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Autore: GirlWithTheGun    25/10/2009    4 recensioni
Elisa e Colin non sanno cosa volere dalla vita. Elisa e Colin non sanno se volerla, la vita. Si risvegliano quindicenni e confusi in un universo dove l'unica lente per vedere, sentire e amare è la violenza. Una violenza nascosta nell'anima, che riempie, madre di domande senza risposte e di silenzi assordanti.
Elisa vorrebbe avere ottant’anni, vorrebbe non vedere il buio del nulla nel suo futuro, non avere paura e non essere nata delusa, vorrebbe capire qual è il giorno maledetto in cui ha cominciato a pensare.
Colin si trascina dietro la memoria di un padre suicida, sogna un mare che mangia vive le persone, non riesce ad identificare quel desiderio caotico di libertà che lo infiamma.
"Ma cosa siamo se possiamo esaltarci e distruggerci così? Perché siamo, dove siamo, sperduti negli angoli degli universi e schiantati nelle nostre tragedie di cartone.Esistenze misere che non si accendono mai, lampadine spente che non conoscono la luce. Ma io voglio brillare! Io voglio brillare!".
A tutti i Catchers In The Rye.
Genere: Romantico, Commedia, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Comin' Through the Rye

« Se una persona incontra una persona
Che viene attraverso la segale,
Se una persona bacia una persona
deve una persona piangere? »

Robert Burns – Comin’ Through the Rye

 

 

Parking Lot

 

