Salve, lettori.
Lo so, è passato molto tempo dall’ultima
volta e forse vi siete anche dimenticati dove eravamo rimasti… ma eccoci di nuovo
qui.
Come ultima cosa, prima di
lasciarvi alla lettura, mi voglio scusare con voi per l’enorme ritardo con cui
torno a pubblicare.
A più tardi, nelle note a fine
capitolo ;)
In the still of the night
46.
La
nascita del piccolo Finnick ha portato un’ondata di gioia e positività in tutto
il Distretto 12. Nei giorni successivi non si fa che parlare d’altro, persino
mentre attraverso la zona delimitata dai cantieri per raggiungere la recinzione
sento il vociare allegro di chi commenta la notizia. La nascita del bambino non
fa altro che rimarcare ciò che fino ad ora abbiamo solo intuito: che dopo la morte
e la guerra, c’è ancora lo spazio per la rinascita e la felicità.
È
più o meno il concetto che il dottor Aurelius mi suggerisce almeno una volta
durante le nostre sedute telefoniche, e me lo ricorda anche adesso che stiamo
per giungere al termine dell’ora.
Le
nostre sedute si svolgono tramite telefono, data la mia impossibilità di
lasciare il Distretto 12, e grazie al piccolo schermo di cui è dotato
l’apparecchio, molto in voga a Capitol City, riusciamo quasi ad illuderci di
trovarci insieme nella stessa stanza. Aurelius, l’aria allegra e spigliata
caratterizzata anche da un paio di occhialini rotondi e da un papillon
colorato, si trova nel suo studio a Capitol City; io, invece, sono nella stanza
che Peeta ha da tempo scelto di adibire a laboratorio di pittura.
Il
mio terapeuta, dopo aver inserito in mezzo al discorso l’arrivo del piccolo
Odair, mi chiede se non sia rimasta felice per la sua nascita. Tutta Panem è
felice, ma dalla faccia che ho assunto, a suo dire, sembro l’unica scontenta.
Ma non è così.
-
Sono contenta, sì. Ovvio che sono contenta…
-
Ma? Sento che c’è un “ma”, nella tua frase, che cerca di nascondersi – aggiunge,
sporgendosi verso lo schermo.
-
È triste, Aurelius – dico. Distolgo lo sguardo dallo schermo per posarlo
sull’angolo della scrivania. – Finnick… il bambino crescerà senza suo padre. È
triste crescere senza padre. Io ci sono passata, so cosa si prova.
-
Già, è triste – commenta, annuendo con la testa. – E non sarà neanche facile,
non posso negarlo. Lo hai appena detto, cara: crescere senza un padre accanto è
una dura sfida… ma noi non dobbiamo mai sottovalutare il bagaglio di ricordi
che ci trasciniamo dietro. Finnick non avrà accanto suo padre, ma Annie gli ha
dato il suo nome proprio per non farglielo mai dimenticare. Ed il piccolo avrà
sua madre accanto, e tantissime altre persone che potranno raccontargli che
grande uomo era suo padre. Gli spiegheranno il motivo per cui non è con lui, e
capirà.
Se
ne esce poi con una domanda posta quasi a bruciapelo che mi fa rabbrividire. È
quel genere di domanda che, finora, non mi ha mai posto e che ho temuto con
tutta me stessa potesse accadere da un momento all’altro. Quel momento è
arrivato, alla fine, e non potrebbe essere altrimenti dato il tipo di argomento
che abbiamo appena affrontato.
-
Quando proverete di nuovo ad avere un bambino?
Mai.
Ecco quando: la risposta è semplice ed immediata, ma non la esprimo ad alta
voce. Lascio che Aurelius la intuisca dal mio viso e dalla mia espressione. E
la intuisce, lui, perché sposta le mani dal suo pancione coperto dal panciotto
colorato e si toglie gli occhialini, sfregandosi le palpebre con le dita.
