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Autore: Silice    20/12/2009    1 recensioni
Una gita, una missione. I loro destini si incrociano. Un’avventura per entrambi, lei trascinata in un mondo misterioso e sconosciuto, lui nell’universo degli adolescenti. Riusciranno a uscire indenni da questa avventura? Ma soprattutto, i loro destini rimarranno legati? La guardò negli occhi. “Ti odierò per sempre” Silenzio. “Anch’io"
Genere: Romantico, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Eccomi qua!!! I’m back!! Dopo una pausa di…mmm.. 6 mesi? torno trionfante dall’altra parte del mondo con un nuovo capitolo… secondo me è un po’ troppo lento, ma pazienza, era necessario..almeno è un po’ lunghetto, il che supplisce alla mia totale mancanza di dedizione e puntualità.. Mi raccomando recensite!! grazie J.
x Juliet95: grazieee!! Nessuno mi aveva mai detto che ero brava… *arrossisce* spero che questo capitolo ti piaccia!!
X free_sky_77: grazie mille anche a te! A proposito, come hai troavto gli ultimi due libri? E l’hai letto l’ultimissimo in inglese?
X neyo: ahahahahah guarda che potevi dirmelo a voce ^^
Ringrazio anche moltissimo niheal65 e aras1796 x il sostegno. Thanks.


UNDER THE RAIN
Artemis non aveva più tempo. E lo sapeva. Era per quello che, anche se era disteso a terra, la schiena contro la moquette grigia , la fronte e il naso doloranti, la sua mente lavorava frenetica. Doveva trovare un modo per uscire, ma era inutile. Questione di secondi, e quelli lì fuori, chiunque fossero, l’avrebbero accerchiato e preso. Il suo cervello formulava altre ipotesi: e se avessero fatto esplodere l’edificio? No, impossibile, troppe vittime e scalpore, senza neanche contare che qualsiasi cosa volessero, la valigetta, lui, o probabilmente entrambe le cose, sarebbe andata distrutta. Ucciderlo? No, senza di lui il contenuto della valigetta non avrebbe avuto alcun valore. “Spero che lo sappiano” si augurò fra sé Artemis. Mentre gran parte della sua formidabile mente era impegnata in questi ragionamenti, un’ altra parte si concentrò sull’oggetto contro cui era andato a sbattere.
Una ragazza con una camicia da notte blu e capelli castani si era già alzata e posò lo sguardo furente su Artemis, che ancora giaceva a terra. All’improvviso qualcosa, nei suoi occhi, cambiò: la rabbia e il rimprovero che il ragazzo riusciva a leggervi cedettero il passo a curiosità e un misto di pietà e premura: “Ehi, ma stai bene?”la ragazza gli porse una mano per aiutarlo ad alzarsi. “Non hai un bell’aspetto…hai bisogno d’aiuto? Cerchi qualcuno?”
La reazione di Artemis non fu quella che egli stesso ci aspettava. Gratitudine, e un vago senso di sollievo. Un aiuto. La sua prima reazione fu un sì spontaneo che gli salì alle labbra senza che neanche se ne accorgesse, ma poi si fermò. Accettare aiuto da una ragazzina? In pigiama per giunta! No, non poteva abbassarsi a tanto, non lui, non Artemis Fowl. Sentì il rossore salire alle guance al solo pensiero di aver accettato.
Poi un’illuminazione si fece strada fra i suoi pensieri: una stanza.
Questa ragazzina, chiunque fosse, aveva una stanza.
“Sì”, e le prese la mano.

Elinor guardò lo strano ragazzo con curiosità. Era strano davvero, pensò. Pallido, sudato, che correva da solo alle 11 di sera, con una valigetta in mano, uno spiccato accento anglosassone e abbigliamento da Lord inglese, ma, soprattutto che accettava la sua richiesta d’aiuto.
