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Autore: Defective Queen    28/09/2009    2 recensioni
Due ragazze, con diverse personalità e passato, si incontrano e diventano amiche, anche se sono entrambe due bugiarde e il loro rapporto non è mai quello che sembra.
Kate è straordinariamente bella, viziata, popolare con il sesso opposto e la reginetta (solo apparentemente) superficiale della scuola. Si dimostra gentile e amichevole con tutti, ma in realtà cova dentro di sè rancore verso gran parte delle persone e una glaciale freddezza nei rapporti umani. Roxanne ama disegnare ed essere eccentrica. Imbranata, testarda e sensibile, appena trasferitasi dalla Florida conquista al primo colpo tutti gli amici di Kate, e quest'ultima non può fare a meno di sentirsi minacciata dalla sua crescente popolarità.
Una volta che Roxanne entra nella sua vita, però, Kate cerca più di ogni altra cosa di continuare ad odiarla, ma i suoi sforzi ben presto si rivelano vani.
Questo, e molto altro, è "Beauty is the Beast".
Genere: Drammatico, Generale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Lo so, sono un disastro immensamente in ritardo.
Spero che, nonostante tutto, qualcuno continui a seguire la storia, visto che in compenso ho preparato un capitolo lungo sul quale ho lavorato un sacco!
Nel frattempo, è passato anche un anno dalla prima pubblicazione di BisB e non posso dire di non sentirmi fiera di me per essere arrivata fino a questo punto della storia!
Come commemorazione, ho preparato persino un piccolo banner:



Detto questo, ringrazio tutti coloro che hanno recensito lo scorso capitolo e coloro che hanno aggiunto ultimamente la storia nei preferiti o nei seguiti. Spero possa piacervi anche il nuovo capitolo!
Alla prossima!

Piccole definizioni ricorrenti: "valedictorian": Il titolo di valedictorian (un'anglicizzazione dal latino vale dicere, dire addio) viene assegnato al miglior diplomato di ogni classe di maturandi. L'origine del nome è dovuto alla tradizione che il valedictorian è l'ultimo a parlare alla cerimonia di diploma.

"salutatorian": secondo diplomato, dopo il valedictorian, riceve il merito di introdurre il discorso finale con una breve premessa.

EDIT: ho corretto vari errori, adesso il capitolo è sicuramente più decente XD, scusate per l'inconveniente.

***

Ombreggiando delicatamente con un dito i tratti fatti con la grafite, Roxanne cercò di ricreare la morbidezza di quelle soffici piume esattamente come le ricordava. Con un semplice scatto del polso disegnò accuratamente il becco e un paio occhi neri e vispi, per poi concludere il piccolo schizzo accennando gli arti scheletrici che, nonostante il loro realismo, apparivano un po' fuori luogo, vista la pienezza e il vigore del resto del corpo.
Mentre disegnava il trespolo cilindrico attorno al quale si attorcigliavano le zampine del piccolo volatile, Roxanne sentì il suo cuore iniziare a battere forte.
Ecco arrivato il punto critico.
"Liberalo. Liberalo"
Ma non ci riuscì.
Quasi automaticamente, contro la sua stessa volontà, iniziò ad ingabbiare il canarino dietro delle sbarre ormai familiari.
L'ennesimo tentativo andato a vuoto.
Roxanne fissò nuovamente il ritratto accuratissimo dell'uccellino davanti a lei, e sentì l'angoscia e la frustrazione montarle dentro.
La sua vista era già offuscata a causa degli occhi inumiditi.
"Ho fallito ancora"
Gettò la matita che reggeva nella mano destra il più lontano possibile e percepì la sua punta rompersi, come se a fratturarsi, invece, fosse stata una parte del suo corpo.
Spezzata, frantumata, stanca, si accovacciò sul banco, respirando affannosamente.
La situazione non era cambiata poi molto d'allora.
Lei continuava ancora a ribellarsi per poter emergere da quella gabbia che aveva costruito con le sue stesse mani, ma i suoi occhi la incatenavano ancora ad una promessa che ormai non era più sicura di volere mantenere.

Un circolo vizioso dal quale non sarebbe mai riuscita a scappare.
Un fato che ancora oggi non era riuscita a spezzare.



