
Nathan si morse la lingua per non rispondergli male, per non dirgli che forse era lui quello che non aveva senso o qualche frase carica di cattiveria che un ragazzino probabilmente poco più grande di Jonas non si meritava, specie da uno sconosciuto e dopo aver affrontato una prova in cui aveva sicuramente incontrato un parente che non vedeva presumibilmente da prima di morire.
Prese un respiro profondo: doveva sapere, doveva avere delle risposte ed era pronto a mandar giù più di un rospo per farlo.
«Hai ragione, scusa.»
I suoi compagni lo guardarono sorpresi, ma lui li ignorò.
«Sono Nathan Wright, figlio di Ares. Sono morto nel ’66 e so che l’Oracolo ha fatto una delle sue profezie, rivolta ad una bambina, si chiamava Olivia.»
«Nathan, dal 1966 al 2012 sono passati qualcosa come cinquant’anni.» provò a fargli notare Jonas dopo essersi fatto un calcolo veloce.
Diamine, erano arrivati all’anno 2000? Come suonava strana quella data.
L’uomo però lo ignorò, scuotendo il capo. «Le profezie ci mettono sempre un botto a realizzarsi, la bambina aveva quasi due anni.» insistette lui.
Michael però non disse nulla, osservandolo curioso, come se si aspettasse altre parole, più dettagli.
«Era proprio sulla bambina, riguardava lei.» continuò, una vena d’ansia nella voce.
Il ragazzo batté le palpebre, sinceramente confuso.
«Perdonami, ma cosa ti fa pensare che ci sia una sola profezia alla volta e, senza offesa, cosa ti fa pensare che quella bambina fosse così importante da valere la vita di una squadra o anche solo d’esser tramandata? Forse se mi dici di cosa parlava posso anche darti una mano, ma non è come se avessimo un libro mastro con tutte le profezie dette nel corso del secolo. O meglio, abbiamo un libro su cui appuntiamo le profezie, ma solo da Rachel in poi, non abbiamo quelle del passato, o almeno non ce n’era uno finché ero in vita io.» cercò di spiegare, come se trovasse davvero assurda quella domanda, quella richiesta.
 
Nathan si sentì d’improvviso mancare le forze, come se gli avessero appena gettato una secchiata d’acqua gelata addosso dopo aver corso per ore sotto il sole.
Fissò Michael come se non lo vedesse, nella sua testa rimbombava solo una frase:
 
“cosa ti fa pensare che quella bambina fosse così importante?”
 
Cosa glielo faceva pensare? Perché aveva creduto che qualcuno, là su, si sarebbe preoccupato per la profezia di Olivia, che si fosse preso la briga di fare qualcosa, di agire, di impedire che si realizzasse.
 
Perché era importante per me, perché è importante per me.
 