“Avresti per caso una stanza?” mentre il ragazzo parlava, aggiustandosi le maniche della camicia, Lily non potè fare a meno di lodare la sua capacità di usare il condizionale in una lingua così difficile come l’italiano. “Cioè, non fraintendermi.” Il ragazzo afferrò la valigetta nera ai suoi piedi “mi serve solo per…”
Si zittì improvvisamente e rimase in ascolto di qualcosa che Lily non riusciva a sentire.
“Non c’è tempo per le spiegazioni. Ho bisogno che mi ci porti. E in fretta.” Il ragazzo la guardò in viso; Lily si accorse che le sudavano le mani, e che non aveva ancora detto una parola e, a giudicare dallo sguardo del ragazzo, sembrava che stesse aspettando una risposta.
Elinor per un attimo esitò, valutando la possibilità che questo singolare sconosciuto fosse un pazza che si portava dietro chissà quale contenuto nella sua preziosa, e misteriosa, valigetta.
Ma non sempre ascoltiamo il cervello.
“Seguimi”, e iniziò a correre lungo il corridoio.

Non  appena la porta della stanza di Lily si chiuse dietro ad Artemis, la ragazza si accorse che aveva fatto uno sbaglio. Non sapeva neanche il nome di quel tizio, e adesso, anche se avrebbe fatto volentieri a meno si stare lì chiusa con lui, non poteva uscire e raggiungere gli altri, perché non poteva lasciarlo lì in camera sua. E lui non sembrava avere l’intenzione di andarsene così facilmente. Artemis, con mossa poco fluida, alzò la valigetta e la posò su una delle sedie, e si sedette sull’altra. Non sembrava rilassato, anzi. Tutt’un tratto si prese la testa fra le mani, sempre in assoluto silenzio. Elinor non sapeva cosa dire, né cosa fare. Chiusa in camera con un potenziale pazzo sull’orlo di un esaurimento nervoso, che si portava dietro una misteriosa valigetta. Prese nota mentalmente di non ricascarci più.
“Ehm…” cominciò dopo qualche minuto. Lo sconosciuto non accennò neanche ad alzare la testa. “Scusa” provò ad attirare l’attenzione del ragazzo, invano.
“Ok, senti. Io adesso devo tornare di sopra. Ho preso il telefono, che era quello che cercavo, e ora vorrei uscire. Ora, dal momento che non posso lasciarti solo nella mia stanza, ti pregherei gentilmente di andartene.” Elinor prese fiato, sollevata dal fatto che lo “strano” avesse finalmente alzato la testa, fissandola come se provasse un qualche fastidio per la sua inopportuna richiesta. Però ancora non diceva nulla.
“Dunque, se non è troppo disturbo…” Un lieve sarcasmo si insinuò nelle parole della ragazza, che, quasi a conferma della sua richiesta, che però sembrava  più un ordine, si diresse verso la porta.
Non era neanche arrivata alla maniglia, che il ragazzo si alzò e le prese il braccio. “Non aprire.” Disse, anzi ordinò, ermetico, e non aggiunse altro.
Con uno sbuffo, Lily andò verso il letto e si sedette, spazientita.
Ma che voleva quello lì? Ancora cinque minuti, poi se ne sarebbe infischiata e non sarebbe rimasta un secondo di più con lui, anche a costo di lasciarlo nella stanza da solo.
“Ora basta. Non ha senso. Questa è la mia stanza e ho tutto il diritto di…”
“Zitta.”  Il ragazzo le fece cenno di sedersi, si alzò e si diresse silenziosamente verso la porta. Accostò l’orecchio alla superficie  e chiuse gli occhi.
Per qualche inspiegabile motivo Lily ubbidì, rimanendo in perfetto silenzio. Da qualche parte aveva letto che non si doveva metter pressione ai pazzi, soprattutto a quelli che si sentono perseguitati. Dunque stette zitta a osservare lo sconosciuto che, all’improvviso, si girò, la guardò e si portò un dito alle labbra, facendole segno di continuare a stare in silenzio. Lily non osò fare altrimenti, paralizzata dallo stupore e dall’inquietudine. Il ragazzo si diresse verso il tavolo, prese un foglio e una biro che aveva in tasca, scrisse qualcosa e lo passò a Lily: “C’è un’altra uscita? No porta”.