-
Dovevamo affrontare lo scoglio, Katniss, prima o poi. Lo scopo della terapia è
proprio questo, d’altronde: devo aiutarti ad affrontare il passato e… non
osare riagganciare, signorina. Allontana subito quel dito.
Aurelius,
nonostante si sia tolto gli occhiali, ha notato la mia mano che si è avvicinata
alla tastiera per premere il tasto che avrebbe interrotto la chiamata.
Sentendomi come una bambina appena colta a rubare dal barattolo dei biscotti,
ritraggo la mano. Lui inforca di nuovo gli occhiali e torna a sorridere.
-
Dicevo, cara Katniss, che evitare di affrontare la balena bianca non può far
altro che aggravare la situazione. Sarà sempre più ostico, dopo. Quindi, ti
rifaccio la domanda e vorrei che tu mi rispondessi sinceramente: tu e Peeta quando
proverete di nuovo ad avere un figlio?
-
Non voglio avere figli – rispondo di scatto.
-
Perché no?
Stringo
le labbra. Quando vede che continuo a non rispondere, inizia ad affrontare il
silenzio nel modo in cui faceva sempre durante le nostre prime sedute, quando
io non aprivo bocca e mi limitavo ad ascoltare i suoi lunghi monologhi. Un’ora,
due ore… alla lunga diventava snervante, ed alla fine ho ceduto. Ho parlato. Stavolta
però torno indietro, torno a chiudermi nel mio silenzio e lo lascio discutere
come se fosse da solo nella stanza. È normale avere paura, dice, è normale
essere spaventati e addolorati per ciò che è accaduto, ed è naturale crearsi
una corazza per cercare di proteggersi da tutto questo. Ciò che non è normale,
però, è cercare di precludersi la felicità futura per ciò che è successo nel
mio passato.
-
Sai, non sei la prima paziente che ho avuto in terapia per la perdita prematura
di un figlio… – confessa Aurelius. Sono l’unica che ha perso un figlio non
ancora nato per colpa degli Hunger Games, però, penso mentre Aurelius
continua il suo monologo. – Ne ho seguite molte, in verità, e a tutte loro ho
dato un consiglio. Uno solo, ma sufficiente ed efficace, al contrario di tanti
altri che con portano a niente. È lo stesso consiglio che sto per dare anche a
te.
Il
consiglio che Aurelius dà a me, e a tutte le altre donne che hanno affrontato
il mio stesso lutto, è riprovare ad avere un figlio.
-
Perché? – chiedo, uscendo dal mutismo. – Per rimpiazzarlo?
-
No, Katniss – si affretta a dire lui. – Non per rimpiazzarlo, no. Nessuno può
rimpiazzare un figlio. Per sopravvivere.
Sopravvivere.
Dopo
quella seduta, Aurelius non è più tornato sulla questione ed io mi sono
guardata dall’accennarla anche solo per sbaglio. La questione è rimasta in
sospeso. In sospeso, ma non di certo dimenticata. Anzi, ha sorbito l’effetto
contrario: non riesco a dimenticarla. Continuo a riflettere su ciò che mi ha
detto anche ora che sono passati giorni da quella seduta, quasi intere
settimane ormai. Aurelius ha messo un tarlo nella mia mente difficile da schiodare
via.
Ed
è ancora più difficile distogliere l’attenzione dal tarlo quando, con l’arrivo
dell’ultimo treno, giungono diverse lettere. Una di queste, indirizzata sia a
me che a Peeta, ce la manda Annie: dentro la busta ci sono diversi fogli scritti
a mano e una fotografia. È la prima volta che osserviamo il volto del piccolo
Finnick ed è un colpo al cuore, perché è dannatamente simile a quello del suo
papà. Di diverso ha solo il colore dei capelli, più scuri come quelli della sua
mamma. Nella foto, Annie lo tiene in braccio e sorride all’obiettivo mentre lui
dorme.
Peeta
è costretto a ripetermi più volte una frase, contenuta nella lettera, quando distogliere
gli occhi da quel visino addormentato diventa praticamente impossibile. Una
strana sensazione mi invade le viscere.
