CAPITOLO 15
UN AFFARE
COMPLICATO
Sicilia,
Isola di Santo Stefano
Luglio 2015
Calogero si rivelò
essere un ristorante sulla spiaggia. Da un lato affacciava sulla
litoranea che
costeggiava il mare e serpeggiava intorno all’isola
abbracciandone l’intero
perimetro, dall’altro su una breve striscia di sabbia e
sassi. Era l’unica
spiaggia di Santo Stefano che Vittoria aveva visto fino ad allora che
non fosse
completamente rocciosa. Il ristorante era una struttura di legno bassa,
su un
solo piano, dipinta di un giallo e un azzurro allegri e intensi. Dava
l’impressione di essere un posto semplice, ma quella
vicinanza al mare lo
rendeva spettacolare. Dalla strada Enrico condusse la sua BMW nel
parcheggio
adiacente al ristorante, sotto una tettoia che proteggeva le auto dal
sole
cocente.
«È il miglior
ristorante di pesce di tutta l’isola. E anche fuori da Santo
Stefano. Ho
provato tanti posti, ma Calogero unico è»
spiegò Enrico. Spense piano il
motore.
Vittoria aprì la
portiera, un po’ esitante. Un ristorante di pesce? E adesso
cosa avrebbe dovuto
fare? Valutò in fretta le sue possibilità e
scoprì che ce n’era soltanto una.
Non voleva rovinare quel pranzo per niente al mondo, ma non poteva
neanche nascondere
il cibo nel tovagliolo e gettarlo via. Si morse il labbro per un attimo.
«Wow. È molto bello.
Non vedo l’ora di assaggiare il suo…
menù vegetariano.» Forse avrebbe potuto
trovare un modo migliore per dirlo, ma ormai era fatta.
Enrico si bloccò mentre
scendeva dalla macchina, metà dentro e metà
fuori, una mano ancora sul volante
e l’altra sulla portiera spalancata. La fissò. Non
sembrava arrabbiato o
seccato. La sua espressione, mezza nascosta dagli immancabili Rayban,
era
difficile da leggere. Vittoria gli fece un sorriso tenue di scuse e
intanto
desiderava che l’asfalto bollente del parcheggio si aprisse
all’istante e la
inghiottisse. Aveva rovinato tutto. Era andata così bene
fino a quel momento.
Lui ci mise qualche istante a riordinare le idee e quando
parlò la sua voce
suonò incolore.
«Avrei dovuto
chiedertelo.»
Lei fece un gesto
noncurante con la mano. «Non c’è
problema. Avranno un’insalata, no?»
«Hanno un menù
vegetariano» rispose lo zio, chiudendo la portiera. Si
incamminarono verso
l’ingresso. «Calogero è un
tradizionalista, per quanto riguarda la cucina. È
stato suo nonno, un altro Calogero, a creare questo posto. Ma si
è adeguato ai
tempi.» Parlava a testa bassa, senza incrociare lo sguardo di
Vittoria. Lei si
chiese se ci fosse rimasto così male. Non le sembrava tanto
grave, eppure era
cambiato qualcosa nell’aria, tra di loro. «Da
quanto sei vegetariana?» le
domandò lui all’improvviso, dopo una pausa.
«Da quando avevo nove
anni e uno dei miei insegnanti ha fatto vedere alla classe un video
sugli
allevamenti di animali intensivi» spiegò Vittoria,
mentre salivano due gradini
e varcavano l’ingresso del ristorante. Sulla porta a due
battenti di legno
bianco stazionava l’insegna “Da
Calogero”, una scritta gialla su sfondo
azzurro. Più avanti un’altra porta, a vetri
smerigliati, dava accesso alla
sala.
Enrico contorse il viso
in una smorfia. «Non mi sembra una grande idea.»
«Non lo è sembrata
neanche a molti genitori» fu il neutro commento di Vittoria.
Dopo aver visto il
documentario, non aveva dormito per settimane, tormentata dalle
immagini
sanguinarie e violente. Ebbe la sensazione che lo zio stesse per
scoppiare a
ridere, poi qualcuno si avvicinò a passo svelto.
«Dottor Falconeri, qua
siete! Che piacere! Buongiorno!»