Lei scarabocchiò un NO, e lo guardò, esasperata. Il ragazzo cominciò a guardarsi intorno in cerca di una via di fuga. Lily ebbe un’illuminazione e afferrò il foglio e la penna: “Balcone? Sotto c’è la camera dei miei amici…”  

Scendere giù dal balcone si era rivelato più difficile del previsto. Prima di tutto, pioveva e c’era vento. Inoltre, camicia da notte e pantofole non erano l’abbigliamento adatto per un’arrampicata su una parete scivolosa. Elinor si strinse le braccia contro il corpo, quasi a proteggersi dal freddo, poi afferrò il gelido mancorrente con una mano, e si bloccò. Ma per che diamine lo stava facendo? Per ordine di un completo sconosciuto che aveva la fobia delle porte?
Ritrasse la mano, ma poi, ripensandoci, decise che era meglio assecondarlo. Almeno dopo sarebbe stata con i suoi amici, al sicuro da quel tipo strano. Scavalcò il mancorrente, stringendo con entrambe le mani quell’appiglio scivoloso. Nella teoria quel piano le era sembrato semplice, ma la pratica le sembrava tutt’altra cosa. “Ce la puoi fare” si disse; tutto consisteva nell’allungare un po’ le gambe, rimanendo appesa per le braccia al balcone, e appoggiare i piedi sul mancorrente di sotto. “Su, non è poi così difficile.” Prese un bel respiro e guardò giù. O almeno ci provò, dato che la pioggia le offuscava gli occhi. A quel punto cominciò a farsi scivolare pian piano verso il basso, mentre il ragazzo era sempre lì, che fissava ciò che stava facendo, ogni tanto voltandosi per dare un’occhiata alla porta. Elinor era ormai scivolata del tutto, e le sue mani erano all’altezza del pavimento del balcone, ancorate alle sbarre. Tutto come previsto. Se non fosse stato che lei, anche allungandosi, non raggiungeva il mancorrente di sotto. In quel momento maledì la genetica che non l’aveva fatta nascere con qualche centimetro in più. Se ne stette lì un paio di secondi, con la camicia da notte e i capelli completamente fradici, le braccia che stavano cedendo, e sperando in un miracolo che la facesse diventare più alta, o quantomeno, che l’aiutasse a non aver paura di saltare.
Il ragazzo, da sopra, la guardava. Aveva un ghigno sulla faccia, quasi fosse divertito. “Ti serve una mano?”
In quello stesso momento si sentì un rumore proveniente dalla stanza, e in un istante anche il ragazzo si trovò accanto a lei, penzoloni e completamente zuppo. Lei osservò compiaciuta che anche lui sembrava avere le stesse difficoltà, con la differenza che le sembrava ancor più scoordinato e, forse, come notò lei divertita, anche meno in forma. Anche perché teneva il manico della valigetta fra i denti.
Elinor valutò la situazione, ma si rese conto ben presto che non c’erano possibilità né di tornare sopra, né di scendere sull’altro balcone. Ma perché diamine…
Due forti braccia la afferrarono improvvisamente per la vita, e la posarono delicatamente sul balcone.

Artemis non stava bene. Era appeso a un balcone, fradicio, con una valigetta in bocca, e le braccia gli facevano male. “Giuro che inizio gli esercizi che mi ha dato da fare Leale, quando torno a casa” pensò. “Se torno a casa.”
Lanciò un’occhiata alla ragazza vicino a lui, appesa allo stesso modo. Chissà perché si era fidata di lui, e Artemis fu mosso da un improvviso sentimento di gratitudine. Naturalmente durò poco, dal momento che la sua mente era impegnata a trovare soluzioni a problemi ben più urgenti: prima di tutto, le sue braccia stavano cedendo; in secondo luogo, quel “qualcosa” che aveva visto librare a mezz’aria dalla sua camera poteva benissimo essere ancora lì, e due ragazzi appesi a un balcone erano un facile bersaglio per chiunque. Meglio che stare in camera, però, dove Artemis era sicuro che qualcuno stava cercando di sfondare la porta. Nonostante fosse un genio, Artemis non riusciva a trovare una via d’uscita da quella situazione. Il suo cervello sfornava idee senza sosta, ma nessuna di qualche utilità. “Ok,” pensò, “mantieni la calma e…”
In quel momento la ragazza di fianco a lui mollò la presa.

