Exit Music (For a Film)
La
bella storia della mia caduta libera comincia il sei agosto del
duemilacinque.
Adesso che sono qui a pensarci sulla banchina della metro mi sembra
tutto molto
surreale. In questi quattro anni mi è capitato di rovinarmi
la testa con questo
pensiero parecchie volte, nei posti più impensabili, anche
al cesso. Che poi
qualcuno potrebbe considerare dissacrante pensare alla morte del
proprio padre
mentre si piscia. Io invece credo sia stato il modo più
giusto, tra tutti
quelli che ho sperimentato. Lì, con il cazzo in mano, ero
immobile nell’atto
più antico e più naturale del mondo. Pisciare
viene anche prima del sesso.
Prima di tante altre cose, insomma. E anche la morte è
così naturale, che a
pensarci non mi sembra nemmeno una brutta cosa. Anche se tecnicamente
spararsi
un buco in testa non è naturalissimo, però alla
fine sempre di morte si parla,
no? Con queste cose le differenze è inutile farle. Inutile
attaccarsi ai
cavilli. Tanto anche il suicidio porta sempre dalla stessa parte:
sottoterra.
Mio
padre era costantemente malinconico. Non sono mai riuscito a capire
perché, ma
in fondo questa cosa qui un po’ mi piaceva, anche. Sembrava
proprio una di
quelle persone che nascondono dentro qualche abisso insondabile. Chili
e chili
di nero. Non riesco nemmeno a rendere bene l’idea con il
pensiero. Come se mio
padre fosse sempre stato una tela spessa e bianca, come se qualcuno
l’avesse
cucito di proposito a forma di sacchetto, e nemmeno tanto grande. E
come se, a quella
stessa persona a cui era venuta la brutta idea di cucirlo malamente,
senza
nemmeno dargli il tempo di spiegarsi, fosse venuto in mente di
scagliare
all’interno di questo piccolo sacchetto, il mare. Ma un mare
di quelli in
tempesta. Di quelli che te li figuri con il cielo plumbeo,
l’acqua color ferro
e gigantesche onde fameliche. Un mare perennemente in burrasca. Mio
padre era
un po’ così. Era quel sacchetto. Io lo guardavo
negli occhi e vedevo la schiuma
cattiva delle onde che lo mangiava lentamente. Quasi sentivo il rumore
dell’acqua
che gli si fracassava contro le costole, nei polmoni. Ma non potevo
farci
niente. Forse era per via della mamma che se n’è
andata, o per le sue origini
irlandesi. Non lo so. Ma del resto non ho mai capito come abbia fatto
mio padre
a finire qui, in Italia, a vivere a Milano e a lavorare come
magazziniere tutta
la notte. Accadono delle cose inspiegabili, certe volte. Come se ci
fosse
qualcuno che cala dall’alto situazioni già belle e
pronte e le affibbia al
primo che passa.
Insomma,
mio padre si è ammazzato che era estate. Mi ricordo che
erano i miei primi mesi
di libera uscita. E per libera uscita intendo le sere passate nel
cortile del
mio condominio, a giocare a gavettoni con gli amici del quartiere.
Quando le
undici mi sembravano già notte. Ho questo ricordo di
una serata
bellissima. L’avevo trascorsa a giocare, a ridere, e non so
nemmeno io a fare
cosa. Ma ero felicissimo. E insomma, mi è capitato di
guardare in alto, proprio
alle undici di sera, e di riuscire a vedere le stelle. Lo giuro su
tutti i santi,
mi sono sentito un essere libero. Cazzo, non sono mai stato
più libero in vita
mia. Me ne stavo la, bagnato dalla testa ai piedi, con le braccia
spalancate
come un deficiente, a sorridere al cielo stellato. Ed ero libero.
Cristo, ero
LIBERO. Me lo sono sentito sulla pelle. Non lo dimenticherò
mai, cazzo.
