Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: Terre_del_Nord    06/12/2009    12 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
*
HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
*
VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
*
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

That Love is All There is

Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Mirzam - MS.008 - Breaking Down Your Will

MS.008


Mirzam Sherton
Doire, Irlanda del Nord - merc. 15 ottobre 1968

La luce filtrava attraverso il vetro, riversandosi su di noi e illuminando, liquida e azzurrina, l’ambiente oscuro che ci circondava; di là del cristallo, sinuosi, nuotavano alcuni pesci tropicali. Spostai lo sguardo alla mia sinistra fino a incrociare il suo viso: gli occhi chiari di Sile seguivano affascinati una creatura dalla pelle opalescente, con una lunga coda variopinta che si agitava lenta, simile a un ventaglio; le luci “al neon” davano un tono di azzurro anche alla sua pelle chiara e a quelle lentiggini, che richiamavano in me ricordi di baci rubati in riva al Lago Oscuro.

    E ora…

Sospirai: era già un miracolo che avesse accettato di vedermi. Sile alzò gli occhi verso di me: la stanza era vuota, avrei voluto baciarla, ma lei sollevò la sinistra e accarezzò, leggera e malinconica, la barba rossiccia che avevo iniziato a farmi crescere. Rimasi a respirare il suo profumo, mentre già scorreva via, dandomi le spalle. Era così vicina, eppure la sentivo irraggiungibile, non mi capacitavo di quanto tempo avessi perso, di quanto fossi stato sordo alla voce del mio cuore, che per anni aveva cercato, invano, di guidarmi saggiamente. Si era avviata in silenzio verso l’ambiente attiguo, io la seguii come un cucciolo nell’ultima sala, dove campeggiava una vasca più piccola, con dentro appena due pesci: dai nomi altisonanti capii che erano gli esemplari più preziosi dell’acquario di Doire. Il custode ci controllava da lontano: eravamo gli unici ospiti di quel giorno, probabilmente gli unici da molti giorni; Sile, conclusa la visita, si voltò e gli sorrise, poi gli lasciò una lauta mancia “Per la causa” facendo un gesto che non compresi, ma che l’uomo parve apprezzare, tanto da abbandonare l’espressione astiosa che mi aveva rivolto, quando aveva intuito che non ero irlandese.
Uscimmo e fummo colpiti a tradimento dall’aria gelida e umida che scendeva da nord. Il pomeriggio stava sfiorendo in un tramonto velato dalle nebbie, comparse come spettri dalle acque placide del Foyle, la gente si ritirava al sicuro nelle proprie case, chiudendo senza indugi le porte dietro di sé, le strade, già lugubri, erano presidiate dai soldati: da alcune settimane il governo babbano di Londra aveva mandato a Doire l’esercito, per “garantire sicurezza alla popolazione”. Mi sollevai il bavero e strinsi Sile a me, protettivo: non avevamo nulla da temere, ma attraversare quella piazza, circondata da alberi morti, sotto lo sguardo inquietante di quei babbani armati, sollecitava il mio istinto di sopravvivenza. Sile, invece, non appariva preoccupata: quando alzò sul capo il foulard scuro, pensai che, stretta nel suo trench tortora, assomigliasse ad Audrey Hepburn in “Sciarada”, uno dei film che avevamo visto insieme in un cinema di quella città, pochi anni prima. Sembrava fosse passato un secolo.

    “Ti va di prendere qualcosa da Eogan, mentre parliamo?”

Annuii, un po’ preoccupato dal suo tono serio ma non ribattei, la seguii al ponte vecchio che collegava la riva occidentale a quella orientale del fiume: le nostre figure si camuffarono nella nebbia, rapide, e nessuno si accorse del passaggio che si aprì davanti a noi, tra le pietre millenarie. Bastò sfiorarle con il palmo e la magia ci materializzò alle porte di “An Feabhail”, che sorgeva sull’estuario del Foyle fin da epoche remotissime: il varco si richiuse alle nostre spalle e, come se un sipario nero fosse stato sollevato davanti ai nostri occhi, il villaggio si aprì dinanzi a noi. La Doire magica sorgeva su quelli che, ad occhi babbani, sembravano ettari di terreno brullo e abbandonato, su cui nascevano alberi rinsecchiti e ritorti, funghi velenosi e muffe malsane; un territorio sempre avvolto da una nebbia innaturale e pesante, inadatto a qualsiasi uso umano. Agli occhi di chi poteva vedere, però, quella desolazione ospitava un centro ricco e fiorente, fatto di piccole case allineate, già addobbate per “Samhain”, il sabba di fine mese, disposte attorno a una piazza pentagonale su cui si aprivano le attività commerciali del mercato più vivace dell’isola. Da lì partiva il corso pieno di vetrine illuminate, che culminava nella piazza principale, dove torreggiavano l’ospedale, dalle candide linee vittoriane, e la “Cancelleria”, l’edificio pubblico più antico di An Feabhail, risalente all’epoca in cui molti maghi del Nord fuggirono in Irlanda e rifondarono, in quella terra ospitale, le loro famiglie sterminate durante le prime guerre magiche. Austero e nero come la pece, decorato con mascheroni e gargoyles, aveva un’aria cupa e sinistra a testimoniare le originarie funzioni di carcere e luogo di tortura, in cui furono giustiziati i rinnegati che avevano causato la morte dei confratelli: sul portale era ancora impressa la forma della spada di Hifrig, il simbolo dell’amministrazione della nostra giustizia. Ormai era usato come Tribunale della Confraternita per i crimini commessi in Irlanda, era la Sede del Consiglio, alternativa a Inverness, e il principale Archivio in cui erano conservati i nostri contratti, da cui l’attuale nome. Nell’ampio salone a piano terra, inoltre, si tenevano anche le feste che potevano celebrarsi al chiuso. La nostra meta era situata all’inizio del corso, era un pub apparentemente lontano dalle finezze di quelli di Londra, ma poteva vantare la più ricca varietà di Firewhisky e Burrobirre di tutto il regno: Stiofann Eogan, il padrone, era un omone arcigno e minaccioso, grosso come un armadio, con i capelli fulvi e corposi e lo stesso aspetto ruvido del suo locale; ma, stando a chi se l’era vista brutta da quelle parti, era anche uno su cui si poteva contare sul serio, in caso di pericolo. Ci sedemmo a un tavolo vicino al caminetto, il locale era semivuoto, l’ideale per parlare, ci spogliammo dei soprabiti babbani e ordinammo delle Burrobirre. Sile era in attesa di quello che dovevo dirle, ma preferivo prenderla alla lontana per tante ragioni, non ultima prolungare al massimo quell’incontro, che avevo faticato non poco ad ottenere. Ero a Doire, inviato da mio padre, per contattare le famiglie più influenti e convincerle a sostenerci nella proposta di farli riparare nelle Highlands, almeno fino alla normalizzazione della città babbana: da quando, nell’isola, le tensioni erano aumentate al punto che l’esercito inglese aveva occupato quelle contee, temevamo che i confratelli “irlandesi” potessero restare coinvolti, per la familiarità di alcuni di loro con i babbani.
 
    “Non mi aspettavo quell’atmosfera, a Doire, ora capisco le preoccupazioni di mio padre, dobbiamo fare in modo che vi mettiate in salvo al più presto…”
    “Da che cosa? Lo vedi da te, la nostra Doire è sempre la stessa: tranquilla, ospitale, fiorente…”
    “Sareste al sicuro, certo… se non frequentaste i babbani: non si tratta più di una disputa ideologica, qui ormai rischiate la vita e sai bene che la confraternita non può permettersi di perdere nessuno!”
    “E tu sai, Sherton, che quando c’è una guerra tra i babbani, sta covando qualcosa anche nel nostro mondo… perciò la tua “sicurezza” è qualcosa d’illusorio… per esempio, quel Mago che si dà tanto da fare ultimamente, ecco, è il tipo che potrebbe trascinarci tutti in guai seri…”

La guardai di sottecchi mentre mi gustavo la Burrobirra più buona che bevessi da tempo: Sile non era nuova a quel genere di filippiche, ma al contrario di quelle di mio padre, trovavo subito nelle sue argomentazioni una logica che, in passato, mi aveva distolto spesso dai cattivi propositi.

    “Non ha alcun senso fuggire dalla nostra terra per paura di un esercito babbano, quando la follia di un Mago oscuro e dei cretini che lo venerano può mettere a ferro e fuoco tutto il nostro mondo…”
    “Da quanto ne so, quel Mago ce l’ha con sanguesporco, mezzosangue, rinnegati e babbani: mi pare che tu e la tua famiglia non rientriate in nessuna delle categorie… Quindi che cosa t’importa?”

Sospirò, esasperata, le presi la mano, intrecciai le dita alle sue, le rune si allineavano perfettamente, per raccontare un’unica storia, la nostra storia: perché ci avevo messo tanto a capirlo? Sile, però, la tirò via brusca, guardandomi offesa, quasi le avessi fatto delle avances pesanti.

    “Quando ti ho frequentato, mi ero illusa che fossi cambiato, Sherton, invece dal godimento con cui ne parli… vedo che le tue adorate amicizie ti hanno fatto ritornare indietro di anni…”
    “Che cosa vorresti dire?”
    “Augustus mi ha detto che frequenti sempre più assiduamente Lestrange… Certo sono solo affari tuoi, ma spero che tu non voglia diventare come lui… persino qui si raccontano cose tremende sul tuo caro Rodolphus Lestrange e su quello che lui intende, quando parla di “divertimento”…”

Il richiamo ad Augustus mi sorprese, non avevo idea che Sile lo frequentasse, tantomeno che Rookwood fosse a conoscenza delle attività di Lestrange al servizio di Milord.

    “Secondo me, chiunque insinui che Rod sia legato al suddetto Mago Oscuro, potrebbe parlare solo se fosse a sua volta coinvolto, e anche così sarebbe solo una panzana: un Mago come quello non potrebbe andare in giro tranquillamente, se si circondasse di persone con la lingua tanto lunga…”
    “Non conosco quel Mago, e non ci tengo, ma conosco voi tre, tanto bene da sapere di cosa sareste capaci: ti ricordo, però, che non siete più dei ragazzini, un errore ora non vi costerebbe più soltanto una punizione da Gazza, ma un biglietto di sola andata per Azkaban…”

Percepivo sgomento nella sua voce, ma non ascoltavo le sue parole, pensavo solo che, se si preoccupava tanto per me, dovesse esserci ancora una possibilità per noi. La fissai, volevo che capisse che dicevo la verità, avrei dovuto raccontarle molte cose, alcune spiacevoli, ma se avessi messo da parte l’orgoglio e le avessi parlato con sincerità, scusandomi per i miei errori, allora…

    “Rodolphus e Augustus sono responsabili per se stessi, Sile, per quanto mi riguarda, mi occupo di Quidditch e degli interessi della Confraternita: nulla di cui dovrei vergognarmi, penso ne convenga anche tu… E sui babbani, sai già come la penso: il loro mondo non mi fa schifo, come a tanti, ma le capacità artistiche di alcuni di loro, secondo me, non c’entrano con la loro natura. Per me, i più sono falsi e pericolosi… per questo dovreste tornare nelle Highlands al più presto…”
    “Potevi parlarne alla Cancelleria, avresti fatto prima e convinto più persone. Perché perdere tempo con me, nella Doire babbana, se li disprezzi tanto? Ti compiaci che vogliano ammazzarsi tra loro?”
    “No, Sile, ti sbagli, io non voglio che si ammazzino, né che gli succeda qualcosa di male, te lo giuro… Vorrei solo non vederli mischiarsi impunemente tra noi e avere la libertà di essere me stesso, senza rischiare di essere perseguitato com’è accaduto ai nostri antenati… Nulla di più… Ma ora basta con i babbani, io non sono qui solo per mio padre… io devo parlarti…”

Un’espressione strana le accese lo sguardo, non capivo se fosse terrore, sollievo, dolore o che cos’altro: tutto l’insieme le dava l’aria di un condannato trascinato al patibolo. Ed io non capivo. Mi scrutò a fondo, poi mi guardò le mani, seguendo un ragionamento che non riuscivo a intendere.