Era un uomo tra i
sessanta e i settanta, che aveva parlato con un accento siciliano anche
più
pesante di quello di Edoardo, come se masticasse e storcesse le parole
nella
bocca. Era basso, con la pancia prominente sotto il grembiule bianco
legato in
vita e un’espressione gioviale negli occhi scuri, sotto un
ciuffo di capelli
sale e pepe.
Enrico gli sorrise.
«Buongiorno, Calogero. Come stai?»
«Non c’è male, dottore,
non c’è male! Un po’ di sticchiara,¹
ma non ci possiamo lamentare.»
Enrico ebbe un momento
di esitazione, poi accennò con la testa verso Vittoria.
«Ti presento mia
nipote, Vittoria.»
Il vecchio fece una
faccia buffa, come se avesse mancato un gradino scendendo le scale e
all’improvviso si fosse trovato il vuoto sotto i piedi.
Sarebbe stato meno
sorpreso se Enrico avesse detto che era un’aliena appena
arrivata da Marte.
Vittoria represse una mezza risata, abbassando lo sguardo, ma al tempo
stesso
un velo di fredda inquietudine le sfiorò la schiena. La sua
famiglia era un
affare complicato anche per gli altri e lei non ne sapeva praticamente
nulla.
Si domandò se andare al baglio da sola, parlare con lo zio,
essere qui da sola
con lui non fosse tutto un gigantesco errore.
«Un onore è, signorina»
la salutò Calogero, riprendendosi in fretta. Le sorrise e
accennò un inchino
scherzoso. «Il solito tavolo, dottore?»
«Sì, grazie.»
«Accomodatevi, prego.»
Li guidò attraverso la
sala, piena di tavoli di legno bianco rivestiti da tovaglie di carta
svolazzanti bianche e blu, quasi tutti occupati. Le pareti erano
decorate da
disegni a colori vivaci e, guardando meglio, Vittoria capì
che rappresentano la
vita sottomarina: coralli, alghe ondeggianti, pesci di varie forme,
colori e
dimensioni e perfino una grotta debolmente illuminata da un fascio di
luce che
proveniva dalla superficie dell’acqua. Erano bellissimi. Si
sarebbe fermata
volentieri a osservarli meglio, ma Calogero si muoveva con una
rapidità e
un’agilità sorprendenti, schivando i tavoli e i
camerieri di passaggio come in
una corsa a ostacoli, e fu costretta ad affrettarsi. Varcarono una
porta
finestra e uscirono su una terrazza che affacciava direttamente sulla
spiaggia.
Era coperta da una tettoia e circondata da una bassa ringhiera gialla
nella
quale si apriva un cancelletto. Da lì, dopo pochi gradini,
si scendeva sulla
sabbia. La distesa di mare e cielo davanti a loro mozzava il fiato.
Calogero li
scortò a un tavolo per due in un angolo piacevolmente
ventilato. Sollevò i bicchieri
messi a rovescio sulla tovaglia con un unico movimento fluido.
«Vi raggiungo subito»
disse, prima di allontanarsi con la stessa velocità.
Vittoria sedette
lentamente, senza smettere di guardarsi intorno. «Che
posto» mormorò, più a se
stessa che allo zio. Le venne in mente lo struggente romanticismo che
quella
terrazza avrebbe avuto al tramonto, con il suono dolce delle onde, il
profumo
di salsedine e la brezza carezzevole sul volto.
«Sono contento che ti
piaccia» rispose Enrico.
Vittoria fu colpita
all’improvviso da un’idea.
«Allora… Tu… Vieni qui con la tua
fidanzata?» chiese
e subito dopo fu tentata di insultarsi da sola per quella goffaggine.
Non
sapeva nulla della vita privata di Enrico. Non si era mai azzardata a
fare
domande ai suoi genitori su un argomento così bizzarro, ma
la conversazione di
quella mattina con il nonno e quell’idea assurda che le aveva
suggerito (Quando
due fratelli si innamorano della stessa donna…) le
aveva fatto venire
voglia di indagare. Lui si sarebbe offeso per una tale mancanza di
discrezione?
In fondo si conoscevano a stento, lei non aveva alcun diritto di
impicciarsi.
Sentì le guance andare a fuoco e fissò la
tovaglia, cercando di apparire
normale.