Si
è sparato in testa mentre io ero al parco con la bici. La
mia bici rossa. L’ha
trovato la nonna, la mia nonna materna, nel garage. Che mi è
sempre sembrato
molto strano il fatto che i miei nonni si siano presi cura di noi, e
invece mia
madre ha lasciato me e mio padre soli come dei cani randagi ed
è scappata con
uno in Spagna, a fare tanti altri figli e a spedirmi cartoline per il
mio
compleanno. La verità è che gli adulti sono
incasinati, distrutti più di noi.
Che non sono in grado di spiegarti nulla, il più delle
volte, e che spesso ti
tocca accudirli, se non vuoi che appassiscano. Come le piante. Come mio
padre.
La pistola era del nonno, che non se lo perdona ancora, di essere stato
carabiniere.
Il garage adesso non lo usiamo più. Mio nonno lascia
l’auto fuori da allora, e
gli hanno spaccato il vetro un paio di volte, ma lui l’ha
sempre portata a
riparare senza fare un fiato. E poi la guida così poco.
Il
giorno del funerale c’era un sole bellissimo, un caldo porco.
Io so che a mio
padre sarebbe piaciuto essere infilato in una barchetta e spinto al
largo, nel
suo mare irlandese. Gli sarebbe piaciuto colare a picco
nell’acqua salata e
finire mangiato dai pesci. Ma come fai a spiegare certe cose a due
sessantenni?
Invece marcisce dentro una bara e io non vado a trovarlo mai,
perché secondo me
non ha senso. E poi vedere la sua foto sulla lapide mi fa venire una
fottuta
voglia di piangere, e vaffanculo. Mia nonna gli porta sempre i fiori
freschi
ogni settimana, e torna con le lacrime agli occhi anche lei. Mio padre
era
buono, faceva ridere, quando gli andava, e raccontava sempre delle
storie
fantastiche, da rimanerci ore ad ascoltarlo. E poi la nonna dice sempre
che era
bellissimo, che sembrava un angelo. Io non riesco a capire cosa
intende. Per me
era mio padre e basta. Più di questo non saprei cosa dire.
Le
sue sono state le prime sigarette che ho fumato. Aveva lasciato un
pacco di Lucky
Strike rosse, mezzo consumato, aperto sul comodino della nostra camera.
E l’accendino
era proprio lì accanto. Ne ho fumate tre, quattro, fin
quando la nicotina mi ha
fatto girare la testa sul serio, fin quando non mi sono spaventato e ho
smesso.
Cacasotto fottuto. Poi la paura non è più
tornata. In compenso sentivo mio
padre ad ogni tiro, sentivo come il suo odore, me lo trovavo accanto
nei
vortici di fumo grigiastro che mi aleggiava intorno. E non se
n’è più andato.
Vaffanculo papà. Mi senti?
Pensando
pensando, sono quasi arrivato. Fuoriesco da sottoterra con le mani in
tasca,
inciampo un paio di volte. Ho questa grazia nel muovermi che mi sembra
di essere
un ippopotamo sui roller, cazzo. Inciampo e cado e faccio delle
acrobazie tali
che non riesco nemmeno a capacitarmene. Camminare seguendo una linea
retta è
un’impresa, per me. Anche da lucido.
Mi
abbandono al solito posto, in compagnia delle solite facce.
Perlopiù è gente con
la quale non ho veri rapporti. Al di fuori di questo contesto noi non
esistiamo, non ci conosciamo. Oddio, magari a loro piacerebbe anche, ma
io
faccio un po’ lo stronzo. Forse è proprio per
questo che mi tengono ancora in
considerazione. Ce ne stiamo qui, passano illegalissime lattine di Coca
riempite di non so cosa, qualche liquido che da in testa, di solito.
Non lo so,
io bevo. Mi piace fottutamente, bere. Dico. Quando sono triste. Il
mondo si
riempie di colori, e tutti sono pronti a parlare di tutto. Di guerra,
di pace,
di politica, di massimi sistemi, di rivoluzioni, ribellioni, Dio.