    “Allora avanti… parliamo della vera ragione che ti ha portato qui…”
    “Credo che tu la conosca già, ma te la ricorderò a parole o, se preferisci, con i fatti…”

Avrei fatto di tutto per riprendere da dove avevamo lasciato, quella mattina a Londra, immaginavo che, a mali estremi, sarei arrivato persino a rapirla, perché ero convinto che anche in lei, in fondo, sepolto sotto delusione e orgoglio, fosse ancora vivo e pulsante il sogno d’amore che avevamo appena iniziato a condividere. Se ci fossimo guardati di nuovo dentro, senza maschere, ero convinto che avremmo messo una pietra sul passato e avremmo colto quella felicità di cui era nostro diritto godere, una felicità che sentivo di avere ancora a portata di mano.

    “Quando mi hai spedito il gufo chiedendomi di incontrarci, ho accettato perché mi faceva piacere rivederti e chiarirci, ma io ho accettato solo questo, Sherton non di farmi prendere in giro da te…”
    “Prenderti in giro? Che cosa stai dicendo, Sile… Quando ti avrei preso in giro?”

Arrossii, immaginando si riferisse alle storie con Rita Skeeter e le altre ragazze. Sile mi prese la destra e la capovolse, mi accarezzò le rune che mio nonno mi aveva imposto alla nascita di Meissa e che avrei riaperto alla nascita dei nostri figli; poi l’anulare, su cui un giorno avrei portato l’anello che ci saremmo scambiati, promettendoci di essere una cosa sola per tuta la vita… e anche oltre.

    “Spero che ti sia tolto l’anello perché con il guanto da cercatore ti dà fastidio, non per venire qua e farmi qualcuna delle tue candide proposte… Non te lo perdonerei mai, Sherton… mai…”
    “Di che cosa stai parlando, Sile? Quale anello? Io non porto anelli su quel dito… non ancora…”

Mi fulminò con lo sguardo, poi si alzò in piedi, in silenzio, prese il suo trench e si avviò alla porta, chiusa in quello che sembrava dolore misto a rabbia; scattai in piedi anch’io, lasciai a Stiofann più galeoni del necessario e la raggiunsi, ghermendola al braccio, disperato, confuso, arrabbiato a mia volta. Si divincolò e a passi rapidi si avviò nella nebbia, al centro della piazza: voleva smaterializzarsi e mollarmi lì, come uno stupido.

    “Che cosa sta succedendo Sile?”
    “Non fare finta di non capire, Sherton, so di te e di Black, vi ho anche visto al matrimonio di Augustus… Pochi giorni prima l’avevo incontrata e mi aveva detto di voi due, volevo farti i complimenti, ma alla festa mi hai evitato tutto il tempo. Ora so che era meglio finirla lì… Non abbiamo più nulla da dirci…”
    “No! Tu ora non vai da nessuna parte finché non mi avrai spiegato cosa significa tutto questo! Quale notizia? Quale anello? Noi non abbiamo nemmeno iniziato a parlare, Sile, ho fin troppe cose da dirti…”
    “Io invece sono già stanca di ascoltarti… Che cosa ci fai qui, Sherton? Che cosa vuoi ancora da me? Sei venuto a dirmi addio? Bene! A-D-D-I-O! Non c’è altro da aggiungere!”
    “Addio? Io non ho alcuna intenzione di dirti addio…”
    “Ah no? Che cos’altro avresti in mente? Portarmi a letto ora e dirmi addio domattina? Di nuovo? No, io non sono una di quelle, ho sbagliato una volta, vero, ma io non sono una di quelle…”

Scoppiò in lacrime, io, annichilito da quelle accuse ingiuste, riuscii a stento a trattenerla e ad abbracciarla e consolarla: non avevo idea di che cosa avessi fatto per sconvolgerla, non poteva essere solo per quelle storie, salvo che mi avesse visto baciare Meda al matrimonio di Rookwood e ora pensasse che fossi andato lì a dirle che stavo per sposarla. Sì, doveva essere per quello: un’incredibile serie di equivoci cui dovevo mettere fine, una volta per tutte. Anche se non capivo perché mai Meda, di solito tanto discreta, le avesse mentito… No, qualcosa non mi tornava.

    “Sile per favore… Andromeda ed io siamo amici da una vita, lo sai… Quando sei scappata in Francia, ho perso tempo, troppo tempo, per orgoglio e per paura, ho avuto dei dubbi e ho fatto dei gravi errori, vero… ma quanto a Meda, ti giuro… Non c’è mai stato nulla di serio tra noi…”
    “Andromeda? Mi stai prendendo in giro, Sherton? Io sto parlando di Bellatrix Black, dell’onnipresente Bellatrix Black, quella per cui hai perso il senno da ragazzo e non l’hai più ritrovato, nonostante anni di alti proclami; quella per cui mi hai mollato, nascondendoti dietro scuse e silenzi… Mi ha detto lei che Rita e le altre servivano a mascherare la vostra storia, per non farmi soffrire, e mi ha detto anche che vi sposerete… Ora vattene, non ne posso più delle tue bugie…”
    “Che cosa? Io cosa? Ma che diavolo… Quando? Come ha fatto a dirti una cazzata del genere?”

Mi misi le mani tra i capelli, mi guardai attorno, sperduto… No… nemmeno Bellatrix poteva aver fatto davvero… Non poteva essere vero, quello era uno stramaledetto incubo: che cosa stava succedendo? Riflettei… No, non c’era da dubitarne, Bellatrix ne era capace: l’aveva già fatto con Meda, aveva mentito per rovinarmi la vita, ma io non avevo capito che avrebbe coinvolto anche Sile. Quale altra diavoleria si era inventata quella maledetta putt…? Bella si frapponeva tra me e la felicità, continuamente, da anni, e forte in me montava ormai solo il desiderio di smaterializzarmi a Manchester, bussare alla porta d Cygnus Black e ucciderla con le mie mani…

    “No… Sile, no… Non puoi davvero credere che quella pazza dica la verità e che io menta… non ci credo… Tu lo sai, Sile… lo sai che io non sto mentendo… In vita mia ho detto “ti amo” solo a una persona e ho fatto quella promessa solo una volta: questo lo sai, perché c’eri tu di fronte a me, quando l’ho fatto… perché quella persona sei tu… sei tu, maledizione... sei tu… solo tu… Sile…”

Sentii le lacrime rigarmi la faccia e la voce che mi si spezzava: non m’importava niente, nemmeno che qualcuno mi vedesse in quello stato, lì, inginocchiato ai suoi piedi, supplice. Sputavo sul mio orgoglio, sui dettami di forza di mio nonno, su qualsiasi cosa, perché per me ormai contava solo il suo perdono. Era tutto chiaro e giusto, dovevo essere lì, a dire quelle esatte parole già da tanto tempo e invece per paura, perché l’erede di Hifrig non corre dietro a una ragazzina che l’ha piantato, mi ero perso dietro le stupidaggini, facendo soffrire l’unica persona che avessi mai amato.

    “Ero in me allora e lo sono adesso, che son qui per dirtelo di nuovo… sono venuto a Doire, non per mio padre, ma per te… è qui che ci siamo dati appuntamento per ricominciare a vivere… ci siamo salutati a Hogwarts con la promessa che te lo avrei chiesto di nuovo qui ed è ciò che sto facendo: sono tornato a Doire non per dirti addio, ma per dirti che ti amo, che ti ho sempre amato e che ti amerò per tutto il resto della mia vita… e che sono stato un idiota ad aspettare tanto…”
    “Bellatrix ha detto…”
    “Sai quanto meschina è Bellatrix! Non puoi averlo scordato e non puoi aver dimenticato noi due…”
    “Io non credo a lei, ma a quello che tu provi per lei…”
    “Quello che provavo, Sile… Quello che provavo anni fa, quando si ha quella scarsa lucidità, che conosci bene anche tu… Anche tu, una volta, sei uscita con Rodolphus Lestrange, anche se per te non contava niente… per me Bellatrix non conta niente, allo stesso modo… da anni…”

Sile arrossì, il paragone era azzeccato. Le presi la mano nelle mie, gliela baciai, lei tremava, sembrava un pulcino che pigolava appena parole sconnesse, soffocate nel pianto.

    “Non ci sarà nessun matrimonio tra voi… Salazar… Non c’è mai stato nessun progetto…”
    “Nessun matrimonio, Sile, con nessuna delle figlie di Cygnus Black, né con nessun’altra che non sia tu… C’è un anello che ti aspetta da prima che passassi la notte con me: ha sempre aspettato te… solo te… Sono qui per dirti quello che provo e per chiederti scusa, ho commesso errori, per stupidità, paura, orgoglio… ho perso tempo e ti ho fatto soffrire… ma ti prometto che non accadrà più… Permettimi di rimediare ed io ti dimostrerò che ogni mio respiro, ogni gesto, ogni pensiero sono consacrati a te…Voglio darti quello che ti ho promesso e renderti felice come meriti…”

Sile era pallida come la morte, gli occhi lucidi e febbricitanti, lacrime silenziose le rigavano il viso. Capii subito che non era per la commozione, la sua espressione restava mesta, non c’era traccia della felicità di chi, dopo tante battaglie, finalmente ha vinto la guerra. Un brivido mi percorse, c’era qualcos’altro, che non sapevo, più temibile di quanto avessi finora valutato: si era stancata di aspettare, umiliata dalla mia indecisione? Si era innamorata di qualcuno che la meritava più di me? Alle lacrime si erano aggiunti i singhiozzi; mi alzai e la strinsi a me, ma lei restava rigida nel mio abbraccio: sentivo il mondo crollare a pezzi tutto intorno a me, oramai ero certo di averla persa.

    “Sile, che cosa succede?”
    “Mi dispiace, Mirzam… anche se quello che ha detto Bellatrix non è vero… è troppo tardi… ho accettato di vederti perché dovevo dirti addio a mia volta… e stavolta è per sempre…”
    “Che cosa dici? Io sono qui... tu sei qui… guardami, Sile… guarda le nostre rune come si allineano, in un racconto senza interruzioni: sai che cosa significa, rappresentano la nostra vita insieme…”
    “No… non è vero… Sherton… tu…”
    “Che cosa vuoi dire, Sile? Che c’è un altro? Che ti sei innamorata di un altro?”

Sile annuì ed io persi la cognizione del mondo e di me stesso, vidi tutto nero, era tutto freddo e oscuro. Era questo ciò che si prova, quando si muore?

    “Chi è ?”
    “Non ha importanza…”
    “E’ stato tuo padre? Ha saputo di Bellatrix e ti ha portato a casa un uomo, per salvare l’onore della vostra famiglia, Sile? Perché se è così, quel contratto non ha valore…”
    “No, Mirzam… Non c’è nessun contratto… io… è tutto vero, io lo amo davvero…”
    “BUGIARDA!