-
Annie dice che Johanna le sta dando una mano col bambino.
Povero
bambino!, penso. Ma nonostante l’ilarità nell’immaginare una
Johanna alle prese con un neonato, il tarlo resta. Diventa più grande, anzi.
E
lo diventa ancora di più quando, una decina di giorni dopo l’arrivo della
fotografia, anche al Distretto 12 si inizia a respirare un’aria colma di gioia:
anche il Distretto 12 accoglie un nuovo nato.
I
neogenitori sono Alec, un ragazzo del Giacimento che ho sempre e solo
conosciuto di vista, e Labela, che invece proviene dal Distretto 13. La loro
assomiglia ad una storia da fiaba: si sono conosciuti un anno fa, quando il 13
accolse gli sfollati provenienti dal 12. Labela ed Alec si incontrarono subito,
dato che lei faceva parte del gruppo incaricato di accoglierli e di mostrare i
loro nuovi alloggi, e tra loro scattò il tanto criticato “colpo di fulmine”. Si
sono sposati dopo nemmeno due mesi… e dopo nemmeno un anno di matrimonio, è
nato il loro primo figlio.
Io
e Peeta andiamo a trovarli a casa loro due giorni dopo la nascita del bambino.
Abitano a cinque case di distanza dalla nostra, nel Villaggio dei Vincitori, e
sono stati alcuni dei primi abitanti a tornare qui. Alec è voluto tornare, e
Labela lo ha seguito. Per lei è stato un cambiamento notevole, dato che ha
abitato per la maggior parte della sua vita nei livelli sotterranei del
Distretto 13, ma non tornerebbe mai indietro. Una vita all’aria aperta è tutto
ciò che aveva desiderato: quello, ed ovviamente mettere su famiglia.
La
mamma di Alec ci accoglie sulla porta, felicissima di essere diventata nonna e
di guidarci nel salottino dove si trova sua nuora. Ci dice che Alec è già
andato al lavoro, giù ai cantieri. Labela, nonostante accusi i segni della
notte passata insonne, non smette di sorridere.
-
Non fatevi ingannare da questo faccino dolce: non ha fatto che urlare per tutta
la notte – ci dice, riferendosi al figlio che dorme, beato, con la testa posata
contro il suo seno.
Peeta
è il primo ad avvicinarsi a lei per osservare meglio il nuovo arrivato; i suoi
occhi sorridono forse più delle sue labbra, incantato da ciò che vede. Io
rimango in disparte, incerta, con le mani ancora impegnate a sorreggere il
cesto pieno di pane e dolci che Peeta ha preparato per Labela. Sento di nuovo
quella strana sensazione al basso ventre, quella che ho provato quando ho visto
la foto del piccolo Finnick, solo che stavolta è più forte. Ed è ancora più
forte, quasi fastidiosa, quando Labela mi chiede se voglio prendere in braccio
il suo bambino.
Labela
dice che pesa più di quattro chili, ma quando lo posa sulle mie braccia sembra
non pesare niente, ed è così profondamente addormentato da non accorgersi di
non essere più accanto alla madre. La sensazione è più forte, ora, ma passa
inosservata, surclassata da un senso di disagio e di irrequietezza. Ho paura di
farlo cadere, ma so che non potrebbe mai accadere: non potrei mai fargli del
male. Non potrei mai, mai fare qualcosa di male ad un bimbo così
piccolo. I capelli neri gli ricoprono tutta la testa ed è buffo, perché ne ha
tanti… tantissimi. Ed ha le ciglia scure. Sorrido, estasiata. E capisco cos’è
che rappresenta la strana sensazione che sento alle viscere.
Desiderio.
E
desiderio è anche ciò che mi suggerisce lo sguardo di Peeta, fisso su di me che
stringo in braccio il figlio di Labela e Alec.