Enrico si era sollevato
gli occhiali da sole sulla testa, finalmente. La guardò con
aria sorpresa, ma
non sembrava irritato. «Fidanzata? Chi te lo ha
detto?» Prese il menù, che era
sul tavolo in mezzo a loro, e glielo porse con uno dei suoi soliti
gesti
misurati. Sembrava sempre che non volesse occupare più
spazio del necessario o
attirare l’attenzione. «Tieni. A me non serve, lo
conosco a memoria.»
Vittoria afferrò il
cartoncino e lo fissò senza vedere niente.
«Ehm… Non lo so, devo averlo
sentito… Forse da qualcuno al baglio»
balbettò. Meglio restare sul generico.
«Non c’è nessuna
fidanzata, al momento. E comunque, di solito vengo qui da
solo.»
«Ah.» Vittoria strinse
il menù tra le dita. Per un folle attimo pensò di
chiedergli spiegazioni su
quello che le aveva detto Edoardo. Immaginò
l’espressione che avrebbe visto sul
viso di Enrico, le balbettanti spiegazioni che lei avrebbe cercato di
tirare
fuori, l’imbarazzo che si sarebbe aperto tra loro come una
voragine e avrebbe
inghiottito qualsiasi possibilità di stabilire un contatto,
creare un legame,
ricucire il filo spezzato. Non avrebbe fatto altro che danneggiare
irrimediabilmente la situazione. Era troppo presto. Meglio aspettare e
forse,
prima o poi, l’occasione sarebbe arrivata. Batté
precipitosamente in ritirata.
«Scusami, io… Non sono affari miei.»
La postura di Enrico
era rigida, ma le sorrise e Vittoria capì che non era
infastidito. «Non c’è
problema. Non ti preoccupare.»
Furono salvati da
Calogero, che scelse il momento perfetto per raggiungerli brandendo un
piccolo
blocco per appunti e una matita. A quanto pareva, non si era ancora
adeguato ai
tempi abbastanza da prendere nota delle ordinazioni su un tablet.
«Pronti siete? Se
permettete, oggi consiglio i calamari ripieni. Li fece mia
moglie» proclamò con
orgoglio. Vittoria gli sorrise.
«Lascio fare a te. Mi
fido» rispose Enrico e il vecchio quasi si gonfiò
come un palloncino pronto a
balzare in volo.
«Benissimo, dottore!
Anche per voi, signorina? Vi garantisco che sono talmente freschi che
fanno
svegliare pure i morti, con rispetto parlando.»
Il sorriso di Vittoria
si trasformò in una mezza risata nervosa mentre lanciava
un’occhiata divertita
a Enrico. «Meno male che sono viva, allora, perché
dovrò accontentarmi del menù
vegetariano.»
Calogero ci rimase un
po’ male. Si voltò verso Enrico, in cerca di
conferma, e lo zio alzò appena le
spalle, la bocca distesa in un sorriso. Anche stavolta il vecchio si
riprese
immediatamente.
«Non vi preoccupate,
signorina, la nostra pasta alla norma è la migliore di tutta
la Sicilia.»
«Confermo» disse Enrico
a bassa voce, l’ombra del sorriso ancora sul volto.
Allungò la mano e strinse
delicatamente lo stelo del bicchiere da vino tra le dita.
«L’ho provata.»
Il proprietario del
ristorante chinò leggermente la testa, raggiante.
«È un onore, dottore. Vi
faccio anche una bella caponatina che non vi farà
rimpiangere i calamari,
promesso, signorina.» Calogero prese nota delle ordinazioni e
si allontanò dopo
aver concluso con deferenza: «Vi servo subito.»
Vittoria lo seguì con
gli occhi. Al tavolo scese un breve silenzio e stava già
pensando a come
romperlo prima che annegassero entrambi nell’imbarazzo,
quando lo zio parlò,
cogliendola di sorpresa.
«Sei sveglia.»
Si voltò e si accorse
che la stava osservando. Ci mise un attimo a capire che era un
complimento.
«Grazie» mormorò con un sorriso incerto.
Enrico si mosse sulla
sedia, cambiando posizione. «Ti starai annoiando un bel
po’, qui. Tutto il
giorno al baglio, senza nessuno della tua età, sempre a
suonare il pianoforte.»