Ero ferito, confuso, sicuro che stesse mentendo, che fossimo entrambi vittime dell’ingiustizia del mondo, della malvagità di Bella e delle assurde fissazioni medievali di suo padre. Non potevo credere che fosse tutto finito, veramente finito, che qualcuno avesse preso sul serio il mio posto nel suo cuore. Perché lei apparteneva a me, come io appartenevo a lei, da sempre, per sempre.

    “Tu ami me!”
    “Ti amavo, Mirzam… ma anche l’amore finisce, se ti rendi conto che non è corrisposto…”
    “No, non è così… Tu lo sai che non è così… Tu menti… Perché non hai chiesto almeno a mio padre la verità? Avresti saputo che quella storia era falsa… Perché Sile? Perché tuo padre ti ha mandato in Francia appena ha saputo di noi? Perché voleva separarci fin dall’inizio?”
    “Ti sbagli, Mirzam: mio padre non mi ha imposto niente, ho deciso da sola, dovevo sottrarmi all’assurda ossessione che avevo per te, che m divorava da anni… la verità è che Bellatrix poteva dire tutte le bugie della terra, ma sei solo tu, Mirzam, che le hai rese credibili…”
    “Tutto questo è assurdo, Sile… Non può essere vero… Ti prego… Dammi un’altra possibilità…”
    “E’ giusto così, Mirzam… Troverai presto la persona che ti farà felice, ma non sono io…”
    “Che cosa? No, o no… Io non permetterò che finisca così… non mi fermerà niente e nessuno!”
    “No, Sherton! Tu non t’intrometterai più… io non voglio più soffrire per te… ho trovato una persona con cui sono felice e con cui riesco a vivere in pace e…”
    “In pace? Non sei una vecchia di cento anni che ha bisogno della pace, tu hai bisogno di vivere, di amare e di essere felice e sappiamo entrambi che lo sarai solo con me… Non permetterò che sposi uno che sta approfittando della tua debolezza e dei miei errori, per comprarti…”

La strinsi a me e le strappai un bacio con la forza, disperato, lei si divincolò e cercò di sottrarsi, mi diede uno schiaffo, mollai appena la presa, volevo smaterializzarmi con lei a Herrengton, barricarmi nelle Terre del Nord o fuggire con lei. Per tutta la vita se fosse stato necessario.

    “Le tue parole, i tuoi baci, le tue scene non contano più niente… Non più Sherton, lasciami…”
    “Merlino mi è testimone, Sile… Tu sposerai me, dovessi arrivare a uccidere per convincerti…”

Non sapevo perché l’avessi detto, me ne pentii all’istante, non era l’amore, ma l’orgoglio a parlare.

    “Scusami! Sile… Scusami…”

Sile, spaventata dalle mie minacce, riuscì a forzare la mia presa e si smaterializzò, consapevole che non sarebbe finita lì: mi aveva visto convinto ed agguerrito come mai nella mia vita. Ritornai a Herrengton, confuso e disperato ma deciso ad assediare suo padre con qualsiasi mezzo fino ad ottenerne la collaborazione. E a farla pagare a quella maledetta di Bellatrix. Una volta per tutte.

***

Mirzam Sherton
Herrengton Hill, Highlands - novembre 1969

Le ore scorrevano rapide, nella biblioteca di Herrengton, i libri e le pagine si alternavano lenti, senza svelarmi i loro segreti che cercavo di conoscere disperatamente. Il 31 Ottobre ero ritornato a Doire, per la serata organizzata dal marito di mia zia: era stata una festa incredibilmente bella, con la musica celtica suonata dagli elfi disposti in ordine nei punti strategici del parco incantato, gli addobbi autunnali, le luci dei falò, l’aria carica di magia e di profumi, odore di muschio e di castagne, di funghi e di essenze, di carni arrostite e di fiori disposti a corone intorno e sopra di noi. Avevo camminato nel bosco con le mie vesti scure, tipiche della ricorrenza di Samhain, la notte in cui lo scudo di Skathach viene abbassato, permettendo ai due mondi di ricongiungersi, al caos di fondersi con l’ordine, ai morti di tornare ad abbracciare il mondo dei vivi. Avevo alzato gli occhi verso il cielo, ad ammirare le Pleiadi rilucenti: impreziosivano la volta celeste e annunciavano un nuovo anno. Il mio destino ripartiva da lì, da quel momento: ero consapevole che avrei dovuto lottare fino alla morte, ma non mi sarei fermato di fronte a nulla, non avrei avuto remore, qualsiasi mezzo avessi dovuto usare per ottenere quello che volevo. Per la prima volta risuonarono in modo diverso, sinistro, anche le parole che Milord mi aveva detto, la prima volta che l’avevo incontrato:

    “Spero ti unirai anche tu alla mia causa, un giorno, Mirzam Sherton… Al mio fianco potresti ottenere facilmente tutto ciò che vuoi… dalla donna che ami… al potere… alla verità…”

Sapeva già che mi sarei trovato di fronte a quelle difficoltà? Era un veggente, come dicevano alcuni, o aveva contribuito personalmente con i gesti di quella notte, a far scivolare la mia vita fino a quel vicolo cieco? L’unica via per riprendermi Sile passava davvero attraverso quel Mago?
Avevo sperato invano di rivederla quella sera, pur sapendo che, dopo quanto era accaduto ad An Feabhail, era di fatto impossibile. Non ci avevo messo molto a sapere qualcosa di più: ufficialmente non era ancora fidanzata, ma dagli zii avevo saputo che i Kelly ricevevano spesso visita da un certo Edgar Corso, un francese che aveva un figlio poco più grande di noi, che aveva studiato nella stessa scuola di medicina di Sile. Ciò non significava, secondo me, che fossero davvero innamorati, ero assolutamente convinto che fosse una sistemazione di comodo e che, se avesse saputo la verità, Kelly non avrebbe svenduto così la sua unica figlia, potendo ancora imparentarsi con noi. Mi ero sentito osservato per buona parte della festa e alla fine avevo guardato attorno a me, fino a riconoscere la figura di Donovan, che si ergeva simile a un dio nordico, là dove la luce dei falò si perdeva nell’oscurità del bosco: era un ospite dello zio, come me, uno dei migliori amici di mio padre da quando, insieme, giocavano a Quidditch. Avevo persino riso con lui, in passato, parlando del più e del meno, dei decreti del Ministero, della situazione dei purosangue e della Confraternita, ma mi era bastato uno sguardo, quella sera, per capire che non era ben disposto nei miei confronti. Potevo comprenderlo, le mie azioni con Sile erano state scellerate: l’avevo sedotta e delusa, avevo fatto lo stupido con altre, l’avevo minacciata, pur pentendomene subito. Alla prima difficoltà me l’ero presa con Bellatrix e con Donovan Kelly, in realtà dovevo prendermela solo con me stesso.
Avevo approfittato di quei giorni per riflettere, avevo deciso di affrontarlo da solo, senza l’intervento di mio padre, così che vedesse che non ero un bambino, ma un uomo, pronto anche a farsi picchiare e punire. E ad offrirgli tutto quello che avevo, per Sile; volevo convincerlo che per sua figlia, nonostante gli errori commessi, il futuro con me fosse la strada per la felicità. E anche per la sua famiglia, i benefici non sarebbero stati indifferenti. Quella parte del discorso però non mi convinceva: sentivo che aveva un che di falso e di sporco, non suonava come una dichiarazione d’amore, ma come un sordido tentativo di corromperlo. E sapevo quanto Donovan fosse orgoglioso. Era meglio lasciar perdere il discorso dei benefici e parlare solo dei miei sentimenti. Kelly mi aveva stampato addosso uno sguardo glaciale appena l’avevo salutato e mi ero mostrato desideroso di parlargli, era rimasto in silenzio mentre lo imploravo di ascoltarmi e gli esponevo la situazione e l’equivoco: era impallidito, avevo percepito la sua confusione. Forse in quel momento si pentiva anche lui, come me, di aver ceduto all’orgoglio, di non aver chiesto chiarezza almeno a mio padre… di aver preso delle decisioni con Edgar Corso senza prima indagare la verità.

    “Sono qui per chiedervi perdono, Milord, per tutti gli errori che ho commesso e che riconosco… ma so che Sile ed io siamo fatti per stare insieme, io vi giuro sulla mia vita e su ciò che ho di più caro che non commetterò più errori… Vi prego… Ho bisogno del vostro aiuto… ”

Mi fissava, l’espressione tempestosa, silenzioso, sembrava occupato a sondarmi cuore e cervello, per poi emettere la sua sentenza: sapevo che era suo diritto punirmi per lavare l’onore offeso, ma speravo che, dopo un equo risarcimento e il giusto periodo di penitenza, sarebbe stato ragionevole.

    “Belle parole, Sherton, ma appunto, sono solo parole… E ormai non è più sufficiente chiedere scusa… Dopo averti visto da Rookwood, mia figlia era intenzionata a lasciarsi morire per colpa tua… e ora sei arrivato persino a minacciarla. Non mi sembrano gesti che dimostrino amore, anzi… Ringrazia che sei il figlio di un mio caro amico, altrimenti a quest’ora ti avrei già mandato sottoterra. Sile è mia figlia, non una merce da scambiare…”
    “Milord, non intendevo… Vi prego… Farò ciò che volete… Tutto ciò che volete… Vi ripagherò nel modo che riterrete più giusto del dolore che ho provocato a tutti voi… ma vi prego… Aiutatemi…”
    “Scozzesi, immorali e bastardi, prima prendete ciò che volete, poi chiedete il permesso… Sei tale e quale a tuo padre, ma senza nemmeno uno dei pochi pregi che ha… Te lo dico un’ultima volta, Sherton, è meglio per te se sparisci…”
    “Vi prego… Ascoltatemi, datemi l’opportunità e rimedierò a tutto… farò tutto ciò che volete…”
    “Credi che mi farò comprare dalle tue parole o dai soldi di tuo padre? Sai cosa sono le promesse? Io ho promesso a sua madre, sul letto di morte, che l’avrei protetta dai bastardi come te, e nonostante tutto il mio impegno e i miei insegnamenti, sei riuscito a farle del male, a usarla e buttarla via… Come pensi di ripagarmi di questo? Non puoi! Lei è felice adesso… Se davvero l’amassi, smetteresti di farla soffrire, importunando lei e me… Ma tu ti curi solo del tuo orgoglio, perché è inaudito che uno Sherton si senta dire         “NO”, vero? Bene! Hai appena scoperto che il vostro nome e i vostri soldi, almeno per noi Kelly, non contano nulla… Ora, per il tuo bene, sparisci!”
    “No… Vi prego… Ascoltatemi…”
    “Non vuole più vederti, Sherton… C’è un vero uomo al suo fianco, ora, che se ne farebbe di un ragazzino immaturo come te?”
    “Io non sono un ragazzino immaturo, Milord…”
    “Ah no? E chi lo dice? Tu? La tua parola è un po’ poco come prova, non ti pare…”
    “Posso provarvelo! Chiedetemi qualsiasi cosa, sono pronto a dimostrarvelo!”
    “Davvero?”
 