«C’è stata la Grande Profezia, quella dei figli dei tre fratelli. C’è stata quella su- beh, da quel punto in poi c’era quel povero sfigato e e ne abbiamo avute a bizzeffe di profezie, ricordarsele tutte è un po’ difficile. Ed è anche cambiato l’Oracolo, è arrivata Rachel, c’era un botto di casino, eravamo in guerra… eravamo davvero in una situazione complicata al tempo. Cavolo, se penso che sono sopravvissuto a due grandi guerre per morire in missione, dopo aver affrontato l’esercito di Kronos e gli altri…» mormorò con sguardo perso. Tornò a guardare Nathan. «Mi spiace, ma no, non so dirti nulla. Non so dirti neanche se sia viva o meno, non ci sono persone così grandi al Campo o- o per lo meno non ce ne erano quando c’ero io.»
Calò di nuovo il silenzio e Michael gettò uno sguardo dispiaciuto a Cicno, come se si fosse improvvisamente reso conto di quanto avesse detto, di quante domande e possibili problemi aveva appena scatenato.
Cicno però scosse il capo. «Ti ringrazio per la tua franchezza, Michael.»
«Sì, te ne siamo grati. Io sono Eliza, comunque, figlia di Nike.» parlò la donna offrendogli la mano. «Lei è Jane, figlia di Ecate.» indicando l’altra che fece appena un cenno con la testa. «Cade.» indicò ancora.
«Figlio di Eolo, purtroppo.» gli strinse la mano anche lui.
«Io sono Jonas, figlio di Pothos. Non so se…»
«Ah, il dio del rimpianto d’amore!» gli strinse la mano sorridendo, senza però riuscire a non guardare la collana di filo spinato che gli brillava al collo.
Conscio di quello sguardo Jonas si portò una mano al monile, sorridendo impacciato.
«Perdonami, mi rendo conto di non essermi presentata: io sono Lea invece.» si presentò con voce lieve la ragazza.
«Lo so, ma piacere comunque.» poi ondeggiò un po’ sui talloni. «Beh, se non vi dispiace, io andrei. Ci sono i miei amici impegnati in altri templi e vorrei vedere se qualcuno ne è uscito di già o se sono il primo.» disse un po’ imbarazzato. «A meno che… non abbiate altre… domande?» chiese strascicando le parole, con lentezza, guardando Nathan in attesa di risposta.
Il figlio di Ares però scosse il capo, svuotato da ogni energia.
Fu Eliza a farsi di nuovo avanti, posando una mano sulla spalla di Nathan e sorridendo educatamente a Michael.
«Non ti tratterremo oltre, grazie ancora. Non so se augurarti di rivederti in finale o meno, visto che allora saremo nemici, ma auguro ugualmente a te e ai tuoi amici di avere il favore di mia madre.»
Michael le sorrise, sollevato d’esser stato finalmente dismesso. «Grazie, che Nike sia con voi.»
Poi si volse verso Cicno. «Alla prossima, fratello.» disse prima d’abbracciarlo.
I ragazzi si irrigidirono, presi alla sprovvista da quel gesto, dal modo in cui strinse entrambe le braccia attorno alle spalle e al collo del greco, costringendolo a quella posa per un lungo momento. Ma con altrettanta sorpresa guardarono il loro compagno ricambiare la stretta, piegando il volto contro i capelli del fratellastro.
 
«Stai attento, hai la lingua troppo lunga.» gli sussurro.
Michael ridacchio, pronto ad allontanarsi, ma Cicno lo trattenne ancora un momento.
«Ricordati di venirmi a cercare se avrai bisogno di cure. Tu o i tuoi compagni, capito?»
A quello il ragazzo deglutì un groppo che non sapeva d’aver bloccato in gola ed annuì.
«Grazie.» disse ad alta voce.
Cicno lo lasciò andare.
«È stato un onore.» rispose solo.
Michael fece un ultimo saluto a tutti, tentennando per un momento su quell’ultimo gradino, prima di saltare giù con un balzo innecessario ma allegro e correre verso il tempio di Ermes, dove un ragazzo biondo, in piedi sugli scalini vicino ad una macchia scura rannicchiata ai suoi piedi, l’attendeva muovendo un braccio per farsi individuare facilmente.
Cicno lo guardò andare via e non distolse lo sguardo finché non poté più distinguere i suoi passi da quelli delle altre anime presenti, finché non fu sufficientemente vicino ai suoi amici.


«Hai una strana abitudine d’attrarre gente, te.» disse Jane rompendo il silenzio.
Cicno la guardò accennando un sorriso. «Hai sentito cos’ha detto Michael, sono affascinante.»
«E stai anche iniziando a prendere il mio senso dell’umorismo.» saltò su Cade scuotendo leggermente Lea, come a voler attirare la sua attenzione su quella nuova conversazione.
La figlia di Apollo però non rispose, limitandosi a sorridere prima di allungare lentamente la mano verso Nathan.
L’uomo stava ancora fissando il vuoto, ma si rese conto subito del movimento e fece scattare gli occhi su quell’arto pallido e tremante.
Quando incrociò lo sguardo di Lea non disse nulla, non ce n’era bisogno. Lei era l’unica che sapeva, che aveva sentito cose, che aveva addirittura parlato con la sua Lucy, con sua madre. Lea sapeva perfettamente chi era Olivia e, a questo punto, dubitava fortemente che gli altri non ci fossero arrivati.
Allungò la mano a sua volta, stringendo con meno forza del solito quella della compagna.
 
