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Autore: Rucci    15/12/2009    8 recensioni
Anche i santi di Atena aspettano i regali sotto l'albero.
Specialmente i più giovani, che con un piccolo racconto natalizio passano da un sogno ad un viaggio, accompagnati da guide sin troppo famigliari.
Quel che non è famigliare, è il futuro.
{what if: post-Hades} {shonen-ai sparso}
Genere: Commedia, Sovrannaturale, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Un Canto di Natale

Un Canto di Natale

 

 

 

Capitolo 4. Il Canto della Fenice

Dove veniamo trascinati nei peggiori bar di Tokyo.

 

 

 

A differenza degli altri, Ikki era già sveglio quando il primo dei suoi visitatori notturni gli fece visita. O almeno così credeva.

Non si era messo ancora niente, addosso, oltre ai pantaloni neri da tuta con cui dormiva: se intendeva fare qualcosa, ancora sembrava rinviare il momento; seduto sul letto con i gomiti appoggiati alle ginocchia, aspirava quasi impercettibilmente, a piccoli sbuffi, dalla sigaretta immobile fra le sue labbra. Era perfettamente fermo. Non aveva bisogno di usare le mani, il filtro stretto tra i denti.

Nessun rumore per minuti e minuti. Poi, un lieve scatto della maniglia, e una figura biancovestita si svelò, lentamente, emergendo dall’oscurità del corridoio. Ikki aggrottò le sopracciglia. Tra tutte le persone che poteva aspettarsi – ed arano tante, in fin dei conti – questa proprio non rientrava nella sua top ten:

“Che ci fai, qui?”

“Ikki” lo rimproverò dolcemente una voce femminile che lui conosceva sin troppo bene. “Stai fumando.”

“Ho aperto la finestra.”

“Non è per quello.”

Ikki squadrò la nuova arrivata da capo a piedi e dai piedi al capo, deciso a non farsi intimidire.

Non la liquidò: stava in guardia, perfettamente deciso a non sottovalutarla. Nessuno l’avrebbe mai detto – e lui ci teneva particolarmente che non si sapesse – ma Phoenix non avrebbe avuto esitazioni ad indicarla come il suo più acerrimo nemico. La sua nemesi numero uno.

Poiché lui era tipo che non amava le regole, e Lei, al momento, era la Regola. E una Regola a cui doveva sottostare.

Oltretutto, era una Regola che vestiva come una bomboniera.

“Ikki, suvvia, spegni quella cosa” intimò Saori, infatti, dolcissima. I suoi grandi occhi lo guardavano limpidi, senza sfumatura di rimprovero. “Il pontefice Shion si arrabbierà.”

“Sai che m’importa” borbottò quello. Ma la spense, nel posacenere sul comodino. L’aura di Atena lo stava soverchiando. Maledizione. Troppo rosa tutto in una volta. “Allora? Che vuoi?”

Saori sorrise, per niente scoraggiata dal fatto che le si rivolgesse apertamente usando il tu. Da quando quei ragazzi erano diventati i suoi guerrieri e la sua luce, poco le importava, in verità, delle distinzioni formali. Inoltre, sapeva che non reagendo affatto Ikki di Phoenix si sarebbe imbestialito ancora di più. Sfoderò l’espressione più amabilmente cortese del suo repertorio, e infatti quello s’irrigidì.

“Io sono venuta solo a farti un annuncio. Stai sognando, Ikki, e molte cose ti appariranno in sogno. Volevo solo che mi vedessi, prima. Ci tenevo tanto.”

“Vaneggi? Quale sogno? Io sono sveglio da oltre un’ora.”

“Questo lo credi tu.” Scosse lentamente il capo, Saori. Chiuse, finalmente, la porta dietro di sé. Ikki si trovò intrappolato in una stanza senza vie di fuga con la Bomboniera. Ah, ma c’era sempre la finestra. “Non è carino da parte tua covare propositi del genere, comunque. Per fortuna ti sei addormentato prima che lo facessi.”

Ora sì, lo stava rimproverando! Phoenix strinse le labbra, duro.

Come diavolo faceva a sapere quel che voleva fare, alzato in piena notte?

“Ad ogni modo, non sono qui per rimproverarti. Temo che ci sarà già chi lo farà al posto mio.”

“Beh, allora non farlo!” sbottò quello, incapace di trovare una risposta migliore. La fissò, torvo.

Atena, leggiadra, procedeva verso l’altra, ampia finestra della stanza, quella ancora chiusa. Lisciò con la piccola mano guantata le pieghe della tenda, sospirò.

“Oh, Ikki, il tempo è così breve.”

“E allora dimmi cosa vuoi da me e poi vai, no? Non ti capisco.”

“Desideravo solo vederti, prima che partissi.”

“E dove dovrei andare?”

Un leggero, dolce rumore di corda che scorre. Saori aveva tirato le tende, e Ikki non avrebbe prestato così tanto caso a quel minimo rumore, se esso non gli avesse spalancato le porte su un lungo corridoio buio. Tacque.

“Quella non era così, prima.”

“No” rispose tranquillamente lei. “Eppure ti ho detto che stai sognando. Prenderai questa strada?”

“Ho scelta?”

La guardò negli occhi, andando subito al sodo.

Lei era ferma, e seria, ma non severa. Non rispose.

Fu allora che tutta la stanza assunse contorni più densi, quasi come se si stesse chiudendo attorno a lui. Diventava più stretta; non era più il posto in cui doveva stare. E non ci volle molto per distinguere in quelle sensazioni tanto pressanti le volontà superiori del mondo onirico, dove chi dorme ha ben poco controllo sugli avvenimenti.

Nel sonno o in veglia, Ikki di Phoenix era abituato a rispondere quando si chiedeva qualcosa da lui: con un assenso senza parole, e un passo avanti, o con un sardonico diniego. Ma era anche abbastanza sveglio da capire quando non era in suo potere accettare o rifiutare.

Passarono diversi secondi di silenzio, in cui i suoi occhi arsero, nel buio della stanza. Fermo come un animale braccato, guardò nuovamente Atena negli occhi. Sentì la stanza fremere. Si mosse.