Kelly si era sollevato la manica sinistra, lasciando scoperto il Marchio Nero che avevo già visto sul braccio di Lestrange. Io ero rimasto inorridito, non capivo: quell’uomo era sempre stato più progressista persino di mio padre sui babbani e aveva educato Sile secondo principi che con la sua nuova fede non avevano nulla a che vedere. Com’era possibile? Che cosa stava succedendo? Kelly aveva ghignato alla mia espressione smarrita e se n’era andato, smaterializzandosi tra gli alberi… Che cosa voleva davvero Kelly da me? Mi aveva indicato la strada da prendere per ottenere il suo aiuto? Da quella sera, quell’immagine e quelle parole incomprensibili mi tormentavano, ma, invece di spaventarmi, di dissuadermi, mi spingevano alla ricerca di una soluzione, magari violenta, che mi avrebbe permesso di riconquistare Sile. A volte mi chiedevo se certi metodi me l’avrebbero fatta perdere per sempre, mi rispondevo che dovevo correre il rischio, perché una volta insieme, avrei avuto tutta la vita per farmi perdonare da lei e farle capire le mie ragioni… Ora, invece, avevo poco tempo, presto si sarebbe aperto un oscuro abisso ad inghiottirci tutti.

*

Ero a Inverness, un fosco pomeriggio di pioggia e vento, avevo appena terminato una seduta di allenamenti con Stenton, quando vidi venirmi incontro Teti, la civetta fulva di Meda, con una pergamena legata alla zampina. Sorrisi, cosa ormai strana per me: era da molto che l’aspettavo, avevo bisogno di qualcosa che mi staccasse dai pensieri ossessivi che divoravano i miei giorni. E iniziavo a sentirmi impaziente, non avevo sue notizie da circa sei settimane. Presa la lettera, diedi un biscotto al messaggero, che aveva affrontato la tempesta per raggiungermi, e Teti volò via, rapida, diretto di nuovo a Hogwarts, senza attendere la mia risposta. Entrai nel solito pub, in cui mi ritrovavo la sera con alcuni amici: quel pomeriggio ero solo, potevo godermi la lettura in pace. Quello che lessi, però, non era per niente soddisfacente.

Hogwarts, 14 novembre 1969
Caro Mirzam,
Scusami se ho tardato tanto a darti mie notizie, avevamo un complesso tema di Pozioni e sono letteralmente svanita sotto quintali di libri in biblioteca. Ma ne è valsa la pena.Come puoi immaginare, senza più Bella, nei sotterranei la vita è più tranquilla, io riesco a finire di studiare in orari decenti e Cissa… beh, lei ormai l’abbiamo persa, cotta com’è di quel suo Malfoy. A scuola, a parte le fisse di Slughorn, va tutto bene: le lezioni sono impegnative, ma rispetto al delirio dello scorso anno posso dirmi fortunata. Grazie al libro che mi hai regalato, ho una marcia in più, vorrei dedicarmi anche in futuro alle Pozioni, ammesso io possa un giorno impegnarmi in un’attività lavorativa: sai com’è, le Black difficilmente si occupano di queste cose. Come forse hai intuito parlandoci, quel giorno a King’s Cross, mio padre è una persona molto tradizionalista e temo mi riderà in faccia quando gli dirò cosa voglio fare della mia vita. Ora, però, passiamo alle cose piacevoli.
Tuo fratello non si comporta male, anzi… Lo trovo un ragazzino adorabile, riserva sempre una marea di gentilezze a me e a Cissa: non so se è la naturale galanteria degli Sherton, o l’effetto che mia sorella fa su qualsiasi maschio, indipendentemente dall’età. Però è uno dei ragazzini più educati, simpatici e gentili che popolano i sotterranei. Al contrario di quanto prevedevi tu, è stato pizzicato solo una volta da Ted Tonks (non so se te lo ricordi, è il prefetto di Tassorosso) per i corridoi insieme a Lestrange jr, ma a quanto pare erano solo andati nelle cucine. Spero che la prossima settimana ti farai vedere a Hogsmeade: abbiamo letto sul Daily che nella prossima partita forse prenderai il posto del cercatore che si è infortunato e qui siamo tutti elettrizzati e facciamo il tifo per te. Alcuni hanno addirittura fondato un club di sostenitori, come Helena Collins e pressoché tutti quelli degli ultimi due anni dei corvi, e molti Tassi e alcuni Grifoni. Ci sono ragazzi e ragazze di tutte le Case a tifare per te, sai? Come dici tu “il Quidditch unisce…”: per certe cose si può essere amici anche di chi non è Serpeverde, è quello che dice sempre tuo padre, no?
I miei però non sono d’accordo, pare che dopo la mia partenza si siano inaciditi ancora di più: mi hanno proibito di aderire, prima ancora che chiedessi loro il permesso… Ho deciso però che tiferò ugualmente per te. anche se in disparte… Se verrai, te lo dico così sei pronto al peggio, ti stanno preparando un simpatico comitato d’accoglienza, Ted si è dato tanto da fare, voleva convincermi a partecipare, ma non ho potuto… tra gli altri ci sono Helena, Nicholson e Martin dei Grifi, Kathy e Sally dei corvi, insomma, i soliti amici…”

L’avevo riletta tre volte e non riuscivo a tranquillizzarmi: pur non essendoci scritto nulla di sconvolgente, c’era anzi tutta la vitalità e la gentilezza che amavo tanto in Meda, c’era qualcosa che non mi tornava. Piegai la lettera e me la infilai nel taschino, consapevole che di lì a tre minuti l’avrei ripresa e riletta dall’inizio. Quando Rigel mi aveva scritto e alla mia precisa domanda su come stava Meda aveva raccontato di aver visto diverse volte lei e il prefetto babbano di Tassorosso in giro insieme non ci avevo creduto, ma ora la lettera di Andromeda, con quel suo sano e ingenuo entusiasmo… Non sapevo cosa pensare, forse era il caso di vedere dal vivo e di parlarle… e capire. Sì, anche se avevo tanti problemi di cui occupami, era il caso che le parlassi e chiarissi, perché se una storia del genere fosse arrivata alle orecchie sbagliate…

Salazar… Deve essere tutto un equivoco… Deve per forza essere un equivoco. Meda non è una sciocca… E una semplice amicizia non significa niente. Meglio ricordarle, però, che deve fare attenzione alle voci… Anche perché per i Black, e lei se ne sta già rendendo conto da sola, persino le semplici amicizie sono motivo sufficiente per infliggere punizioni e sofferenze.

Mi alzai, la pioggia scendeva con maggiore violenza e il vento urlava, invitando a far rapido ritorno ognuno al proprio caldo focolare. Io ero deciso, invece, a restare fuori, affrontando le intemperie, conscio che erano nulla, rispetto all’uragano che stava crescendo dentro di me.

***

Mirzam Sherton
località sconosciuta, Cornwall - 30/31 dicembre 1969

Le feste di Natale mi trovarono particolarmente funereo, non volevo seguire i miei a Doire, temendo di trovarmi di fronte a Corso che corteggiava liberamente Sile: Donovan mi aveva fatto intendere che il fidanzamento ufficiale si sarebbe tenuto il 1 Febbraio, per legarlo alla sacralità di Imbolc. La mia idea era quella di prendere tempo, le mie ricerche ancora non davano frutti, ma dovevo riuscire prima o poi; per il momento dovevo fingere che mi fossi spaventato e mi fossi messo il cuore in pace, poi quando meno se l’aspettavano, avrei colpito. Più ripensavo al marchio nero, meno comprendevo le intenzioni di Kelly, e soprattutto mi chiedevo se Sile ne fosse a conoscenza: visti i toni accorati contro Milord, forse non ne sapeva nulla e magari la situazione in cui si era messa, era meno cristallina e più pericolosa di quanto immaginasse. Mi figuravo Donovan Kelly coinvolto con qualche promessa, o assoggettato con un Imperius a Milord, perché io fossi costretto a piegarmi al Signore Oscuro, facendomi intendere che fosse quella la sola strada che mi avrebbe ricongiunto a Sile: dovevo intervenire, non solo per i miei sentimenti, ma per salvarla. Oppure, e mi sembrava tipico di lei, ne era a conoscenza e aveva deciso di lasciarmi per salvare me e la mia famiglia dalle brame del Signore Oscuro e di suo padre, evidentemente impazzito. Cercavo di convincermi che fosse così, che Sile fosse ancora innamorata di me e cercasse di difendermi: anche se sospettavo fosse solo una mia fantasia, non potevo credere che non provasse più quell’amore che mi aveva dimostrato e che io, come un idiota, avevo sottovalutato. Passavo, così, i miei giorni macerandomi nell’idea che se fossi entrato nelle fila di Milord, Sile non avrebbe più dovuto fingere e sarebbe stata libera di tornare con me. Da qualsiasi punto studiassi la situazione, capivo che quanto accadeva era solo colpa mia: al cospetto di Lord Voldemort, avevo lasciato che mi guardasse dentro, rivelandogli che vivevo per l’amore, non per la gloria. Per questo avrei dovuto piegarmi, lasciar perdere remore e dubbi, avrei condannato me e Sile per sempre. Mascheravo abbastanza bene i miei turbamenti, grazie alle lezioni di autocontrollo cui mi aveva sottoposto Fear, da Stenton rendevo bene, e con mio padre mi mostravo meno battagliero nel sostenere le tesi di Milord, per metterlo fuori strada; mia madre, però, percepiva le mie inquietudini: lei era l’unica persona che potesse in qualche modo aiutarmi, ma non me la sentivo di coinvolgerla. Tutto quel caos nella mia mente andava in qualche modo esorcizzato, e al solito quando si è confusi, nervosi, si è anche a stretto contatto con le persone più pericolose: Rodolphus non sapeva nulla di quanto mi stava accadendo, ma aveva da sempre una specie di sesto senso che gli faceva cogliere l’attimo in cui una persona è sospesa sul baratro, così da trovarsi pronto a buttarla di sotto. Quella sera, vigilia dell’ultimo dell’anno, al solito pub, la sua proposta non mi parve shockante come al solito, forse soltanto prevedibile e monotona.

    “Rookwood ha organizzato qualcosa per domani sera, non volevo dirti nulla perché so che non è il tuo genere d’interessi, ma ultimamente mi sembri un po’ giù… magari un’esperienza per te nuova potrebbe scuoterti e ridarti entusiasmo… Puoi rimandare le tue gite per boschi, per una volta…”
    “Va al diavolo… Lestrange!”

Rodolphus, immaginando già la mia reazione, ghignò e brindò al mio indirizzo, sornione.

    “Naturalmente… qualsiasi cosa decidi… acqua in bocca!”
    “Non temere, non sarà per colpa mia se Rookwood divorzierà… comunque la mia risposta è sempre no, non m’interessano le vostre spedizioni in qualche bordello…”
    “È una spedizione, vero, ma non si catturano femmine, stavolta si beve sangue…”
    “Ma che schifo! Ti sei fumato roba più pesante del solito, Lestrange?”
    “In senso metaforico, RAGAZZINA… solo metaforico… si va a caccia, si cattura e si uccide…”
    “Non puoi dire semplicemente “andiamo a caccia?” Salazar, quanto sei barocco!”
    “E tu, Sherton, quanto sei un noioso! L’appuntamento è alla casa al mare di Rookwood, nel Cornwall, alle 23 in punto, così festeggiamo il compleanno di Steve, il nuovo anno e il primo anniversario di Augustus… copriti il volto in qualche modo e parla il meno possibile, una delle cose divertenti di questo genere di serate è non sapere subito chi sono i nostri compagni di caccia…”
    “Sto già vibrando per l’emozione, Lestrange…”
    “Non fare l’ostile, dai! Vedrai, ti piacerà: ce l’hai pure tu il sangue, in fondo, ti si deve risvegliare prima o poi! Però ricordati, se accetti ora, poi non puoi tirarti indietro ed è tassativo il silenzio su tutto ciò che vedrai, sentirai e farai quella notte… Ci saranno alcuni amici, gente che non consoci e anche qualche ragazza: ci divertiremo… E forse, al mattino, si unirà a noi anche Milord: non sarebbe male vederlo all’alba del nuovo anno, sarebbe molto evocativo… non trovi?”
    “Oh, sì! Immagino possa considerarsi un perfetto rituale di purificazione…”
    “Vedo che inizi a calarti nella parte! Bene… molto bene!”