«Io vivo per il
pianoforte.»
Arrivò una ragazza
minuta e sorridente con una brocca d’acqua e una bottiglia di
Falconeri bianco.
Restarono in silenzio mentre lei riempiva i bicchieri.
«Ti piace così tanto?»
continuò Enrico, dopo che la cameriera se ne fu andata.
Vittoria bevve un sorso
d’acqua (a lei la cameriera non aveva versato il vino) e
annuì. «Ho iniziato a
cinque anni. Mamma e papà hanno capito che non scherzavo
vedendo che suonavo i
mobili di casa come se avessero una tastiera.» Enrico
accennò un sorriso tirato.
«A nove anni sono entrata al conservatorio. Non ho mai smesso
di suonare,
neanche a Londra.»
Lui inarcò le
sopracciglia. «Londra?» ripeté, la
sorpresa evidente sul suo viso.
«Sì… Due anni fa siamo
stati a Londra per sei mesi, non lo sapevi?» chiese Vittoria
di getto e subito
dopo si rese conto che era una domanda sciocca. Era molto improbabile
che
Enrico sapesse qualcosa di loro al di là delle informazioni
più basilari. La
rispettiva ignoranza sulle loro esistenze sembrava l’unico
legame che li unisse
al momento. Lui non mostrò alcuna reazione particolare,
limitandosi a scuotere
la testa. Vittoria gli raccontò brevemente di Londra. Mentre
parlava, aveva la
sensazione che lo zio fosse distratto: i suoi occhi azzurri fissavano
il mare,
ma sembravano vuoti, spenti, come se non vedessero nulla. Tuttavia,
quando finì
di spiegare Enrico spostò lo sguardo su di lei e Vittoria
capì che invece aveva
ascoltato ogni singola parola.
«Deve essere stato
difficile per te. Andare a Londra, voglio dire. Insomma, anche se solo
per sei
mesi, mi sembra un grosso cambiamento per una ragazzina.»
Aveva parlato con una
strana gravità, come se discutessero di questioni di enorme
importanza.
Vittoria rifletté per
qualche secondo e intanto mandò giù un sorso
d’acqua. Le domande dello zio non
le davano fastidio: aveva modi delicati, anche se forse un
po’ freddi, che
sembravano attenuare qualsiasi cosa dicesse o facesse. Tuttavia, non
era sicura
di aver voglia di affrontare l’argomento a cui si stavano
avvicinando. Era una
cosa molto personale, che riguardava strettamente lei e i suoi
genitori,
soltanto loro tre, come era sempre stato. Probabilmente Stefano e
Claudia non
avrebbero voluto che lei ne parlasse con Enrico, dal momento che non
c’era più
alcuna confidenza tra loro, eppure neanche l’idea di
mentirgli le piaceva. Se
davvero voleva tentare di costruire un ponte tra loro non avrebbe fatto
meglio
a essere onesta? Deglutì nervosamente.
«Be’.... Mamma voleva andare
con papà, ma ovviamente non potevano lasciarmi a Milano da
sola» rispose piano,
ancora incerta su cosa fare. Decise di lasciarsi guidare
dall’istinto del
momento e di smettere di pensare. «E poi…
è capitato in un momento in cui…
forse ne avevamo bisogno.»
Esitò un attimo ed era
sul punto di raccontare tutto, ma poi, all’improvviso,
qualcosa nell’atmosfera
e nell’espressione di Enrico cambiò. Si
raddrizzò sulla sedia, distanziandosi
appena da Vittoria, prese il suo bicchiere di vino e tornò a
guardare verso il
mare. Si era allontanato di nuovo.
«Che cosa ti piacerebbe
fare da grande? La concertista?» chiese in tono leggero, dopo
una pausa. Quel
repentino cambio di argomento la stupì. Mentre lo osservava,
capì in qualche
modo che Enrico doveva aver percepito il suo disagio e aveva smesso di
fare
domande per non metterla in difficoltà. Un caldo senso di
gratitudine le riempì
il cuore. Sorrise.
