« Se
una persona incontra una persona
Che viene attraverso la segale,
Se una persona bacia una persona
deve una persona piangere? »
Robert Burns – Comin’
Through the Rye
Parking
Lot
Io
credo d’essere
pateticamente anziana. Però non lo sono. Lo credo, ma non lo
sono. Non nel
corpo, almeno. E questa è una di quelle fottute
fregature che il mondo ti
rifila senza nemmeno darti il tempo di spiegarti un po’, di
tentare, cambiare
il corso delle cose e prenderti qualche soddisfazione passeggera. Tipo
avere
ottant’anni nel duemilanove. Tirare avanti con la
consapevolezza di avere tre,
cinque, al massimo otto anni di strascicata esistenza da subire. E ti
va bene
tutto, anche l’idea di crepare male, perché tanto
il bello che potevi avere te
lo sei goduto. E allora chi se ne frega. Insomma, pensavo questo,
mentre ero su
in Piazza della Scala, oggi. C’era questo gruppo di
vecchietti arzilli che
discutevano le notizie sul quotidiano con l’aria di chi ha
qualcosa da dire e
se ne fotte. Ma come discutevano. Animatamente. Poi ce n’era
uno, più simpatico
degli altri, che continuava a dire “cazzo”. E cazzo
qui, e cazzo lì. Che cazzo,
un cazzo. Insomma, era uno a posto, dai. Ma non per la questione cazzo,
eh.
Proprio perché si vedeva che c’aveva la testa
sveglia. C’avevano un po’ tutti
la testa sveglia, ma lui mi è rimasto impresso. Beh stavo
lì a guardarli,
seduta su una di quelle panchine che non sono proprio delle panchine,
di pietra
o di marmo, grigie. E li invidiavo. Dio, se li invidiavo. Sembrerebbe
un po’
una cosa strana da pensare, no? Io che a quindici anni, che devo ancora
crescere del tutto, che non mi sono ancora uscite per bene le tette,
invidio
una tribù di pensionati arzilli che parlano del Governo,
della Sinistra, della
Destra, dello scatafascio. E ad osservarli, ho formulato un paio di
pensieri,
no? Per esempio, la prima cosa che ho pensato è che
parlavano così, tutti
disinvolti, infervorati, perché non hanno paura di
sbilanciarsi del tutto,
adesso che hanno un piede nella fossa e l’altro lì
lì per entrarci. E poi
fumano tante di quelle sigarette, insomma, scommetto che alla fine
dell’anno ce
ne sarà qualcuno in meno, dai. Questione matematica. Anche
se nella matematica
sono uno schifo, quindi dovrei provare ad astenermi da questioni che la
mettono
in ballo. Diciamo che si tratta di statistica. Che non capisco molto
bene come
funziona, ma ha a che fare con il calcolo delle probabilità.
Di nuovo
matematica, ed è meglio se magari zittisco queste sinapsi
nevrotiche di merda
per due minuti. Insomma, credo che ai pensionati arzilli la forza di
parlare di
massimi sistemi senza sentirsi dei deficienti, dei qualunquisti, non
gliela da’
l’esperienza, che fondamentalmente nessuno sa bene
cos’è, e nemmeno la
conoscenza o tutte quelle stronzate lì. Scommetto che si
sentono liberi di dire
tutto quello che gli frulla per quei cervelli sconquassati solo
perché sentono
vicina la morte, se la sentono sul collo, che gli fiata addosso e sa di
carogna
putrefatta, tanto per intenderci. E allora vogliono dire tutto su
tutto. Io
credo che fin quando uno non si sente la morte proprio dentro la
pancia, non
sarà mai capace di essere davvero quello che è,
di fare quello che vuole, di
dire quello che vuole dire. Perché con la morte lo spazio
per la paura non c’è,
non c’è mai. O almeno la penso così, ma
insomma, sono solo paranoie da undici
della sera, non so se mi spiego. E poi fa un freddo bestia. Mi sbrana
le
chiappe.
Comunque avevo iniziato con lo scopo di dire che
vorrei avere ottant’anni, ecco. Anche ottantacinque, per
essere sicura di tirare
le cuoia a breve. E essere un uomo. Un vecchio uomo rompicoglioni che
blatera
sul mondo, magari un po’ alternativo, roba tipo che quando
ero giovane mi sono
passato un sacco di donne ma amavo sempre mia moglie e lei mi lanciava
addosso
i piatti del servizio buono, però eravamo felici lo stesso.