Rodolphus mi canzonò ancora, io tirai l’ultima boccata e spensi il sigaro, mi alzai e con un semplice cenno di assenso lo salutai. Desideravo solo qualcosa che mi risvegliasse davvero il sangue e mettesse in pausa il cervello, almeno per una notte. Forse sarebbe stato il genere di prova che poteva richiedermi Kelly, tanto valeva abituarsi… O forse sarebbe stata la dimostrazione definitiva che quella non era la mia strada e allora, persa Sile, non mi sarebbe rimasto altro che morire.

*

L’aria salmastra saliva, gelida, a permearci le narici: eravamo circa una ventina, tutti avvolti nei nostri mantelli, muti, irriconoscibili, nascosti da cappucci, da maschere, da baveri alzati a lasciar scoperti solo gli occhi. Alcuni, viste le dimensioni minute, dovevano essere davvero delle ragazze e questo, per un attimo, mi fece dubitare delle reali finalità di quella serata: Augustus una volta mi aveva detto che Lestrange l’aveva coinvolto in una festicciola molto sopra le righe, con numerose ragazze, e sapevo che non era il genere di esperienze che mi serviva in quel momento, né che avrei mai reputato adatta a me. Una voce mi ringhiò in testa e mi chiesi se considerassi più morale ammazzare qualcuno che concedermi una scopata a cervello spento… Rabbrividii. La costa iniziava a illuminarsi i fuochi colorati sparati per aria: anche i babbani festeggiavano la fine dell’anno. Sospirai… Sì, sarei stato capace di staccare il cervello quella notte, qualsiasi cosa mi avrebbe messo davanti il destino, troppo dolore, rabbia, disperazione, si stavano stratificando in me: stavo per perdere tutto, vagavo inconcludente da due mesi dietro al progetto di una pozione che si stava rivelando irrealizzabile, e Sile si allontanava sempre di più, che considerassi o meno quei mezzi che aborrivo. Sentivo forte la corrente che poteva travolgermi, volevo smettere di respirare e di resisterle, volevo farmi portare via. Le lezioni di Fear erano finite, ormai potevo affrontare Milord senza rischi per la mia famiglia, perché ero cosciente che avevo bisogno, in un modo o nell’altro, di lui e del suo aiuto per riavere Sile… O forse desideravo solo fallire ed essere sopraffatto, magari proprio quella notte. Solo per spegnere occhi e cervello, e non dover soffrire più… mai più.

    “È il momento…”

Rookwood diede il via e il gruppo si suddivise in squadre di 3/4 elementi, a me capitarono altri due uomini e una donna: Rodolphus, che aveva tanto insistito per invitarmi, non si era nemmeno presentato, in seguito seppi che Roland Lestrange si era sentito male e suo figlio era stato costretto a partecipare al suo posto a non so quale galà al Ministero. Una figura maschile mi si avvicinò e insieme raggiungemmo una figuretta che era rimasta opportunamente in disparte, in compagnia di un ragazzino lungo e magro.

    “Mi fa piacere che tu sia riuscita a venire stasera…”
    “Non volevo mancare di nuovo, Steve…”

Un lampo d’odio m accecò, quando riconobbi le voci di Bellatrix Black e Steven Pucey, io rimasi muto per non farmi riconoscere da lei, anche se intuivo che sapesse già chi fossi e che perciò fosse rimasta in disparte, per non farsi scegliere da altri e finire nel mio gruppo. Ci inoltrammo nella boscaglia: gli scenari che mi si prospettavano in quel momento erano un sordido sabba fatto di sesso e alcolici, in mezzo al bosco, cui mi sarei sottratto a costo della vita, o una vera caccia a qualche povera bestia, anche se lo trovavo troppo banale per menti malate come quelle di Bella e Rodolphus. Oppure saremmo andati a infastidire i babbani, e questa era la situazione senza dubbio più plausibile, quella che mi aspettavo e per la quale in fondo mi sentivo pronto. Mi distrassi dietro ai miei pensieri e rischiai di cadere, riprendendomi appena in tempo: Bellatrix ghignò, ero ormai certo che mi avesse riconosciuto. Il bosco si aprì all’improvviso sulla vasta campagna, una piccola casa apparentemente deserta s’innalzava su una collinetta davanti a noi, un brivido di terrore mi percorse la schiena, all’improvviso capii, era anche più pericoloso di quanto temessi: credevo saremmo piombati in qualche vicolo, facendo scherzi pesanti e aggredito vagabondi e ubriachi, non che saremmo penetrati in una vera casa babbana.

    “Steve…”

Lo presi per una manica e lo fissai alla luce della luna.

    “Non dirai sul serio…”
    “Che cosa credevi? Che andassimo a cercar funghi sotto la luna, Sherton? Mi spiace, se ci hai ripensato, ma conoscevi i patti: ormai non puoi più andartene, se ti fa schifo partecipare, devi restare a fare almeno da palo…”

Mi aveva lasciato indietro, raggiungendo gli altri due che già si muovevano furtivi per raggiungere la casa… Salazar, come avevo fatto a non capire? Corsi a mia volta, approfittando delle ombre raggiunsi la porta sul retro intorno alla quale si erano ammassati gli altri.

    “Guardate come faccio io… e ricordatevi… per ora dobbiamo solo catturare…”

Vidi una luce malevola nello sguardo di Bella, mentre Steve con un colpo di bacchetta metteva fuori uso la serratura e si faceva strada nella casa silenziosa con un timido “Lumos”, Bella prese in mano alcuni oggetti di cui non conoscevo nome e funzione e con faccia schifata, estratta la bacchetta, si divertì a distruggerne in gran quantità, dopo aver gettato un potente “Muffliato” a porte e finestre.

    “Bellatrix! Vuoi farci scoprire subito? Ho detto niente improvvisate!”
    “Ma quanto sei noioso… puccioso Pucey…”

Ghignò, languida, poi si avvicinò alle misere tende, ne saggiò la fattura mediocre e con un altro colpo di bacchetta le incenerì all’istante. Io pregavo che i padroni di casa fossero in città a festeggiare e che dopo aver fatto un po’ di vandalismo, ce ne andassimo, senza aspettare il loro ritorno: magari si poteva risolvere il tutto facendo recapitare a quei poveretti, che già non sembravano passarsela bene, un po’ di denaro babbano. Bella mi si avvicinò, aveva lo sguardo di una pazza.

    “Ehi Sherton… Non ti pare che di sopra ci sia qualcuno che sta scopando? Ma… che puoi saperne tu! Walden, tu che hai più esperienza… per te scopano?”

Rise della sua risata malefica e folle, e del ghigno che, irridente, mi rivolse McNair, poi corse per le scale, Walden, che avevo riconosciuto solo dentro la casa, aveva lo sguardo famelico tipico dei ragazzini esagitati che vogliono sentirsi grandi e crescere in fretta: mi ripromisi di bastonare Rigel alla prima occasione, finché non mi avesse giurato che si sarebbe tenuto alla larga da certa gente. Salimmo al piano di sopra, i gradini di legno cigolarono appena sotto il passo pesante di Steve che fece fatica a tenere McNair dietro di sé: da quella bocca uscivano le idee più raccapriccianti che avessi sentito in quasi venti anni, e vedere il compiacimento di Bellatrix, la sua aria divertita, mi facevano temere che avrei presto ceduto a un attacco di vomito. Come avevo fatto a cacciarmi in un casino simile? Mi feci forza, dovevo impedire quello scempio o almeno limitare i danni. Di sopra c’erano tre porte: il respiro affannoso e i gemiti inconfondibili venivano da quella davanti a noi. Dalle altre due porte non si sentiva niente, Steve ne aprì lentamente una e intravidi un bagno misero ma ordinato: non c’era nessuno e tirai un sospiro d sollievo. McNair e Bellatrix stavano sghignazzando dicendo a Pucey che dovevamo assaltare i due amanti e farli schiattare dallo spavento proprio mentre raggiungevano l’orgasmo. Io intanto schifato dai loro discorsi, aprii la terza porta: quando vidi un ragazzino dell’età di Meissa che dormiva profondamente nel suo letto, iniziai a sudare freddo, mi tornò alla mente la storia di Margareth, la figlia mezzosangue di Orion Black e mi dissi che il destino doveva avermi messo dentro quella casa, quella notte, solo per farmi scontare tutto il male che avevo pensato di mio padre, anni addietro… E fui consapevole, in quel momento, di essere davvero suo figlio, perché a costo di rimetterci la mia, di vita, avrei fatto anch’io quello che a suo tempo aveva fatto lui.

    “Allora… cosa c’è lì dentro?”
    “Non c’è nulla, solo roba vecchia…”
    “Potremmo incendiarla…”

Strinsi la bacchetta, pronto a schiantare Bellatrix se solo si fosse avvicinata, la fulminai con occhi carichi di odio: forse, per la prima volta dopo tanti anni, ebbe nuovamente paura, e provò rispetto per me.

    “Smettetela di bisticciare… concentriamoci su questi due… al mio via!”

Steve mi diede le spalle e avanzò con gli altri verso la camera, Bella era entusiasta all’idea di provare la bacchetta su carne viva, io non avevo il coraggio di guardare cosa stava per accadere, gettai un “Muffliato” alla stanza del bambino e la chiusi così che non uscisse nel momento sbagliato e i miei compagni non potessero entrare… Pregai gli dei per lui e mi voltai, pensando a cosa potessi fare per i genitori, ma già le urla di spavento dell’uomo e i pianti disperati della donna annunciavano che gli altri avevano fatto irruzione nella stanza.

*

La cazzata l’avevamo fatta e anche bella grossa: Walden aveva usato la bacchetta, non si era limitato a guardare come gli era stato ordinato. Il dipartimento ora sapeva che un Mago minorenne aveva fatto una magia alla presenza di babbani; non solo, ma quando fossero venuti a verificare, e sarebbe accaduto molto presto, avrebbero legato quell’evento alla scena di un crimine. Steve diede un paio di schiaffi a McNair, gli prese la bacchetta e la distrusse, per cancellare una prova, ora però dovevamo far sparire anche lui, Walden non poteva ancora smaterializzarsi da solo.