Lo
sguardo di Peeta è il motivo principale che mi spinge a trascorrere il resto
della giornata nei boschi, al di là della recinzione, ma non è l’unico. Ho
bisogno di fare chiarezza sulla marea di sensazioni che mi hanno avvolta, sul
desiderio che ho capito essere vivo e acceso, bruciante, dentro di me,
nonostante i miei ostinati tentativi di reprimerlo, e devo fare chiarezza sul
tarlo che il dottor Aurelius ha voluto fissare nella mia mente. Devo essere da
sola per fare chiarezza, devo prendermi il mio tempo, e forse una giornata
intera non sarà sufficiente per venire a patti con me stessa.
Non
lo è, infatti.
Torno
a casa dopo ore di solitudine, quando l’ora di cena è passata da un bel pezzo,
quando il sole è ormai tramontato ed il cielo è acceso di arancio vivo,
quell’arancio che presto diventerà blu con l’avanzare della sera. È l’arancio
che piace tanto a Peeta, quello dei tramonti. È il suo colore preferito.
La
cucina è accesa di arancione quando entro, carica delle mie armi e del peso
della sacca di tela piena di scoiattoli; due conigli pendono dalla cintura dei
pantaloni. Poggio il bottino di caccia sulla parte di tavolo rimasta libera,
quella non occupata dall’impasto del pane che Peeta sta lavorando. Lui mi
osserva, attento ad ogni mio movimento; posa lo sguardo sui conigli e sugli
scoiattoli mentre sparge dell’altra farina sull’impasto.
-
Ti ho lasciato la cena in caldo – dice.
-
Grazie. Faccio prima una doccia, però – è stata una giornata calda, ed io mi
sono mossa molto. Ho camminato molto per schiarirmi le idee, eppure non ho
ottenuto il risultato sperato. Se possibile, sono ancora più confusa di prima.
Passo
accanto a Peeta per raggiungere le scale e la sua mano mi blocca, prendendomi
per un braccio. – Stai bene? – chiede.
Annuisco.
-
Se c’è qualche problema, Katniss… sai che puoi parlare con me.
Sì,
lo so. Certo che lo so. Ma non posso dirti nulla per ora, Peeta, anche se ti
amo e anche se è qualcosa che riguarda anche te. È qualcosa che riguarda il
nostro futuro insieme… ma non posso parlartene adesso. Non sono ancora
consapevole di ciò che voglio, di ciò che desidero. Devo prima capire me
stessa. Scusa. Scusami.
Ecco
ciò che vorrei dirgli, è questo ciò che sento in mezzo alla bufera dei miei
pensieri e dei miei sentimenti. Eppure, nonostante ciò, l’unica cosa che gli
dico è: - Non c’è nulla che non va.
Peeta
non ci crede nemmeno per un secondo, ma se lo fa andare bene.
Per
settimane intere, per mesi, vivo in questo limbo fatto di pensieri e di dubbi.
Riesco a distaccarmi abbastanza da essi da occupare normalmente le mie
giornate: vado a caccia, sbrigo le mie faccende in casa, prendo parte a lunghe
discussioni con Peeta e lo accompagno spesso quando iniziano i lavori di
ricostruzione della panetteria. Riesco a mostrarmi allegra, per quanto io non
lo sia mai stata davvero, e spontanea, anche se la mia spontaneità non ha mai
ripagato molto. Provo a non far trasparire il tumulto di emozioni che ho
dentro, ed il più delle volte ci riesco. Quando sono da sola, invece, le mie
barriere cedono e torno ad essere taciturna, chiusa, e pensierosa. Il tumulto
di emozioni che ho dentro mi invade totalmente, mi impedisce di capire cosa è
giusto e cosa è sbagliato. Mi impedisce di capire davvero cosa voglio, e cosa non
voglio affrontare.
In
questo dovrebbero aiutarmi le sedute che continuo ad avere ogni settimana col
dottor Aurelius, ma da una parte preferisco non tornare con lui sul discorso
legato alla maternità. Perché è questo il motivo che non mi fa dormire la
notte, che mi impedisce di accettare appieno la consapevolezza a cui sono
giunta e che mi destabilizza, talmente è grande la potenza con cui mi ha
assalita.
La
maternità.
