Comin’
Back To
Me
Certi
giorni mi alzo con lo scazzo.
Come
mi piacerebbe spegnere tutte queste sigarette contro i muri della
scuola,
strusciare bene contro il cemento la cenere e sentire l’odore
che mi sfrigola
buono nelle narici.
Il
guaio delle adolescenti contemporanee è che, cazzo, non
sanno per niente
fumare. Le vedi gonfiare le guance, mettere tutto in bocca e poi
soffiare fuori
a vuoto il nulla. Il nulla, cazzo. Mentre invece la parte
più importante di
fumarsi una buona sigaretta, di fumarsela per bene, dico, è
portare il filtro
alle labbra. E poi tirare e tirare e sentire che tutte le sostanze
nocive, e la
nicotina e il catrame e il petrolio o quello che cazzo è, ti
entrano dentro i
polmoni, si attaccano, ti corrompono la salute, l’ossigeno. E
poi soffiare
fuori tutto, illudendosi di essere guariti. Perché per
soffiarlo fuori, il male
deve entrarti dentro. Per dire di aver fumato veramente una sigaretta,
devi
sentire i polmoni lamentarsi almeno la prima volta, e la testa girare,
fin
quando poi si tratta di abitudine.
A
me piace fumare, cazzo. Ma non così. Così non
è fumare. E’ come dipingersi
addosso un’aria maledetta che non ci azzecca niente con la
tua vita. E’ come
dire di avere i capelli biondi invece ci si accorge benissimo che sono
tinti,
ecco. Far finta di essere quello che non si è. Ecco
perché la maggior parte
delle mie coetanee mi stanno sul cazzo. Perché stanno tutte
lì a cercare di
essere quello che non sono. Cercano di convincerti e di convincersi, e
fanno di
quelle stronzate che neanche è possibile immaginarsele
tutte.
Ci
penso parecchio, a questo genere di cose, la mattina. Penso anche al
fatto che
io ho il mio pacchetto di Lucky Strike rosse, che le fumo da quattro
anni,
ormai, ma nessuna di queste squinze qui mi ha mai visto accendere una
sigaretta. Io le mie sigarette me le fumo quando ne ho voglia, e di
solito la
voglia mi sale quando sono solo, quando c’è buio,
e quando attraverso i viali
inutilmente giganteschi del mio quartiere amaro. Ecco. Le mie Lucky
Strike non
sono uno status. Sono solo sigarette. Fanno un male del cazzo e tutto
il resto,
certo, lo so. Ma tutto questo è iniziato molto tempo fa e
per motivi ben
precisi, per quanto mi riguarda. Non per sentirmi a mio agio in mezzo a
degli
sconosciuti o per ingannare il tempo. Mah. Fanculo. Sembro proprio uno
di quegli
opinionisti del cazzo che stanno in tivù a parlare delle
nuove generazioni
credendo di saperne qualcosa.
Ah,
poi non capisco.
Come fanno a vestirsi
tutte nello stesso modo? Io impazzirei per riuscirci. Infatti mi vesto
senza
pensarci, e si vede. Non che mi interessi, eh, ma posso capire che a
qualcuno
il mio modo di vestire potrebbe sembrare un mischiarsi di abiti senza
nessun
senso apparente, e nemmeno non apparente. Mi vesto alla cazzo di cane.
Lo so
io, lo sanno gli altri. E punto, la faccenda finisce lì. Ma
loro, come fanno? Come
fanno ad avere le stesse scarpe, gli stessi pantaloni, le stesse
magliette
dello stesso modello, le stesse borse? Fanno compere tutte insieme? Si
comunicano
i negozi dove andare? E poi mettiamo che una compri qualcosa di
leggermente
differente? Non va bene? Certo che non va bene, cazzo. Altrimenti non
sarebbero
tutte uguali.
Dopo
un po’ mi stanco, di pensare a queste cose. Non
perché c’è qualcosa di più
significativo a cui pensare, no. E’ che pensarci troppo mi fa
salire la
disperazione, ecco. Perché? Perché non lo
so… mi piacerebbe sapermi spiegare.
Comunicare a tutte queste bambine-ciminiera che potrebbero anche essere
tanto
belle, tanto pulite. Invece c’è il fondotinta, la
matita, la magrezza
esasperata e la piastra e i profumi di Dolce & Gabbana, i jeans
di non so
quale fottuta firma e gli stivali imbottiti UGG. O forse tutta questa
sconsiderata tristezza è colpa dei Jefferson Airplane, di
Comin’ Back To Me, e
di mio padre, che si ostina ad inseguirmi. Mi sembra di avere sempre un
cane attaccato
al guinzaglio da portare a pisciare. E anche se il mio vecchio
è morto da
quattro anni e qualche mese, non ha importanza. Lui è ancora
qui, attaccato
come una zecca ai miei polpacci, aggrappato ai miei capelli lunghi e
alle mie
sigarette. Che certe volte avrei voglia di urlare senza spiegazione:
“VATTENE!
