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Autore: Afaneia    20/01/2010    3 recensioni
Febe, quattordici anni, studentessa toscana, iscritta al liceo classico. Una stravagante quarta alfa, tra professori troppo belli per essere veri e presidi dal look alternativo. Una vita buia, immersa nella sua solitudine, vissuta cercando di ignorare il senso di vuoto infinito che la sopprime. Perché di giorno ci sono lo splendore del sole e le risate, e di notte il pallore della luna e un'esistenza cupa di cui nessuno si accorge mai. Il contrasto estremo: serenità e malinconia.
Genere: Comico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Il professor Napodano era

Sto attraversando un periodo di calo stilistico... questo capitolo è frutto di questo periodo. Ho perduto il conto di tutte le volte che l'ho scritto, cancellato e riscritto:il risultato è quello che è. La buona notizia è che il prossimo è già a buon punto (ne ho scritto più di metà a scuola), perciò sarà on line in tempi relativamente brevi. Nel frattempo, chiedo venia e ringrazio gli incrollabili sostenitori:

Seraphielle: Sandra non è ispirata a nessuna amica in particolare, eppure un po' a tutte, penso si sia capito, no? Beh, me happy che il capitolo che ti sia piaciuto!

Smolly_sev: non preoccuparti Sofy, tanto posto così di frequente che non ti ritroverai mai indietro coi capitoli!!

Amaerize: beh, morta no...ma spero che ti faccia sempre ridere!!

Beh, che dire? Buon capitolo, abbiate pietà!!

 

 

Il professor Napodano era, a detta di tutti, il vicino ideale: bello, simpatico, cortese, educato, silenzioso… tutti lo adoravano. Solo io lo odiavo per aver rovinato la MIA tranquillità domestica.

Poiché i miei compagni, dopo avermi aiutata a tentare di cacciarlo dal condominio, volevano sapere tutto ciò che faceva, osservavo i suoi spostamenti e riferivo ciò che di particolare succedeva. A volte, quando dalle scale sentivo i suoi passi che scendevano, mi precipitavo a controllare dallo spioncino. Se lo vedevo scendere verso i garage, uscivo a mia volta ed entravo di nascosto nel mio per spiarlo mentre riordinava – per lo più libri, dischi, videocassette…roba del genere.

Per dargli fastidio, tenevo la musica molto alta, ma non si lamentò mai del volume. A mia volta, riuscivo a sentire la musica che ascoltava lui: per lo più Queen, Pink Floyd, Guccini, più raramente Stadio. Mi piaceva molto la sua musica.

Tutte le volte che uscivo, dovevo vestirmi di tutto punto: foss’anche solo per recuperare una calza che dalla terrazza fosse caduta in cortile, oppure per andare a riprendere il cestino della carta dopo il passaggio dei signori della raccolta differenziata…non riuscivo neppure a immaginare come mi sarei vergognata se mi avesse visto in pigiama e pantofole o tuta. Prima del suo arrivo, spessissimo mi capitava di uscire in terrazza anche in biancheria intima, magari per prendere un reggiseno pulito, perché tanto era sul cortile e mi assicuravo che nessuno mi potesse vedere. Dopo il suo insediamento nell’appartamento non avevo più il coraggio neppure di affacciarmi coi capelli in disordine, figurarsi avere l’idea di uscire mezza nuda come mio solito. Per contro, neppure volevo che mi vedesse troppo in ordine: come sarebbe stato imbarazzante se ci fossimo incrociati, magari sulle scale o in giardino, mentre il sabato sera uscivo tutta in tiro con i miei abiti troppo corti e il mio trucco troppo pesante…che vergogna avrei provato! Non volevo che capitasse.

Nel frattempo, la scuola continuava. Incominciarono i voti, le frasi da tradurre, le prime versioni, le simpatie coi professori, i problemi…iniziammo a comprendere veramente cosa significa la quarta ginnasio. Per esempio un sabato mattina, sul finire dell’ora di religione che io non frequentavo, mi trovai in piedi con Michela fuori della porta della nostra aula. Era l’ora cosiddetta “di alternativa”, cioè i cinquanta minuti durante i quali stavamo in antibiblioteca a copiare le versioni per l’ora di latino, a ripassare oppure andavamo al bar, dove qualche volta prendevamo la cioccolata e parlavamo a lungo. Quel giorno io e Michela eravamo tornate su un po’ prima del previsto e ci eravamo fermate ad aspettare che iniziasse la ricreazione per poter lasciare la cartella in aula. La Zadini era appoggiata al muro e io ero accanto a lei.

- Sai, sono un po’ preoccupata per questi voti…- mi disse con un sorrisino malinconico. Cercai di consolarla, ma non ci riuscii. Sospirava con quell’aria di malcelata tristezza che ti mette l’ansia.