Il
desiderio di avere un altro bambino.
È
un desiderio così forte da non poter essere ignorato. Non posso semplicemente
metterlo a tacere e nasconderlo in un angolino del mio cuore e del mio
cervello, a seconda della fonte da cui prende forma. Non posso più far finta
che questo desiderio non esista, e non posso più negare il fatto che prima o
poi sarebbe sopraggiunto. Nonostante ciò che ho pensato e ciò che ho detto
nell’ultimo anno, e nonostante il dolore che sopraggiungeva ogni volta a
rimarcare le mie ferree decisioni, il desiderio ha prevalso sopra ad ogni cosa.
Sopra al dolore, sopra alla ragione… sopra ad ogni certezza.
Ho
capito di volere un altro figlio.
Ho
capito di voler seguire il consiglio del dottor Aurelius, e forse è per questo
che scelgo di non metterlo al corrente. So già cosa mi direbbe di fare: di
andare avanti. Di proseguire con le mie intenzioni. E, magari, di mettere anche
Peeta al corrente delle mie intenzioni, perché Peeta non sa ancora nulla
nonostante sia passato del tempo. E di occasioni ne ho avute in abbondanza per
parlargliene, ma mi sono sempre frenata.
Non
ho paura della reazione di Peeta. Non ho paura di lui: so che sarebbe il
ragazzo più felice della terra davanti alla prospettiva di diventare padre. Ho
visto il modo in cui osservata, colpito, il bambino di Alec e Labela, ho visto
i suoi occhi sorridere davanti alla fotografia del figlio di Finnick e Annie.
Ed ho un ricordo vivissimo dei suoi sorrisi, delle sue carezze, delle
attenzioni particolari che riservava alla nostra bambina mai nata. Mi sono
sentita la persona più crudele del mondo quando gli confessai che non avrei mai
più voluto avere altri figli, sapendo quanto fosse grande, in lui, il desiderio
di riprovarci. So che quel desiderio è ancora forte in lui, non è svanito in
questi mesi.
No,
non è di Peeta che ho paura.
E
la scusa di non voler far crescere un bambino nel mondo in cui viviamo, ormai,
non regge più. Gli Hunger Games non ci saranno più. Tutti i bambini che
nasceranno da ora in avanti non avranno più motivo di avere paura. Nessun
genitore dovrà più avere paura di perdere il proprio figlio, estratto durante
la mietitura.
Ciò
che temo più al mondo non è perdere mio figlio per dei giochi della morte che
non si terranno più. Ciò che temo più al mondo è perdere di nuovo mio figlio
nello stesso, identico modo in cui ho perso il primo. La prima. Ciò che
temo di più al mondo è provare ciò che ho già provato: innamorarmi di una
creatura che non potrò conoscere davvero prima della sua nascita, e perderla
prematuramente perché il mio corpo non è in grado di proteggerla e di crescerla
come dovrebbe. Ho paura di dover dire di nuovo addio a mio figlio prima di poterlo
stringere tra le mie braccia.
È
una paura irrazionale, la mia, un terrore grande ed antico quanto la vita
stessa. È una paura a cui non posso dare sollievo e a cui non posso trovare
una vera motivazione per scacciarla. Al 13, nei giorni trascorsi in ospedale
dopo essere stata fatta fuggire dall’arena, mi dissero che nonostante l’aborto
non avevo subito danni all’apparato riproduttivo, e che quindi avrei potuto
avere altri figli. Non mi hanno detto di non provarci mai più, o che sarei
potuta incorrere in complicanze irreparabili se avessi scelto di affrontare una
nuova gravidanza. Semplicemente, hanno detto che sto bene e che il mio corpo è
in grado di dare alla luce un bambino senza complicanze.
La
paura di perderlo, di abortire ancora, è una paura mia, interamente mia. È una
paura mentale. E forse non basteranno le parole di dieci medici a farmela
passare. Forse, questa paura è abbastanza potente da rendere vano tutto il
resto, capace di surclassare anche il desiderio e le buone intenzioni.