E’
straordinario. Continuo a non capire perché da lucidi di
queste cose non si
parla. Ci comportiamo come se fossimo costantemente sotto effetto di
narcotici
mentali. Addormentati, ce ne stiamo la a parlare di un cazzo, a
discutere di un
cazzo, per ore intere. Poi aspettiamo di stordirci per parlare davvero
di cose
serie. Oppure è tutto al contrario. Forse è il
metro con cui giudichiamo un
argomento “serio”, che non va. Forse da ubriachi
parliamo di stronzate, e da
lucidi di quello che ha veramente peso. Insomma, la cosa mi mette
angoscia
comunque, a pensarci. Perciò non ci penso. Punto.
Però
mi faccio un po’ schifo. E’ quasi arrendersi, certe
volte. Sempre. È una cosa a
metà, non avere il coraggio di passare al rimedio estremo e
starsene qui,
sospesi nello stordimento, a rincorrere gli autobus, a farli fermare
apposta e
poi ad andarsene, a cantare cosa, a parlare di cosa. Mi stimerei di
più, se
improvvisamente mi arrivasse tra capo e collo il coraggio di farla
finita per
davvero. O forse no. Ma comunque non potrei saperlo per più
di una frazione di
secondo. Così è ammazzarsi un po’ ogni
ora, e condursi pateticamente verso una
triste esistenza strascicante. A me cose di questo tipo non sono mai
piaciute.
Eppure eccomi qui, no?
Me
ne torno a casa presto, con le sinapsi rallentate, fumando una
sigaretta.
Prendo l’autobus con il numero giusto, mi siedo in fondo,
dove piace a me. Da
qui riesco a leggere le parole di uno di quei cartellini pubblicitari
che
appendono in alto. Cos’è che
c’è scritto? Il futuro a portata di click? O
qualcosa del genere. Una stronzata. Chi è che lo vuole, un
futuro a portata di
click? Chi l’ha mai chiesto?
Penso
alla canzone dei Radiohead con cui mi sto stracciando i timpani da
stamattina a
scuola. Dopo il momento finestra. Quella canzone che Yorke ha scritto
per Romeo
+ Giulietta, o qualcosa del genere. Oggi fuggiamo, fuggiamo. Cantaci
una
canzone, una canzone per tenerci caldi. Ed è così
lancinante, ascoltarla. Fa
proprio un male fisico del cazzo.
Vorrei
un paio di minuti per parlare con mio padre, adesso. Un paio di minuti
che non
posso avere, vaffanculo. Gli direi tipo ciao papà, qualche
stronzata simile per
rompere il ghiaccio. In fondo quando se n’è andato
avevo undici anni, adesso, a
quindici, mi sento un altro essere. Probabilmente dovremmo ricominciare
daccapo
a parlare e sarebbe complicato, ma bello. Come riscoprirsi a vicenda.
Poi gli
direi che oggi ho visto una ragazza, a scuola. La vedo spesso. Che
è un po’
strana, si veste veramente malissimo, e proprio per questo mi piace
guardarla.
Come si muove in quelle maxitute e maximagliette, maxifelpe, maxicuffie
spaziali. Ha proprio un faccino come quello delle bambole, con i
capelli scuri
e la frangetta spettinata. Sembra un cucciolo, o qualcosa del genere.
Qualcosa
di terribilmente tenero. O almeno così l’ho sempre
vista… Poi oggi dalla
finestra lei guardava la pioggia, io guardavo la pioggia, e invece ci
guardavamo senza dire niente e ancora un po’ non lo sapevamo.
E
sai una cosa, papà? Io la guardavo negli occhi e vedevo la
schiuma cattiva
delle onde che la mangiava lentamente. E sentivo il rumore del mare,
papà.
Cazzo, il rumore del mare.