«Mi spiace per tuo fratello, ma è stato coraggioso anche a fare ciò che ha fatto. Uccidere non è mai piacevole, ma alle volte è nobile e giusto.» sussurrò quasi.
Lea annuì. «Spero di imparare ad accettarlo.»
«Lo spero per te.»
«Se dovessi tornare io su-» continuò lei, «Se dovessi vincere io, ti prometto che andrò a cercare Olivia, ovunque sia. Lo giuro sullo Stige.»
La stretta si rafforzò di colpo e Nathan si ritrovò a sorriderle, infinitamente grato per quella promessa così seria, così concreta, fatta nonostante entrambi sapessero che le speranze che Lea vincesse fossero davvero esigue.
«Grazie.»
 

Gli altri li osservarono senza intromettersi, senza sapere cosa fare, cosa dire.
Jonas si sporse leggermente per riuscire ad intercettare lo sguardo di Cicno, che scosse la testa lievemente, come a volergli dire di lasciar perdere. Il ragazzino però tentennò, stringendo le labbra in una linea piatta, a disagio per quel momento di condivisione in cui si sentiva un intruso, in cui sentivano tutti come intrusi.
Attorno a loro non c’erano mai state così tante anime, così facilmente distinguibili e tutte così apparentemente pacifiche ed innocue. Era come se si trovassero tutti a partecipare ad qualche gioco da fiera, ognuno preoccupato solo dei suoi amici e dei propri risultati. Ma Nathan e Lea, davanti a loro, che si stringevano la mano promettendo di andare a cercare questa Olivia, risaltavano come una macchia scura su di un lenzuolo.
Non ci voleva un genio per capire chi fosse lei: una bambina che aveva due anni nel ’66, l’anno in cui era morto Nathan e a cui il figlio di Ares teneva particolarmente. Avevano da poco avuto conferma che fosse stato effettivamente sposato, non era difficile immaginare che oltre ad una moglie Nathan avesse avuto anche una figlia.
Si ritrovò quindi a ripensare od ogni comportamento, ad ogni parola, a domandarsi se le sue azioni ed i suoi pensieri non fossero stati dettati anche dall’essere un padre. Ma forse due anni erano troppo pochi, la bambina era troppo piccola ed era per questo che all’inizio gli era risultato così difficile interfacciarsi con lui, perché era un adolescente e non un infante.
Si domandò anche cosa sarebbe successo se Nathan avesse effettivamente vinto e fosse tornato sulla terra, lui venticinquenne e la figlia ormai sessantenne.
 
Se l’anno in cui quel Michael è morto è quello in cui ci troviamo ora o se comunque non è passato molto tempo, perché per quanto ne sappiamo noi potrebbero essere passati anche cent’anni e la figlia di Nathan potrebbe essere morta.
 
Ma oltre a questo, quante profezie venivano fatte? Cosa significava veramente? Cosa intendevano per “oracolo”, quanti ce ne erano, come funzionava?
Jonas si rese conto di sapere ben poco del mondo semidivino, di cosa l’avrebbe aspettato se fosse riuscito a tornare in vita e per una frazione di secondo si domandò se ne sarebbe davvero valsa la pena.
Guardò Cade che se ne stava fermo alle spalle di Lea, Jane che teneva lo sguardo fisso sulle mani intrecciate dei loro compagni. Eliza che osservava con attenzione i loro volti e Cicno-
Cicno che fissava qualcosa che brillava ad intermittenza sul palmo della sua mano.
Lo vide muovere leggermente l’arto, lasciando che la luce proveniente dal tempio di suo padre facesse riverbero sull’epidermide tiepida e venata.
C’era una sottile linea gialla, o forse d’oro non riusciva a capirla, che appariva e scompariva a seconda di come muovesse la mano. Sembrava che il greco stesso non capisse cosa fosse e come se la fosse procurata e con disinvoltura provò a grattarla via con un’unghia. Il palmo d’arrossò lievemente e piano piano divenne tutto rossastro, emanando un leggero bagliore proprio come aveva fatto tante prove fa.
Sembrò che quella mosse avesse funzionato perché Cicno si sfregò le mani e riportò la sua attenzione sugli altri.