Questa
paura è capace di mettere a tacere tutto quanto. È capace di ergere una
barriera intorno a me, abbastanza alta e solida da proteggere me stessa e
capace di proteggere persino la figura ipotetica del bambino che non posso
perdere, che non posso rischiare di mettere al mondo per non vederlo mai
crescere davanti ai miei occhi.
La
figura ipotetica del bambino che non potrò mettere al mondo torna a farmi
visita quasi ogni notte, nei sogni che non mi fanno riposare serenamente e
negli incubi in cui affronto di nuovo l’inaffrontabile e che mi fanno urlare,
sia da addormentata che da sveglia. Stanotte, poco prima di riuscire a
svegliarmi con un sobbalzo, il sogno mi ha trascinata in un posto buio, enorme,
in cui risuona il pianto incessante di un bambino. Percorro questo posto in
lungo e in largo, alla ricerca della fonte del pianto, ma per quanto ci provi
non trovo nessun bambino. E il pianto diventa sempre più forte, più straziante,
quando prendo la direzione sbagliata. E le direzioni, qui, sono tutte
sbagliate. E non trovo niente. Non trovo mai niente…
Mi
appoggio su un gomito e cerco di tornare a respirare normalmente. Premo una
mano sugli occhi, sfinita dal sogno. Mi sento sfinita, ed ogni notte che passa
questo senso di sfinitezza non fa altro che aumentare, per colpa di questi
sogni. Quasi rimpiango gli incubi sanguinolenti che mi fanno rivivere gli
Hunger Games. Per quelli, almeno, non posso farci nulla: sono i ricordi delle
atrocità che ho visto, e ogni volta mi ripetono, mi ricordano, che non se ne
andranno mai del tutto. Posso accettarlo, da un lato, così come sto cercando di
accettare che non è stato per causa mia se in tanti hanno perso la vita
nell’ultimo anno. Non sono stata io ad ucciderli.
Ho
sete. Cerco con lo sguardo il bicchiere d’acqua che tengo sempre sul comodino,
ma sulla superficie del mobile c’è solo Ranuncolo. Niente acqua. Mi giro per
vedere se ce n’è un po' sul comodino di Peeta, ma oltre a non trovare ciò che
cerco, scopro che neanche lui c’è. Le lenzuola nella sua parte di letto sono
scostate ed ammucchiate. Forse è andato in bagno…
Ma
non è in bagno. In realtà non è in nessuna delle stanze del piano superiore.
Peeta si trova nello studio: ho notato la luce accesa mentre ci passavo
davanti, diretta in cucina per recuperare il mio bicchiere d’acqua. Di ritorno,
mi soffermo davanti alla porta socchiusa ed attraverso lo spiraglio riesco a
vederlo, immerso totalmente nel suo lavoro: ha una tela davanti a sé, e non
riesco a vedere nulla di ciò che ci sta disegnando sopra. Deve essersi
svegliato con un’immagine davanti agli occhi, è per forza così. Non è la prima
volta che si alza nel bel mezzo della notte per mettere su tela i sogni che lo
hanno investito durante il sonno. I dipinti che nascono dalle sue incursioni
notturne sono tremendamente tristi, ma indubbiamente belli.
Indecisa
se entrare o meno, rimango ad osservarlo senza cercare di farmi notare. Mi
stringo meglio addosso la vestaglia, anche se inizio a sentire ugualmente
freddo. Le notti iniziano a diventare più fredde con l’arrivo dell’autunno, ma
non credo che sia per questo che ho i brividi. Andrebbe molto meglio se
smettessi di andare in giro scalza…
-
Meow!
-
Ah!
Scatto
via, lontana dalla porta. Mi guardo attorno e riesco giusto a cogliere il
guizzo della coda di Ranuncolo prima che questo scappi via dalla mia visuale.
Contemporaneamente, Peeta spalanca la porta.
Giuro
che prima o poi lo faccio arrosto, quel gatto.