«Magari. Non so se ne
sarò in grado. Mi piacerebbe anche solo insegnare
musica» rispose Vittoria,
quasi senza badare a ciò che diceva. Era ancora impegnata a
riflettere sul
comportamento gentile dello zio. Prima che potesse aggiungere altro,
Calogero
si avvicinò al tavolo con i loro piatti e per qualche minuto
fu troppo
impegnata con la sua pasta alla norma, che emanava un profumo
celestiale, per
continuare la conversazione. Dopo il secondo boccone, decise che
Calogero
poteva rivaleggiare senza problemi con il suo ristorante preferito del
momento
a Milano, dove aveva festeggiato il suo ultimo compleanno con le
amiche. Mandò
giù, si pulì la bocca con il tovagliolo e disse
con voce solenne: «Ho fatto
decisamente bene a venire in Sicilia.»
Enrico aveva piluccato
un boccone dal suo piatto con scarso entusiasmo, come se non avesse
alcuna
voglia di mangiare. «Altrimenti ti saresti persa
Calogero» mormorò, leggermente
divertito.
«Altrimenti non avrei
conosciuto te. E Edoardo.»
Enrico tornò serio
lentamente. Bevve un altro sorso di vino, abbandonano i calamari
ripieni che
non aveva quasi toccato, poi riabbassò il calice, ma invece
di metterlo giù lo
agitò piano in senso circolare, osservandolo. Aveva quella
sua espressione accuratamente
neutra che faceva pensare a una spessa passata di vernice bianca su una
parete
colorata, come per nascondere qualcosa. Vittoria pensò per
la prima volta che
forse stava iniziando a conoscerlo.
«Edoardo non è una
persona facile» rispose lo zio a bassa voce.
«No, è vero. Me ne sono
accorta. Però volevo sapere com’era. È
per questo che sono venuta. Non so
niente di voi, non so niente di… E poi
pensavo…» Vittoria abbassò le mani in
grembo e strinse automaticamente tra le dita il tovagliolo di stoffa
azzurro
che aveva disteso sulle gambe. Inspirò. «Speravo
che papà… che tu e lui… che
magari potreste riavvicinarvi» concluse con un filo di voce,
quasi come se
sperasse che le sue parole si disperdessero nell’aria calda
senza arrivare allo
zio. Non era affatto sicura di come lui avrebbe potuto prenderla.
«Con Edoardo
forse è troppo tardi, ormai.» Tenne lo sguardo
fisso sul suo piatto, decorato
con arabeschi bianchi su sfondo azzurro. Non aveva il coraggio di
sbirciare la
reazione di Enrico. Dall’altra parte del tavolo arrivava un
silenzio assoluto.
«Scusa» sbottò. «Magari non ti
va di parlarne.»
«Perché pensi questo?»
le chiese lui, tranquillo.
Lei non poté più
resistere e lo guardò. Enrico continuava a muovere la
forchetta nel piatto
quasi intatto, lo sguardo assente. «Papà non ne
parla. Mai. E neanche mamma. È
che io… Non so com’è avere un fratello,
ma non credo che tutta questa
situazione tra voi sia giusta» disse, quasi senza prendere
fiato, e la facilità
con cui la verità era scivolata fuori la sorprese.
Nonostante la difficoltà
dell’argomento e il fatto che fossero due estranei, parlare
con lui le sembrava
stranamente semplice, forse per via del suo modo di fare gentile e
discreto.
Qualsiasi disagio provasse, svaniva pian piano quando lo fissava negli
occhi.
Si sentiva in qualche modo al sicuro, a differenza dei momenti che
passava con
il nonno, nei quali aveva sempre la sensazione di camminare sul filo
del
rasoio.
«Forse lo avrai, prima
o poi. Un fratello o una sorella.»
Quel commento la
sconcertò per qualche istante. Ecco che lo zio si
allontanava di nuovo, come se
cercasse di evitare la curva pericolosa di una strada. Vittoria
abbassò di
nuovo lo sguardo sul suo piatto.
«È molto difficile che
succeda.» Prese un respiro profondo e parlò di
getto, con la sensazione di
lasciar andare un peso. «Mamma ha avuto due aborti
spontanei.»
Gli occhi di lui
saettarono in direzione di Vittoria. «Davvero?»
chiese, la voce bassissima.