CAZZO, VATTENE!”. E mi guarderebbero tutti, assicurato. Ma
almeno saprei se lui
mi può sentire, se gli interessa rispettare quello che
voglio io, per una
dannata volta. Invece non l’ho ancora fatto. Non ho trovato
un briciolo di
coraggio fottuto. Perché so che se ci provassi, a cacciarlo
ad alta voce, mi verrebbe
male. Non mi riuscirebbe di fare un ringhio disperato, di quelli da
film.
Piuttosto produrrei un pigolio, una preghiera patetica. E magari potrei
anche
convincermi di aver detto “vattene”, ma molto
probabilmente tutto quello che
direi, una volta aperta la mia boccaccia sporca, suonerebbe tipo
“I saw you
comin’ back to me. Comin’ back to me”.
E’
per questo che il mio vecchio non se ne va. Perché alla fine
non voglio
lasciarlo andare, cazzo.
Ma
come faccio a convincere questo mio cuore di merda che è il
momento, eh?
Come
faccio?
Credo
sia una delle peggiori tracce mai svolte in vita mia. Roba che la leggo
e non
faccio altro che ripetere “cazzo” sottovoce.
Infatti Marco mi lancia un paio di
anatemi dei suoi per farmi smettere. Non che gli interessi se continuo
ad
imprecare allegramente, no. E’ che così perdo
tempo. Perché tocca a me
scrivergli il suo bel compito di italiano, dato che lui non riesce a
mettere
due parole in fila quando parla, figuriamoci se si tratta di scrivere.
Insomma,
parto con il suo tema. E lo farcisco di frasi fatte, luoghi comuni, chi
più ne
ha più ne metta. Un tema alla Marco Ravasi, tanto per
intenderci. Roba di
ragionamenti degni dei palinsesti Mediaset. Un mucchio di stronzate,
ecco. Ma
di stronzate belle grosse, ridondanti e farcite di buonismo. Tipo
famiglia
unita, impiego che ti permette di stare con i figli, moglie anche non
bellissima ma intelligente, vita sana, weekend nei parchi naturali,
estate in
camper. Visite ai genitori anziani, anche, che a una come la nostra
prof di lettere
cose del genere piacciono. E’ pronto in venti minuti, e a me
rimane un’ora e
trenta per stendere il mio tema, mentre le idee mi si affollano nella
testa e
faccio una fatica boia a riordinarle in un modo umanamente
comprensibile.
Ravasi è contento. A me non sbatte un cazzo, non so nemmeno
perché gli faccio i
temi. Forse siamo una sottospecie di amici, devo ancora capirci
qualcosa.
Deve
essere sempre colpa di tutta la storia dei Jefferson Airplane, di
Comin’ Back
To Me e del mio vecchio. Sta di fatto che, come praticamente ogni volta
che
scrivo, mi si spacca il cuore e ne scoppia fuori qualcosa di
stranissimo. Come una
sensazione iniziale di smarrimento e poi la trance totale,
l’assenza. Cazzo. Mi
ci perdo, io, nell’inchiostro. E non torno più fin
quando non so che è uscito
tutto, che è finita. E vorrei aver i polpastrelli duri come
quelli dei
pescatori, o dei muratori, o di quelli che follavano la lana una volta.
Pelle che
si spacca contro la penna Bic e sangue acquoso che ne esce, che magari
macchia
il foglio. Così potrei vedermi davvero, dipinto sulla
pagina. Così potrei
essere sicuro di esserci davvero io, in quella grafia sghemba e
bambinesca che
storpia la carta giallognola.
Alla
mia prof racconto che non so se arriverò ai quaranta. Che ci
sto pensando. Perché
tutto mi sembra già abbastanza angosciante adesso, e non
riesco ancora a capire
se ne vale la pena, di andare avanti. Che non ho paura, no.
Più che altro che
mi sento stanco ancora prima di partire. Che so già che
probabilmente non ne
varrà la pena, perché a questa vita di merda tu
puoi dare tutto, anche il
respiro, che tanto la maggior parte delle volte non ti torna indietro
niente. Anzi,
forse ci perdi qualcosa. La salute, la felicità, le speranze
e anche i soldi. Le
scrivo chiaro e tondo che poi non posso sapere come sarò a
quarant’anni, perché
la verità è che non ci spreco nemmeno un minuto
su questa ipotesi qui, del
crescere troppo. Tipo che sarebbe bello morire come Sid Vicious, a
vent’anni
più uno, e non vedere mai tutte le cose brutte che il futuro
ci riserva. Magari
anche morire di droga o di velocità o di proiettile, che
tanto la mancanza di
quello che non conosciamo non ci potrà mai venire, se siamo
morti. Perché non
esiste l’inferno, e non esiste il paradiso, come diceva il
mio vecchio. Esiste
la polvere e basta. E’ come schiacciare il tasto
“erase”. Tutto quello che c’è
stato prima scompare, tutto quello che verrà dopo non
può interessarti.
Punto.
Ecco,
alla prof non glielo scrivo che per fatti miei ho già deciso
di non arrivare
ai quarant’anni.
Che
traccia di merda, cazzo.