-
Che fai qui? – mi chiede Peeta, sorpreso. È sorpreso di trovarmi sveglia o di
trovarmi lì davanti?
-
Io… avevo sete – bisbiglio. È una mezza verità, la mia. – Non eri a letto…
-
Ho fatto un sogno, in realtà – mi guarda e si gratta la testa come se fosse a
disagio, nel rivelarmi il perché si trovi nel suo studio in piena notte. Lo
sapevo già, però. – Non volevo aspettare per paura di dimenticarlo, e così…
sono sceso.
Sorrido.
- È stato un bel sogno almeno? – oppure era un sogno orribile, come i
miei?
-
Perché non entri e non giudichi tu stessa? – propone, tendendo una mano sporca
di carboncino verso di me.
Dopo
aver afferrato la sua mano, lascio che Peeta mi guidi fin dentro lo studio che
conosco a memoria per tutte le volte che ci sono stata, sia durante le sedute
di terapia che seguo con Aurelius, sia durante le ore che ci trascorro
all’interno quando Peeta è immerso nella sua pittura. Mi lascio condurre da lui
fino a che non mi ritrovo davanti la tela su cui è stato occupato fino a poco
fa, quando Ranuncolo mi ha quasi teso un agguato. La tela è quasi totalmente
bianca, se non fosse per quelle parti su cui Peeta ha tracciato un leggero
disegno a carboncino. Niente tempere, stasera, niente colori: solo carboncino.
Sulla
tela, Peeta ha tracciato la sagoma di una ragazza distesa su un manto d’erba
ricoperto di fiori. La ragazza sorride, anche se ha gli occhi chiusi, ed ha le
braccia spalancate. Sembra addormentata.
È
questo il sogno che stavi facendo?
Peeta
annuisce e scopro di non averla solo pensata, questa domanda, ma di avergliela
proprio posta ad alta voce.
-
Credo di averti sognata in mezzo al Prato, anche se non sono riuscito a
riconoscerlo appieno…
Il
Prato. Il luogo dove giocavano i bambini del Giacimento,
il posto dove ho giocato anche io da piccola e dove, dopo la morte di papà, ho cominciato
a dirigermi per raggiungere il punto più vicino della recinzione da superare
per andare nei boschi. Ci ho trascorso pomeriggi interi insieme a Peeta, su
quel Prato, quando la nostra storia d’amore non era altro che mera finzione.
-
Che fiori sono? – domando. Ne tocco uno, e la punta dell’indice si colora di
nero.
-
Non sei tu l’esperta di piante? – mi prende in giro Peeta. – Sono denti di
leone.
Non
li avevo riconosciuti, così in bianco e nero, ma adesso che Peeta me lo ha
detto riesco a vederli a colori, come se li avessi davvero davanti agli occhi.
Vedo le loro corolle gialle, vedo il mare di verde trapuntato di giallo in cui
si trasformava sempre il Prato durante la primavera ed immagino che sia questo
il luogo in cui mi ha sognata Peeta stanotte. Immagino che sia questo, il posto
in cui vorrei essere proprio adesso.
Peeta
ha ricreato il Prato così com’era prima che cause di forza maggiore lo
trasformassero in una enorme fossa comune per ospitare i resti degli abitanti
del Distretto 12. Non è altro che un cimitero, adesso: un cimitero che si è
ricoperto nuovamente di fiori, nonostante nessuno ci abbia seminato nulla
sopra. La natura ha fatto tutto da sola… ha ripreso possesso di ciò che
spettava a lei di diritto.
Anche
i denti di leone sono tornati. Il dente di leone che fiorisce a primavera.
Il giallo brillante che significa rinascita anziché distruzione, il giallo
brillante che torna a manifestarsi per ricordarci, ancora una volta, che dopo
la morte può esserci spazio per la vita.
Sto
piangendo, e me ne accorgo tardi, quando Peeta mi ha già stretta nel suo
abbraccio e cerca di capire per quale motivo io sia scoppiata a piangere in
maniera così repentina davanti ad una tela incompleta. Una tela che,
inconsapevolmente, mi suggerisce ciò che devo fare, ciò che sto così
disperatamente cercando di seguire e che ho così disperatamente paura di
realizzare.