“Ma sei impazzita?” Giova le rivolse uno sguardo preoccupato e arrabbiato. “Ma che ci facevi lì??”
“E chi è questo?” Lorenzo stava aiutando Artemis a scendere senza cadere, anche se la valigetta sicuramente non aiutava.
“Ma si può sapere…” Giova non sembrava intenzionato a calmarsi. Anche Luca, alle sue spalle, fissava Elinor con un’espressione stranita. “Ma insomma, che ti è preso? Cos’è questa mania di giocare a fare Tarzan mentre piove?” Giovaa le afferrò le spalle, costringendola a guardarlo dritta in faccia. “Potevi cadere!!”
In tutta risposta, Elinor gli gettò le braccia al collo e gli sussurrò un “grazie” all’orecchio. Quando si sciolse dall’abbraccio, si voltò verso il ragazzo che, fradicio, osservava la scena. Tutti li stavano guardando sbigottiti, ma soprattutto lui era l’oggetto di particolare attenzione. E fu lui stesso a rompere il silenzio: “Dobbiamo entrare in camera.” Si voltò verso Ari e Sissi, alle sue spalle “Tu, chiudi le finestre. E tu, assicurati che la porta sia davvero ben chiusa.”
Ari non se lo fece ripetere due volte, colpita dal tono autoritario del ragazzo. Sissi invece, che aveva un carattere indipendente e un atteggiamento schietto e, talvolta, bellicoso, tentò di ribattere. “Ma tu chi ti credi di essere per dare ordini così?”
Artemis, che intanto era entrato a passo deciso nella stanza, si voltò e fissò intensamente la rossa. Un attimo dopo Sissi, la più grintosa e testarda del gruppo, si ritrovò a spingere il tavolino davanti alla porta, rinunciando così a ogni tentativo di ribellione. Milla si avvicinò a Elinor con un asciugamano e la aiutò ad avvolgerselo attorno al corpo. Lily si sentiva infreddolita e stanca, e l’amica, senza dire nulla, la face sedere sul divano. Tutti guardarono il ragazzo, che, pensieroso, si era nuovamente seduto e stringeva la valigetta fra le mani.
Lorenzo fu il primo a farsi avanti. “Allora, si può sapere chi sei?”
“E che ci fai qui?” Giova rincarò la dose scontroso.
Elinor raggelò. Si era appena buttata giù da un balcone seguendo gli ordini di un tizio di cui non conosceva nemmeno il nome. Suo padre l’avrebbe messa in punizione fino ai diciott’anni, e lei l’avrebbe sicuramente capito.
“Mi chiamo Eric. Sono russo.” rispose con voce piatta. Elinor lo osservò. Eric era effettivamente pallido, aveva i capelli neri e l’accento non era sicuramente italiano. Però le ricordava un anglosassone: forse l’abbigliamento, così curato e formale, o comunque l’intonazione all’interno delle frasi.
“Sei sicuro di non essere inglese?” Non appena Lily pronunciò queste parole si rese conto di quanto suonassero stupide: come fa uno a non essere sicuro della sua nazionalità? “Beh, il tuo accento… I miei genitori sono inglesi, ed è molto simile.”
Eric voltò lentamente la testa verso di lei. Sembrava stanco, coi capelli in disordine, la camicia bagnata e sbottonata e solo lo sguardo mostrava qualcosa di vivace ed energico. C’era qualcosa di strano però… Prima che Elinor riuscisse a capire di cosa si trattasse Eric spostò lo sguardo sulle sue scarpe.
“Mia madre è inglese”.