E poi avere due
figli che insomma, mi vogliono bene e mi sembra ok che si facciano la
loro vita
senza di me, che me la sono fumata via tutta, proprio come le Marlboro
che
compro la mattina insieme a quattro o cinque quotidiani. Tipo leggere
Repubblica, Il Giornale, L’Unità, Libero, Il
Fatto, ma avere sempre le idee un
po’ spostate verso sinistra, nonostante con
l’età tutto diventa sempre più
grigio, piuttosto che bianco o nero. E veder nascere uno o due nipoti
che non
saranno mai abbastanza grandi per conoscermi davvero, ma qualcuno gli
racconterà di me, e vedranno le foto di un vecchio
rimbambito che una volta è
stato anche bello ed è impossibile crederci. E beatamente
crepare, tanto sono
sereno e mia moglie l’ho sempre desiderata lo stesso,
nonostante la sua
natura rompi cazzi e la sua fissazione
per le telenovelle. Telenovelle. Mi piacerebbe poter dire telenovelle.
Invece
il massimo che posso permettermi, parlando un po’ a scuola
con le mie compagne
o con le ragazze di nuoto, che poi alla fine si parla sempre del niente
ma
sembra non se ne accorga nessuno, è
“minchia”. O qualche monosillabo sparso in
giro, con la giusta enfasi. Che poi pensare che io di parolacce non ne
dico
quasi mai. Mi scateno sul serio solo quando ragiono un po’
così, tra me e me,
passeggiando con la felpa di mio fratello che se gliela riporto a casa
anche
solo bagnata o con una macchiolina sicuro che mi spezza un paio
d’ossa.
Possibilmente quelle delle gambe.
E’ che mi ci masturbo da un po’ di tempo, con
quest’idea
della morte e del futuro. Che sono due cose inscindibili. Insomma nel
futuro di
noi tutti cazzoni che verminiamo sulla Terra c’è
la morte. Certo, un sacco di
altre cose, ma alla fine o prima di tutte, a seconda dei punti di
vista, la
morte. Però insomma, quegli ottantenni lì, che
straparlano in una piazza come
chissà quanti altri, dovevano essere un po’
più contenti del loro possibile
futuro. Dovevano essere certi di avercelo, tipo. Ci confidavano,
magari. Magari
pensavano: “tra un paio d’anni andrà
tutto meglio”. O magari no. Ma resta il
fatto che io mi concentro, mi concentro parecchio, specie la notte,
quando non
riesco a dormire per via del troppo pensare. Ce la metto tutta, ma il
mio
futuro non lo vedo. E cazzo, ve lo dico così su due piedi,
con un po’ di
tremarella. Mi mette addosso una paura fottuta questa cosa. E una
delusione
stronza, che mi mangia via il sonno, la voglia, il sorriso.
E allora mi sono scelta il mio bel palazzo alto. Oggi
è il primo sopralluogo. Me lo studio un po’, prima
di salirci. Ma giuro su
tutti i santi, che poi chissà come ci si sente ad essere un
santo, che se mi
gira, alla fine di questo mese, mi ci butto giù. Dal tetto,
intendo. Mi butto
giù dal tetto dell’altissimo palazzo di fronte a
casa mia. E vaffanculo. E non
è per la paura. E’ per via delle delusioni, della
sicurezza che la mia, come
quella di ogni ragazzo distrutto della nostra epoca, sarà
una vita di merda. E
non è un’ipotesi. E’ una certezza, porco
mondo. Non ci voglio vivere, no, in
una dimensione dove quando guardi appena un po’ oltre, vedi
buio. Non il buio
della stanza quando mia madre mi spegneva la luce da piccola, no.
Proprio il
buio del nulla.
E non fa nemmeno più paura. Fa tristezza.
E li odio un po’, quei vecchiastri. Perché loro la
loro vita se la sono vissuta tutta, se la sono goduta, anche se magari
è stata
una vita infame. Io, invece, della mia vita non potrò mai
godermi un cazzo.