-
Stai bene, tesoro? Che succede? – lo sento borbottare.
Ci
metto un po' a bloccare i singhiozzi che mi impediscono di parlare, ma ce la
faccio, alla fine. Riesco a controllarli quel che basta per dirgli ciò che
devo. A che serve rimandare ancora? A cos’è servito rimandare fino ad oggi?
-
Proviamoci… - dico.
-
Cosa dobbiamo provare? – domanda ancora Peeta. Segue col pollice la scia delle
mie lacrime.
Lascio
che siano i gesti a rispondere invece delle parole: i gesti, tra di noi,
funzionano sempre così bene. Afferro il suo pollice, stringo la sua mano tra le
mie e poi, lentamente, la faccio scivolare in basso, sempre più in basso, fino
ad arrivare alla pancia. Poggio la sua mano sul punto che ha toccato così tante
volte, l’anno scorso, quando la nostra bambina mai nata scalciava e si faceva
spazio all’interno del mio corpo. Poggio la sua mano su quel punto anche se
tremo, ed anche se temo di provare di nuovo quelle meravigliose sensazioni. Ho
paura, ma voglio farlo lo stesso.
Perché
se non lo facessi, sento che potrei pentirmene per tutto il resto della mia
vita.
Peeta
sgrana gli occhi, intuendo il perché mi stia toccando la pancia. Stringe tra le
dita la mia vestaglia, e posa la mano libera sul mio viso. – Vuoi… davvero?
Annuisco.
Altre lacrime scendono dai miei occhi e sono costretta a chiuderli per cercare
di frenarle, ma è impossibile frenarle. Continuo a piangere, e Peeta mi stringe
contro di sé, cullandomi nel suo abbraccio per tentare di calmare il pianto, o
solo per assecondarlo.
Non
so perché lo fa. Io so solo che sto bene quando mi abbraccia. So che le sue
braccia mi fanno stare bene, e questo per me è sufficiente.
-
Ho paura – ammetto con la faccia premuta sulla sua maglietta. – Che… che possa
succedere ancora… non voglio che-
-
Sssh – mi interrompe Peeta, stringendomi ancora di più nel suo abbraccio. –
Nessuno ci porterà più via il nostro bambino. Nessuno, Katniss. Te lo
prometto – le sue mani si stringono sulle mie guance e mi invita a sollevare il
viso verso il suo. Asciuga con i pollici le mie lacrime, posa le labbra sulla
punta del mio naso. – Mi credi, Katniss?
Annuisco.
Poso le mani sulle sue e le stringo appena.
Viola
al mattino.
Blu
al pomeriggio.
Arancione
alla sera.
Verde
alla notte1.
Sono
questi i colori che mi stanno aiutando a riprendere in mano la mia vita. Sono
questi i colori che focalizzo sempre nella mente quando sono triste, o quando
lo sconforto prende possesso del mio essere. Sono questi i colori che mi
aiutano ad affrontare i momenti bui, i momenti difficili, e sono sempre questi
i colori che ho ben fissi davanti agli occhi quando capisco che voglio di nuovo
provare ad avere un bambino.
Sono
questi i colori che mi aiutano ad accogliere una nuova vita.
_______________________________
1“Purple in the morning, blue
in the afternoon, orange in the evening. And green at night. Just like that.
One, two, three, four.” È la citazione tratta da Requiem for a dream di
Aronofsky. Ricordo che la prima cosa che ho fatto per scrivere gli ultimi due
capitoli sui colori è stata proprio cercare qualcosa che potesse aiutarmi con i
collegamenti. Non avevo alcuna idea di quali colori usare. E quando ho trovato
questa citazione ho visto che gli ultimi due, l’arancione e il verde, sono i
colori preferiti di Katniss e Peeta.
Neanche a farlo apposta.
Ormai manca un solo capitolo alla
fine.
Siete pronti?
D.