Io credo d’essere pateticamente anziana. Però non lo sono. Lo credo, ma non lo sono. Non nel corpo, almeno. E questa è una di quelle fottute fregature che il mondo ti rifila senza nemmeno darti il tempo di spiegarti un po’, di tentare, cambiare il corso delle cose e prenderti qualche soddisfazione passeggera. Tipo avere ottant’anni nel duemilanove. Tirare avanti con la consapevolezza di avere tre, cinque, al massimo otto anni di strascicata esistenza da subire. E ti va bene tutto, anche l’idea di crepare male, perché tanto il bello che potevi avere te lo sei goduto. E allora chi se ne frega. Insomma, pensavo questo, mentre ero su in Piazza della Scala, oggi. C’era questo gruppo di vecchietti arzilli che discutevano le notizie sul quotidiano con l’aria di chi ha qualcosa da dire e se ne fotte. Ma come discutevano. Animatamente. Poi ce n’era uno, più simpatico degli altri, che continuava a dire “cazzo”. E cazzo qui, e cazzo lì. Che cazzo, un cazzo. Insomma, era uno a posto, dai. Ma non per la questione cazzo, eh. Proprio perché si vedeva che c’aveva la testa sveglia. C’avevano un po’ tutti la testa sveglia, ma lui mi è rimasto impresso. Beh stavo lì a guardarli, seduta su una di quelle panchine che non sono proprio delle panchine, di pietra o di marmo, grigie. E li invidiavo. Dio, se li invidiavo. Sembrerebbe un po’ una cosa strana da pensare, no? Io che a quindici anni, che devo ancora crescere del tutto, che non mi sono ancora uscite per bene le tette, invidio una tribù di pensionati arzilli che parlano del Governo, della Sinistra, della Destra, dello scatafascio. E ad osservarli, ho formulato un paio di pensieri, no? Per esempio, la prima cosa che ho pensato è che parlavano così, tutti disinvolti, infervorati, perché non hanno paura di sbilanciarsi del tutto, adesso che hanno un piede nella fossa e l’altro lì lì per entrarci. E poi fumano tante di quelle sigarette, insomma, scommetto che alla fine dell’anno ce ne sarà qualcuno in meno, dai. Questione matematica. Anche se nella matematica sono uno schifo, quindi dovrei provare ad astenermi da questioni che la mettono in ballo. Diciamo che si tratta di statistica. Che non capisco molto bene come funziona, ma ha a che fare con il calcolo delle probabilità. Di nuovo matematica, ed è meglio se magari zittisco queste sinapsi nevrotiche di merda per due minuti. Insomma, credo che ai pensionati arzilli la forza di parlare di massimi sistemi senza sentirsi dei deficienti, dei qualunquisti, non gliela da’ l’esperienza, che fondamentalmente nessuno sa bene cos’è, e nemmeno la conoscenza o tutte quelle stronzate lì. Scommetto che si sentono liberi di dire tutto quello che gli frulla per quei cervelli sconquassati solo perché sentono vicina la morte, se la sentono sul collo, che gli fiata addosso e sa di carogna putrefatta, tanto per intenderci. E allora vogliono dire tutto su tutto. Io credo che fin quando uno non si sente la morte proprio dentro la pancia, non sarà mai capace di essere davvero quello che è, di fare quello che vuole, di dire quello che vuole dire. Perché con la morte lo spazio per la paura non c’è, non c’è mai. O almeno la penso così, ma insomma, sono solo paranoie da undici della sera, non so se mi spiego. E poi fa un freddo bestia. Mi sbrana le chiappe.
Comunque avevo iniziato con lo scopo di dire che vorrei avere ottant’anni, ecco. Anche ottantacinque, per essere sicura di tirare le cuoia a breve. E essere un uomo. Un vecchio uomo rompicoglioni che blatera sul mondo, magari un po’ alternativo, roba tipo che quando ero giovane mi sono passato un sacco di donne ma amavo sempre mia moglie e lei mi lanciava addosso i piatti del servizio buono, però eravamo felici lo stesso. E poi avere due figli che insomma, mi vogliono bene e mi sembra ok che si facciano la loro vita senza di me, che me la sono fumata via tutta, proprio come le Marlboro che compro la mattina insieme a quattro o cinque quotidiani. Tipo leggere Repubblica, Il Giornale, L’Unità, Libero, Il Fatto, ma avere sempre le idee un po’ spostate verso sinistra, nonostante con l’età tutto diventa sempre più grigio, piuttosto che bianco o nero. E veder nascere uno o due nipoti che non saranno mai abbastanza grandi per conoscermi davvero, ma qualcuno gli racconterà di me, e vedranno le foto di un vecchio rimbambito che una volta è stato anche bello ed è impossibile crederci. E beatamente crepare, tanto sono sereno e mia moglie l’ho sempre desiderata lo stesso, nonostante  la sua natura rompi cazzi e la sua fissazione per le telenovelle. Telenovelle. Mi piacerebbe poter dire telenovelle. Invece il massimo che posso permettermi, parlando un po’ a scuola con le mie compagne o con le ragazze di nuoto, che poi alla fine si parla sempre del niente ma sembra non se ne accorga nessuno, è “minchia”. O qualche monosillabo sparso in giro, con la giusta enfasi. Che poi pensare che io di parolacce non ne dico quasi mai. Mi scateno sul serio solo quando ragiono un po’ così, tra me e me, passeggiando con la felpa di mio fratello che se gliela riporto a casa anche solo bagnata o con una macchiolina sicuro che mi spezza un paio d’ossa. Possibilmente quelle delle gambe.
E’ che mi ci masturbo da un po’ di tempo, con quest’idea della morte e del futuro. Che sono due cose inscindibili. Insomma nel futuro di noi tutti cazzoni che verminiamo sulla Terra c’è la morte. Certo, un sacco di altre cose, ma alla fine o prima di tutte, a seconda dei punti di vista, la morte. Però insomma, quegli ottantenni lì, che straparlano in una piazza come chissà quanti altri, dovevano essere un po’ più contenti del loro possibile futuro. Dovevano essere certi di avercelo, tipo. Ci confidavano, magari. Magari pensavano: “tra un paio d’anni andrà tutto meglio”. O magari no. Ma resta il fatto che io mi concentro, mi concentro parecchio, specie la notte, quando non riesco a dormire per via del troppo pensare. Ce la metto tutta, ma il mio futuro non lo vedo. E cazzo, ve lo dico così su due piedi, con un po’ di tremarella. Mi mette addosso una paura fottuta questa cosa. E una delusione stronza, che mi mangia via il sonno, la voglia, il sorriso.
E allora mi sono scelta il mio bel palazzo alto. Oggi è il primo sopralluogo. Me lo studio un po’, prima di salirci. Ma giuro su tutti i santi, che poi chissà come ci si sente ad essere un santo, che se mi gira, alla fine di questo mese, mi ci butto giù. Dal tetto, intendo. Mi butto giù dal tetto dell’altissimo palazzo di fronte a casa mia. E vaffanculo. E non è per la paura. E’ per via delle delusioni, della sicurezza che la mia, come quella di ogni ragazzo distrutto della nostra epoca, sarà una vita di merda. E non è un’ipotesi. E’ una certezza, porco mondo. Non ci voglio vivere, no, in una dimensione dove quando guardi appena un po’ oltre, vedi buio. Non il buio della stanza quando mia madre mi spegneva la luce da piccola, no. Proprio il buio del nulla.
E non fa nemmeno più paura. Fa tristezza.
E li odio un po’, quei vecchiastri. Perché loro la loro vita se la sono vissuta tutta, se la sono goduta, anche se magari è stata una vita infame. Io, invece, della mia vita non potrò mai godermi un cazzo.

 

   
 
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