“Fai attenzione” sentì Saori sussurrare, come se fosse già lontana.

Senza esitazioni, con passo sbrigativo, aveva imbucato il nero di quella porta che non esisteva.

Si ritrovò solo, senza vedere. Si fermò, per ascoltare. Niente.

In quel momento si rese conto che si era rimesso in viaggio, per l’ennesima volta. Allora riprese a camminare, nella mente ancora la figura bianca di Atena nel buio. Che cosa voleva dire?

Quando la luce lo riaccolse, non era esattamente la luce che si aspettava: gialla e pallida, illuminava malamente l’angolo più dimenticato di una città che di solito non dorme. Era un quadro innaturale, dalle tinte nere, grigie e blu, ritratto nella china densa di una storia che si apre nei sobborghi. Il vento soffiava, trascinando nella sua corsa carte imbrattate e lattine vuote, che sfregavano cui marciapiedi con un eco continua e rimbombante. Ikki si guardò attorno, attentamente. Il posto non gli era nuovo. Rimase fermo, solido, in attesa: e non dovette aspettare granché.

“Sei arrivato. Vieni.”

Prima di prestare attenzione al suo interlocutore, si guardò alle spalle: era appena uscito da un vicolo, sporco e buio. Non certo da un corridoio di un ricco tempio. Strinse le labbra, senza lasciare trasparire emozioni, e si rivolse alla sua sinistra, dove stava appoggiato chi aveva appena parlato:

“Sì. Non avevo scelta.”

Poi, senza aggiungere altro, lo guardò prendere distanza dal muro e uscire senza fretta allo scoperto, sulla strada, dove nessuno avrebbe mai camminato. Il biancore della sua figura, in mezzo a tutto quel nero e quella luce debole e malsana, semplicemente sconvolgeva.

Shaka, ovunque si trovasse, era capace di risplendere. Non sapeva se fosse a causa della sua natura che gareggiava con quella divina, o per la Luce che si vantava di possedere; Ikki, semplicemente, lo guardò stagliarsi sul marciapiede imbrattato, perfettamente candido, dalla pelle intoccabile ai lunghi capelli d’oro. Era completamente vestito di bianco, in un modo in cui non l’aveva mai visto: sembrava un’indefinibile fusione tra abiti occidentali ed eccentricità orientali. Una mantella lo ricopriva morbida appuntata attorno al suo collo, nascondendo quella che probabilmente era la giacca di un completo più sobrio.

“Vieni?” gli domandò, semplicemente.

E Ikki lo seguì. Saettò lo sguardo, all’erta, quando vide una persona scivolare fuori da una porta malridotta, ma quello non li aveva notati.

Si rese conto che non erano soli, che figure inquietanti, uomini di cui non vedeva bene il volto, nello scuro, popolavano quei vicoli: era solo un quartiere più brutto di molti altri. Ed era notte.

“Ti ho detto che non ho scelta, mi pare” rimarcò comunque, poco dopo, lo sguardo fisso davanti. Camminavano come se non ci fosse pericolo, in quei chiaroscuri minacciosi, pur incrociando figuri non troppo raccomandabili. In un’altra occasione Ikki si sarebbe ben guardato le spalle.

“Sì, in un certo senso sì. Eppure no.”

“Poche storie, Shaka. Dove mi stai portando?”

“Ti sembrerà strano, Ikki” sfilava al suo fianco, placido, senza rallentare l’andatura. Il tacco delle sue scarpe batteva, ritmico, sul marciapiede. Anche lui guardava avanti. “Ma sono qui per portarti nel passato. Poi ti lascerò, perché qualcuno ti mostri il presente. E poi ancora, vedrai il futuro.”

“Non mi lasciavo influenzare dalle favole neppure da bambino” sbottò Phoenix, duro, riconoscendo immediatamente le orme di quello stupido racconto di Natale che era stato costretto ad ascoltare. Fulminò istintivamente due macchie di uomini in un angolo buio che erano scoppiate in risate ubriache. “E ora dovrei sorbirmi tutto questo?”

“Sarà dome dici” sorrise quello, senza lasciare trapelare nulla di quel che pensava. E Ikki era pronto a scommettere un braccio che dietro quella faccia carina stava sogghignando, il bastardo. “Eppure siamo qui. E io devo mostrarti il passato. Hai freddo?”

“No” rispose sbrigativamente lui. Era a torso nudo, ma non provava niente di niente.

Shaka proseguì, dunque, come se nulla fosse: “Ho dovuto scegliere un Natale Passato, e, credimi, non è stato facile. Poi ho pensato che non sarebbe servito a nulla tornare troppo indietro. Tu, meglio di ogni altri, Ikki, fai costantemente i conti con il tuo passato.”

“Perché proprio tu?” mormorò per tutta risposta il giovane, che si muoveva con scatti di belva, circospetto. Preferì domandargli quello, che parlare di sé. Non lo gradiva molto.

Shaka lo osservò, impenetrabile, camminando.

Nella luce gialla che illuminava male le strade e le poche persone, la pelle abbronzata di Ikki assumeva tonalità ancora più scure. Era fatto per mimetizzarcisi, in quelle strade. Per scivolare via come un’ombra. Rialzò lo sguardo avanti, con un vago sorriso: “Perché? Non mi vuoi?”

“Era una domanda.”

“Siamo arrivati.”

Ikki si fermò, aggrottando le sopracciglia.

“Qui?”

“Qui.”

“Hai detto che non saremmo tornati indietro.”

“Non troppo. Non abbiamo fatto molta strada, infatti. Taci. Ascolta.”

Non ci sarebbe stato bisogno di dirlo: un rumore assordante, di vetri infranti, riempì l’aria. Tutti i cani del circondario abbaiarono. Ikki si voltò di scatto da dove aveva sentito il fracasso, e Shaka con lui, voltandosi più lentamente. Un vocio eccitato, grida roche a coprire l’ululato dei cani, un gruppo di giovani uomini a crocchio festeggiava sguaiatamente la grande impresa. Ikki aguzzò gli occhi, il cuore già più pesante. Cominciava a ricordare, e la sua memoria era raro che lo tradisse.