    “Sherton, tu e Black lo accompagnate da suo padre, io prendo gli ostaggi e vi anticipo alla base…”
    “Io voglio venire alla base con te, non star dietro a questi due mocciosi!”
    “Bella, non discutere, Walden non ha più la bacchetta e Sherton non è abituato a certe situazioni…”

Non mi curai dello sguardo schifato che mi rivolsero, mi ero rifiutato di muovere un passo dal corridoio per tutta la loro “caccia”; sapevo che non si fidavano di me, almeno non più di quanto mi fidassi io di loro, ma ormai ero in mezzo al guado, dovevo andare fino in fondo. La prima parte della missione andò bene, McNair senior non fece domande, si limitò a riprendersi suo figlio e a preoccuparsi della bacchetta, ero sicuro che appena ce ne fossimo andati, avrebbe riempito Walden di sberle, e non perché si fosse messo in una situazione pericolosa, ma perché non aveva portato a termine la serata. A quei pensieri, non feci che ringraziare ancor di più gli dei di avermi dato un padre come il mio, seppur con i suoi difetti. Quella notte, però, si rivelò presto una notte piena di errori: lo capii anche dallo strano silenzio di Bella mentre, lentamente, camminavamo come spettri lungo il fiume, che costeggiava da sud il maniero dei Rookwood. Sotto i nostri piedi, si percepiva appena il rumore del ghiaccio che s’incrinava e della ghiaia che faceva attrito. Era una notte di luna piena, fredda, di quel gelo che però non riusciva a penetrarmi le ossa, solo perché ossa e sangue, in me, erano già freddi come la morte. All’improvviso vedemmo che i nostri compagni, non sapendo dell’errore di McNair e quindi della probabile presenza di ministeriali nella zona, stavano facendo le cose in grande. Le fiamme si alzarono da un gruppo di case isolate, precedute da un sordo boato, Bella fremette, come una belva che annusa nell’aria il sangue, si voltò verso di me, irridente, pronta a sbeffeggiarmi come suo solito, avanzammo per i vicoli, come ratti, per avvicinarci: lei voleva festeggiare, io limitare, se possibile, i danni. Quando intravidi qualcosa nel cielo, una striscia rossastra, poi un’altra, capii e ghermii Black per un braccio, schiacciandola al muro nell’oscurità del vicolo che stavamo percorrendo. Provò a ribellarsi, serrava la bacchetta, io le misi una mano sulla bocca e le feci cenno di ascoltare. Dopo un attimo di smarrimento, non sapevo se avesse temuto o avesse sperato che me la volessi scopare, come uno dei tanti che frequentava, lì, al buio, contro il muro, udì anche lei le voci degli Aurors che si scambiavano ordini secchi, perché la casa fosse accerchiata e facessero irruzione: non potevamo permettere che i nostri compagni fossero catturati, ne andava anche della nostra sicurezza. Mi chiesi come si potesse essere tanto idioti da lasciare tante tracce dietro di noi, come stavamo facendo quella notte. Non c’era tempo per mandare un “Patronus” per chiedere aiuto, mi guardai attorno, Bella voleva assaltarli senza prima organizzare un piano, io mi accorsi di una casa non troppo vicina, apparentemente abbandonata e lanciai degli incantesimi silenziosi perché sembrasse prendere fuoco dall’interno. I Ministeriali di guardia andarono a verificare, lasciando senza guardia la casa e noi entrammo a dare manforte. Rookwood, Carrow e Wilson erano in inferiorità, Bella ed io colpimmo gli Aurors alle spalle, schiantandoli e lasciandone tre svenuti a terra. Per le scale, intanto, sentimmo gli altri tre che, capito il trucco, erano già di ritorno; ci nascondemmo nella camera, dove due babbani atterriti si stavano appena riprendendo dai precedenti “schiantesimi” e non riuscivano a capire cosa diavolo stesse accadendo in casa loro. Ci difendemmo bene, mettemmo di nuovo sotto gli Aurors, ma sapevamo tutti che ne sarebbero presto arrivati degli altri. Bella voleva prendere i babbani, per essere quella con più prede catturate in una sola notte, ma la donna le sfuggì, mentre Rookwood colpiva di nuovo l’uomo e se lo caricava in spalla. Corsi per le scale dietro a Bellatrix, deciso a fermarla o aiutarla, dovevamo sbrigarci, presto sarebbero arrivati nuovi miniseriali. E, infatti, l’Auror entrò proprio in quel momento, mentre Bellatrix colpiva la donna alle spalle ed io ero ancora nell’oscurità delle scale; sollevò la bacchetta contro di lei, che come una ragazzina sbavante davanti all’albero di Natale, festeggiava emozionata la sua prima preda, catturata tutta da sola. L’Auror la puntò. Io pensavo che meritasse di morire, che avrei voluto sollevare io stesso la bacchetta, lanciare un “Avada”, e poi schiantare l’Aurors e confonderlo, così che credesse di aver ucciso lui la nobile Bellatrix Black. Volevo farla finita una volta per tutte, sollevai anch’io la bacchetta e pronunciai l’incantesimo silenzioso. L’Auror crollò a terra, schiantato e privo d memoria degli ultimi fatti, mentre Bellatrix, spaventata, si voltava e lo vedeva crollare a terra, poi vedeva me, sull’ultimo gradino, che uscivo dall’arco oscuro della porta. Le avevo appena salvato la vita, e non poteva crederci. Non riuscivo a capirlo e a crederlo nemmeno io.

*

Il maniero era fatiscente, ovunque c’erano assi sconnesse, un odore di chiuso e di muffa, tappezzeria staccata alle pareti, mobili di un tempo passato, ricco, ma in declino: era un’antica residenza di qualche casato estinto, abbandonata ormai da decenni. Di fronte a me c’erano un tavolo lungo, davanti a un caminetto ormai spento, e sedie, tante sedie, alcune occupate, altre no; c’era gente stravaccata a terra, seminuda, sbronza, altri ancora stavano scopando nel buio, da qualche parte: dal corridoio erano arrivati per tutta la notte gemiti inequivocabili. Stretto nel mio angolo, da cui non mi ero mai spostato, impietrito, da quando ero arrivato lì con gli altri, alzai gli occhi da terra, ritraendo appena il piede: quel rivolo di sangue stava arrivando a lambirmi le scarpe, erano già tre volte che impercettibilmente mi spostavo, e con un leggero incantesimo facevo defluire quel vischioso rosso carminio, che non accennava a raggrumare, lontano da me. Dalle persiane sconnesse filtrava l’alba del nuovo anno: avrei dovuto essere a Loch Moidart, a veder sorgere il sole dopo un rito di purificazione, non dopo una notte di sangue e di orrore. Tutto avrei creduto, tranne di riuscire a sopravvivere a una notte come quella: erano tutti morti… tutti… tutti i babbani che le squadre avevano raccattato in giro per la città e la campagna… li avevano tramortiti e rapiti e condotti in quello che, evidentemente, era il quartier generale delle bestialità di quel branco di folli. La chiamavano Little Hangleton, ma non l’avevo mai sentita nominare, non avevo idea di dove fossimo. Quando eravamo usciti dalla casa di Rookwood, con le prede in mano, Steve mi aveva detto di nuovo che potevo andarmene, come aveva fatto anche con Bella. Era stato tremendo, eravamo ancora scossi, mi disse che era meglio fingere di essere stato a una festa rispettabile, di non far intendere in nessun modo che avevo partecipato proprio a quella “caccia al babbano”, ma io volevo andare fino in fondo, dovevo vedere, volevo vedere cosa ci fosse in fondo alla strada che stavo per imboccare… Avevo colto di nuovo lo sguardo diverso che mi rivolgeva Bella: sembrava lo stesso di tanti anni prima, quando mi ammirava. Voleva parlarmi, ma non me ne curai. Quello era stato il mio vero momento di debolezza, ma mi ero ripromesso che, appena si fosse ripresentata l’occasione, mi sarei vendicato di lei, senza altri scrupoli. Quella notte avevo compreso anche che tutto quello che diceva mio padre era la verità: se quelli erano gli uomini di Milord, o gente che stava per diventarlo, allora lui stesso era solo un impostore, che usava mezzi indegni per scopi che non erano certo costituire un governo migliore; stava allestendo un esercito di assassini e mercenari, che di certo non era finalizzato a dare una speranza al mondo magico, come invece poteva fare la nostra Confraternita. Ad ogni frustata, ad ogni colpo, ad ogni risata, quella verità penetrava più a fondo in me: avevo sentito parlare delle cacce al babbano fin da bambino, ma mio padre aveva sempre fatto in modo che non ne sapessimo più di tanto, sicuramente per proteggerci, perché nessuno, a Herrengton, poteva pensare di macchiarsi le mani in quel modo. Fissai di nuovo quel sangue e feci un altro mezzo passo indietro. All’improvviso, gli altri, pur confusi e spossati dopo una notte di delitti e di sangue, si alzarono in piedi eccitati: mi chiesi che cos’altro doveva ancora succedere. E fu allora che fece il suo ingresso Lui, nella sua veste povera, nera, autoritario con la sua sola presenza e maestosità, seguito da Rodolphus. Si divincolò da quanti si prostravano ai suoi piedi, fece correre lo sguardo tutto intono a sé, alle spoglie nude e ferite delle prede, al sangue che ancora gocciava dal tavolo sul pavimento. Estrasse la bacchetta dalla manica e le sue mani scheletriche, nervose e rapide, trasfigurarono quei poveri resti in polvere, e il sangue sparì dalle travi di legno. Tutto, tranne quel rivolo che puntava, inesorabile, ai miei piedi e che io, con gli occhi fissi, cercavo di mantenere lontano da me.

    “Vi auguro Buon Anno, amici miei, un anno ricco e fruttuoso per voi e i vostri progetti…”

Ci guardò uno a uno, mentre la schiera di elfi, introdotta da Rodolphus, distribuì altri beveraggi per i brindisi. Puntò gli occhi su di me, sorpreso di vedermi, con un cenno del capo chiamò Lestrange e bisbigliò qualcosa al suo orecchio.

    “Bene… Siamo tra amici, siamo tutti obbligati da un voto di silenzio, pena la morte, ma dopo una notte di sangue, di purificazione, ecco giungere una mattina di gioia e speranza; Rookwood, Carrow… mi compiaccio delle vostre offerte, venite qui…”

Augustus e Amycus si alzarono dalla sedia all’istante, lo raggiunsero e s’inginocchiarono davanti a lui. Il Signore Oscuro non mi staccava gli occhi di dosso, io lo guardai con terrore e molta indecisione, Rodolphus si avvicinò di nuovo a lui e gli bisbigliò qualcosa che parve non convincerlo del tutto. Continuava a fissarmi, al tempo stesso stupito e affascinato. Forse avevano scoperto del ragazzino e ora avrebbe chiesto a Rookwood di cruciarmi fino ad uccidermi: dopo tutto quello che avevo visto quella notte, non mi sembrava più un’ipotesi tanto remota. E forse, se l’unica strada per riavere Sile era diventare un mostro, era meglio morire subito e non soffrire oltre.

    “Sollevate la manica sinistra…”

I miei due ex compagni di Serpeverde, speranzosi e inginocchiati ai suoi piedi, sollevarono la manica e porsero l’avambraccio sinistro al loro Signore… Sibilando in serpentese, Milord poggiò la bacchetta sulla pelle candida di uno e dell’altro e, improvvisamente, come avesse richiamato una Runa del Nord, vidi comparire sulla loro pelle, la stessa figura che avevo imparato a riconoscere.

    “Giuro di servirvi, di proteggere con la vita la causa, per la gloria di Salazar… ripeti Rookwood…”

Augustus ripeté, poi il rituale toccò ad Amycus … Milord li fece alzare poi li baciò sulle guance, e li rispedì al loro posto. Alla fine si voltò verso di me, che avevo osservato tutto il rituale teso e pallido come un morto, non mi rivolse alcuna parola, iniziò, però, a girarmi attorno, in cerchi concentrici, sempre più ravvicinati, iniziò a bisbigliare piano, in serpentese, ma le sue parole, per me non avevano senso, non capivo quella lingua, non la parlavo. Non l’avevo mai parlata.