15 giugno

Onde evitare alcun tipo di confusione, preferisco direttamente scrivere tutto ciò che è successo durante questa settimana, sperando di non scordare nulla nel frattempo.
Forse avrei fatto meglio ad aggiornare prima il diario, ma non ho avuto nemmeno un secondo da poter sprecare negli scorsi giorni.
La settimana precedente, senza contare gli eventi rocamboleschi con Nathan, è terminata con il mio sciocco tentativo di costringere Roxanne a perdonarmi.
Ho pianto per qualche minuto sulla sua spalla, fino a che, notando che la rigidità nel suo abbraccio non spariva, e stanca di versare lacrime inutili, l'ho lasciata andare, dicendo di dover tornare a casa.
Il mio tentativo di riappacificazione, come volevasi dimostrare, è stato totalmente inutile.
Sin dal giorno seguente a scuola, Roxanne ha iniziato ad evitarmi. Un sorriso nervoso e una sventolata di mano, prima di sparire via chissà dove.
Ovviamente non poteva prendermi in giro come faceva con le Gallinelle, le quali credevano ciecamente alle sue scuse affrettate per evitare di pranzare al nostro stesso tavolo.
Guardavo tutto questo siparietto patetico con un’espressione vuota e disinteressata. Se Roxanne temeva che l’avrei trattenuta in mia compagnia contro la sua volontà, poteva pure stare tranquilla. Non credevo ai suoi pretesti e agli impegni che elencava, è vero, ma al tempo stesso li accettavo impotentemente come le altre.
John, il bodyguard di mio padre, mi ha chiamata il giorno successivo, pronto ad aggiornarmi sullo sviluppo della situazione con Nathan.
Io ero esausta dal protrarsi di tutta quella faccenda, infastidita dal fatto che Roxanne avesse ormai deciso di evitarmi - senza ammetterlo direttamente - ma ho comunque accettato di incontrarlo.
Ci siamo incontrati davanti ad uno Starbucks in chiusura, venerdì sera.
«Katie! Tutto bene?», mi ha chiesto l’omone, pieno di buon umore.
Io ho annuito sorridendo e ho visto scintillare i suoi occhi colmi di ammirazione. Prevedibile.
«Allora, come è andata con lui?», ho chiesto, incapace di trattenermi. Era meglio arrivare subito al dunque.
Alla menzione di Nathan, il viso di John si è rapidamente incupito. Forse avrei dovuto tacere, ma d’altra parte, il motivo per cui ero lì riguardava proprio quell’infame personaggio.
«Bene, per quanto bene un pestaggio possa andare », ha commentato tetro e ho percepito nella sua voce anche un tono di rimprovero nei miei confronti.
«Oh…», ho sospirato, facendo finta di non essermene accorta, «E le foto…»
John si è diretto verso una panchina, poco distante dal nostro luogo di incontro, e io l’ho seguito di buon grado.
«Abbiamo perquisito tutta la casa e distrutto qualunque cosa che potesse contenere dati, immagini o quant’altro», ha spiegato John, pescando dalla tasca pettorale della sua camicia a mezze maniche un pacchetto di sigarette.
Poi me ne ha messa in mano una, senza che io gli avessi chiesto niente, e l’ha accesa assieme alla sua.
Giunto alla panchina, ci si è stravaccato sopra, mentre io continuavo a guardarlo titubante, a meno di un metro di distanza, con la sigaretta fumante in mano il più distante possibile da me.
Avrei potuto gettarla via senza altre cerimonie, ma non avrei voluto adirare un uomo capace di schiacciarmi la testa con una sola mano.
Anche se tutto questo fumo passivo potrebbe fare ingiallire i miei denti e…
«Quel ragazzo ce l’aveva chiaramente con te, Katie. Cosa hai fatto per farlo arrabbiare così tanto?», ha domandato, prima di aspirare un’intensa boccata di fumo.
La sua voce rimbombava possente, ma era tutto sommato tranquilla.
«Non ho fatto niente!», ho ribattuto io, incapace di mantenere un contegno simile al suo.
Ero stata aggredita, minacciata e perseguitata e adesso mi veniva attribuito persino il ruolo di colpevole in tutta questa faccenda?
«A me non sembra. Mentre gli stavamo mettendo in subbuglio la casa, il ragazzo ha detto alcune cose…»
Io ho deglutito, stranamente a disagio.
John stava guardando il cielo e mi era impossibile decifrare la sua espressione, in quanto potevo vedere solo il profilo delle sue spalle e della testa spuntare dallo schienale della panchina.
«E ha parlato di suo padre e di come tu hai rovinato la sua vita…», ha continuato John.
«Mentiva! Stava cercando solo una giustificazione per le sue malefatte!», ho ribattuto, cercando di riprendere in mano la situazione. Poco importa che fossi io l’unica a mentire, in realtà.
«Sicura?», ha domandato John, voltandosi appena verso la mia direzione per guardarmi in faccia.
Io ho annuito, dimostrandomi certa delle mie asserzioni.
«Bene. Allora potrò dire a tuo padre che si è presentato un inconveniente, ma ormai è stato sistemato completamente…»
«No!», ho urlato quasi. Il bodyguard sembrava stranito dalla mia reazione e io ho cercato subito di rimediare.
«Intendo dire che…dovrei vedere molto presto mio padre, la prossima settimana mi diplomerò e in quell’occasione avremmo modo di parlare personalmente. Voglio chiarire questa situazione con lui e basta, senza coinvolgere terze parti. Mi capisci?»
John è stato persuaso dalle mie parole e mi ha dato ragione, comprensivo. Io ho esultato internamente per la mia vittoria. Prendendo in mano tutta quella situazione direttamente nelle mie mani, avrei sicuramente impedito a mio padre di venirne a conoscenza.
«Bene», ha commentato l’uomo alzandosi, poi mi ha accarezzato brevemente la testa, «Se dovessi avere ancora bisogno di noi in futuro, non esitare a chiamarci.»
Io ho risposto affermativamente e, prima di allontanarsi, lui mi ha augurato di trascorrere una buona serata.
Ormai sola, mi sono sentita un po’ strana. Avevo l'impressione che un peso mi fosse stato tolto dalle spalle, e, al tempo stesso, fosse arrivato il momento di prendere coscienza di quello che il fardello conteneva realmente.
Buona serata. Quella non sarebbe stata una buona serata, anche a causa del mio stupido atteggiamento.
Ultimamente avevo rifiutato un bel po’ di nuovi ragazzi che mi avevano chiesto di uscire, perché mi sentivo stanca e, dopo quella conversazione, persino più abbattuta di prima.
Al contrario di quello che mi aveva detto Roxanne, quando aveva cercato di consolarmi, niente sarebbe andato bene.
Ed era solo colpa sua.
Ho alzato la mano contenente la sigaretta, ormai prossima a raggiungere il filtro, e l’ho levata al cielo.
Il fumo è stato trangugiato rapidamente dall’aria, come se questa ne fosse ghiotta, e non potesse fare a meno di inquinarsi sempre di più.
Per forza di cose, tutto si macchia e si sporca. E’ un processo naturale.
Anche le scuse, prima o poi, a causa del loro uso eccessivo, si macchiano di senso di colpa e insoddisfazione.
Sono una brava bugiarda, ma, nonostante avessi tentato di attribuire colpe a tutti gli altri, meno che alla diretta interessata, ero perfettamente conscia di quale fosse la mia posizione in merito.
Io posso continuare a mentire all’infinito, eppure questo stratagemma non funziona mai con me stessa. Vorrei fosse possibile, però.
Da venerdì in poi ho iniziato a riprendermi dai cinque rocamboleschi giorni che avevo passato: non c’era più nulla che non mi facesse dormire la notte e, seppure c’era ancora qualcosina che mi disturbava, non avevo veramente la forza di pensarci.
Credevo di avere ottenuto il massimo potere nelle mie mani, con una pistola e l’incredibile voglia di fare male, o addirittura almeno l’intenzione di uccidere davvero quella persona che aveva deciso di tormentarmi come proprio hobby personale, eppure adesso guardavo impotente Roxanne andare via, incapace di fare nulla in proposito.
E tutto sommato mi andava bene. Ero stanca e volevo solo trovare un equilibrio che mi permettesse di tornare la Kate di sempre, che mi consentisse di ammaliare gli altri con lo sguardo, evitando di fulminarli con sufficienz, scatenata dalla mia mancanza di interesse.
Ero annoiata dai miei conoscenti, da tutti i discorsi ormai già affrontati, e accecata solo dalla voglia di iniziare il college il più presto possibile. Non volevo scappare, solo accelerare i tempi di un risultato inevitabile.
Sabato, comunque, sono stata ad una festa improvvisata a casa di George. Mi ci sono trascinata con la forza, impietosita dallo stato in cui mi ero ridotta. Per tutto il tempo non mi sono nemmeno avvicinata alla pista da ballo, ma ho continuato semplicemente a bere ad oltranza.
Percepivo le chiacchiere dei ragazzi che mi si accalcavano intorno come un vero e proprio ronzio di zanzare, e ho continuato a mandar giù birra, champagne e cocktail vari, finché le loro stupide parole non sono state più distinguibili.
Volevo solo dormire…
Per il resto, ho un ricordo piuttosto vago e fumoso di come sono uscita dalla festa: ero in braccio a qualcuno che aveva degli arti alquanto robusti. Nella confusione, infatti, senza nemmeno realizzare ciò che mi stava accadendo, ho pizzicato gli avambracci del mio “salvatore” e mi sono ritratta spaventata, percependoli forti e tonici al tatto, nel momento della contrazione.
Poco dopo sono svenuta, suppongo, evitando a dir poco miracolosamente il coma etilico. Posso certamente affermare che questa sia stata la volta in cui più mi sono sbronzata in tutta la mia vita.
Lo so che non è una bella soddisfazione vantarsi di questo a soli diciotto anni, ma ritrovarmi viva e vegeta nel mio letto il giorno seguente è qualcosa di cui mi sono davvero stupita.
Avevo un ricordo vago di dita nella gola e vomito sul tappetino del bagno, ma quell’orrendo mal di testa bastava a spiegare cosa fosse successo durante il party.
Quella stessa mattina, però, una telefonata di Ashley ha risolto tutti i miei dubbi in proposito: a trascinarmi fuori dalla festa di George, ormai priva di sensi, era stato il suo bel rugbista.
Infatti, dopo avermi recuperato stravaccata su un divano, circondata da alcuni disperati che pensavano di avere una chance con me solo da ubriaca, lui e Ashley mi riavevano entrambi accompagnato fino alla soglia di casa. Nel frattempo, lungo il tragitto in auto, a loro detta, ero tornata miracolosamente semi-cosciente (anche se io continuo a non ricordare nulla)  o almeno abbastanza cosciente per entrare a casa e farmi strada fino alla mia stanza, evitando di crollare in soggiorno.
Ho chiesto scusa ad Ashley per lo spettacolo indecoroso, ma lei ha semplicemente espresso il suo genuino sollievo che tutto fosse passato e poi ha riattaccato.
Io ho scagliato il cordless dall’altra parte della stanza, sentendo una vampata di umiliazione salirmi dentro.
Cosa diamine avevo fatto?
Mi ero resa ridicola, allestendo uno spettacolo degno solo di Roxanne.
Roxanne…
Ho lanciato in aria un cuscino che mi sono trovata sottomano, come monito alla mia mente. Non dovevo pensare a lei. Non avrei dovuto più pensare a lei.
Ecco, così andava meglio.
Lunedì sono tornata a scuola, mantenendo il mento alto e procedendo spedita per i corridoi. Non riuscivo in alcun modo ad individuare esattamente chi fosse stato presente alla festa, ma dovevo in qualche modo far capire a tutti quanti che, nonostante quel momento di debolezza dovuto alla sbornia, ero in perfetta forma.
Sono riuscita bene o male a mantenere la mia recitazione a dei buoni livelli, ma per la stanchezza non mi era permesso fare di più.
Vedendomi così, le Gallinelle, nell’intervallo tra le lezioni, mi hanno chiesto se mi sentissi bene.
Diamine, allora dovevo essere stata davvero pessima nel fingere, se persino loro erano riuscite ad accorgersene!
Volevo sprofondare in un cratere e riemergere quando mi fossi sentita meglio, ma per quanto io tentassi di riposare, sembrava che la mia stanchezza non si estinguesse e, invece, aumentasse.
Alla terza ora, poi, Mr. Jonas mi ha detto che il Preside mi avrebbe aspettata nel suo ufficio per l’ora di pranzo, per darmi una comunicazione di rilevante importanza.
Guardando il mio sguardo allucinato, Mr. Jonas mi ha rassicurata subito.
«Tranquilla, Hudson, non è nulla di grave, anzi.»
Aveva uno strano sorrisetto sulle labbra che non prometteva niente di buono.
Nonostante tutto, però, come pattuito, all’ora di pranzo mi sono fatta strada verso l’ufficio del dirigente.
«Posso entrare?», ho domandato, tentando di sostituire la seccatura nel mio tono con un po’ di innocente timidezza.
«Oh, certo, signorina Hudson, prego, si accomodi pure», mi ha sorriso il Preside da sotto i suoi occhialini da lettura, facendo grandi gesti per indicare la sedia dove avrei dovuto prendere posto.
Mi sono seduta compostamente, lisciando con cura le pieghe della gonna dell’uniforme, in attesa che il Preside mi rendesse partecipe della ragione per cui ero stata convocata.
«Congratulazioni, signorina Hudson. Ho il piacere di comunicarle che è stata nominata valedictorian per quest’anno!»
Il suo sorriso serafico è stato quello che mi ha scioccata di più.
«C-cosa?», ho balbettato, incapace di trattenermi.
«La nostra è stata una decisione difficile, in quanto lei non è stata solo scelta in base alla sua media scolastica, ma anche per le sue qualità oratorie e la sua deliziosa presenza. Dopo una lunga decisione, che abbiamo rimandato a lungo, comunque, siamo stati tutti concordi nell’individuarla come prescelta per questo incarico.»
Ho sbattuto le palpebre, senza dire nulla, e lui si è sentito in dovere di continuare.
«Come concorrenti per il ruolo, c’erano altri studenti degni di lode come Tinette Seymour, Patrick Riggs e Roxanne Miller, ma abbiamo deciso di escludere la signorina Miller, che nonostante tutto era stata l’unica ad aver ottenuto il maggior profitto in così pochi mesi, proprio perché si è trasferita nell’ultima parte dell’anno scolastico e non le sarebbe stato possibile parlare nel suo discorso dei quattro anni che ha trascorso in un altro istituto. Mi capisce?»
Ho annuito meccanicamente; gli occhi sbarrati.
«Bene», il Preside si è compiaciuto della mia istantanea disponibilità, «Mi scuso ancora per il ritardo con cui le abbiamo comunicato questa notizia, ma confido in lei nel preparare entro la fine della settimana un discorso che possa renderci orgogliosi di averla scelta. Niente di troppo complicato, in ogni caso. Vogliamo un addio leggero e sereno. La prego di evitare qualche indesiderato stratagemma troppo alternativo, o a sua detta "originale", e un numero esagerato di battute di spirito. Si attenga ad un addio tradizionale e la invito a non dimenticare di nominare numerose volte la scuola e gli insegnanti.»
«Va bene», ho acconsentito, affondando le unghie nelle mie cosce, per placare la mia tempesta emozionale.
Entro la fine della settimana? Questo nonnetto è impazzito!
«Ora può andare, cara. Si goda quest’ultima settimana e si impegni a fondo per scrivere il suo discorso.»
«Sì, signore», ho risposto, precipitandomi fuori dall’ufficio.
Una volta fuori dalla porta, ho sentito l’ansia e il panico montarmi dentro. Venerdì ci sarebbe stata la cerimonia del diploma, il Preside mi aveva avvisato di lunedì, e pretendeva che io riuscissi a scrivere un discorso decente in soli quattro giorni? E come mi era saltato in mente di accettare?