“Cos’è tutto questo baccano?” Sentire la propria voce, però, sentirla scandire nell’aria parole come sassi scagliati con violenza lo fece raggelare. Anche se non si mosse di un millimetro, accanto a Shaka. “Che state facendo?”

“Un po’ di casino, daime. Vedrai che ora verranno.”

“Idioti” ruggiva bassa, la sua voce, più di quanto ricordasse. Non li stava ancora aggredendo: era il ringhio del lupo che puntava gli occhi sull’orso. “Questo è sporco lavoretto da ladruncoli.”

“Ma no, non prendiamo niente…”

“Si fidi, daime, adesso arriveranno. Stavamo solo perdendo un po’ di tempo.”

“Fate come volete.” Sprezzante, Ikki si stagliava alla luce dei lampioni, intagliato nella penombra come fosse di pietra. Lui stesso, poco lontano, si riconobbe e assieme non si riconobbe: appena adolescente, non sembrava affatto un adolescente, le vene in risalto sulle braccia, lo sguardo nero. Il gruppo a cui si era rivolto si era praticamente zittito, dalla gran baldoria che faceva prima, e neppure gli aveva ordinato di smettere. Li stava semplicemente ignorando. “Siete un branco di mocciosi.”

“Che cosa succede, qui, eh?”

“Ehi, voi laggiù… lo sapete dove siete?”

“Vi siete persi, bambini?”

Tre uomini, e uno aveva già il coltellaccio a serramanico bene in vista. Gli altri due chissà cosa avevano in serbo, invece. Tutta storia da scoprire.

L’intero gruppetto di ragazzi, tuttavia, sogghignò. Tutti, tranne Ikki, in piedi immobile, che rivolse loro lo stesso sguardo che si riserva agli insetti più schifosi.

“Non lo sapete che questa è la notte di Natale?” scimmiottò l’uomo che aveva parlato per primo, facendosi avanti, gran nuvole di vapore dalla sua bocca. I denti d’oro baluginarono alla luce incerta. Ikki, dalla testa del suo gruppo, lo guardò con niente meno che disprezzo. “Perché non siete a casa, dalla mamma? Babbo Natale non vi porterà i regali.”

Rise, sguaiatamente.

E prima che potesse finire, un destro micidiale lo atterrò, con uno scrocchio stridente, da raggelare. Chissà che cos’aveva rotto. Il gruppo di ragazzi, attonito dall’incredibile velocità con cui il loro capo si era mosso, ci mise poco a fare cerchio attorno a lui. Ma allora era già scoppiato il finimondo. Altri uomini dalle facce piene di cicatrici stavano accorrendo, le urla a riempire i vicoli bui.

Merda!

Bastardo! Prendetelo! Prendeteli tutti!”

Con somma calma, invece, uno dei ragazzi si staccò dal cerchio e affiancò Ikki.

Da lontano, lui lo riconobbe, stringendo i denti. I capelli scuri, spioventi sulle spalle. Lo sguardo nero come la pece. Come quello del suo alter ego, piegato come una tigre al centro della strada, le nocche insanguinate. Sentì e contemporaneamente ricordò, in un’eco moltiplicata dal sogno, il sussurro al suo fianco, mentre uomini e ancora uomini si scagliavano contro di loro, chi con una calibro 9 in mano, chi con i tirapugni di ferro, per spezzar loro i denti:

“Al tuo ordine, daime.”

Se lo ricordava.

Non chiuse gli occhi, anche se sapeva quale spettacolo l’attendeva.

Ricordava perfettamente quell’appellativo, daime, con cui i reietti di Death Queen Island avevano deciso di onorarlo. Era l’appellativo onorifico riservato ai capifamiglia della yakuza, la mafia giapponese.

Ricordava che i black saint l’avevano appreso e ripetuto sulla piega di labbra sardoniche, nelle riunioni dense di fumo dei bassifondi di Tokyo, quando si erano mescolati con questi uomini ricchi, violenti e crudeli. Si rese conto di somigliare loro in maniera rivoltante: bastava essere forte, saper uccidere, non avere pietà. Aveva imparato tutte e tre le cose, nel suo addestramento di santo devoto alla Giustizia, e quasi con sarcasmo vi si era gettato, feroce e inarrestabile.

Ricordava come ci si erano sparsi, in quei bassifondi, bagnando le mani nel sangue dei mafiosi e talvolta degli innocenti. La Guerra Galattica si faceva attendere. E quei mesi di atroce attesa li aveva trascorsi stringendo patti ed alleanze, lui, il daime, per annegare nell’odio e ancora nell’odio, prima di andare a riprendersi la sua vendetta, memore dei preziosi insegnamenti: Odia, Ikki.

Ricordava il massacro di quella notte.

Cigno Nero, dopo aver avuto l’ordine che tanto agognava, non aveva avuto riguardi; ne abbatté quanti più poteva. Era assetato. Era bramoso di compiacere il suo daime. E i rumori, i rumori di quel vicolo: i suoi seguaci, i suoi neri seguaci dalle armature d’ombra, specchio grottesco dei suoi fratelli, frantumavano ossa umane senza pietà. Mafiosi, reietti – nient’altro che feccia – agonizzavano a terra in un lago di sangue. Lui, dopo il primo colpo sferrato, non aveva fatto più niente, o quasi, bevendo immobile la vista della strage.

La banda aveva reagito alla provocazione, invaso il loro territorio.

Loro li avevano annientati con tutta la crudeltà possibile.

E Shaka, maledizione.

Shaka svettava bianco come un angelo, in un mare di nero e grigio e rosso che imbrattava i muri. Non diceva una parola.

Ikki era una statua, gli occhi immobili sulla scena. Non si era mai visto da fuori. Non si aspettava niente di diverso. Sorbì tutto senza una smorfia sulle labbra.