    “Potete tornare dalle vostre famiglie, abbiamo finito… Tutti, ma non tu, Sherton… dobbiamo parlare…”

Lo guardai, non capivo, gli altri mormoravano sommessi e delusi che fosse già tutto finito, io sentivo su di me lo sguardo preoccupato e inquieto di Rodolphus.

    “Lestrange, ho fretta…. Fai in modo che se ne vadano subito via, tutti!”

Milord mi ghermì il braccio e mi trascinò dietro di sé, si muoveva rapido, con ampie falcate, cui stentavo a star dietro, attraverso un lungo corridoio, tetro e particolarmente soffocante, scendemmo delle scale, fino a raggiungere quella che doveva essere una cantina, allestita come il sotterraneo di un qualsiasi Mago che si prodighi nelle Pozioni.

    “Siediti!”

C’erano tre sedie, due eleganti, simili a quelle del piano di sopra, e un semplice sgabello da lavoro: pensando come uno sciocco che mi avesse portato lì per mettermi alla prova con il calderone, mi diressi verso il tavolo da lavoro con lo sgabello. Il gesto sembrò colpirlo, ma non disse nulla.

    “Tra quanti anni prenderai le prossime Rune del Nord?”
    “Tra poco meno di due anni, nel giugno del ‘71, Milord…”
    “Non hai ancora venti anni… Bene… molto bene… ora se permetti… LEGILIMENS!”

Mi colse alla sprovvista, cercai di opporre resistenza ma sapevo che non ci sarei riuscito del tutto: non sembrava però interessato a indagare a fondo, voleva solo rivedere, attraverso i miei occhi, gli eventi di quella notte. Si compiacque nel vedere un vecchio ridotto a stupida e oscena marionetta, mentre Pucey, per il proprio compiacimento e per quello dei suoi compari lo faceva ruotare per aria. Una morsa mi aveva preso allo stomaco, mi ero chiesto che diavolo ci facessi io lì. Augustus, poco lontano da me, sembrava in estasi, aveva alzato la bacchetta per richiamare il vecchio a sé, l’aveva cruciato senza pietà, poi l’aveva gettato ai miei piedi e lì avevo visto quel corpo contorcersi dal dolore. L’uomo, agonizzante, mi aveva puntato i suoi occhi ormai velati addosso, era ancora vivo e mi chiedeva pietà, ed io come un codardo non ero riuscito a finirlo… Non c’ero riuscito… il sangue usciva dalle sue ferite al volto e sul corpo e bagnava il pavimento e lambiva le mie scarpe, ma io ero stato capace solo di ritrarmi inorridito: mi ripetevo che nessuno Sherton aveva mai toccato il sangue della feccia, perché anche solo versare il loro sangue era una macchia sul nostro onore. Milord smise di leggere i miei ricordi, proprio mentre ero arrivato al momento in cui Rookwood mi aveva puntato gli occhi addosso e capendo il mio turbamento, aveva lanciato al mio posto un “Avada” facendo morire quel poveretto ai miei piedi.

    “Ci sono mezzi più rapidi e che non prevedono spargimento di sangue, per liberarsi della feccia… non devi lascarti frenare da questa vostra strana debolezza, Sherton…”

Aveva un sorriso strano sulla faccia, non mi capacitavo di cosa stesse accadendo, di cosa volesse da me.

    “Mi farebbe piacere rivederti alla nostra prossima riunione… Anche se, finché non avrai il tuo marchio, non potrò dirti molto delle nostre iniziative…”
    “Vorrei far parte della sua cerchia, Milord, per tanti motivi, ma mi rendo conto da solo che non riuscirò mai a esserne all’altezza: il mio mondo sono filtri e pozioni, alambicchi e sotterranei… e… scope da Quidditch… non sono una persona d’azione e il sangue babbano mi ripugna…”
    “Sì, lo sapevo già, so tutto della tua famiglia e so tutto d te… ma ci sono molte cose da fare per la nostra causa… non saresti obbligato a uccidere, né ora né in seguito, se non è nella tua natura… ma vedo che ormai sei pronto per me, tu non sei mosso da teorie, come gli altri, non ardi di stupide ambizioni, tu hai veri desideri ed io, se vorrai… Io ho molto da darti, Mirzam Sherton… come tu hai molto da dare a me… Permettimi di conoscerti e di farti conoscere quello che solo a pochi rivelo, il grande progetto, quello che renderà il nostro mondo migliore per tutti noi… non c’è solo quello che hai visto questa notte, io non c’ero questa notte, perché, come te, anch’io ho bisogno di altro, tu sei un’anima a me affine, Mirzam Sherton… Spero che vorrai vedere di là di tutto questo… solo vedere… la ricompensa per te andrà di là dei tuoi desideri più profondi…”

Mi sentivo avvinghiato come tra le spire di un serpente, non riuscivo quasi a parlare, soggiogato da quella voce e da quella presenza. Poi si allontanò, la sua voce sembrò tornare umana alle mie orecchie, ma si ergeva ancora di fronte a me, sembrava l’incarnazione dell’Eden, carico di promesse, bastava solo allungare la mano.

    “Prenditi tutto il tempo necessario, Mirzam, ora però, prima di salutarci, vorrei chiederti un piccolo favore: vorrei che recapitassi per me un messaggio a tuo padre… ho un grande desiderio di rivedere anche lui…”
    “Lo conoscete già, Milord? Io non lo sapevo… Gli porterò la lettera oggi stesso, personalmente…”
    “No, non si tratta di una lettera… Naturalmente quello che è successo qui, stanotte, deve restare tra noi, inutile condividerlo con tuo padre… sarebbe spiacevole per tutti se si sapesse, dico bene?”

Annuii e Milord prese da un armadio una vasca simile al pensatoio che avevo visto nella stanza di mio nonno, una volta, a Herrengton: non sapevo che fine avesse fatto dopo la sua morte, non l’avevo più trovata. Immaginai che sarebbe andato a prendere una boccetta o si sarebbe estratto un ricordo in quel momento, invece disse di guardare dentro, quello che dovevo vedere era già lì che mi aspettava. Mi accorsi subito che non si trattava di un ricordo… mi sentii risucchiare in qualcosa di caldo, vischioso, soffocante.

Il fuoco era ovunque, persino nel cielo, carico di un pesante color rosso sangue: nelle sagome ritorte e prive di vita che mi circondavano, riconobbi appena il bosco di Herrengton. Mi guardai attorno, con sgomento vidi che anche dalle cime degli alberi che celavano la torre meridionale, si levava alta una minacciosa colonna di fumo. Iniziai a correre, oppresso e soffocato da calore, sudore, fumo; a fatica affrontai la miriade di gradini riarsi, su, sempre più su, fino ad arrivare strisciando al cortile delle rose. E ritrovarmi lì, senza avere più nemmeno il fiato per urlare tutto il mio orrore. L’impotenza mi morì in gola: delle cinque torri di Herrengton non restavano che ruderi fumanti, del giardino delle rose, un patetico scheletro carbonizzato, e in mezzo alla devastazione del mio mondo, un piccolo lembo di seta rossa. Tutto ciò che rimaneva della bambola di mia figlia… Crollai a terra, rotto dalla disperazione e dal pianto. Poi, nell’immane silenzio che mi circondava, sentii qualcosa in lontananza, i singhiozzi di una bambina.

    “Meissa!”

Ripresi a correre come un pazzo, senza neppure sapere dove andavo: non esisteva più niente, solo vita bruciata, solo fiamme che arrivavano a tuffarsi nell’oceano, rompendo il colore mercurio delle acque di bagliori fatti di fuoco e di sangue.

    “Alshain… Solo tu puoi fare qualcosa perché non succeda…”

Una voce sibilante in serpentese, dietro di me, mi fece sussultare. Io non avevo mai parlato né compreso il serpentese, guardai le mie mani, non erano le mie, erano più grandi, erano quelle di mio padre… Io ero mio padre. Mi voltai, ma non c’era già più nessuno. In lontananza, però, le torri degli Sherton svettavano di nuovo magnifiche e alte nel cielo, stagliate nel rosso, ora sereno, del tramonto. Sentivo dolore, un rivolo di sangue mi scendeva dal braccio ma non sapevo come mi fossi ferito, lo sollevai e, sconvolto, non riuscii a trattenere un grido, di paura e dolore: vidi il marchio di Salazar Slytherin che sanguinava copioso. La leggenda diceva che il vero erede di Salazar Slytherin si sarebbe rivelato all’erede del suo discepolo marchiando il suo stesso corpo col sangue… Gli Slytherin aspettavano quel segno da secoli. Ed ora, tutto si compiva.

Mi svegliai a terra, col cuore in gola, sudato e tremante, preda di atroci domande, ma nella stanza del sotterraneo non c’era più nessuna traccia di Milord, nessun cenno di vita.
Non c’era più il pensatoio e i miei vestiti puzzavano di fumo e d’inferno. La camicia era zuppa di sangue, ma sapevo che non era il mio sangue. Non sapevo cosa mi avesse fatto, ma ora, a qualsiasi costo, dovevo andare avanti.

***

Mirzam Sherton
Herrengton Hill, Highlands - lun. 19 gennaio 1970

Avevo scritto a Meda. Di nuovo. Ancora. Da quando mi aveva detto che era vero, che con quel Ted erano “… amici… solo amici…” e “… non c’è nulla di male…”, per me era diventata un’altra ossessione. Lei non si rendeva conto dei guai in cui si stava cacciando, ma io che, al contrario di lei, avevo saputo del trascorso “babbano” di suo zio Orion e della vera natura della sua strana malattia, ero consapevole che certe cose, a casa Black, si potevano lavare persino col sangue… E dopo aver visto all’opera Bellatrix, quella notte nel Cornwall, non osavo immaginare cosa sarebbe arrivata a farle! Dovevo farla ragionare, e quel giorno, a Hogsmeade, aveva dovuto ascoltarmi. In quell’occasione mi aveva confidato che, a Natale, solo per un’osservazione ingenua di Narcissa sulle sue amicizie a scuola, suo padre l’aveva ripresa e punita severamente. E che il clima, ormai, a casa Black era insostenibile, anche perché Bellatrix sembrava aizzarli sempre di più contro di lei, presa com’era dalla sua esaltata fissazione per quel famoso Mago Oscuro che tutti a Black Manor chiamavano “Milord”. Non c’era stato bisogno di dire altro per capire che cosa stava succedendo. Mi sentivo soffocare, ovunque guardassi, vedevo le spire di Lord Voldemort serrarsi sempre più attorno a me e alle persone che amavo. Avevo cercato di farle capire che cosa poteva provocare anche un semplice pettegolezzo: se si era accorto Rigel, anche il fratello di Rodolphus poteva riportare quella strana novità a suo padre e Roland avrebbe riferito e fatto presente a Cygnus la situazione. Le cose non potevano che degenerare a quel punto. I Black avrebbero subito provato a stroncare sul nascere qualsiasi chiacchiera, se era così evidente da far parlare non solo Narcissa ma persino gli estranei: l’avrebbero messa ancor più sotto stretta sorveglianza, l’avrebbero potuta togliere dalla scuola, distruggendo tutti i suoi sogni per il futuro, l’avrebbero incastrata con uno di quei matrimoni che aborriva. Quando avevo saputo che anche McNair ora aveva iniziato a frequentare Black Manor con certe intenzioni, ricordando la folle crudeltà di quel ragazzino, mi ero sentito male per lei… Avevo perso il sonno ed ero caduto nel panico: era solo colpa mia, se Meda era esposta a quelle belve. La sua vita rischiava di cadere a pezzi, solo per uno stupido “Mezzobabbano”.
Meda, che non poteva non rendersi conto che sarebbe davvero finita così, era rimasta di sale alle mie parole, forse si aspettava comprensione da me, ma io le avevo parlato con estrema serietà e una certa durezza. Per lei, Ted era ancora solo un amico, ed io le credevo, ma vedevo che non voleva già nemmeno prenderla in considerazione, l’unica cosa che era ragionevole e giusta: lasciar perdere quella pazzia. Sicuramente ne faceva solo una questione di principio e se non si fosse trattato di un “mezzo babbano”, io le avrei anche dato ragione. Però per un “mezzo babbano”, no! No, non per uno così, lei non poteva gettare al vento tutta la sua vita. Non sapevo se ero riuscito a convincerla, di certo l’avevo scossa abbastanza. Mi chiesi se non fosse il caso di affrontare anche lui: se era davvero un amico, avrebbe agito di conseguenza, per non metterla nei guai. Sapevo, però, che infondo era solo Sanguesporco, e di loro non c’era mai da fidarsi: quasi sicuramente le ronzava attorno, animato da desideri indegni e non mi sarei stupito se metterla nei guai, lei, una nobile Black, fosse una sfida che si era prefisso di vincere. Perciò quando la vidi allontanarsi mesta e confusa, sapevo già, dentro di me, che dovevo prepararmi al peggio, a fare qualsiasi cosa per lei, perché tutto faceva supporre che non avrei ottenuto niente con le buone maniere. Nemmeno in quel caso.