«È giunto il momento di andare. L’ultimo a dover affrontare il tempio del suo divino padre sei tu, Nathan.»
Lea gli strinse un’ultima volta la mano, cercando di sorridere incoraggiante.
«Tocca a te, forse potresti incontrare Lucy, potrebbe dirti qualcosa lei.» provò a suggerire.
Nathan scosse la testa. «È rinata, lo sai perfettamente.»
«Úranus aveva visto suo fratello, il suo vero fratello. C’è speranza.» lo corresse subito Cade.
«Non voglio illudermi.» affermò duro.
«Allora non farlo, credi solo alla logica.» intervenne Eliza. «Se tua moglie ti dirà di rinascere con lei o per Olivia, saprai che non è la sua vera anima. Se ti dirà di tornare su per lei, allora sarà quella vera e forse potrà darti notizie.»
«Non vorrei distruggere le vostre speranze, ma se l’anima che Nathan incontrerà gli potrà dire qualcosa sulla sorte di questa donna, allora molto probabilmente non sarà altro che un’illusione.»
Cicno lo disse con tono piatto, fermo, guardando fisso negli occhi Nathan.
«La morte non ci dona l’omniscienza e se le anime che ti compariranno avranno informazioni sulla tua vecchia vita non saranno vere. Sono morte prima o dopo di te?»
«Lucy prima, mia madre dopo.»
Cicno annuì. «Forse l’anima di tua madre potrà saper qualcosa, se la profezia si è avverata quando lei era ancora in vita, ma per tua moglie non c’è speranza che sappia qualcosa che tu ignori. Ricorda le mie parole.»
Jonas si torse le mani, giocando con il vecchi laccio del suo polso. «Magari possiamo fare una pausa, no? Mi sembra che siamo tutti un po’ tesi…»
«No.» disse imperioso Cicno. «Non abbiamo tempo da perdere quando ne abbiamo già sprecato abbastanza.»
«Le nostre prove sono state una perdita di tempo, per te?» chiese Jane sarcastica.
«Le vostre? No. Ma se non fosse stato per Lea, il tempo che ho impiegato io nel tempio di quel maledetto sarebbe stato assolutamente inutile. Non c’era scelta per me.»
«Non è stato una perdita di tempo, non dire così, hai affrontato-»
«Nulla, Eliza. Non ho affrontato nulla, ho solo soccorso Lea e questa è l’intera utilità della mia prova. Sono un dannato di millenni fa, il mio lignaggio è finito con me, non ho discendenti, non ho amici o famiglia, il mio mondo non esiste più. Non c’è nessuno per cui potrei decidere di rinunciare alla gara.»
A quello Eliza non seppe cosa rispondere, le parole gli erano parse più dure del dovuto, come caricate di un’improvvisa rabbia senza motivazione.
Annuì però, intuendo quando dovesse esser stato frustrante, quanto forse sentir loro parlare di famiglia, di speranze, fosse doloroso per lui.
«Va bene, se Lea e Nathan se la sentono, muoviamoci.»
Jane si lasciò sfuggire un suono di scherno. «Siamo sicuri che il soldatino non cada? È più pallido della prima volta che l’abbiamo incontrato.»
Nathan le ringhiò contro come l’animale che era, lasciando scivolare la mano dalla presa di Lea e fronteggiando la figlia di Ecate.
«Ti sei vista allo specchio ultimamente?»
«No, non ne ho mai avuto uno, in verità.» lo freddò lei.
«E con questo rompiamo di nuovo il ghiaccio! Perché ho la sensazione che il tempio di Ares sia quello rosso?» d’intromise Cade passando di nuovo un braccio attorno alle spalle di Lea a tirandola a sé.
«Forse perché è dello stesso colore della faccia di Nathan quando si arrabbia?» gli diede manforte Jonas, nascondendosi però leggermente dietro all’irlandese.
Il soldato li fulminò entrambi, mandandoli allegramente a quel paese, dandogli poi le spalle ed incamminandosi verso il tempio del padre.
«Muovete il culo.»
«Frena il cavallo, biondastro, qui c’è qualcuno che ha appena finito la sua prova ed è stanca, vero Lea?»
«Sono un po’ provata emotivamente, ma fisicamente penso di stare bene.»
«Non come Elza che è uscita allucinata, neanche si fosse fatta d’oppio!»
«Tappati quella bocca, Cade!»
 