“Buon Natale.” Si sentì terminare, sardonico, schiacciando sotto il piede la testa dell’ultimo sopravvissuto. La feccia che aveva osato ricordargli qualcosa di vagamente simile a una casa, o un genitore. “Tagliamo la corda. Sbrigatevi, idioti!”

Il tocco gentile di Shaka gli fece voltare il viso quando ormai stavano sparendo nella notte, e lo fece con decisione. Ikki era rigido, i muscoli contratti, l’espressione di pietra. Era tornato straordinariamente simile a come si era visto, feroce aguzzino. Shaka aprì gli occhi.

“Guardami.”

Lo guardò.

Non parlò, tuttavia.

“I tuoi fratelli sanno di tutto questo?”

“No.” Uscì a fatica, ma si riprese presto: “Non gliel’ho mai detto.”

“Nemmeno a Shun?”

“Soprattutto a Shun.”

“Dovresti.”

“No.”

Le mani delicate e forti lo lasciarono. Ikki sentì i muscoli, piano piano, rilassarsi, sciogliendosi dalla tensione di acciaio che ci era conficcata in ogni nervo. Shaka era così bianco, in mezzo a tutto quello schifo. Luminoso da riposare gli occhi. Gli parve di capire perché proprio lui, ora.

Strinse i denti, forte.

“Era questo quello che volevi dirmi? A che cosa servirebbe, ora? Ci faccio i conti, con quello che sono stato. Continuamente. L’hai detto tu stesso, prima. O forse lo sono ancora. Chi può dirlo?”

“No, non lo sei.”

“Chi può dirlo?” ringhiò, guardandolo come se volesse sbranarlo.

“Lo dico io” tagliò corto lui, assottigliando gli occhi azzurrissimi, per la prima volta. Altero, lo trapassò come se fossero lame di una scimitarra. Una mano alla spalla, secco, sciolse con un solo gesto il drappo che lo avvolgeva, quel mantello candido così strano sul completo elegante. Senza che potesse dire nulla, lo circondò con la sua morbidezza e il suo profumo, tanto forte da essere pungente. Sapeva di molto lontano.

“Cosa…?”

“Vai a casa, ora. C’è qualcuno che ti aspetta, lì.”

“Nessuno mi aspetta, a casa.”

“Stasera sì.”

Ikki rimase immobile a guardarlo. Non disse nulla, ma c’era una richiesta implicita, nell’essere così restio a lasciarlo. Sentiva i piedi inchiodati al marciapiede.

“Non durerà a lungo. E devi andarci preparato. Non è di certo qualcuno che ti aspetteresti.”

“Va bene, andrò” orgoglioso, si drappeggiò la mantella sulle spalle. “Ma di questo affare non avevo bisogno.”

“Fa freddo, stasera “ rispose semplicemente Shaka, dritto, guardandolo dall’alto in basso senza superbia, per una volta. Gli sorrise. “Farà freddo anche domattina. Cerca di dormire con qualcosa addosso.”

Finalmente, Ikki ebbe una reazione più umana, avvampando. Lo nascose storcendo la bocca in un’espressione oltraggiata, da incenerirlo sul posto.

“Ah, e così saresti tu, mia madre.”

“Se desideri…”

“Oh, vai al diavolo!” Gli diede le spalle platealmente, e dopo quest’insulto tonante se ne andò davvero, maledicendolo secco e burbero come al solito. Shaka si limitò a sorridere, sornione, ancora una volta, senza lasciarlo con lo sguardo sinché non sparì alla sua vista.

Ma Ikki nel frattempo imboccò diverse strade, senza voltarsi indietro, una dopo l’altra, un macigno in petto; e non certo per il freddo. Il viaggio fu breve, perché lui era veloce e ansioso di svegliarsi. Molto ansioso.

Trovò la porta aperta, come non sarebbe stato naturale. La spalancò e prese fiato per apostrofare con malagrazia chiunque ci si fosse trovato dentro; ma il sogno aveva superato di gran lunga ogni sua aspettativa. Strabuzzò gli occhi, incapace di spiccicare parola. Vuoto totale.

“Oh, bentornato a casa. Ti sembra questa l’ora adatta? Sei ancora un ragazzino, sai?”

Ora, Ikki di Phoenix con Aphrodite dei Pesci non ci aveva mai avuto a che fare. Ma qualche riserva ce l’aveva.

Prima di tutto, fattosi in precoce età un misantropo della peggior specie, mal tollerava la presenza in casa propria di qualcuno, in generale, oltre a lui; figuriamoci di un perfetto sconosciuto.

In secondo luogo, quello aveva cercato di ammazzare il suo adorato fratellino.

Infine, dopo tutto quello che aveva già subito nella prima parte della nottata, lo stava forse prendendo in giro, il bastardo?

Fuori da casa mia!” ruggì, pronto già a scagliargli addosso l’Horyu Tensho, fantasma dei Natali Presenti, Futuri o Congiuntivi che fosse. L’avrebbe spianato a terra e sostituito lo zerbino all’ingresso. L’avrebbe sparato fuori dalla finestra, allargandola ed aprendo così un ottimo condotto di aereazione supplementare.

“Ti scaldi troppo alla svelta” gli fece amabilmente notare lo spirito, che al contrario sembrava perfettamente a suo agio. Era seduto sul divano con l’aria affascinante dell’ospite d’onore al party più esclusivo, le gambe elegantemente accavallate. In più, era vestito in maniera incredibilmente elegante. Ikki boccheggiò a lungo, senza riuscire a trovare insulti peggiori di dannato bastardo o maledetto finocchio. Se li rigirò in testa senza riuscire a decidere quale sputargli addosso, tanto era sconvolto, così che Aphrodite ebbe tutto il tempo per scavallare e riaccavallare le gambe.

“Che diavolo ci fai in casa mia?” riuscì a ringhiare alla fine.

“Sono qui per darti una mano, pulcino” lo vezzeggiò ironicamente Aphrodite. Sembrava spassarsela un mondo, il viso fine appoggiato al dorso della mano, a godersi i cambi di espressione sempre più paonazzi del cavaliere della Fenice. “Mi dicono che ti batti solo con gli avversari più duri.”