Vittoria annuì. Sfiorò
il suo bicchiere d’acqua, seguendone il bordo con il dito.
«La prima volta che
è successo avevo sette anni. È stata dura, ma poi
si è ripresa. Dopo un po’ ci
hanno riprovato, ma è andata male di nuovo. Ed è
stato peggio della prima
volta. Un anno dopo, più o meno, papà
è stato assunto alla Prescott e ha
iniziato a parlare dei sei mesi che avrebbe dovuto passare a Londra.
È anche
per questo che io e mamma siamo andate con lui. Avevamo bisogno
di… non so…
qualcosa» concluse, incapace di definire con chiarezza
l’atmosfera che riempiva
la loro casa in quel periodo, lo sguardo triste e assente di sua madre,
la
frustrazione nascosta di suo padre, il senso di vuoto che era rimasto
addosso a
tutti e tre e sembrava non dover passare mai.
All’inizio Vittoria
aveva creduto che i suoi genitori ci avrebbero riprovato una terza
volta,
perché desideravano un altro figlio più di
qualsiasi altra cosa, ma poi, con il
tempo, aveva capito che probabilmente non sarebbe mai successo e
insieme al
dispiacere non aveva potuto fare a meno di avvertire anche un
po’ di colpevole
sollievo. Un terzo fallimento sarebbe stato così tremendo
che lei non poteva
neppure immaginarlo.
«Londra è arrivata al
momento giusto» aggiunse poi con un’alzata di
spalle. «Ha fatto bene a tutti.»
Enrico rimase in
silenzio per un po’, gli occhi agganciati a quelli di
Vittoria. «Mi dispiace»
mormorò. «Non lo sapevo.»
«Magari era destino che
andasse così. E forse era destino anche che tu e
papà vi allontanaste.»
Un sorriso affilato
tagliò in due il volto dello zio. «Non ne ho idea,
Vittoria. Sono l’ultima
persona al mondo che può esprimere pareri sul senso della
vita e cose del
genere. Io non so niente.»
Vittoria lo fissò, un
po’ interdetta dall’amarezza che sentiva nella sua
voce. Rimase in silenzio per
qualche istante. «Be’, io ne so meno di
te» mormorò, incerta. In quel momento
il telefono nella sua tasca vibrò. Lo tirò fuori,
sbirciò il display e sentì un
tuffo al cuore: era suo padre.
«Scusami, devo
rispondere» borbottò. Schizzò in piedi,
passò in fretta tra i tavoli schivando
un cameriere di passaggio carico di piatti sporchi. Raggiunse il
cancelletto
che dava sulla spiaggia. Sta’ calma. Non rovinare
tutto, si disse
nervosamente, augurandosi di essere abbastanza lontano
perché Enrico non la
sentisse. Inspirò mentre scorreva il dito sul display, poi
si portò il telefono
all’orecchio.
«Papà?»
«Amore, ciao!» Dai
rumori in sottofondo, Vittoria capì che suo padre doveva
essere in strada.
«Tutto bene? Cosa c’è che non
va?»
Vittoria chiuse un
attimo gli occhi. Se n’era accorto in due secondi netti.
Avevano appena battuto
un record. A volte apprezzava che suo padre fosse così
attento da riuscire a
capire cosa le passava per la testa semplicemente con uno sguardo o dal
suo
tono di voce, come in quel momento: le risparmiava qualche fastidiosa
spiegazione. Altre volte lo detestava, perché la faceva
sentire come se non
esistesse un posto in cui avrebbe potuto nascondersi.
«Niente, perché?»
«Hai una voce strana.»
«No, è tutto ok»
rispose Vittoria, sforzandosi di accennare un sorriso. Era rivolta
verso il
mare e sentiva lo sguardo di Enrico sulla schiena, ma non si
girò. Era sicura
che avesse capito che era al telefono con suo padre. «Sono in
spiaggia, alla
Cala Saracena.»
«Brava, piccola. E
mamma dov’è?» disse Stefano, ora
leggermente distratto. Forse stava
attraversando la strada, perché il suono di clacson in
sottofondo si era fatto
più intenso.
«A casa con Rosa.
Stanno dipingendo una stanza o qualcosa del genere.»