“Ma allora, si può sapere che succede?” Lorenzo non ce la faceva più. E soprattutto non era abituato a non avere il controllo della situazione. Dal momento che non riceveva alcuna risposta dal ragazzo, si voltò verso Elinor.
“Beh…” iniziò la ragazza, esitando “ci siamo scontrati nel corridoio, e poi stava arrivando qualcuno, allora siamo entrati nella nostra stanza, ma poi non potevamo più uscire dalla porta, quindi siamo scesi giù dal balcone e…”
“Cosa? Ma che stai dicendo Lily? Qualcuno vi seguiva? E chi??”
Per tutta risposta, qualcuno bussò energicamente alla porta. Anzi, più che energicamente.

“Derek aprimi!! Sono Dem!”
Artemis ebbe un tuffo al cuore. Aveva riconosciuto immediatamente la voce di Leale, che parlava in russo al di là della porta. Ma preferì lo stesso prendere qualche precauzione.
“Dem… tu mi hai mai detto il tuo vero nome?” rispondendo sempre in russo.
Dopo una breve pausa, la guardia del corpo rispose: “Sì. Il giorno in cui mi hanno sparato, durante l’affare con John Spiro. Il giorno in cui sono invecchiato di una decina d’anni.”
Artemis si concesse una ampio sorriso, conscio del fatto che tutti i ragazzi lo stavano fissando, senza capire una parola di ciò che lui e Leale stavano dicendo.
Il ragazzo spostò a fatica il tavolino dalla porta, che si spalancò all’istante. Un uomo, alto e pelato, entrò. Aveva un semplice e formale abito nero, e appena entrato perlustrò con gli occhi tutta la stanza, in cerca di un eventuale pericolo. I ragazzi, naturalmente, erano terrorizzati, e ancor di più quando l’uomo li squadrò tutti da capo a piedi. Poi si voltò verso Artemis.
“Non so chi siano. So solo che hanno cercato di stordirmi alla reception. Di sicuro possiedono le armi del Popolo”. Disse serio, guardando Artemis. “Come hai fatto a fuggire e arrivare fin qui?”
“A dopo le spiegazioni” rispose il ragazzo frettoloso. “Dobbiamo trovare una maniera di andarcene. E inoltre… abbiamo anche un altro problema” si voltò verso i ragazzi, che naturalmente stavano osservando i due, spaventati “dobbiamo portarli con noi. Hanno visto la valigetta e le nostre facce. E quella laggiù,” indicò Elinor con un dito “ha capito che sono inglese. Potrebbe lasciarsi fuggire qualcosa, se non la uccidono prima”.
Leale si stupì delle ultime parole del suo pupillo, che rivelavano una certa… preoccupazione per qualcuno che non fosse lui stesso. Concordò con lui, anche se gli face presente i rischi che portarsi dietro altre sette persone avrebbe comportato in una situazione come quella. Tuttavia preferì non insistere, e si voltò verso i loro ignari spettatori.
“Dovete venire con noi” affermò in italiano, con un tono che non ammetteva obiezioni. “Io starò dietro. Non dite una parola o ve ne pentirete.” Mentre diceva ciò toccò il petto, dove spuntava la sagoma della Sig Sauer. Non avrebbe potuto essere più chiaro.
Se prima soltanto una leggera inquietudine serpeggiava fra i ragazzi, questa si trasformò nella più totale paura, che li paralizzò. Leale aprì la porta, e fece loro segno di uscire.
“Non fiatate o ve ne pentirete.”  E loro, anche se terrorizzati, obbedirono. La guardia del corpo si sentiva un po’ a disagio nel mettere loro così tanta paura, ma sapeva che era necessario. Lui e Artemis uscirono per ultimi.
Il ragazzo, sussurrando, gli chiese, in inglese: “hai un piano?” Il fatto che l’avesse chiesto in inglese, fece capire a Leale quanto il suo pupillo fosse spaventato, anche se non l’avrebbe mai ammesso.
“Più o meno. È ora di andarcene a casa.”

  
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