“Tsk! Appunto. Levati dai piedi.”

Per niente scoraggiato dai suoi modi sgarbati, Aphrodite sospirò, come davanti ad un bel film. E fece una considerazione apparentemente divagante: “Non funziona, con me. Hai un modo di fare così carino. Sai, mi ricordi moltissimo qualcuno, proprio quando aveva la tua età. Due teneri mostriciattoli bercianti.”

“Stà attento a come parli, Pisces!” berciò, per l’appunto, lui, più forte di prima.

Lui gli sorrise, bello in maniera scandalosa.

Ikki sentì di odiarlo.

“Allora, siamo pronti?”

“Per niente! Non vengo da nessun’altra parte, con te! E non so cosa mi trattenga dal metterti le mani addosso! Quello che hai fatto a Shun…”

“Quello che Shun ha fatto a me.” Gli occhi azzurri di Aphrodite lo trafissero, tra l’indignato e il divertito. “Quel ragazzino mi ha ucciso, Phoenix. Dovrei essere io ad avere delle rimostranze.”

“Tsk! Te lo meritavi.”

“Che tenero. Hai il complesso del fratellino minore.”

“Giuro che un’altra parola e ti…”

“Guardati attorno, testolina.” Una mano tra i capelli, una presa di ferro. E unghie da checca dritte nella cute, valutò Ikki, rigirato come un calzino. Sbatté gli occhi, guardandosi attorno come la mano lo conduceva, troppo sorpreso per replicare. “Che cosa vedi?”

“Vedo casa mia” ringhiottò, proponendosi di ucciderlo una volta libero. “Che domanda è.”

“Aha. Guardala bene, che c’è una bella luce. Mentre dormi, è mattino, qui. Com’è, casa tua, spiumottino?”

“Più bella della tua” ringhiò più roco, rispondendo ormai per pura ripicca – con una provocazione assolutamente inutile, tra l’altro. Aphrodite sorrise, deliziato dalla sua impertinenza che si faceva involontariamente più infantile, mano a mano che s’infuriava. Davvero gli ricordava qualcuno.

“Mh-mh. E spoglia. E vuota.”

“Oh, al diavolo” gli scacciò la mano dalla testa, finalmente, con un poderoso schiaffo dei suoi. Aphrodite ritirò almeno in tempo le dita, con lo sguardo accondiscendente del maestro che perdonerà la manata del bambino. “Non mi sembri il tipo da venire qui e fare la morale agli altri!”

“No” sbuffò quello, appoggiando il peso su un fianco, elegante, affettando eccessiva noia. Checca, rimarcò internamente Ikki, studiandolo con espressione corrucciatissima. “Affatto. Sono qui solo per darti fastidio.”

“Ci sei riuscito. Puoi andartene.”

“Oh, non ancora. Devo sincerarmi che tu l’abbia osservata per bene.”

“L’ho fatto. L’ho osservata. Adesso vattene.”

Se ne stava in piedi in mezzo alla stanza, Ikki, le gambe aperte ben piantate, la mantella bianca a coprigli le spalle. Ne avvertì vagamente il profumo, mentre si voltava bruscamente per fissare male l’intruso, e ricordò le strade nere dei sobborghi.

Pisces non era tipo da farsi impressionare dalle occhiate truci, comunque. Passò con calma studiata la mano sul tavolo, come preparandosi un discorso. Era tutto l’opposto del giovane bronze, slanciato, posato, i capelli che ricadevano in onde morbide sulla linea delle spalle.

“La solitudine non è necessariamente un male. Si ha bisogno di rimanere soli. Ma il tuo non è il mero bisogno di rimanere solo. A volte fuggi. Volevi alzarti, questa notte, di soppiatto, e lasciare il Santuario, sfuggire alla festa piena di luci e di persone a cui non sei abituato.”

“Che cosa? Come…” Ikki boccheggiò. Poi si ricordò che anche Saori l’aveva rimproverato, in anticipo, per il suo proposito, pur non dicendogli apertamente quale.

Come aveva fatto a sapere?

Poi si ricordò che quello era davvero un sogno. E capì di non poter ribattere alle parole di Pisces. Doveva solo ascoltarlo. Digrignò i denti, frustrato.

“E tutto questo” proseguì infatti lui, ironico, altero e certamente con meno morale di lui, ma bello da riempire la stanza intera con i suoi occhi e la sua voce. Quanto lo odiava. “Tutto questo per fare ritorno ad una casa fredda e vuota. È inutile che te la prendi con me, Ikki di Phoenix. Prenditela con te stesso. Ti senti davvero tanto marcio da non riuscire ad affrontare una favola e i regali sotto l’albero?”

Taci!” riuscì finalmente ad urlare.“Taci! Fuori! Vattene subito!”

“Oh, come vuoi.” Un sorriso che si allungava, qualcosa di molto più autentico sotto la maschera compassata. La trappola dietro i modi affabili. Pisces si rivelava squisitamente crudele. “Io ho finito.”

Ikki si accorse che Aphrodite, senza nessuno stratagemma, senza l’uso di abili artifici scenici né ricorsi a visioni o suggestioni, era riuscito a sconquassarlo sin nel profondo. Prima l’aveva blandito, poi irritato, poi provocato, e come lui aveva raccolto la provocazione ecco che si ritrovava con la sensazione bruciante di uno schiaffo. Rimase lì, in piedi, fermo, ansimando di rabbia. Lo Spirito del Natale Presente, sgradito ospite, fantasma dalla bellezza irritante, raccoglieva il mantello e camminava lungo l’atrio della sua casa come se fosse propria. L’invitato d’onore. Sfilò sino alla porta con impeccabile grazia.

“Buon Natale, Phoenix.” Sfarfallò le ciglia delicate, prima di un ultimo sguardo penetrante. E come se non fosse altro che un uomo, senza niente di più che il suo impeccabile contegno, aprì la porta, ne uscì e se la richiuse alle spalle, con uno scatto secco.