Le parve di sentirlo
sorridere. Lo immaginò mentre camminava per le strade
affollate di milanesi e
di turisti, con il solito passo svelto e sicuro che dava
l’impressione di poter
superare qualsiasi ostacolo, addosso un completo impeccabile nonostante
il
caldo asfissiante, il solito zainetto di Armani sulla spalla e il
cellulare
all’orecchio, l’espressione costantemente
concentrata, come se non spegnesse
mai il cervello. Era lontanissimo da lei e da quella tranquilla
terrazza sulla
spiaggia.
«Sempre la stessa,
mamma. Sai, ho pranzato da SvelToast.»
«Ah, sì, quello che fa
un toast in tre minuti» esclamò Vittoria. Era un
locale minuscolo, con più
clienti di quanti potesse contenerne e un grosso cronometro sul bancone
che
misurava il tempo. Allo scadere esatto dei tre minuti previsti, e a
volte anche
un po’ prima, il tizio dietro il bancone ci batteva una mano
sopra e con
l’altra porgeva al cliente di turno un toast fragrante e
delizioso. Lo avevano
scoperto per caso durante un giro di shopping natalizio ed era
diventato subito
uno dei loro posti preferiti.
«Proprio lui. Ho visto
che hanno ancora quel toast che ti piace tanto, quello con formaggio e
olio al
tartufo, però il mese prossimo cambia tutto il
menù. Dobbiamo tornarci prima
che lo tolgano.»
Vittoria emise un verso
di disappunto, ma ascoltava suo padre solo a metà. Per il
resto continuava a
pensare a Enrico alle sue spalle e batteva un piede per terra, ansiosa
di
chiudere la telefonata il prima possibile. Temeva che più
avesse parlato, più sarebbe
aumentato il rischio di farsi scoprire in qualche modo.
Visualizzò la faccia
che avrebbe fatto Stefano se avesse saputo dov’era lei in
quel momento e con
chi e al pensiero provò una piccola ondata di nausea.
«Ah, davvero? Peccato…
Sicuro, ci torniamo.»
Ci fu una breve pausa,
poi, dato che Vittoria non aggiungeva altro, suo padre riprese a
parlare.
«Spero che non ti annoierai troppo in questi
giorni.»
Lei scosse la testa,
senza riuscire a trattenere un sorriso che per fortuna lui non poteva
vedere.
«No, tranquillo. Mi sono trovata qualcosa da fare.»
«Ottimo» commentò
Stefano e questa volta Vittoria fu sicura che l’avesse
ascoltata a malapena.
«Devo andare. Ci sentiamo stasera.»
Il sorriso di Vittoria
si allargò per il sollievo. «Ok. Ciao,
papà, buona giornata.»
«Ciao, piccola.»
Chiuse la chiamata,
quasi euforica. Ce l’aveva fatta. Il suo segreto era al
sicuro, almeno per ora.
Era piuttosto sorpresa di essersela cavata così bene. Di
solito non raccontava
bugie ai suoi genitori, in parte perché le sue richieste
erano quasi sempre
ragionevoli e non riceveva mai un diniego, in parte perché
Claudia e Stefano
preferivano sempre parlare con lei e trovare un punto
d’incontro piuttosto che
scegliere la strada autoritaria. Solo quando faceva domande su Santo
Stefano e
sul loro passato tiravano fuori quella irritante, irragionevole
fermezza. Si
sentiva un po’ in colpa per avergli mentito, ma in fondo non
le sembrava una
bugia così grave: non faceva nulla di pericoloso o illegale,
stava
semplicemente pranzando con lo zio. E i suoi genitori non giudicavano
lucidamente quella faccenda, erano troppo prevenuti.
Si girò e tornò al
tavolo con passo svelto ed energico. Sorrise a Enrico mentre si sedeva
di nuovo
al suo posto. «Scusa» esclamò, allegra,
ma poi incrociò lo sguardo di lui e il
sorriso si congelò. Capì all’istante,
seppure con una certa confusione, che era
cambiato qualcosa.
«Tranquilla» rispose
Enrico. Incrociò le mani di fronte a sé,
all’altezza del mento, e la fissò.
«Cosa vorresti sapere?»
NOTE.
1. Vago malessere
causato da un abbassamento della pressione sanguigna.