***

Mirzam Sherton
74, Essex Street, Londra - sab. 31 gennaio 1970

Mi alzai e guardai fuori dall’ampia finestra che si apriva sulla parete di fronte, consentendo una vista completa dalla strada fino al fiume. Si stava facendo sera, mio padre era rimasto a Herrengton con Meissa, mia madre ed io eravamo andati a Londra per acquisti e c’eravamo fermati a Essex Street per cercare dei vecchi abiti lasciati lì tanto tempo prima. Come tutto il resto di Londra, anche la nostra strada era ammantata da una candida coltre di neve, che ricopriva i gradini d’accesso alle case, le macchine parcheggiate lungo i marciapiedi, i lampioni, le insegne e, sullo sfondo, gli alberi che digradavano verso il Tamigi, le banchine deserte, gli imbarchi e i tetti della città di là del fiume. Di lì a poco la mia vita sarebbe cambiata per sempre e un fremito di odio e sconforto, fusi insieme, mi spinse a ritornare al mio posto. Era la scelta migliore che potessi fare, senza dubbio, avrei agito poi me ne sarei andato per sempre, la decisione più opportuna per me e per la mia famiglia: significava libertà dal dolore e sicurezza per gli altri, non volevo subissero le conseguenze delle mie azioni. Mi scostai una ciocca dal viso e tornai a sedermi al piano, scorrendo rapido con le dita sulla tastiera e strappando a quello strumento la più sincera manifestazione di ciò che avevo dentro. Mi veniva da ridere, al pensiero che riuscissi a esprimere me stesso attraverso un oggetto babbano: dopo tutto quello che avevo fatto nella mia vita per liberarmi da certi fantasmi, era davvero sorprendente e ridicolo e poco conveniente. Ma io ero tutto questo: un’assurda accozzaglia di contraddizioni. E dovevo ringraziare ancora una volta mio padre se ero fatto cosi. Anche il resto della mia famiglia era come me, ma io, al contrario degli altri, da sempre cercavo di fare di tutto per annullarle, invano. Cercai di liberare la mente, le ore che mi attendevano richiedevano tutta la mia calma: non sapevo nemmeno se sarei stato capace di fare tutto quello che avevo in mente. Ero nervoso, avrei abbandonato Meissa e non l’avrei rivista mai più, proprio ora che si avvicinava il suo ingresso a Hogwarts e più avrebbe avuto bisogno di me: avevo fallito anche con lei, per il suo bene era meglio uscire dalla sua vita il prima possibile. Ero orgoglioso di lei, glielo avevo scritto nella lettera che le sarebbe arrivata appena avessi fatto tutto secondo programma: non dubitavo del suo temperamento, sapevo che avrebbe ottenuto un giorno per se stessa e per la nostra famiglia ciò che desideravamo da generazioni. Lo sapevo e non c’entrava niente quello che avevo visto fare a Habarcat, o la maledizione o duemila altre cose. Ero convinto di essere l’unico a conoscerla davvero, anche più dei nostri genitori che l’amavano tanto. Meissa era molto più di una sorella per me, sapevo che l’affetto che provavo per lei era superiore a quello che provavo per gli altri; era l’unica persona al mondo per la quale avrei fatto l’impossibile, l’unica cui tenevo davvero, anche se non sapevo perché. Mi guardai la sottile linea di Rune che solcava il mio palmo, testimone silenzioso del legame che ci aveva imposto nostro nonno. Mi chiedevo se fosse solo per quello. Uno degli aspetti che mi avevano trattenuto in quegli ultimi venti giorni di tormento, era stato il pensiero di lei, eppure oramai sapevo che solo allontanandomi potevo rispettare l’impegno che avevo preso, quello di proteggerla a costo della vita.

    “Che melodia triste, Mir… Non puoi suonare qualcosa di più adatto a un giorno di festa? È Imbolc, ricordi?”
    “Appunto, non c’è molto da festeggiare, oggi…”

Mi fissò, preoccupata: col passare dei giorni, all’avvicinarsi della cerimonia, il suo sguardo si faceva sempre più attento e indagatore, sembrava percepire le mie paure più profonde. Mi conosceva bene, sapeva che stavo covando qualcosa, ma per il suo bene, non dovevo dire nulla. Alzai lo sguardo su di lei, seduta sul divano di fronte a me, con dei vecchi abitini di mia sorella in mano, lo sguardo commosso a rivelare dove stavano perdendosi i suoi pensieri in quel momento. Con mio padre non facevo che scontrarmi, poteva essere per la politica, o per questioni di gioco, o per le mie frequentazioni, non importava il motivo, litigavamo sempre più spesso: dopo una breve tregua, nelle ultime settimane le sue espressioni avevano smesso di essere incoraggianti, non faceva altro che criticarmi e aveva cercato di dissuadermi in ogni modo, quando gli avevo detto chiaramente come la pensavo su Voldemort. Quando gli avevo detto, solo in parte, del “ricordo”, era impallidito, non sapevo come avesse fatto Milord a impossessarsene, ma avevo capito subito che quello era un sogno di mio padre, che lui conosceva fin troppo bene. Si era ripreso subito da quell’attimo di smarrimento, mi aveva accusato di non essere in grado di mettere a frutto le lezioni di Fear, che ero uno stupido, che avrei rovinato tutti quanti, stando dietro a Rodolphus e affrontando le situazioni senza la dovuta attenzione. Da come mi guardava, sembrava che non fossi più suo figlio. Mi ricordava lo sguardo che il nonno gli riversava addosso, ed ero convinto che non fosse solo una mia impressione. Mia madre invece era sempre la stessa, preoccupata per me, con quella straordinaria capacità di guardarmi fino nel fondo dell’anima: non resistevo a lungo a quello sguardo, era l’unica persona al mondo capace di farmi riflettere e vergognare, anche senza dire una parola. Era la persona che temevo di più. Eppure, nonostante i dubbi che mia madre riusciva a instillarmi nella mente con un solo sguardo e il chiaro risentimento che mio padre mi riservava, non riuscivo a tornare sui miei passi. Non riuscivo a vedere cosa ci fosse di sbagliato nei miei propositi. Non capivano che la nostra strada era segnata da sempre? Che era l’unica via per sopravvivere, almeno per una parte di noi?

    “Vieni qua, Mirzam…”

Mi avvicinai: chi non ci conosceva poteva pensare davvero che fosse una mia sorella più grande, non mia madre. Andai a sedermi accanto a lei, mi prese la mano nella sua, calda e profumata, me la portai alle labbra per baciarla, respirando quello che da sempre era l’odore che più amavo: amore e fedeltà. Mi accarezzò il viso e mi scostò una ciocca dagli occhi.

    “Non smetterai mai di essere mio figlio, Mirzam: può accadere tutto ciò che ci riserva il destino, ma tu sarai sempre mio figlio… E questa sarà sempre la tua casa, e qui ci sarà sempre la tua famiglia… Se non sei convinto di ciò che stai per fare, di qualsiasi cosa si tratti, non farlo! Non devi curarti di niente, non devi preoccuparti di niente, tuo padre ed io ti saremo accanto in ogni lotta…”

Mi sorrise incoraggiante, voleva mi aprissi come da bambino, ma quella era una battaglia solo mia e il mio modo per far vincere loro la guerra era allontanarmi, perché ero l’anello debole della nostra famiglia. Scorsi con gli occhi all’orologio affisso alla parete di fronte, nel giro di pochi minuti me ne sarei andato, forse quello era davvero l’ultimo istante tutto per noi. Appoggiai la testa sulla sua spalla, lasciando che mi accarezzasse come quando ero un bambino: stavo assaporando per l’ultima volta il piacere di essere solo un figlio. Suo figlio. Il mondo che mi attendeva era l’ignoto. Una parte di me bramava immergersi in quel buio, spinto dall’orgoglio del sangue puro che mi scorreva nelle vene, l’altra parte non voleva andarsene, lasciare volontariamente tutto quanto, allontanarmi da tutto ciò che amavo. Come al solito mi sentivo diviso in due e soffocavo dentro, nell’eterna lotta tra i precetti di mio padre e quello che sentivo essere giusto per quelli come me, come noi. Il silenzio ovattato fu interrotto: l’orologio del salone, quello che Sile aveva tanto ammirato la notte passata lì a Essex Street insieme con me, battè le 20,30. Era il momento: il fatto che il tempo fosse stato segnato proprio da quel pendolo mi sembrava un chiaro segno. Eravamo alla resa dei conti. Il cielo ormai si era chiuso nel buio della notte e una miriade di fiocchi di neve riprendeva a scendere soffocando tutti i suoni. Tutti, tranne le solite voci che non riuscivo a far tacere nella mia mente. Mi alzai e ammirai mia madre per quella che pensavo fosse l’ultima volta.

    “Devo andare…”
    “Andare? Come sarebbe? Non torni con me a Herrengton? Ci metto solo un momento a chiudere tutto, tuo padre e tua sorella ci aspettano per il sabba…”
    “Devo fare una cosa, vedere una persona… Torno appena possibile…”
    “Non andrai di nuovo da Rodolphus Lestrange?”

Non risposi, non c’era bisogno di parlare… Mi smaterializzai, sotto gli occhi allibiti e ancor più preoccupati di mia madre. Lei forse lo sapeva già: quella notte suo figlio doveva morire e al suo posto sarebbe rinato un uomo nuovo.


*continua*


NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, aggiunto a preferiti/seguiti, recensito ecc ecc.

Valeria



Scheda
Immagine
  
Leggi le 12 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Terre_del_Nord