Ikki rimase fermo a lungo, sentendosi come nel centro esatto di un vortice.

Non seppe mai quanto tempo passò prima di sentire rumori che non fossero i suoi respiri pesanti e attoniti. Alzò gli occhi, e alla finestra il cielo scuriva di nuovo. Rimaneva scuro. Forse albeggiava. Il tempo si era distorto nuovamente, e lui rimaneva fermo.

Le mani strette al mantello bianco, senza provare freddo, arretrò, sino a trovarsi con la schiena contro la parete bianca. Vi si appoggiò. Scivolò seduto, in basso, guardando il pavimento, cercando di ricollegare i pensieri fra loro; ma il ticchettio dell’orologio lo distraeva terribilmente. Si fece tanto rumoroso che dovette alzare il mento, riportando lo sguardo alla porta.

Tenne il tempo, concentrandosi su quel minuscolo ticchettio. Contò sino a dieci. Schiuse le labbra, osservò la porta cigolare e aprirsi, il buio rischiararsi di nuovo, la giornata stabilirsi in un momento fermo: tardo pomeriggio, il cielo scuro. Due sagome di uomini ora occupavano la porta.

Non una. Due.

E Ikki capì benissimo il perché.

“Voi siete venuti a mostrarmi il futuro?”

Annuirono contemporaneamente. Ikki li avrebbe creduti divisi da uno specchio, eppure li aveva conosciuti di persona: ciononostante, trattenne un brivido. Li aveva conosciuti, ma non li aveva mai visti l’uno accanto all’altro.

Sotto i suoi occhi, entrarono assieme, impeccabili in giacca e cravatta. Entrambi.

“Cos’è, una specie di scherzo?”

Prima Shaka, poi Aphrodite. Entrambi, così diversi, indossavano un completo di taglio occidentale. Ora, anche Saga e Kanon, le spalle larghe fasciate da stoffa nera. Se prima non l’aveva notato, ora Ikki cominciava a sentire una dolorosa fitta alla bocca dello stomaco, una fitta che sapeva d’ironia e anche di disgusto. Erano proprio tutti tirati a lucido, proprio come nelle riunioni di mafia. E lui ne aveva viste tante. Addosso a Saga, l’usurpatore, e Kanon, il cospiratore, l’effetto era amplificato.

E l’immagine era così speculare da dare i brividi.

“No, non lo è” rispose sbrigativo il primo che parlò, e Ikki riconobbe quegli occhi impazienti. Così facendo, distinse subito i due gemelli, Kanon alla destra, Saga, ancora silenzioso, alla sinistra.

“Perché proprio voi due?” domandò, cauto, senza muoversi.

“Credo che tu lo sappia bene.” Avanzò, Kanon, verso di lui. Quando sorrise, gli regalò uno strano affetto, con lo sguardo, affetto che mise anche nella presa della mano, salda, da uomo adulto. Ikki sollevò un sopracciglio, sentendosi afferrare al braccio:

“Che cosa vuoi fare?” poi spostò lo sguardo anche su Saga, stranamente sospettoso: “Che cosa volete fare?”

“Niente” rispose lui, somma calma sui suoi lineamenti. Lui non sorrise affatto, ma i suoi occhi erano limpidi, nel guardarlo: “Forse un gioco.”

“Forse un gioco di ruolo. Forse un gioco delle parti” aggiunse Kanon, conducendolo ad alzarsi in piedi. “Devi spostarti, però. Segui me.”

“Gioco di ruolo?” Ikki saettava lo sguardo da Kanon, che lo allontanava dalle scale, a Saga, che rimaneva fermo, seguendoli colo spostando il viso. “Gioco delle parti? Cosa dite? Spiegatevi!”

Saga abbassò gli occhi, sotto il suo sguardo. Allungò le mani a sistemarsi il nodo della cravatta, già impeccabile. Si girò e non volse più loro lo sguardo.

“Saga…?” sbottò Ikki, incredulo. Sollevò lo sguardo verso Kanon, che lo spostò dal fratello per rivolgerlo a lui. “Kanon!”

“Noi e nessun altro, Ikki” sussurrò quello, la mano salda sulla sua spalla. “Lo sai anche tu perché, Ikki. Noi siamo simili.

Ricordi di ombra e di oscurità, di forze del male, come una corrente fredda. Ikki tacque.

Rasenti a una parete, la stanza si spiegava davanti ai loro occhi. Osservavano Saga, nei pressi del tavolo, che con una carezza distratta lo lisciava, dando loro le spalle. Ikki sentì senza motivo il battito del proprio cuore accelerare, e cercò disperatamente di capire che cosa avesse di diverso.

“Saga! Cosa…?”

“Shht. Non ti può più sentire.”

Saga!” esclamò una quarta voce, molto più tonante. Tutti e tre si voltarono verso la porta, e Ikki spalancò gli occhi. Ora la scena era molto più chiara. Ora acquisiva un senso.

“Ikki” scandì pacatamente Saga, avvicinandosi alla scarsa luce pomeridiana che filtrava ora dalla porta. Il nuovo arrivato entrò ed accese le luci, ed Ikki, quello accanto a Kanon, notò benissimo tutto quel che c’era da notare: l’arredamento, di poco diverso, ma quanto bastava; il calendario, e gli anni di più che segnava; sé stesso, sempre più alto e scuro di pelle, lenti scure a nascondere gli occhi e barba di due giorni sul mento.

Ma quello lo impressionò al di sopra di ogni cosa fu Saga.

Saga, composto in piedi ad attendere il suo rientro a casa, ospite inatteso in visita, aveva gli stessi occhi di sempre, profondi come il mare; ma lo incorniciavano nuove, impercettibili rughe, da cui non riuscì nemmeno con la forza a distogliere lo sguardo. Rughe, su quel volto da immortale! E con sua enorme sorpresa, c’era del bianco a spruzzargli le tempie, che carezzava i capelli sempre lunghi e sinuosi, curvi, un torrente in piena. Sorrise al giovane che si trovava davanti, che non sembrava altrettanto sorpreso, in un gesto cordiale. E rimasero fermi in piedi a guardarsi.