Naturalmente non avrei permesso a nessuno di fregarmi il ruolo di valedictorian, dopo tutta la competizione dei mesi precedenti, ma in quel momento ero così stanca ed esausta che avrei volentieri buttato all’aria tutto il mio lavoro per un po’ di relax.
Ho continuato a vagare per i corridoi come un’anima in pena, cercando di pensare a qualcosa, qualsiasi idea che potesse agevolare la stesura del mio discorso, senza trovarne però nessuna.
Nonostante fossi distratta dal mio peregrinare fisico e mentale, non ho fallito nell’intercettare un rumore provenire da una classe dalla porta socchiusa.
Accostandomi all’uscio, ho visto qualcuno all’interno, accovacciato su un banco. La voluminosa chioma di capelli mogano sparsa a raggiera su delle spalle minute, poi,  non mi ha lasciato dubbi in merito all’identità della persona.
Ecco allora dove si nascondeva la signorinella all’ora di pranzo, quando le Gallinelle e io, più che per abitudine che per reale interesse, la cercavamo con lo sguardo tra i tavoli della mensa.
Mentre io continuavo ancora ad osservarla, Roxanne ha alzato nuovamente il capo e ha fissato un blocchetto di fogli aperti davanti a lei.
Non riuscivo a intercettare la sua espressione, per via dei capelli che le scendevano scompostamente sul volto, ma l’ho vista chiaramente strappare il foglio dal blocchetto che aveva dinanzi, per poi stringerlo nel suo pugno con un inaspettato vigore.
In modo ugualmente brusco si è alzata dal suo posto, e io mi sono ritratta allo stesso modo, curiosa di capire cosa esattamente stesse facendo.
Roxanne ha gettato il foglietto accartocciato nel cestino dell’immondizia e, per qualche secondo, l’ha fissato dall’alto, immobile.
Una volta ripresasi dalla sua trance, ha tentato di sistemarsi i capelli ondulati e la frangia alla bell’e meglio, e finalmente io sono riuscita a guardarla in faccia, anche se non vista da lei.
I suoi occhi erano rossi, ma tralasciando questo piccolo particolare, la sua espressione risultava impassibile.
Dopodiché, Roxanne è tornata verso il banco per sistemare le sue cose nella cartella e io, intuendo che molto presto sarebbe uscita dall’aula, ho deciso di nascondermi in un'altra classe vicina per non essere scoperta.
Preannunciati solo da un po’ di trambusto di sedie e banchi, i passi ritmati di Roxanne hanno iniziato a riecheggiare nel corridoio.
Mi sono affacciata dalla classe in cui mi ero nascosta, e ho visto Roxanne percorrere lentamente il suo percorso, con la cartella sottobraccio e la lunga chioma svolazzante, a causa del vento proveniente dalle finestre.
Sono restata lì a fissarla per un po’, guardandola allontanarsi, e i pensieri più svariati hanno attraversato la mia mente.
All’inizio sentivo rancore. Il Preside mi aveva detto che avevano preferito me a Roxanne, non per i meriti scolastici, ma perché lei si era trasferita da troppo poco tempo per essere in grado di scrivere un discorso che ritraesse davvero lo spirito di questa scuola.
Non potevo fare a meno di invidiarla per i meriti che aveva ottenuto in un così breve lasso temporale, eppure, nel contempo, sentivo dentro di me una profonda nostalgia nel guardarla andare via così.
Successivamente ho avvertito rabbia. La mia stanchezza, il mio essere esausta, era solo un risultato del suo freddo comportamento nei miei confronti.
Lei mi serviva e proprio per questo non avrebbe dovuto allontanarsi da me. La sua presenza mi era necessaria come deterrente per i miei problemi; non poteva da un giorno all’altro negarmi il suo effetto benefico e lasciarmi inquieta e smarrita come uno spirito errante in cerca del suo riposo.
Avrei voluto gridare: “Aspetta! Fermati!”, anche se ero perfettamente consapevole che ciò non sarebbe servito poi a molto. Roxanne si sarebbe voltata verso di me, avrebbe finto un sorriso, avrebbe agitato ancora una volta la sua mano in un saluto, e poi sarebbe corsa via, con l’allegro e spensierato scalpiccio di una bambina, mentre invece pensava di essere Cappuccetto Rosso in fuga dal lupo cattivo.
Quando la Miller è totalmente scomparsa dalla mia visuale, ho deciso di entrare nella classe che lei aveva appena lasciato.
Schifata dal gesto che stavo per compiere, ho tentato di recuperare il foglietto che Roxanne aveva appena buttato, per vedere cosa esattamente ci fosse scritto.
Promettendo a me stessa che avrei disinfettato le mie mani appena fosse stato possibile, ho afferrato dal cestino la pallina cartacea e ho tentato di distenderla il più possibile.
Con sorpresa, ho visto che sopra non v’era scritto assolutamente niente, ma c’era disegnato un canarino sorprendentemente realistico, dentro una gabbia dalle sbarre molto vicine tra di loro.
Accanto al cestino ho trovato a terra una matita dalla punta spezzata, che molto probabilmente Roxanne doveva aver dimenticato lì.
Era stata lei a disegnarlo? Tutti gli indizi suggerivano di sì, ma perché, allora, gettare
con tanta furia un così bel disegno tra gli altri rifiuti?
Non capivo dove Roxanne potesse aver sbagliato a disegnare, se questo era davvero il motivo che l’aveva spinta a sbarazzarsi del foglio, visto che più mi sforzavo di guardare l’immagine, più ne rimanevo completamente esterrefatta.
Era solo un uccellino, è vero, ma era la cosa più vera, più viva, che avessi mai visto disegnata da Roxanne.
Ricordavo ancora gli schizzi che un paio di mesi prima avevo visto nel suo album da disegno: tutti, per quanto fatti bene, possedevano tratteggi molto meno incisivi rispetto a questo, e nessun umano, tra le figure che aveva precedentemente realizzato, aveva quegli occhi penetranti.
Nessuno dei ritratti, né quello di Madison, né quello abbozzato di Liam, riusciva a scavare nell’anima di chi lo guardava come questo piccolo uccellino, che con le sue pupille nere e lucide sembrava sul serio capace di parlare.
Il canarino sofferente guardava dritto lo spettatore da dietro quelle sbarre, come un condannato alla prigionia eterna.
“Liberami”, sembrava dire.
Ho lasciato andare di scatto il foglietto stropicciato, come fulminata da quella realizzazione, e questo è volato lentamente verso il pavimento.
Il canarino continuava a fissarmi anche da laggiù, insistentemente, trasmettendomi la stessa inquietudine.
Stanca di perdere altro tempo così, ho deciso di tagliar corto. Mi sono chinata per raccogliere il disegno e dopo averlo piegato in quattro l’ho infilato in tasca, senza nemmeno pensarci due volte. Lì non avrebbe potuto più darmi alcun fastidio.
Successivamente sono uscita di gran carriera dall’aula, decisa a trovare le Gallinelle, ovviamente dopo aver igienizzato correttamente le mie mani.
Ritornata in mensa, le ho viste alzarsi dal tavolo, e allo stesso momento anche loro mi hanno individuato tra la folla, raggiungendomi immediatamente.
«Cosa voleva il Preside?», ha chiesto Nancy, seguita immediatamente dalle altre, che erano altrettanto curiose di conoscere il motivo della mia convocazione.
Io ho pensato che, dato che il momento lo consentiva, piuttosto che continuare ad auto-commiserarmi, potevo finalmente godermi il privilegio di essere lodata e ammirata, anche se semplicemente da persone del loro livello.
«Mi ha detto che sarò la valedictorian di quest’anno», ho annunciato.
Come di protocollo, le Gallinelle sono scoppiate in una serie di gridolini che mi hanno spaccato i timpani e hanno contribuito a farmi girare la testa.
Probabilmente avrei fatto meglio a tacere. I complimenti non mi facevano più lo stesso effetto di sempre.
Per di più, c’era un pensiero nel retro della mia mente che mi rendeva piuttosto a disagio: nell’ora successiva avrei sicuramente incontrato Roxanne durante la lezione spagnolo. Cosa avrei dovuto fare? Continuare ad ignorarla come lei faceva con me, oppure tentare di parlarle? Sarei riuscita a soffocare la mia curiosità e ad ignorare l’episodio a cui avevo appena assistito?
Mi era sembrata piuttosto agitata, d’altronde, quando avevo spiato i suoi movimenti poco prima.
Quella stanchezza che non riuscivo a scrollarmi di dosso, per il resto, non faceva altro che peggiorare le cose. E il discorso del diploma? No, non me n’ero affatto dimenticata.
Trascinandomi come un automa a lezione, ho deciso di smettere di assillarmi per qualche ora, almeno fino al suono dell’ultima campanella. Non mi avrebbe giovato, inoltre, non stare attenta alle ultime lezioni, rischiando di compromettere in questo modo la mia fresca nomina a valedictorian. A casa, in seguito, sarei stata libera di concentrarmi in tutta tranquillità.
Appena entrata in aula, Gutierez mi ha subito intercettata e prendendomi amichevolmente la mano mi ha detto: «Mi raccomando, signorina Hudson, non ci deluda!»
Come se la pressione sulle mie spalle non fosse già abbastanza e mi mancasse persino quella di un viscido professore mezzo ispanico!
Rabbrividendo involontariamente, mi sono seduta al mio solito posto e dalla mia posizione ho scansionato l’intera classe in cerca di Roxanne.
La campanella era ormai già suonata, i banchi erano tutti occupati ad eccezione del suo, e ciò mi spingeva a credere che probabilmente avrebbe saltato la lezione.
Non era affatto una cosa da lei. Per quanto potesse arrivare in ritardo, Roxanne si curava di non mancare mai.
Ma non potevo permettermi di aggiungere anche lei ai miei grattacapi.
Dovevo fare il possibile per concentrarmi solo su di me e focalizzare bene gli obiettivi che mi ero promessa di raggiungere in quel tempo così ristretto.
Ho deciso di prestare la massima attenzione alla lezione, quindi. Mettendo da parte tutti quei pensieri, però, non ero altro che un guscio vuoto dentro il quale le parole del professore rimbombavano, lasciando dietro di sé solo la propria fioca eco.
Al termine delle lezioni ho chiesto a Rita, l’unica tra le Gallinelle che non fosse stata bocciata all’esame della patente per più di tre volte, di accompagnarmi a casa con la sua auto il più presto possibile. Non che mi fidassi ciecamente delle sue capacità automobilistiche, certo, ma era meglio che aspettare per dieci minuti che il taxi mi raggiungesse e mi portasse a casa. Non avevo nemmeno un secondo da perdere.
Giunta di fronte alla mia villa, ho suonato ripetutamente il campanello, perché mi aprissero istantaneamente, e poi ho corso per tutto il giardino, ringraziando fortunatamente di indossare i comodi mocassini dell’uniforme al posto dei tacchi.
Sfortunatamente il caldo, associato all’affanno della mia corsa quasi disperata, mi ha resa grondante di sudore, perciò sono stata costretta a farmi una doccia e a sprecare ancora più tempo di quello che avevo previsto.
In più, a causa del mio incontro con il Preside e del mio scontro con Roxanne, avevo totalmente saltato il pranzo ed
ormai erano passate più di dodici ore dall’ultima volta che avevo addentato qualcosa.
Perciò, per completare l’opera, sono stata costretta a tornare in cucina e chiedere a Marissa di prepararmi qualcosa.
Mia madre, in quel modo, disgraziatamente per me, ha potuto intercettarmi prima che tornassi a rinchiudermi in camera mia.
«Kate, tesoro, che t’è successo?»
«Niente, mamma», ho risposto scocciata, sentendo le mie gambe fremere per l’impazienza, «Ho bisogno di lavorare sodo questo pomeriggio, perciò non voglio essere disturbata.»
Mia madre mi ha fissato in un modo particolare, come se fosse stata in parte ferita dalle mie parole, anche senza darlo a vedere nella sua solita maniera melodrammatica. Probabilmente aveva intuito che fossi seria.
«Va bene. Ma è successo qualcosa?», ha domandato di nuovo.
Beh, lei è pur sempre mia madre. Avrei dovuto dirglielo, no?
Pur temendo una reazione eccessivamente entusiasta, le ho spiegato il motivo, più per dovere, che per reale voglia di comunicarle la novità.
«Sono stata nominata valedictorian», ho risposto. Per me, ormai, quella era diventata una vecchia notizia che aveva perso tutto il suo interesse iniziale.
In ogni caso, però, ho assaporato a pieno le sue parole di lode. Una persona che sa di valere, d’altronde, è perfettamente conscia di meritare qualsiasi elogio che gli venga attribuito.
Ma mia madre, ovviamente, non ha deluso affatto le mie aspettative in quanto ad entusiasmo.
Si è messa letteralmente a saltellare per la gioia.
«Oh mio dio! E me lo dici solo ora? Dobbiamo preparare qualcosa per l’occasione! Dovrai leggere un discorso alla cerimonia, è vero? Sono così contenta!», ha detto applaudendo le mani, come se non le interessasse nemmeno ricevere una risposta a quelle numerose domande.
«Dobbiamo avvisare anche tuo padre», ha aggiunto dopo un po’, perdendo gradatamente la vitalità precedente.
Io, d’altro canto, a quella prospettiva mi sono più animata.
«Sicura che non sia impegnato?», ho chiesto. Senz’altro potevo usare la sua rara presenza come motivazione per dare del mio meglio nella scrittura del discorso.
Mia madre ha annuito, distrattamente, iniziando a guardarsi intorno.
«In ogni caso, farà meglio ad essere presente quando sua figlia si diplomerà», ha detto, allontanandosi verso il corridoio.
Marissa è spuntata dalla cucina poco dopo, distraendomi dallo studio del particolare comportamento di mia madre, con in mano un vassoio di tramezzini. Ringraziandola a sforzo, ho deciso di consumare il pasto in camera mia, per poter iniziare lavoro il più presto possibile.
Mezz’ora dopo, nonostante la precedente determinazione, fissavo immobile il foglio immacolato davanti a me, con la mia penna preferita in mano (una stilografica dall’inchiostro blu) e la testa prosciugata da qualsiasi idea.
Non avevo alcuno spunto per incominciare, ignoravo cosa avrei dovuto scrivere, di quale argomento parlare, quali tematiche affrontare.
Probabilmente, se non avessi sprecato il mio tempo interessandomi della vita sessuale di quattro donne mature con Sex and the City, e, al suo posto, avessi guardato uno dei soliti melodrammatici telefilm adolescenziali, in quell’istante non mi sarei ritrovata ad avere lo stesso problema. Se l’avessi fatto davvero, avrei avuto almeno qualche spunto in più per la creazione del mio discorso, visto che tutti gli adolescenti prima o poi si diplomano e, in tali occasioni, di solito gli episodi sono totalmente focalizzati sulla cerimonia.
Ma, possibilità mancate a parte, cos'altro mi restava da fare?
Senza sentirmi troppo in colpa per quello che stavo per fare, sono andata a prendere il mio portatile e l’ho acceso, connettendomi immediatamente ad internet.
Dopo aver digitato le parole chiave su Google, mi sono messa alla ricerca di alcuni esempi di discorsi per il diploma, da cui avrei innocentemente preso spunto.
Perché ridurmi ad uno straccio, dato il minimo tempo a disposizione, quando potevo trovare un discorsetto già bello e pronto da usare?
Sarebbe stata anche la mia personale ripicca contro il Preside. Quel baffone, infatti, aveva osato sminuire le mie capacità, rendendo esplicito il fatto che io non eccellevo sugli altri candidati per i miei meriti, ma per il mio bel faccino. Non che un complimento del genere, seppur estremamente elusivo, mi dispiacesse, solo che non potevo ignorare il fatto che al suo interno vi fosse implicato allo stesso tempo un chiaro insulto alle mie capacità intellettuali.