 
Ancora una volta si incamminarono tutti battibeccando verso la loro nuova meta, cercando di non pensare ai propri problemi, alle proprie preoccupazioni, al dolore e alle vite che si erano lasciati alle spalle o che si sarebbero lasciati a breve.
Cicno lì seguì chiudendo la fila come faceva sempre, abbassando di nuovo lo sguardo sul palmo della sua mano sinistra, lì dove, a seconda del riverbero della luce, brillava fioco un filo d’oro, di quello stesso oro in cui era andando in frantumi il cigno morto.
L’ago vibrò leggermente, trasmettendogli una strana sensazione sotto cute.
Con malcelato orrore Cicno osservò l’oggetto sprofondare di più nella sua carne per poi schizzare veloce lungo il suo braccio, animato di volontà propria, scorrendo sotto la pelle, tra le fasce muscolari e le vene che pulsavano all’impazzate per l’improvviso spavento.
Riuscì a seguirlo con lo sguardo fino a dove la manica della maglia non lo copriva e le sue paure si fecero vere quando avvertì come una puntura al cuore, una stilettata, un dolore intercostale acuto e lampante che si collocava verso il centro del petto, ad una profondità tale da poter esser solo quell’organo vitale che ormai non pompava più sangue.
Si portò di scatto la mano al cuore, ingoiando il sapore di bile che gli era risalito in gola e battendo velocemente le palpebre per scacciare le lacrime dovute all’acredine che gli pungolava la lingua.
Se quello era davvero uno degli aghi del cigno e se il cigno era davvero un segno del suo padrone, allora significava che questo aveva appena stretto una mano al centro pulsante del suo corpo, un centro che non avrebbe dovuto funzionare, malgrado le regole assurde ed incomprensibili della Death Race, malgrado il sangue che sgorgava dalle ferite, il fiato che mancava loro dopo una corsa.
Controllò che gli altri non si fossero accorti di nulla, che Jonas e Cade fossero concentrati su Lea, che gli altri non potessero vederlo.
Che diamine stava succedendo? Perché tutto così d’improvviso? Prima la stretta al collo e ora questo? La sensazione dell’ago che gli scivolava sottopelle non sembrava volersene andare, era continua, insopportabile, come d’insetti che gli camminavano addosso, voleva strapparsi il braccio, voleva vomitare.
Cercò di prendere dei respiri profondi, tremanti, premendosi per un attimo la mano alla bocca, cercando di capire perché, cosa fosse appena successo, se anche Michael e i suoi altri compagni avessero tutti vissuto la stessa sorte.
Sentì come un tonfo, un colpo in pieno petto che lo fece ondeggiare: che questo significasse che ora il suo Signore poteva controllarlo anche nel corpo, che il loro patto non era più solo verbale ma anche fisico? Ma cosa se ne poteva fare un essere così potente del corpo evanescente di un’anima come lui? Cosa aveva in mente? Era stato davvero lui?
Per anni, per tutta la sua vita le persone avevano bramato il suo corpo, desiderando averne disposizione a proprio piacimento ed ora, dopo secoli di torture, quando credeva di aver finalmente recuperato il completo possesso delle sue membra, qualcuno lo legava come un fantoccio? L’essere che gli aveva promesso libertà e vendetta lo rilegava in una gabbia? Era questo che stava succedendo?
Perché? Cos’era quella strana sensazione che lo scuoteva, che faceva tremare ogni suo passo, ogni suo movimento? Cos’era quella vibrazione che dal braccio si era spostata al centro del petto, al suo intero corpo? Era forse l’ago d’oro che continuava a muoversi dentro il suo torace come una scheggia impazzita in una giara?
Fece scivolare la mano dalla bocca al petto, stringendo la stoffa spessa della maglia che Nathan gli aveva prestato, sentendo la mano tremare ritmicamente, con costanza.
 
Erano arrivati ormai a pochi passi dal tempio di Ares quando Cicno, d’improvviso, capì cos’era appena successo.

 


Il suo cuore era tornato a battere.
   
 
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