“Che ci fai qui?” borbottò Phoenix, accogliente come sempre.

“Desideravo vederti.”

“Potevi avvisarmi.”

“Così che non ti saresti fatto trovare? No, Ikki…” Non si fece scortese, Saga, ma sospirò, appena. “Devo parlarti.”

“Siediti. Ti faccio un caffè.”

“No, non rimarrò a lungo. Volevo domandarti una cosa.”

“Domanda.” Era diventato ancora più sintetico, Ikki, se possibile. Dal suo angolo si osservava appendere la giacca, chiudere la porta, guardandosi con gesti apparentemente distratti attorno. Sembrava voler tenere sotto controllo ogni cosa, lì dentro. “Ti ascolto.”

“Ti rivedremo mai più, al Santuario di Atene?” domandò Saga, subito, con la dolcezza di un padre che chiede al figlio di tornare. Ikki storse la bocca, ma non lo fece per maleducazione nei suoi confronti. Infatti si diresse alla macchina del caffè, deciso ad offrirglielo comunque.

“No. No, non tornerò.”

“Ma perché, Ikki?”

“Perché non sono fatto per quel posto. Vuoi una sigaretta?”

“No, non ora, grazie. Perché dici di no? C’è qualcosa che ti trattiene, qui?”

“Sono fatto così.” Gettò un’occhiata alla finestra, Ikki. Parlò con voce roca e appena strascicata, togliendosi finalmente gli occhiali da sole. Li appoggiò sul ripiano della cucina. “Né più né meno. Ci sono gli altri, lì. Sapranno cavarsela alla grande.”

“Ikki... che cosa c’è che non va?”

Trascorse qualche attimo di silenzio. Ikki sentì la mano di Kanon stringere ancora sulla sua spalla, rassicurante, a ricordargli dov’era. Lasciò andare un sospiro nervoso, e si guardò rispondere: “Non c’è niente che non va. Semplicemente, mi sento fuori posto.”

“Fuori posto?”

“Tu” smise di lavorare con le mani alla caffettiera, facendosi improvvisamente tagliente. Era evidentemente sulla difensiva. “Tu dovresti sapere bene come mi sento.”

Reietto. Traditore. Trasudava implicito da ogni parola.

Saga incassò come una ferita nel fianco, infatti, barcollando appena.

E Ikki non sembrava affatto contento di avere dovuto infierire a quel modo.

“E qual è, il tuo posto” si fece più severo, ora Saga. Dea, Saga. Era invecchiato, anche se di poco. E quant’era ancora forte, mentre si ergeva. “Quale, se non il Santuario? Questo?”

“Questo quartiere” ribatté allora Ikki, caricando più d’astio la voce, voltandosi a guardarlo dritto negli occhi. E infilò la stoccata: “E tutto il territorio ed Est della Tokyo Tower.”

Si erse, staccandosi dal ripiano della cucina.

Era un uomo, adulto e incredibilmente forte. E completamente disgustato dal mondo.

“Come vedi, un posto ce l’ho. E anche bello ampio.”

“Ikki, sbagli.”

“No! L’ho sempre detto. Ogni volta, e nessuno mi ha mai ascoltato. Non sono con voi. Non combatto con voi. I reietti come me non diventano maestri, non assistono ai cerimoniali, non benedicono le folle. Se Shun o uno dei miei fratelli rischierà la vita, se dovrò con queste mani combattere ancora per chi voglio salvo, lo farò. Ma non potete chiedermi più di questo. Non sono mai stato parte del Santuario.”

“Sbagli. Anche tu ne sei parte. Atena ti vuole con sé. Tutti ti vogliono con sé. Sei stato riaccolto molto, molto tempo fa.”

“No. Non m’interessa.”

“Come puoi parlare così?”

“Ikki, tu non ti senti ancora perdonato” interloquì una voce, che non era quella di Saga. Il ragazzo alzò di scatto la testa, verso Kanon: rilassato, appoggiava le spalle alla parete, guardando la scena di fronte a sé. “Non ti senti ancora perdonato, altrimenti non saresti ancora così scostante. Non ti senti ancora perdonato, perché, forse, qualche zona d’ombra ancora c’è.”

“Anche tu come Shaka” ringhiò Ikki, basso, distogliendo lo guardo dalla discussione, che proseguiva, imperterrita, nella stanza. “Vorreste che mi liberassi di tutto. Come posso? È un carico troppo grande, ed è troppo tardi per parlarne, ormai. Quello che è stato è stato.”

“Ma se tutto lo sporco viene epurato, Ikki, come puoi pensare di non trascinartelo dietro per sempre?” abbassò gli occhi, Kanon, limpidi come non li aveva mai visti. Era serio. E non pareva parlare per forme retoriche. Lui aveva affrontato l’arma di un dio, per farlo.

Ikki si morse le labbra.

E la porta di casa si chiuse, con un tonfo. Alzò la testa: Saga se ne era andato. La discussione non aveva avuto grande esito. Non avevano urlato, ma si erano già separati, e la Fenice, inquieta, vagava per la stanza, in preda a grande turbamento. Si diresse a passi pesanti verso l’atrio.

“Inoltre, Ikki…” sussurrò la voce di Kanon.

Scosse vigorosamente la giacca che aveva appeso all’ingresso, infilò una mano nella tasca interna.

Aprì un cassetto della cucina, trascinandosela dietro, la sgomberò degli oggetti più inutili.

“…tutto ciò di cui non ti liberi…”

Estrasse una pistola. Una calibro 9.

Ce la sbatté dentro, con espressione astiosa.

“…ritorna.”

Ikki si sentì cadere.

Al tuo ordine, daime.

Non sapeva cosa pensare. Non sapeva quel che vedere.

Soprattutto, erano tutte cose che si aspettava; se le sentiva rombare nel sangue da quella notte di massacro che aveva dovuto rivedere, lui, nero come la notte, al fianco di Shaka, bianco e immacolato. Ricordò, come in un sogno scomposto, la figura più bianca di tutte, che mentre lui l’apostrofava malamente diceva: Volevo vederti, prima che partissi. È importante.