Sfortunatamente, la mia ricerca non mi ha portato a trovare un discorso integro da poter usare, ma solo una serie di consigli per la stesura, di cui ho comunque preso nota per precauzione.
Senza arrendermi, ho cercato alcuni video di cerimonie degli anni passati. Alcuni ritraevano l’intera cerimonia e io, nonostante i sonori sbadigli, ho deciso di sorbirmela interamente, pur di riuscire a vedere la parte che mi interessava.
Purtroppo non sono riuscita a continuare la mia visione, dato che, non appena il tizio che stava parlando è scoppiato a piangere - per la commozione probabilmente -, io ho sentito subito l’impulso di arrestare immediatamente il video.
Il Preside aveva detto di volere una cosa piuttosto tradizionale, nessun tipo di frivolezza né di originalità innecessaria, ma, se essere tradizionali significava piangere, facendo intendere al pubblico che mi importasse qualcosa della fine della scuola, io avrei notevolmente preferito non attenermi ai comportamenti usuali.
Sono capace di fingere un pianto, è vero, ma dopo aver fallito nel costringere Roxanne a perdonarmi, visti i risultati disastrosi, avevo giurato a me stessa di non provare mai più a fare una cosa del genere.
Per non parlare del fatto che, se l’avessi fatto davvero, non una sola persona, ma una folla di persone avrebbe assistito al mio spettacolino pietoso. E avrei dovuto portarmi persino uno struccante per rimediare alle tracce di mascara colato.
No, no, no. Assolutamente no. Era una situazione decisamente poco pratica.
Ho cliccato su un altro video allora. Stavolta, ho cercato di saltare tutta la ripresa della cerimonia, per arrivare immediatamente al discorso finale.
Speravo che questa volta si sarebbe rivelato meno patetico. Veder colare del muco dal naso del precedente frignone mi aveva disgustata abbastanza.
Il nuovo discorso, d'altra parte, era tutto quello che il mio Preside avrebbe potuto definire “originale” e pieno di “stramberie”.
Il pubblico rideva ad ogni battuta del valedictorian, che avveniva con una frequenza di tre volte al minuto, e, sebbene apprezzassi anche io il suo lavoro per certi versi, non vedevo in lui alcuna traccia della serietà del ruolo che gli era stato affidato.
Più che essere un vero valedictorian, a me sembrava semplicemente un comico da strapazzo, in grado di fare ironia persino sulla gatta del custode della sua scuola.
Inoltre, io non sarei mai riuscita ad identificarmi in un ruolo del genere.
, so intrattenere la folla, , attiro su di me molta attenzione, ma non mi riesce proprio naturale sparare una serie di battute a raffica. Non si addice affatto all’immagine posata ed elegante che voglio far trasparire da me.
Un’altra persona sarebbe stata molto più adatta per tale compito. Il suo sorriso e il caldo colore dei suoi capelli, assieme alla stravaganza dei suoi aneddoti, avrebbero di certo colpito il pubblico sin dal primo istante.
Sì, Roxanne sarebbe andata bene per il ruolo di giullare, io no.
Avrei dovuto iniziare a pensare sul serio a ciò che più si adattava a me, non a lei.
Ma c’era altro da aspettarsi? Intendo, oltre ad un coro di piagnucolosi fringuelli nostalgici, e ad un gruppo di burloni privi di qualsiasi credibilità, non esisteva una via di mezzo più salutare?
Ho cliccato e cliccato. Ho chiuso finestre di internet febbrilmente, per riaprirne altre allo stesso ritmo esagitato. E il tempo scorreva impietoso.
L’intero pomeriggio era ormai passato, lasciando spazio alla sera, e il mio foglio, allo stesso modo della mia mente, continuava a restare vuoto, a parte qualche scribacchio sul bordo superiore.
Avevo già perso un’intera giornata delle sole quattro che restavano. Merda.
Copiare andava bene, okay, ma nessuno di tutti quei discorsi andava bene. Nessuna di quelle parole era degna di essere pronunciata da me, nessuna di quelle storie era la mia, nessuna di quelle emozioni poteva appartenermi.
Ciò voleva dire che era rimasta solo un’ultima soluzione che potesse aggradarmi: scrivere personalmente il discorso.
Solo questo mi avrebbe soddisfatta. Non riuscivo ad accettare nella mia bocca le parole di un altro, per quanto, in fondo, la faccenda in sé per sé non mi era apparsa così fastidiosa all’inizio.
Ma non riuscivo a smettere di pensare che io avrei potuto fare di meglio, che io sarei stata più seria, che io avrei usato un’altra espressione, che io non avrei fatto quegli orrendi errori, che se avessi scritto a modo mio un discorso del genere, nelle mie mani sarebbe stato ben lontano dalla mediocrità che gli apparteneva.
Il cellulare, nello stesso momento in cui giungevo ad una tale realizzazione, è squillato. Io sono scattata a recuperarlo, rovistando nella tasca dell’uniforme, facendo cadere a terra durante quest’operazione anche un pezzetto di carta ripiegato.
Era un messaggio: Nick voleva rivedermi. Io ho fatto subito per cancellare il messaggio, quando all’improvviso mi sono resa conto di una cosa.
Perché stavo rifiutando l’offerta di una cena fuori?
Perché non mi andava.
E a cosa era dovuta la mia mancanza di entusiasmo?
Non poteva di certo trattarsi solo del discorso. Avevo già deciso che l’avrei continuato il giorno seguente. Mancava poco alla cerimonia, ma ero comunque troppo esausta per spremere ulteriormente le mie meningi.
E…allora?
Conoscevo la risposta. La conoscevo eccome. E questa era la stessa risposta al mio inspiegabile spossamento e alla sbronza esagerata del sabato precedente.
La risposta a tutto era solo una. O meglio, solo un nome, alla cui menzione i miei pugni si stringevano fermamente e un senso di rancore profondo iniziava a solleticare le mie viscere.
Non riuscivo ad andare avanti per colpa sua. Mi stavo riducendo ad un relitto a causa sua.
Ho stretto il cellulare nel mio palmo, prima di cancellare la mia risposta negativa a Nick e sostituirla immediatamente con un: “Va bene. Quando passi a prendermi?”.
Poi mi sono fiondata a prepararmi.
Quando, un’ora dopo, lui stava annusando il profumo del mio collo, io ho rilasciato un sospiro di sollievo. Era calmante sapere già come sarebbero andate a finire le cose. Avevo nuovamente il controllo.
E avrei anche impedito che lei mi riducesse peggio di così.
Il martedì a scuola è passato allo stesso modo del giorno precedente. Fortunatamente, però, non mi sono state recapitate altre notizie sconvolgenti e il mio sguardo dirottava automaticamente il suo focus, se per sbaglio veniva in contatto con una voluminosa capigliatura mogano.
Le Gallinelle, d’altro canto, erano diventate più rumorose a proposito della mia nomina a valedictorian e continuavano ad assillarmi sul discorso che, a mia detta, era già ben avviato.
«Di cosa parlerai?», ha domandato Sally, accendendosi di entusiasmo.
Io ho ingoiato il boccone di cotoletta che avevo già infilzato con la forchetta, prima di risponderle: «Beh, della scuola ovvio, e cose così…»
La mia risposta vaga le ha confuse.
Se le Gallinelle in tutti questi anni hanno compreso una sola cosa di me, è che di solito vado sempre al punto. I giri di parole stancano me per prima.
«Cose così?», ha replicato Ashley, confusa.
«Uhm…è una sorpresa», mi sono affrettata a rispondere.
La carta della sorpresa, per mia fortuna, le ha vinte totalmente.
Nancy ha iniziato a protestare: «Dai! Sono curiosa, diccelo!»
«No! Una sorpresa deve rimanere segreta fino al momento giusto!», è intervenuta Rita.
«Ma cosa stai dicendo!»
«Non m’importa, voglio sapere di cosa si tratta!»
«Ma la sorpresa sarà per noi?»
«Non lo ha specificato!»
«E per chi vuoi che sia, stupida!»
«Ehi! Stupida a chi?!»
Ridendo sotto i baffi, mi sono limitata ad osservarle discutere su quell’ipotetica sorpresa, senza aver alcun bisogno di intervenire per mantenere viva la conversazione.
Tornata a casa, mia madre mi ha informato di non essere riuscita ancora a contattare mio padre. E’ più difficile di quanto possa sembrare, per un ambasciatore, lasciare prima del tempo la dimora del Presidente, anche se per questioni familiari di massima urgenza.
Ho tentato di non essere troppo delusa da questa comunicazione, ma mia madre se ne è accorta lo stesso e mi ha stretta in un abbraccio stritolatore.
Io ho sospirato, scocciata, accettandolo doverosamente, ma tentando allo stesso tempo di allentare la sua presa il più possibile.
Lei mi ha accarezzato i capelli e sollevando il mento per poggiarlo sulla mia spalla, mi ha sussurrato nell’orecchio: «Mi dispiace, non volevo che deludesse anche te.»
Mio padre? Deludere me? Non avevo mai pensato che una tale opzione potesse esistere prima.
Siamo rimaste così per un altro po’. Io non sapevo esattamente cosa rispondere e lei non aveva altro da dire.
«Mamma…devo andare a scrivere il discorso per il diploma…», ho mormorato un po’ a disagio, anche se era la verità in fondo. Le effusioni si stravano trascinando un po’ troppo per le lunghe.
«Va bene.»
Mi ha lasciata andare e i suoi occhi mi sono sembrati lucidi per un istante, prima che lei si voltasse e tornasse in cucina, permettendomi di salire al piano superiore.
Ho avvertito ancora la stranezza del suo nuovo comportamento e, ad essere sincera, in un primo momento mi ha fatto persino pena.
Ma non dipende da lei questa situazione? Non dipende da lei la sua delusione verso mio padre? Perché mai dovrei provarla io? Perché dovrebbe convincermi a pensarla nel suo stesso modo? Dovrei avere pena per gli sbagli della sua vita? Dovrei compatirla per essersi dedicata ad un matrimonio che la rende sola, ad un marito lontano e ad una figlia che, suo malgrado, non riesce a comprendere il senso di questa tortura auto-imposta?
E comunque non era necessario che capissi una cosa del genere al momento. L’unica cosa fondamentale era scrivere il discorso.
Tornata in camera mia, sono quasi scivolata, mettendo il piede su una mattonella apparentemente troppo liscia. Ho evitato la caduta, appoggiandomi ad un’anta della libreria e poi ho guardato giù verso i miei piedi.
Sotto le mie pantofole c’era un pezzo di carta ripiegato, decorato da un’orma ben evidente che chiaramente mi apparteneva.
L’ho raccolto e, nello stesso momento in cui l’ho fatto, ho ricordato di cosa si trattasse.
Mi sono affrettata ad aprire subito le quattro parti in cui era piegato il foglio, e mi sono subito ritrovata faccia a faccia con l’ipnotico canarino disegnato da Roxanne.
Conoscendo già l’effetto che mi provocava fissare le sue pupille troppo a lungo, ho evitato di guardarlo troppo profondamente.
Ricordavo di averlo recuperato dal cestino in cui la Miller l’aveva gettato, ma che ci faceva sul pavimento della mia stanza? Non l’avevo lasciato nella tasca dell’uniforme?
Oh poco male. Probabilmente doveva essere scivolato.
L’ho riposto sulla scrivania, ripiegandolo di nuovo e ho riacceso il computer per cercare di trovare altri spunti che mi potessero aiutare. Alcuni discorsi da cui avrei voluto prendere spunto si incentravano su storie troppo personali, altri parlavano in generale di esperienze scolastiche, altri parlavano di ideali introdotti dai significati di alcune metafore, da immagini di vita…
Un attimo…immagini?
Come colta da un’idea, ho dispiegato il foglietto velocemente e mi sono trovata di nuovo davanti al canarino ingabbiato.
Liberami.
Senza nemmeno sapere con che logica avessi deciso di procedere, mi sono trovata a digitare “ritratto di un uccellino” come parole chiave per il motore di ricerca.
Ed è stato lì che ho trovato una poesia molto particolare: “Per fare il ritratto di un ucello” di Prévert.
Mentre leggevo quei versi, nella mia mente è nato ciò che cercavo. La storia che avrei voluto. Le parole con cui l’avrei scritta. La rabbia taciuta, il rimorso crescente, il bisogno soffocante, la speranza timorosa, il futuro stimolante.
Era tutto lì.
Ho afferrato la stilografica e ne ho quasi rotto la punta a causa della fretta con cui ho trascritto tutto per non dimenticare nulla. Dopo un po’, ho preferito ritornare all’uso della comune penna a stilo, non altrettanto preziosa e raffinata, ma al contempo capace di sopportare la violenza dei miei impeti di scrittura.
Ho letteralmente mandato al diavolo Nick, quando lui si è fatto sentire poco dopo, e ho continuato imperterrita la mia opera, cancellando, correggendo, scrivendo, modificando, aggiungendo pezzetti fino all’una passata. A quell'ora sono crollata e ho deciso che se non fossi andata a letto immediatamente, il giorno dopo i miei occhi sarebbero stati contornati da due borse colossali.
Ritrovata la mia iniziativa, mercoledì è stato di sicuro un giorno più piacevole dei due precedenti, sebbene la mia mente fosse offuscata da spunti e da altro materiale che mi sarebbe piaciuto aggiungere, ma non sapevo se poteva rientrare nel contesto del discorso.
Intorno a me le persone si facevano sempre più nostalgiche, la distribuzione degli Annuari Scolastici era ormai già iniziata e, tra commenti eccitati e depressi per qualche foto venuta male, tutti sembravano ansiosi a proposito della cerimonia del diploma.
Ho incontrato per giunta Roxanne nei corridoi affollati e a lezione, ma sarebbe stato praticamente impossibile parlarle, persino se avessi voluto realmente farlo.
L’unico pensiero che impediva alle Gallinelle di sciogliersi in un mare di lacrime, invece, era la fantomatica sorpresa - che erano certe avrei dedicato loro - durante il mio discorso da valedictorian.
Alla fine delle lezioni, sono potuta finalmente tornare a casa e solo lì ho avuto l’occasione di tranquillizzarmi, lasciando che le idee accumulate durante la giornata potessero nuovamente esplodere, come il giorno seguente. Ho trascritto nuovamente tutto di getto, senza prestare molta attenzione alla coerenza lessicale, particolare che avrei sistemato il giorno seguente.
Il giovedì, ultimo giorno di scuola prima della cerimonia, è passato tra abbracci, lacrime (non mie, chiaro), saluti da parte dei professori, auguri vari da altri studenti che non avevo mai visto in vita mia, lagne delle Gallinelle, Roxanne che è venuta a salutarle, nel momento stesso in cui io mi sono dovuta casualmente allontanare, strette di mano, ringraziamenti, bacini, bacetti, baciotti, bacioni, ultimi “in bocca al lupo” da coloro che sapevano della mia nomina a valedictorian, ultime frecciatine dagli invidiosi, l’ultima stilla di rancore da parte di Thelma, ultimi patetici approcci dei vecchi ammiratori, ultima (per fortuna) corsa spericolata per evitare la gratitudine di Patty Mason, Jason costantemente presente al limite del mio campo visivo, e poi Roxanne Miller e un suo mezzo sguardo.
Un mezzo sguardo che non sono riuscita ad impedirmi di restituire. Un mezzo sguardo che era un po’ mi sento in colpa, un po’ mi dispiace, un po’ non vorrei farlo ma devo, un po’ arrivederci, un po’ spero che in fondo tu stia bene.
Ma solo un po’, perché tutte quelle parole taciute erano state divise esattamente a metà tra me e lei.
Voltandole le spalle per prima, ho stretto i pugni ripensando alle parole che da giorni tentavo di scrivere e, per la prima volta, ho dubitato dell’efficacia delle mie stesse idee.
No. Andrà tutto bene.

Giusto. Era praticamente impossibile accettare che quel lavoro per cui avevo tanto faticato risultasse infine inutile. Dovevo smetterla con le paranoie.
Giovedì pomeriggio ho sigillato la mia camera a mo' di bunker e ho corretto fino all’ultimo momento la bozza che avevo scritto nei giorni precedenti.
Ne ero piuttosto soddisfatta, nonostante tutto. Chiaramente nella mia testa quell’ammasso di parole aveva molto più senso, ma allo stesso tempo ero riuscita ad estrapolare un numero consistente di concetti di cui avrei voluto parlare.
Ci ero riuscita, finalmente!
Venerdì mattina, la giornata sembrava prospettarsi già come una delle più calde di tutta la stagione, perciò avevo deciso di non indossare la toga, prima di arrivare a scuola.
Per un capriccio di pura vanità, volevo poter sfoggiare il più possibile il mio abito di seta a vita alta, drappeggiato, il cui colore sfumava leggermente dal delicato rosa salmone della parte superiore fino ad un colore più scuro nella parte inferiore della gonna. Ai piedi, invece, avevo abbinato al vestito un paio di Louboutin peep toe neri. Nella mano destra, invece, tenevo in mano un
chiaro cappello a cloche della Dolce e Gabbana, unico tocco soft del mio abbigliamento, decorato da un bel nastro e da un fiocchetto laterale. Mia madre, vestita di tutto punto sui toni del bianco, mi seguiva eccitata, portando con sé la cartellina contenente il mio discorso.
Giunte al campo da calcio dove si sarebbe svolta la cerimonia, dopo un breve tragitto in taxi, mia madre mi ha baciata sui capelli, che fortunatamente avevo lasciato semplicemente sciolti e arricciati nella parte inferiore, e si è andata a sedere assieme agli altri genitori. Le ho chiesto di mantenere per me la cloche, in modo da poterla sfoggiare in seguito.
Poi ho indossato di malavoglia la mia toga azzurra, lasciandola però aperta sul davanti, e ho raggiunto lo spazio di raccolta dei professori e dei diplomandi.
Malgrado l’ansia che percepivo scorrere sin nei polpastrelli delle mie mani, mi sono imposta di comportarmi tranquillamente. Ho fatto un respiro ampio prima di rituffarmi in un altro mare di abbracci come il giorno precedente, solo che stavolta i gesti d’affetto si erano fatti più forti, proprio perché la sensazione che tutto fosse giunto al termine aveva ormai raggiunto il suo culmine.
Le Gallinelle hanno insistito perché prendessi posto accanto a loro, a cerimonia iniziata, ma io ho dovuto rifiutare, perché, in quanto valedictorian, il mio posto sarebbe stato in una delle prime file, accanto al salutatorian, il ragazzo che avrebbe introdotto il mio discorso con una breve premessa.
Le Gallinelle hanno protestato e sono scoppiate in una serie piuttosto noiosa di pianti e lagne, che io ho tentato immediatamente di arginare, promettendo loro che avremmo passato sicuramente del tempo assieme dopo la cerimonia.
Ma fortunatamente, a distrarle subito dalla mia scomparsa, ci ha pensato la loro squadra di rugby, raccoltasi in massa per salutarle. In questo modo, sono riuscita a dileguarmi senza troppi problemi.
Sfuggita dalla morsa asfissiante delle Gallinelle, ho preferito evitare altri abbracci e ultimi saluti, dedicandomi solo a scorrazzare un po’ per il campo erboso. I miei tacchi affondavano nettamente nel terreno, bucandolo con precisione, e la mia toga si gonfiava sulle mie spalle a causa del vento, donandomi quasi un incedere spettrale.
Nel mio vagare, ho assistito a numerose scene di affetto famigliare - talvolta troppo patetiche perché potessi sopportarle interamente - , strette di mano vigorose tra i professori e i genitori dei neo diplomandi, gesti di incoraggiamento, brevi cenni di capo da coloro che mi riconoscevano, ma non avevano il tempo di fermarmi per scambiare quattro chiacchiere, finchè il mio sguardo è stato catturato da una scenetta famigliare un po’ diversa dalle altre.
Non c’era nulla di strano, ad essere sinceri, nella scena in sé, ma ciò che mi aveva colpita di più erano stati i suoi protagonisti. L’inconfondibile Madison, dalla capigliatura nera e dal quasi onnipresente sorriso sornione, torreggiava tra sua madre e sua sorella Roxanne, allo stesso modo inconfondibile, e sembrava essere quasi intenta a incoraggiare le due a scambiarsi ancora un altro abbraccio.
Mi sono sentita congelare sul posto quando ho realizzato che, se se la madre di Roxanne l’aveva raggiunta a Milwaukee, con molta probabilità anche il suo compagno aveva fatto lo stesso.
Guardandomi intorno, però, non sono riuscita ad individuare nessuno che assomigliasse al trentenne occhialuto, che tanto aveva segnato il passato di Roxanne.
La Miller, d’altra parte, sorrideva liberamente a sua madre e a sua sorella nel suo semplice abito smanicato bianco, decorato da grosse margherite nere, come non credo sarebbe stata capace di fare se lui fosse stato presente.
C’era qualcosa di troppo affrettato nella sua risata, però, che non mi convinceva del tutto.
Iniziando a ridere prima ancora che le sue due interlocutrici cominciassero a parlare, mi trasmetteva l’impressione che volesse dimostrare che quello scambio di battute fosse divertente, piuttosto che pensarlo per davvero.
Stavo per abbandonare la mia indiscreta osservazione della famiglia, quando nello stesso momento, Madison ha intercettato il mio sguardo oltre le spalle di sua madre.
«Ehi Kate!», ha esclamato, sventolando vivacemente la mano nella mia direzione.
Sua madre e sua sorella, di conseguenza, si sono immediatamente voltate nella mia direzione. Non sapendo esattamente cosa fare, ho risposto al saluto, sforzandomi di sorridere con nonchalance e poi ho ripreso in fretta il mio vagabondaggio, solo dopo aver assistito ad un'occhiata incerta di Roxanne.
L'incertezza non è poi così male, no? Almeno non sarei dovuta partire totalmente da zero.
La cartellina contenente il discorso era adesso nelle mie mani frementi.
Avrei potuto realmente leggere una cosa del genere? Mi era concesso? Lei me l’avrebbe concesso?
«Hudson, cos’è quella faccia distratta? Non ti senti pronta per il discorso?», la professoressa Brighton, la mia insegnante di lettere, mi si è avvicinata sorridente, stretta in quella che lei avrebbe chiamato stola, ma io avrei definito lo scialle di una vecchia.
Io ho esitato solo un attimo, prima di rispondere adeguatamente, senza reagire in nessun modo alla subdola insinuazione: «No, professoressa, niente affatto. Stavo semplicemente tentando di raccogliere la mia concentrazione per dopo.»
Lei ha annuito e poi ha adocchiato la cartella che avevo in mano.
«So che hai già avuto l’approvazione degli altri professori, ma potrei dargli un’occhiata?», mi ha chiesto, allungando verso di me un braccio flaccido e attorniato da una serie cospicua di bracciali, che, scontrandosi tra di loro a causa del movimento, producevano un rumore fastidiosissimo.
Io ho aperto il raccoglitore, per poi estrarre accuratamente il documento e porlo alla professoressa. Gutierez e il consiglio dei docenti, avevano potuto esaminarne solo la bozza, perché avevo terminato la versione definitiva solo la notte precedente (a causa del tempestivo avviso del Preside, è chiaro), eppure non avevano esitato a darmi tranquillamente l’approvazione che mi aspettavo.
Cosa aveva in mente di fare la Brighton, allora, se il testo non le fosse piaciuto? Ormai era troppo tardi per rimediarvi, e per di più io ero certa che la professionalità del mio lavoro non avrebbe deluso nessuno.
Scorrendo le pagine ad una velocità incredibile, terminata la sua lettura, l’insegnante ha poi posato gli occhi su di me e mi ha messo bruscamente i fogli di nuovo in mano.
«Può andare», ha asserito, ma prima che terminassi di dire il mio «Grazie», lei se n’è andata via precipitosamente, raccomandandomi di raggiungere il più presto possibile il salutatorian, per definire gli ultimi accordi prima dei nostri due discorsi.
Patrick Riggs, il suddetto salutatorian, era in un angolo del campo, circondato, come molti altri studenti, dalla sua famiglia.
La cosa che contraddistingueva i Riggs dagli altri, però, era che questi ultimi a differenza dei restanti presenti, non avevano un’espressione affatto lieta sui loro volti.
Per vie contorte, sono venuta a sapere che il fratello maggiore di Patrick è entrato in coma qualche settimana fa, perciò potevo comprendere senza sforzo il motivo della mancanza di facce felici.
Lo stesso Patrick, indossando la toga gialla caratteristica degli studenti di sesso maschile, in contrasto a quella azzurra di noi ragazze, non sembrava affatto entusiasta a proposito del suo compito di secondo studente più distinto della scuola.
Rallentando e addolcendo il ritmo del mio passo, ho cercato di avvicinarmi a lui quel tanto che gli permettesse di avvistarmi e venire spontaneamente verso di me.
Scusandosi dai membri della sua famiglia, mi ha immediatamente raggiunta.
«Sì, Kate?», ha domandato atono.
C’eravamo fermati a parlare brevemente per un paio di volte nei giorni precedenti, dopo aver saputo di essere stati nominati rispettivamente valedictorian e salutatorian, ma sin dal primo momento non ero riuscita a cavare da lui nemmeno un minimo interessamento per me. Non una fuggevole occhiata ammirata, né un elogio sofisticato tipico dei secchioni come lui…insomma, niente di niente.
Non che mi interessasse piacergli, chiariamoci, solo che l’indifferenza non è una reazione che sono abituata a scatenare.
Oppure, più probabilmente, deve essere gay.
«Allora, per quello che avevamo concordato…sicuro che ti vada bene inserire la poesia nella tua parte finale?», gli ho domandato.
«Sì, non c’è problema, ha commentato Patrick, sistemandosi per l’ennesima volta la cravatta sotto alla toga, «Trasmette in ogni caso un bel messaggio e per di più mi ha salvato il problema di preparare una presentazione più lunga dopo il tardo avviso del Preside».
«Non dirlo a me. Solo che io ho scritto già di per sé un discorso lungo e non mi va di protrarlo ulteriormente con la poesia, anche se quella mi serve per inquadrare tutto il resto. E poi inserirla renderebbe collegati anche i nostri due discorsi», ho tentato di spiegarmi, mantenendo il più possibile il colloquio in termini cordiali, anche se il suo piccolo tic con la cravatta iniziava a darmi davvero sui nervi.
«Va bene, ti ripeto. Non c’è problema: la leggerò io», mi ha rassicurata.
«Oh. Ok.»
Dopo qualche secondo di stallo - in cui lui ha continuato a guardarmi con la stessa attenzione che in genere si dà ad un muro spoglio - io mi sono ricomposta, salutandolo, e cercando di andare via il prima possibile da quell’atmosfera opprimente.
Gay, certo. Non c’era altra spiegazione.
I miei vagabondaggi, poco dopo, sono stati bruscamente interrotti dalle prove al microfono del professor Lennard. Stavano testando tutte le apparecchiature per il discorso del Preside, che sarebbe iniziato a minuti.
Iniziando a sentire improvvisamente una strana ondata di nervosismo, ho preferito prendere il mio posto nella prima fila, tra la vice Preside e Patrick Riggs, il quale mi aveva preceduto di un bel po’, accomodandosi di già e decidendo di rileggere tra sé la sua breve introduzione al mio discorso.
Senza dire una parola, mi sono seduta accanto a lui e sono stata tentata anche io di rileggere il mio testo, solo che nella mia mente si era già insidiata l’effimera convinzione che avevo sbagliato qualcosa, che il mio messaggio non sarebbe arrivato, che non avrei dovuto insistere così tanto e avrei semplicemente dovuto lasciar perdere tutto.
Un minuto dopo mi sono sgridata per quel ingiurioso pensiero a riguardo del mio lavoro. Mi ero impegnata tantissimo, malgrado il tempo ristretto, per renderlo una cosa che potesse rendermi orgogliosa, e ora ero disposta a buttarmi giù così facilmente con le mie stesse mani?
Mi sono sorpresa di me stessa per un tale pensiero. Non era da me. Sapevo di aver fatto del mio meglio e, al posto di vantarmene, mi deprimevo a tal punto?
Perché stavo reagendo in questo modo?
Ah già. Era colpa di Roxanne.
Avevo tentato di ignorare quell’oppressione che mi era caduta addosso, ma non ci ero affatto riuscita. Avevo cercato di sbarazzarmene, ma quest’azione si era rivelata allo stesso modo inutile.
C’era solo un modo per risolvere la situazione, quindi: riportare le cose a come erano prima. E l’unica chance per fare questo risiedeva nelle mie mani. Ma come potevo riuscire a convincere lei, se io ero la prima ad non aver fiducia nel mio operato?
«E ora ho il piacere di accogliere sul palco il signor Patrick Riggs, il salutatorian di quest’anno, per il suo discorso di apertura!», la voce tonante del Preside è riecheggiata nelle mie orecchie e tutto ad un tratto sono tornata alla realtà.
Patrick Riggs, al mio fianco, si è alzato dal suo posto e si è diretto verso il palco per raggiungere il Preside, il quale con il braccio teso verso di lui, lo invitava a salire sul palco.
Patrick ha mantenuto la sua espressione stoica per tutto il suo percorso, e solo quando si è trovato davanti al Preside, che gli ha consegnato il microfono, ha fatto un breve sorriso, si è sistemato gli occhiali e ha iniziato a leggere la sua introduzione.
Sbattendo perplessa gli occhi, mi sono guardata intorno. Non dovevamo aspettare quasi un’ora prima di salire sul palco? Il benvenuto del Preside che fine aveva fatto? E l’intro musicale? Avevano saltato tutto?
L’orologio, tuttavia, mi ha confermato che, nonostante il mio vuoto, la cerimonia era avvenuta secondo quanto stabilito. E io, rinchiusa nei miei pensieri, me l’ero persa completamente.
In panico, ho guardato Patrick giungere brevemente a conclusione della sua piccola introduzione, non prima di aver citato, a mio beneficio, la poesia di Prévert che gli avevo suggerito, anche se non avevo la minima idea del contesto nella quale l’avesse inserita.