Imprecò a denti stretti, la testa che scoppiava: credeva che sarebbe stato in grado di reggere il peso di tutto, di tutto quello che gli si fosse parato sulla strada. Che avrebbe pagato. E invece cercavano ancora di trattenerlo. Si divincolò, rabbioso, d’improvviso: “Kanon, lasciami.”

Cercavano ancora di non lasciarlo scivolare.

“Kanon! Lasciami!”

Ingenui. Sciocchi. Maledizione. Maledizione a loro.

Kanon non lo lasciò affatto. Sorrise, come se stesse per tirargli un magnifico scherzo.

E improvvisamente sentì le membra appesantite dal sonno che stava per ripiombargli addosso.

“Lasciami… dannazione…”

Chiuse gli occhi. Sarebbe tornato all’incoscienza, e allora non sarebbe più riuscito a scappare. Nel nero, cercò con un ultimo scatto rabbioso, fiacco, di liberarsi, ma Kanon nel suo sogno sorrideva, astuto.

Scordatelo, daime.

 

 

 

 

 

The Carol

 

Ora capirete pure perché il capitolo su Seiya volevo buttarlo più in caciara: se il Canto del Dragone sarebbe stato di certo malinconico, quello della Fenice era già in progetto che fosse bello pesante. Tuttavia, alleggerendo troppo Seiya temo che gli avrei fatto decisamente un torto; e proprio non se lo meritava.

Daime è davvero l’appellativo con cui vengono apostrofati i capi yakuza. Con un numerino a precederlo, chiarifica la sua posizione in gerarchia (es. sandaime = terzo capo) Deriva dal feudale daimyo. Ikki si sarebbe gasato moltissimo a sentirsi chiamare daimyo, mentre spaccava la faccia alla gente, ma dubito che i black saint, pur infervorati ed esaltati quali sono, si siano dati la pena di andare a ripescare dal medioevo giapponese: hanno sentito dagli altri yakuza daime, e Ikki era il loro daime. {grazie mille a LeFleurDuMal per il supporto durante la ricerca del termine esatto! *C*}

Basta, ho finito: potete lanciarmi i pomodori.

La storia di Ikki impelagato nella yakuza è farina del sacco mio – e non solo mio *coff* –  e non di Kurumada, quindi potete aprire le vostre casse di articoli da ortofrutta e scagliarli su di me, e non su di lui. Ma non provate a negare che Ikki non vi faccia sesso in versione mafiosa perché è perfettamente inutile. Bacini. <3

(E SAGA. DEA. SAGA SULLA QUARANTINA. DEA. DEA. DEA.) *questo capitolo era fan service per l’autrice*

 

Kijomi: Grazie, mia cara, per la splendida citazione. Ora goditi l’apparizione di Aphrodite, che, prego, facciamo notare che non ha avuto bisogno di alcun numero da cabaret per farsi notare. Solo la sua beltà e la sua amabile perfidia. <3

Shinji: No, no, non perdiamo la reputazione, spucciamo il ronzino di nascosto mentre nessuno ci vede! Grazie, tesoro, la tua approvazione ormai per me è importanteh, e lo sai. Spero che gradirai tutto il fan service di quest’ultimo Carol, e specialmente il fan service Gemini. Credo che farò una oneshot con Saga e Kanon in completo a quarant’anni solo per annegare nella mia stessa bava.

LeFleurDuMal: Oh, no, commenti troppo lunghi per una risposta approfondita! ;O; Maledetta! Farò così! GRAZIEGRAZIEGRAZIE<3 *cascata di bacini* Ewwwwwww! Prometto che risolverò tutto quanto! È Natale! U__U

Sakura2480: Dickens penso che cercherebbe di forzarsi ad avere pietà di me nonostante tutto il boy’s love che spammo, e mi manderebbe a spalare carbone. Ma ti ringrazio lo stesso. <3 E voilà, aggiornamento puntuale! ;D

Himechan: Ma Seiya è solo bistrattato, povera gioia. Speriamo di aver tenuto su Ikki come si meritava, che quello lì di solito me lo coccolo sin troppo, vah, non vorrei aver esaurito l’inventiva. …mafiahhh. *si fa i viaggioni*

beat: Beat, mia cara, ma tu sei troppo buona! *O* Non so che cosa dire, hai lasciato un commento tanto dettagliato che posso solo ringraziarti e sperare di avere fortuna anche con i prossimi. Questo è stato un parto, e non sto scherzando. Ho dannato veramente molto per avere un risultato decente. Fammi sapere prestissimo. ;)

Pucchyko_girl: Sono entusiasta di aver fomentato comportamenti sovversivi in assemblea! *C* Brava, brava! E scusa per l’attesa, anzi! XD Riferisci alla Luvi che in periodo natalizio sono già sufficientemente ingozzata, difatti l’ultimo capitolo lo scriverò rotolando ripiena di cenone di Vigilia. Alla prossima!

BianchiD: Guarda, Seiya e Marin era un po’ che volevo vederli in azione, anche perché Marin è una tosta forte! XD Sentivo il bisogno fisico di farla interagire. Grazie per il commento! :)

Kagura92: Anche qui commento lunghissimo, esauriente, ricco di complimenti, e a cui posso solo rispondere che beh, adesso arrivano persino i nostri cocchini, speriamo di non lasciarci le penne. Io spero per i prossimi due di non fare una faticata paragonabile a questa, perché ti assicuro che questo capitolo mi ha fatta dannare. Speriamo che il risultato valga. Bacione!

Malu Lani: Oh! No! No! Basta! Arrossisco! Oddio! Dai, basta così… *si oscura in un mondo di BLUSH* …ma grazie davvero! I riferimenti li hai colti tutti, le corrispondenze fra personaggi pure, forse anche qui qual cosina troverai. Er metà sono volute, per metà s’incastrano da sole… che delirio! Alla prossima tesoro!

 

  
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