«Per prima cosa dipingere una gabbia
che abbia la porta aperta
quindi dipingere
qualcosa di grazioso
qualcosa che sia semplice
qualcosa che sia bello
qualcosa di utile
per l'uccello
mettere poi la tela contro un albero
in un giardino
in un bosco
o in una foresta
nascondersi dietro quell'albero
senza dire niente
e senza muoversi
talvolta l'uccello arriva svelto
ma può anche metterci anni e anni
prima che si decida
Non scoraggiarsi
aspettare
aspettare se occorre anche per anni
la rapidità o la lentezza dell'arrivo dell'uccello
non ha nulla a che fare
con la riuscita del quadro
Quando l'uccello arriva
se arriva
osservare il silenzio più assoluto
aspettare che l'uccello
entri nella gabbia
e quando l'avrà fatto
richiudere dolcemente la porta col pennello
e poi
cancellare una per una tutte le sbarre
avendo cura di non toccare le piume dell'uccello
Fare a questo punto il ritratto dell'albero
scegliendo il suo ramo più bello
per l'uccello
dipingere allora il fogliame verde e la freschezza del vento
il pulviscolo del sole
il rumore degli insetti nascosti nell'erba
nella calura estiva
Poi aspettare che l'uccello abbia voglia di mettersi a cantare
Ma se non canta
è un gran brutto segno
è segno che il quadro è venuto male
Ma se canta invece è un buon segno
segno che il lavoro va firmato
E quindi voi strapperete
con grande dolcezza a quell'uccello
una sua piuma e scriverete
il vostro nome in un angolo del quadro.»


Come risposta al suo intervento, seguito da altri brevi ringraziamenti che non sono riuscita a seguire, il pubblico ha applaudito calorosamente e il Preside ha lanciato uno sguardo orgoglioso a Riggs.
Con una rapidità esasperante, era finalmente giunto il mio momento. E io non ero pronta. Affatto.
Non cito tutte le bestemmie che mi sono passate per la testa in quell’istante, perché in meno di un minuto me ne sono venute in mente più di quante credevo di conoscerne; fatto sta che mi sono sforzata di mantenere un sorriso, mentre Patrick, che aveva oramai terminato il suo compito, è tornato a sedermi accanto e il Preside, questa volta, ha rivolto il suo invito a salire sul palco
a me.
Sorridi, cammina con grazia, lascia fluttuare la toga azzurra sulle spalle, i capelli perfettamente arricciati al vento e…
Conquistali.
Il dirigente scolastico poi mi ha offerto una medaglietta, simbolo del mio ruolo da valedictorian, e io l’ho accettata di buon grado, piegando leggermente il capo, in modo da facilitargli l’operazione.
Mi sentivo fremere dall’ansia e dall’impazienza di cominciare, ma al tempo stesso avvertivo dentro di me la solita eccitazione di essere al centro dell’attenzione. Finalmente avevo una buona idea del numero di persone presenti, visto che vederle sparse per l’immenso campo non rendeva allo stesso modo.
Il sole splendeva sulle teste del pubblico e faceva piuttosto caldo, ma per fortuna una piccola pensilina e il cappello da diplomando, mi riparavano dal sole.
Potevo finalmente cominciare.
«Per concludere, un addio e un augurio caloroso a tutti voi, diplomandi», ha dichiarato il Preside, prima di cedermi il microfono, «Vi lascio al discorso del valedictorian di quest’anno: la signorina Katherine Johanne Hudson!»
Ho accolto l’applauso caloroso seguito alla proclamazione del mio nome e ho deglutito, calmando una volta per tutte i miei pensieri. Ho individuato al primo sguardo le Gallinelle sventolare allegramente le braccia verso di me e ho sorriso loro, prima di notare che seduta accanto a Rita c’era Roxanne, assieme alle sue due amichette. Ho notato persino che Nancy appariva turbata dalla vicinanza così ristretta con sfigate di quel calibro, ma si sforzava comunque di mantenere un sorriso, incitando il mio nome.
Prima di lasciarmi assalire da qualsiasi tipo di emozione, in ogni caso, ho sorriso ancora in direzione di tutto il pubblico, e ho iniziato a parlare.
Ho incollato qui tutto il mio discorso.
«Un caloroso benvenuto ai nostri distinti ospiti, alle famiglie presenti, ai docenti e a tutto il resto del personale scolastico che ogni mattina mi ha dato il buongiorno per più di quattro anni; vi ringrazio di cuore di essere venuti!», sorrisi, tanti sorrisi. Al pubblico non sembrava dispiacere.
«Spero di poter commemorare nel modo migliore la vostra presenza qui oggi con il mio discorso, ma lascio a voi l'opportunità di giudicare se le mie parole saranno in grado di assolvere a tale compito.»
«Se devo dirvi la verità, per lungo tempo ho desiderato che la fine della scuola superiore arrivasse il prima possibile», sguardi perplessi da parte del pubblico, perfetto, proprio quello che volevo ottenere, «Sì, non guardatemi in quella maniera, lo so che sono qui per parlare proprio di quello che hanno rappresentato questi anni e non di quello che ci sarà dopo, come so altrettanto bene che da adulta tutte le responsabilità mi faranno rimpiangere a lungo questi momenti spensierati. I miei genitori mi hanno ripetuto questo discorso un'infinità di volte, anche se io sto cercando ancora di capire a cosa esattamente si riferissero», smorfia buffa per guadagnare la loro simpatia, seguita come previsto da brevi risatine, «ma, nonostante tutto, l'entusiasmo di andare verso il futuro è sempre stata la cosa più forte che ho avvertito dentro di me, per quanto io possa ricordare», tono più grave, adesso si inizia a parlare di cose serie, «Non dico che ciò mi abbia impedito di godere del presente, questo no, ma tali pensieri oscuravano così tanto la mia mente, da impedirmi di dare più di una fuggevole, distaccata occhiata a quello che mi stava accadendo.»
«Pensavo costantemente a cosa avrei fatto, dove sarei stata, chi avrei incontrato e semplicemente il presente per me non riusciva ad avere la stessa attrattiva dell'avvenire. In poche parole, per ricollegarmi alla poesia precedente che il nostro salutatorian ha letto, tentavo di ritrarre un uccellino che non era ancora arrivato», il mio sguardo, prima vagante, si è fissato su Roxanne e l’ho vista sussultare quasi impercettibilmente. Reazione ugualmente prevista. Ho continuato come nulla fosse, staccando di nuovo gli occhi da lei e rivolgendomi al resto del pubblico, con fare teatrale. Tutti mi fissavano incuriositi, alcuni spaesati, alcuni scettici, ma avevo comunque i loro sguardi concentrati sulla mia figura, come era mia intenzione.
«In parte ciò è ancora vero tutt'oggi, ma dopo l'arrivo di una persona alcuni mesi fa, è stato come se la mia vita avesse rallentato il suo ritmo: i giorni dovevano essere vissuti singolarmente e non come settimane intere che correvano talmente veloci da sfuggire alla mia realizzazione», di nuovo sono tornata visivamente su Roxanne e di nuovo lei è stata scossa da quelle parole. Ho represso un sorrisino di vittoria solo per mantenere la tensione.
«E così, dopo questo fatidico incontro, ho aperto gli occhi e ho iniziato a guardare davvero il mondo a cui ero da sempre appartenuta e che avevo volutamente ignorato per potermi concentrare troppo in anticipo su progetti utopici», tono dolce, incoraggiante, che li invogli ad ascoltare quella che appare semplicemente come una storiella, ma in realtà è molto di più.
E’ la mia strategia.
«Vivendo questa esperienza così inaspettata, ho scoperto quell'entusiasmo e quelle risate che mi erano mancate per tutta una vita, accompagnate anche da una bella dose di incomprensioni per nulla facili da sistemare», ho modellato ancora la mia espressione per scatenare il coinvolgimento del pubblico, «Ma questo è vivere, nel bene o nel male, e vivere è essere pronti ad accettare ciò che c'è di positivo o negativo, senza alcuna barriera frapposta fra noi e il mondo. Questa barriera viene rotta dalla fiducia che abbiamo nel prossimo.»
«Io non sono mai stata consapevole dell'esistenza di questa barriera dentro di me, fino a quando la fiducia che una persona mi ha concesso ha tentato di mandar giù tutte le mie difese.»
«Questa era una situazione talmente nuova per me, mi confondeva, mi indeboliva e ciò ha innescato una diffidenza maggiore, un'incapacità di comunicare i miei problemi a chi si preoccupava così tanto e cercava di comprendermi come meglio poteva», altro sguardo rivolto a Roxanne, che stavolta sembrava aspettarselo. La sua espressione era apparentemente grave, le labbra pressate in una linea dritta e la sua attenzione completamente focalizzata su di me. Tuttavia non potevo dire che le cose stessero andando male.
«Se sono qui oggi, è perché ho trovato qualcuno che è stato capace di credere in me e nelle mie capacità, affidandomi il compito di lasciarvi andare via con un bel ricordo di questo giorno.»
Nominare lo staff scolastico, per la leccata di culo d’obbligo: «Proprio per questo, allo stesso modo in cui professori che durante questi anni mi hanno seguita, consigliata e onorata grazie a questo incarico, vorrei tanto che anche questa persona potesse ancora credere in me come una volta.»
«Probabilmente nel futuro che ho tanto atteso e che adesso è vicino più che mai, commetterò altri sbagli e tornerò a chiederle scusa, anche se magari non potrò più farlo così pubblicamente come sto facendo adesso», ironizzo per spingerli a ridere, e infatti ottengo calorose risate. Roxanne, però, non reagisce, «ma oggi noi tutti siamo qui per chiudere un capitolo della nostra vita e aprirne un altro nel modo migliore possibile e io vorrei farlo senza trascinarmi dietro alcun tipo di rimpianto.»
«Non ho la minima intenzione di scatenare commozione, o quant'altro, semplicemente spero che tutti voi possiate salutare questa scuola andandovene con un sorriso e tanti bei ricordi stampati nel cuore», e sulle mie fatidiche parole, le Gallinelle si stanno già soffiando il naso in fazzolettini intrisi di lacrime.
Continuo sorridente, scatenando le reazioni che avevo precedentemente programmato.
Ridono quando voglio io, si fanno più seri quando io imposto l’intonazione della mia voce in un modo differente, percepiscono ciò che voglio dire, senza che lo dica, eppure non riescono a trovare alcuna via d’uscita da questo condizionamento. Sono completamente nelle mie mani. E io adoro questa sensazione di potere.
«Infatti, esattamente come io ho sbagliato a vivere troppo nel futuro, c'è persino chi erroneamente è attaccato troppo al passato», Roxanne avvampa alla mia occhiata, intendendo benissimo cosa volessi dire, «Entrambe le cose non portano nulla di buono: in un modo si perde tutta la bellezza e la spontaneità del momento, nell'altro saremo sempre infelici perché incapaci di lasciare andare via qualcosa che in fondo abbiamo già perduto.»
«Prévert diceva: “Aspettare, se occorre anche per anni. La rapidità o la lentezza dell'arrivo dell'uccello non ha nulla a che fare con la riuscita del quadro. Quando l'uccello arriva, se arriva, osservare il silenzio più assoluto. Aspettare che l'uccello entri nella gabbia e, quando l'avrà fatto, richiudere dolcemente la porta col pennello e poi cancellare una per una tutte le sbarre, avendo cura di non toccare le piume dell'uccello.”»
«Questa poesia mi ha ispirata, perché contiene tutto ciò che avrei voluto esprimere quest’oggi. Tutti noi durante questi anni abbiamo cercato qualcosa, il nostro soggetto da dipingere, e l’abbiamo atteso, anche se magari inconsapevolmente. Talvolta abbiamo sbagliato e l’abbiamo confuso per qualcos’altro. Talvolta siamo stati troppo frettolosi e l’abbiamo spaventato, facendolo volare via. Talvolta non siamo stati cauti, e stavamo quasi per distruggerlo con le nostre stesse mani.
Ma un punto fondamentale è questo: non siamo in grado di individuare cosa stiamo veramente aspettando, fino a quando non conosciamo a fondo noi stessi. Questi anni mi sono serviti a questo. Mi hanno permesso di crescere e di maturare con tante altre persone: coloro che mi hanno cresciuta», mia madre sedeva troppo in fondo perché potessi vederne chiaramente l’espressione, «tutti quelli che sono stati disponibili con me, chi mi ha appoggiata da lontano, chi mi ha seguito nonostante tutto e mi ha fatto sentire importante», non ho potuto evitare l’occhiata alle Gallinelle che, come pronosticato, ormai frignavano a tutto spiano, «quelli a cui invece non piacevo, chi non mi ha compreso, chi mi ha voluto bene e chi purtroppo ho involontariamente ferito», Roxanne appariva totalmente priva di espressione a questo punto.
Qui cominciano le lagne sulla validità della scuola e degli alunni, per attenermi al desiderio di “discorso tradizionale”, esplicitamente richiesto dal preside: «Questa scuola mi ha insegnato cosa vuol dire essere parte di un gruppo in cui collaborare per raggiungere i propri obiettivi. Un esempio eclatante di tutta la gentilezza che mi è stata concessa nei mesi passati, è stata l'esperienza del “Comitato D'Accoglienza” per gli studenti stranieri, provenienti da alcune scuole gemellate con la nostra. Alla fine i nostri sforzi per la loro festa di benvenuto sono stati ripagati con lo schianto di un aereo e, anche se la nostra avventura ha avuto disgraziatamente una fine tragica - lungi da me il desiderio di fare qualsiasi tipo di ironia in proposito -, la reazione di tutti gli altri miei compagni è stata quella che mi ha stupita di più. Agivano tutti all' unisono, uniti nei preparativi, uniti nella commemorazione dei defunti dell'incidente, come un vero e proprio organo compatto e non più entità distinte. Ormai è fin troppo facile accusare le nuove generazioni di mancanza di valori e sani principi. I bigotti non cercano altro che le continue notizie di cronaca nera sulle stragi del sabato sera, sulle crescenti morti per overdose, sugli sprechi e i vizi dei più giovani, per classificarci come rovina della società moderna.»
«Ma se tali dimostrazioni di collaborazione e di supporto comunitario, delle quali sono stata direttamente testimone, sono ancora possibili, allora forse c'è più di una semplice speranza che qualcuno tra i brillanti diplomati della classe di quest’anno possa sconvolgere gli stereotipi che portano gli altri a condannarci come generazione di drogati e nulla facenti.»
«Avrei potuto parlarvi di tutte le attività extracurricolari - mai troppe - che in molti, me compresa, si sono affannati a compiere all'ultimo minuto e ad elencare nelle proprie domande di ammissione universitarie, oppure del sudore versato, delle delusioni o ancora dei sorrisi di soddisfazione al termine di qualcosa andata a buon fine. Avrei potuto ricordare qualche aneddoto divertente appartenente alle notti insonni passate a studiare per gli esami, dove l’aggettivo "divertente" era stato ormai bandito dai vocabolari di qualsiasi lingua», risate, poi una pausa più seria, «ma ho deciso solo di accennarvi quello che ha significato per me il contatto umano che ho ricevuto e alcuni piccoli spaccati di un'amicizia che è nata tra queste pareti, si è nutrita di chiacchiere scambiate in corridoio e io sto tentando disperatamente (o quasi) di recuperare in questo modo.»
I miei riferimenti erano così eclatanti che, persino le Gallinelle, pur con le facce totalmente nascoste nei loro fazzoletti, hanno lanciato un’occhiata piuttosto esplicita in direzione di Roxanne.
Lei si è impietrita, se fosse possibile, ulteriormente, ma nonostante tutto io mi sono sforzata di andare avanti. Ero perfettamente cosciente che prima o poi avrei perso il controllo delle reazioni di Roxanne, visto il suo peculiare modo di pensare e di sorprendermi, perciò sul momento non me ne sono preoccupata più di tanto.
Davanti a me c’era un’intera folla di persone da intrattenere, e ormai i saluti finali si avvicinavano sempre di più.
«Un "grazie" e uno "scusatemi" a tutti voi, cari genitori, professori, amici e conoscenti, grazie per avermi permesso in un modo o nell'altro di comprendere i miei sbagli e scusatemi se magari non sono riuscita a rimediare completamente tramite queste parole; so per certo, però, che tutti i vostri insegnamenti e le lezioni di vita di cui mi avete resa partecipe durante la mia permanenza tra queste mura non saranno mai dimenticati da me.» Fortunatamente sono stata sempre brava a fingermi modesta.
«Nessun rimorso, nessun rancore, nessuna aspettativa, quindi, semplicemente dobbiamo essere pronti ad andare incontro a tutto quello che il nostro destino ci riserverà, con la migliore disponibilità d'animo», un’intonazione delicata e un sorriso altrettanto placido, ma al contempo irresistibile, da rivolgere alla gente, «Ed è con questo, un sorriso, che vi lascio miei ascoltatori. Spero di riceverne altrettanti anche da voi. In caso contrario, tuttavia, vi prego di evitare uova o altri generi alimentari, perché stonerebbero incredibilmente con queste favolose tuniche azzurre», ho riso seguita da un altro centinaio di persone tutte ugualmente divertite, «Buona fortuna a tutti i novelli diplomati e grazie a tutti per essere venuti!»
Assieme a tanti sorrisi, ho ricevuto un numero ancora maggiore di applausi. Tutta la folla sembrava di buon umore, escludendo le Gallinelle frignanti e l’impassibile Roxanne, e, per merito mio, si era diffusa, nell’aria di quella calda giornata di metà giugno, un’atmosfera serena e delicata che calzava a pennello.
Appena scesa dal palco, sono stata investita da una bolla di persone che mi hanno fatto complimenti e stretta in calorosi abbracci.
Persino Thelma, vincendo la sua diffidenza, mi si è avvicinata e mi ha detto: «Complimenti, devo ammettere che il discorso è stato bello. Di chi stavi parlando, però?»
«Sì, è vero, a chi ti stavi riferendo?», si sono accodate altre voci, imitandola.
Io mi sono guardata intorno spaesata, senza sapere cosa dire. Ho cercato le Gallinelle inutilmente, per usarle come scappatoia, ma sembrava che la folla avesse impedito loro di avvicinarsi a me.
«Ehm…», ho iniziato. Gli occhi dei presenti erano tutti fissi sulla mia figura.
«Permesso, permesso, fate passare!», la voce di Ashley è emersa da quella calca e io l’ho chiamata subito, sollevata.
Destreggiandosi tra gli spintoni, Ashley mi ha raggiunta e, sebbene inizialmente il suo primo impulso sia stato quello di piagnucolare ancorata al mio braccio, tra le lacrime è riuscita a dirmi che c’era qualcuno che voleva parlarmi.
«Chi?», ho domandato incuriosita. Se si fosse trattato di Roxanne non ci sarebbe stato tutto questo mistero, no?
Ashley, soffiandosi rumorosamente il naso e sorridendomi, ha insistito nel non dirmelo.
In qualche modo, siamo riuscite a distaccarci dalle persone che ci circondavano, e guidata a braccetto da lei, sono arrivata davanti ad un signore alto e distinto, vestito di tutto punto.
Non credevo ai miei occhi.
«Papà?»
Ashley ha avuto la decenza di concederci un po’ di spazio, tornando dalle altre.
L’uomo ha sorriso e mi si è avvicinato con grandi passi. Era papà.
«Oh! Guarda chi si vede! La mia principessa!»
Ci siamo abbracciati e io quasi non credevo ai miei occhi. «Come mai sei qui?», ho chiesto eccitata, «Mamma mi aveva detto che eri troppo impegnato.»
«Oh, sai com’è fatta tua madre. Tende ad esagerare drammaticamente qualsiasi cosa», ha sorriso e io ho ricambiato il sorriso, ancora scossa dalla sorpresa.
«Chi è che esagera drammaticamente qualsiasi cosa?!», è intervenuta mamma, raggiungendoci in modalità già impostata su Harriet l’isterica.
Mio padre ha riso sonoramente e io mi sono accorta di quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che avevo udito quel suono, «Ciao Harriet, come stai?»
Mia madre, nonostante le mie previsioni, era più cupamente arrabbiata, che visibilmente isterica, e gli ha risposto in tono apparentemente tranquillo.
«Mi avevi detto che non saresti venuto», gli ha fatto notare.
«Non potevo mancare in un momento così importante per la mia principessa», ha detto papà, sorridendomi, e una volta ancora io mi sono trovata ad imitarlo senza che ne fossi consapevole.
«Allora sei stata nominata valedictorian, uh? Sapevo di non potermi aspettare niente di meno da te», mi ha detto, ignorando ancora una volta la presenza di mia madre, e pizzicandomi affettuosamente il mento.
«Grazie», ho risposto orgogliosamente.
«Non dovresti mostrare alcun dubbio sulle potenzialità di tua figlia», è intervenuta mia madre e io le ho lanciato un’occhiataccia. Perché lo stava provocando così tanto?
«Non ho dubbi infatti», i suoi occhi, vivaci e affettuosi, hanno continuato a guardare solo i miei, «Solo che voglio che lei continui ad impegnarsi sempre per raggiungere questi traguardi. Una principessa potrebbe anche perdere il trono se si dimostra incapace di tenerselo stretto.»
Quell’ultima frase e il tono in cui l’aveva pronunciata, ha fatto scattare una sensazione ambigua dentro di me, che mi ha spinta subito ad allontanare qualsiasi tipo di dubbio da lui.
«Non c’è pericolo, papà, tranquillo», mi sono affrettata a replicare e lui, apparentemente soddisfatto di quel tipo di risposta, mi ha accarezzato la guancia.
«Bene. Princeton sarà una bella impresa da affrontare in futuro, anche se non puoi immaginare quanto mi sia dispiaciuto per Harvard…», la sua voce si era fatta più accorata e ho subito avvertito la sua delusione. Per colpa mia.
Non sapevo veramente cosa dire o come giustificarmi.
«Ron, perché continui ad insistere con questa storia? Kate ha fatto del suo meglio per entrare nella tua stupida università, e anche se non ha ricevuto l’ammissione, è stata comunque accettata in uno dei tre college migliori dell'intero stato!»
Le parole di mia madre non mi hanno risollevato molto il morale. Mio padre aveva sempre voluto che io fossi ammessa ad Harvard, la scuola nel quale aveva proseguito i propri studi universitari, ma non avendo superato l’intervista e i test di ammissione, ero stata, per così dire, solo accettata a Princeton.
Vedendomi un po’ turbata, mio padre, mi ha sollevato il mento e mi ha rassicurata che a lui non dispiaceva affatto ed era contento anche così. Io non gli ho risposto niente, perché sapevo bene che mi aveva mentito solo per tranquillizzarmi
«Comunque adesso devo andare», ha commentato frettolosamente, rimettendo il cellulare in tasca, dopo aver rifiutato una chiamata, «Sono contento di essere potuto almeno passare per fare gli auguri alla mia bellissima neo diplomata.»
Io ho sorriso e lui, dopo avermi tolto il capello in coordinato alla toga, mi ha baciato il capo, per poi salutare mia madre con un frettoloso bacio sulla guancia e un «Ci sentiamo al più presto.»
«E così se ne va, dopo averci fatto il solito lavaggio del cervello», ha detto mia madre, guardandolo andare via in fretta e furia, per poi entrare in una macchina nera ed essere condotto dal suo autista personale verso la prossima destinazione.
«Non riesco mai a non stupirmi di quello che ti inventi, mamma. Cosa c’entra il lavaggio del cervello questa volta?», ho domandato, esasperata da quegli stupidi tentativi per convertirmi in una sua alleata, a discapito di mio padre.
Poi le ho consegnato il capello e la toga da diplomando e ho recuperato il mio adorabile cappellino a cloche, che avrebbe armonicamente nascosto i miei capelli schiacciati a causa del copricapo che avevo indossato per tutto il tempo.
«Io devo finire salutare un po’ di persone. Tu puoi anche andare a casa se vuoi, visto che ormai la cerimonia è finita», l’ho informata, allontanandomi prima che scoppiasse in un attacco isterico.
La folla di persone si era ormai raccolta al di fuori del campo e io ho raggiunto le Gallinelle, che mi hanno riempita nuovamente di complimenti per il discorso, e mi hanno chiesto come fosse andata con mio padre.
«Bene, bene. Solo che aveva da lavorare, perciò è dovuto andare subito via.»
«Oh! Che peccato!», hanno risposto in coro.
«Già…sentite, avete per caso visto Roxanne?», ho domandato, incapace di aspettare oltre.
Loro si sono lanciate un’occhiata un po’ turbata e mi hanno detto di averla vista seduta sugli spalti del campo, meno di dieci minuti prima, dopo che sua madre e sua sorella erano andate a parlare con alcuni professori.
«Però, Kate…a me Anne non è sembrata molto contenta, prima», mi ha fatto presente Rita.
«Già…noi pensavamo avessi dedicato una parte del tuo discorso a lei e invece era per Patty Mason!», ha esclamato Sally.
«C-cosa?», ho chiesto, sentendomi improvvisamente mancare la voce.
«Sì, quella sfigata di Patty Mason continuava a ripetere che tu le avevi dedicato il discorso, e quando Anne l’ha sentito, c’è rimasta molto male.»
«Io avrei dedicato il discorso a Patty Mason?», ho domandato, atterrita.
«Sì!», ha esclamato Nancy, poi trovandosi faccia a faccia con la mia espressione sconcertata, ha vacillato: «Non-non è così?»
«Per quale assurda ragione dovrei dedicare qualcosa del genere a Patty Mason?!», ho ripetuto. La cosa stava iniziando a darmi sui nervi. Non avevo mai pensato che la loro stupidità potesse arrivare a tal punto.
Le Gallinelle, incapaci di trovare una risposta, si sono guardate tra loro, piene di dubbi.
«Lo sapevo che non era per la Mason!»
«Ma cosa stai dicendo! Sei stata tu la prima a crederle!»
«Ah! Senti chi parla!»
«Cosa vorresti insinuare? Io l’avevo capito sin dall’inizio!»
«Non è vero!»
Mi sono allontanata senza essere vista da loro, ormai completamente intente a litigare, e sono rientrata nel campo da calcio, dove si era stolta la cerimonia, in cerca di Roxanne. Avevo in mente di chiarire qualsiasi tipo di incomprensione. Riguardante Patty Mason, o meno.
Come mi avevano detto le Gallinelle, Roxanne era seduta da sola su uno degli spalti in cemento del campo.
Nonostante mi avesse chiaramente vista avvicinarmi, lei non si è mossa e io ho interpretato questa cosa già come un buon segno.
«Che ci fai qui da sola?», ho domandato, sedendomi accanto a lei, «Gli altri sono tutti fuori.»
Roxanne non mi ha risposto, ma ha continuato semplicemente a fissare l’erba verde sotto di noi. Io ho fatto lo stesso per qualche minuto.
«E’ sorprendente calmo qui. Non è affatto male.», ho provato ancora, tentando di apparire casuale e non disperatamente in ricerca di una risposta.
Roxanne ha sospirato, prima di mormorare un tiepido: «Già.»
Nonostante un breve spiraglio di conversazione, il silenzio dopo quell’ultimo monosillabo si è fatto sempre più opprimente. Probabilmente il mio tentativo era stato del tutto inutile. Probabilmente non c’era più alcuna speranza di recuperare la nostra "amicizia", come la chiamava lei. Probabilmente, come invece sostenevo io, non eravamo state mai amiche e questa condizione non sarebbe cambiata mai.
Probabilmente io avrei dovuto rassegnarmi a vivere come prima, con i nervi a pezzi, stanca, esausta, senza riuscire a trovare alcun tipo di sollievo in niente e nessuno.
Avevo tentato, avevo lottato, ma non ero riuscita a fare di lei uno dei miei burattini, forse perché lei era troppo simile a me per cadere in una trappola del genere.
O forse perché le mie intenzioni erano diventate altre.
Ed erano propro quelle intenzioni problematiche e difficili da gestire, che mi avevano ridotta in questo modo. La mia faccia sorridente era in grado di durare solo per pochi minuti, intervallati da eternità di silenzi come quello.
Ho stretto i pugni e ho percepito la carta piegarsi di più sotto la pressione delle mie mani.
«C’è una cosa che devo restituirti», ho detto, porgendole un malconcio pezzetto di carta piegata.
Roxanne, finalmente, mi ha guardato, scostando, però, immediatamente gli occhi un istante dopo.
«Cos’è?»
«E’ qualcosa di tuo», ho teso la mia mano verso di lei e finalmente lei si è decisa a prendere il foglio e a dispiegarlo per rivelarne il contenuto.
Ho studiato la sua espressione alterarsi immediatamente alla vista del foglietto, e i suoi occhi dirigersi precipitosamente verso di me.
«D-dove l’hai trovato?», ha domandato, rauca.
«Non importa. Quello che importa ora è che lui è libero», le ho risposto, consapevole dei cambiamenti che avevo apportato al disegno.
Avevo cancellato, tentando di non intaccare il disegno originale, tutte le sbarre che costringevano il canarino dentro una gabbia, in modo che i suoi occhi smettessero di implorarmi di liberarlo.
Roxanne ha continuato a tacere, esaminando il disegno, per poi ripiegare immediatamente il foglio.
Io ho aspettato per qualche altro minuto, ma non vedendo alcun tipo di reazione o risposta arrivare, ho fatto per alzarmi, interpretando il suo silenzio in modo negativo.
«Aspetta!», ha gridato lei.
«E cosa dovrei aspettare?»
«Non lo so! Non lo so…», ha continuato Roxanne, improvvisamente abbattuta.
«Che c’è?», ho insistito, intercettando una possibile apertura disponibile, «Non sei stata tu a evitarmi per tutta la settimana?»
Roxanne si è ammutolita.
Io ho fatto lo stesso, ma in compenso ho ripreso di nuovo posto accanto a lei.
«Era per te.»
«Eh?»
«Il discorso. Era per te», ho tentato di chiarire, nel caso in cui lei avesse davvero creduto ai vagheggiamenti di Patty Mason.
«…Lo so», ha ammesso dopo una breve pausa.
«Oh. E’ bello sapere che almeno qualcosa la sai», ho ironizzato.
Roxanne apparentemente non è riuscita ad evitare di lanciarmi un’occhiataccia che, malgrado tutto, mi ha fatto ridere spontaneamente.
Da arrabbiato e incupito, però, il suo volto si è leggermente rilassato, assumendo i connotati del turbamento.
«Com’è stata per te questa settimana?», mi ha domandato, lasciandomi quasi senza parole.
La sorpresa è stata tale che ho risposto immediatamente dicendo la verità, senza nemmeno pensarci due volte: «Uno schifo.»
Le labbra di Roxanne si sono increspate brevemente, ma non abbastanza perché il suo potesse essere un sorriso.
«Hai ragione», ha confermato, «e perché è stata uno schifo?»
Di nuovo mi sono trovata quasi costretta a dire la verità, inchiodata da quelle domande che, nella loro semplicità, mi esponevano fin troppo.
«Per colpa tua», ho confessato, senza aver nemmeno il tempo di considerare la mia risposta inopportuna.
Roxanne, a dispetto di tutto, non è stata offesa dalle mie parole. Anzi, ha annuito e ha ammesso, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo che, sì, era vero, la settimana era stata uno schifo per entrambe proprio per colpa sua.
L’ho adocchiata, interdetta.
Lei è tornata a parlare, mantenendo gli occhi fissi sull’erba fresca del campo.
«Questa settimana…è stata strana. E’ stato come se fossi ritornata sola. Ero preoccupata perché sapevo che la mia famiglia sarebbe tornata per la cerimonia del diploma, ma non ero sicura se Liam sarebbe tornato oppure no…», ha detto rilasciando un respiro tremulo, «Avevo paura di incontrarlo di nuovo ed ero preoccupata, perché non avevo nessuno con cui parlarne e...no, più semplicemente ero preoccupata perché non potevo più parlare con te.», ha ammesso e io ho quasi trattenuto il respiro a quella rivelazione, «E...e oggi, oggi stavo impazzendo, perché tutte queste persone felici, tutti questi sorrisi, non fanno altro che ricordarmi che io, che ho rubato la felicità delle persone a me più care, non dovrei essere felice, mai. Pensi che…potrebbero mai perdonarmi se io ammettessi le mie colpe?»
La vedevo torturarsi le mani e respirare a fatica, tentando di cacciare indietro le lacrime, e questo mi ha trasmesso una sensazione molto peculiare.
Ho pensato tutto ad un tratto alle bugie della settimana precedente. Al motivo per cui non volevo che Roxanne ne venisse a conoscenza, al modo in cui avevo lottato perché tutto rimanesse nascosto e non le facesse vedere una parte di me che lei non sarebbe capace di perdonare. Una parte di me di cui deve restare per sempre ignara, per poter continuare a starmi accanto.
Lei non mi avrebbe perdonata. E sua madre e sua sorella non avrebbero perdonato lei. Oppure, anche se l’avessero fatto, il loro rapporto non sarebbe stato più lo stesso.
Non ci sarebbero stati abbracci affettuosi come quello a cui avevo assistito prima, ma solo occhi freddi che avrebbero continuato a ricordarle le sue colpe per sempre.
«No, non lo farebbero», ho risposto come se quello fosse un dato di fatto.
Roxanne, con la testa tra le mani, ha annuito, ammutolendosi.
Non riuscendo a star ferma, ho tirato la sua mano destra verso di me per fare in modo che mi guardasse, e lei, sebbene incerta, ha alzato il capo e mi ha fissata.
«Il tuo discorso è stato…d’effetto, davvero. », ha detto dopo averci pensato un po’, «Ti ho ascoltata, ma mi sembrava di essere semplicemente uno spettatore di quella che avrebbe dovuto essere parte della mia vita. Tu…tu non stavi parlando di noi, vero?»
Io l’ho guardata disorientata, incapace di rispondere e riuscire veramente ad afferrare ciò che lei intendesse.
«Ma è anche comprensibile. Noi non siamo solo delle parole, dopotutto», ha ricominciato, voltando il capo di nuovo verso il campo con un'espressione ancora pensosa in volto, «Le parole sono solo in grado di ferirci. Sono relative ed effimere, ma le sensazioni non mentono mai. Questa settimana è stata un incubo. Era come se mi mancasse un braccio e io non fossi mai stata consapevole di non averlo mai avuto. Ma senza il braccio perduto non si è più capaci di fare niente. Anche una folla di persone, disposte a fare qualsiasi cosa per te, non potrà mai sostituire la sola presenza di quel braccio che ti permetteva di essere autosufficiente.»
Mi sono sentita tremare, perché quelle parole scavavano affondo, pur essendo, a sua detta, solo semplici parole.
«Perché quel braccio ti permetteva di essere…», Roxanne ha fatto una pausa, incapace di trovare il termine giusto.
«.. completa.», sono intervenuta per aiutarla.
«Già…», ha ammesso Roxanne un po’ a disagio.
La sua mano era vicino a me, così vicina che non sono riuscita a non afferrarla.
«Mi dispiace», ho detto, rievocando le ultime parole con le quali avevo tentato di giustificarmi.
«Perché non mi hai detto la verità?», ha domandato Roxanne.
«Non l’hai appena detto? Le parole sanno solo ferirci. Ma quello che so, è che mi è mancato questo stupido braccio dalla testa dura», le ho detto con delicatezza, pronunciando i connotati negativi in un tono affettuoso.
«Come può un braccio avere la testa dura?», ha domandato stupefatta la Miller, allora.
«Non lo so, chiedilo al geniaccio che ha inventato tutta questa storia. E’ peggio di una parabola biblica», ho commentato, facendola ridere di gusto.
Con la sua mano ancora nella mia, ho tirato un lungo respiro, prima di balzare in piedi e incitarla a fare lo stesso. «Forza, andiamo dagli altri.»
«No», ha mormorato Roxanne, senza alzare il capo.
«Perché?», ho sbuffato esasperata. Non era di certo il momento più adatto per giocare a fare la bambina capricciosa.
«Non voglio.»
«Va bene, allora. Andrò via da sola», ho dichiarato perentoria, prima di girare i tacchi.
«No!», Roxanne mi ha afferrato il braccio, «Non possiamo restare semplicemente qui?»
«Perché?» Sapevo che mi stava nascondendo qualcosa, perciò sentivo il bisogno di indagare.
«E’ per Patty,» ha ammesso Roxanne abbattuta, «è stancante sentirla vantarsi senza sosta del fatto che le hai dedicato il discorso.»
Io non ho potuto fare a meno di scoppiare a ridere, sotto gli occhi sconcertati di Roxanne, la quale, invece, non sembrava affatto divertita.
«Che c’è, sei gelosa del fatto che lei proclama per suo un discorso che dovrebbe essere in realtà solo per te?»
Il lieve rossore apparso sulle guance di Roxanne mi ha risposto di sì.
«Allora c’è un solo modo per farle capire che si sbaglia», le ho suggerito all'istante.
«Quale?
»
«Dimostrarglielo!», con una tirata decisiva sono riuscita a farla alzare in piedi e a trascinarla con me dagli altri.
Mano nella mano, siamo tornate dal gruppo nutrito di famiglie e di studenti, ancora riuniti fuori dal campo di calcio.
Se lasciavo vagare il mio sguardo al di sotto delle mie spalle, verso il volto di Roxanne, potevo vedere impresso sulle sue labbra un sorriso.
E non era quel sorriso enorme e colmo di felicità apparente che lei aveva avuto cura di stamparsi in faccia per tutta la mattinata, ma un sorriso appena accennato e modesto: una lieve curva nella sottile linea delle sue labbra, dall'indiscutibile sapore malinconico, ma senza alcun dubbio più autentico di qualsiasi espressione che le avessi mai visto indosso.

Quanto a me, non ho lasciato andare quella mano per tutta la giornata.
E solo allora ho potuto tirare una volta per tutte un sospiro di sollievo.

Alla fine, eravamo tornate complete.

   
 
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