La Zadini era la più carina della classe. Agostini perse la testa per lei, la tempestava di SMS, le portava la borsa, le correva dietro per tutta la scuola…sembrava un cane col suo padrone. Eppure, Michela era convinta che gli piacesse la Caponi. Mi era molto simpatica, ma non c’era con lei lo stesso feeling che c’era con Sandra e Vittoria, o quello che venne a crearsi con la Vannoni.

Durante le lezioni di educazione fisica, il Meoni mi metteva sempre in coppia con Penelope sullo stesso Fliyng JR, sia durante le lezioni di teoria che durante quelle – disastrose- di pratica. Perché ovviamente dopo aver “imparato” ad armare una barca a vela dovevamo anche “imparare” a gestirla. Che è facile, eh! Tanto facile che in una giornata particolarmente ventosa il boma si staccò e ci cadde addosso: non so come fece la randa a non strapparsi. Piegate in due, rannicchiate sul fondo della barca, intrecciate nelle scotte, semisommerse dalla randa e dal fiocco afflosciato, cominciammo a strillare. Il professore venne a salvarci col canotto a motore dal quale sorvegliava la classe che navigava sul lago e ci riportò a terra. Io e Penelope trascorremmo il resto della lezione sedute a parlare sulla passerella di legno del piccolo molo coi piedi nudi nell’acqua, mentre le onde leggere del lago smosso dal vento si frangevano sui pali sotto di noi e sulle nostre caviglie con piccoli tonfi sordi e interrotti. Fu quel giorno che diventammo amiche.

Due giorni dopo, e non so come, il nostro gruppo si era formato. Incominciarono le corse su e giù per i corridoi, i giochi, gli inseguimenti, le operazioni di spionaggio…perché, in quel periodo, Sandra si era anche innamorata. Di chi? Proprio di quel ragazzo alto e secco cui il quarto giorno di scuola aveva fatto una bella ripassata perché fumava davanti alle porte…chi l’avrebbe detto che per quell’acciuga bionda coi rasta, i pantaloni calanti e i piercing sul sopracciglio Sandra sarebbe uscita pazza e ci avrebbe costrette per giorni a inseguirlo per tutta la scuola?

Se ne era innamorata durante un’assemblea scolastica, quando l’avevamo visto salire sul palco, prendere il microfono e incominciare a urlare con la massima serietà qualcosa sulla scuola da bruciare et similia. Sandra era venuta a mangiare da me e mentre la portavo a casa mia non mi ascoltava e camminava con gli occhi allegri e assenti. Alla fine guardandomi scolare il riso disse con voce armoniosa e felice: - Sai, Febe, quel pazzo un pochino mi garba…- Si chiamava Lino, era del ’90 e faceva la quinta F liceo linguistico. Questo era tutto ciò che riuscimmo a scoprire di lui, almeno per un bel pezzo.

 

Un giorno, erano i primi di novembre, la Pina venne a bussarci in classe durante l’ora di greco. La Corsi, che stava cercando di farci correggere una versione su un cavallo e un cinghiale, aveva simpatia per la Pina perché spesso le portava il caffè e le sorrise dolcemente quando si affacciò in classe per chiedere: - C’è Doria?

- Io- dissi alzando la mano e voltandomi a mezzo sulla sedia, verso la porta. La custode mi guardò e mi rivolse un sorrisone.

- Buon compleanno!- esclamò.

Mi aspettavo così poco questa frase che per vari secondi rimasi in silenzio a guardarla con aria stupita. L’espressione che avevo le fece probabilmente venire il dubbio ed esitante mi chiese:

- Perché…non è il tuo compleanno oggi?

Ancora stupita, scossi il capo e le dissi che facevo gli anni a dicembre. La Pina alzò le spalle e disse con gli occhi luminosi: - Tanto meglio…ci sono queste per te!-. E da dietro la schiena estrasse tre rose bianche, legate da un nastrino azzurro.

Non riuscii a dire niente, ma questo non aveva importanza, perché ciò che avrei detto sarebbe stato coperto dagli applausi dei miei compagni. Non arrossii neppure. Vittoria e Penelope si girarono sulle loro sedie e mi buttarono baci per congratularsi e Sandra, Sandra che mi voleva tanto bene, capì dai miei occhi confusi che qualcosa non mi tornava e mi abbracciò per sussurrarmi nell’orecchio, la faccia nascosta tra i miei capelli scuri: - Febe, ma che è successo?

Non ne avevo idea.

- Alzati, Doria! Prendi le rose, le vuoi lasciare in mano alla custode?- mi disse la Corsi. Dal tono della sua voce capii che era contenta per me e che le faceva piacere. Sempre più confusa, mi alzai in piedi e raggiunsi la Pina, quasi barcollando. Presi le rose.

- Attenta a non pungerti- mi disse mettendomele in mano.

- Grazie- dissi imbarazzata e perplessa, stringendo con la mano l’angolo di un biglietto che, dai fiori, rischiava di cadere. La custode rise, felice com’era per me, e insistette per baciarmi sulle guance prima di uscire chiudendo la porta, perché diceva che le avrebbe portato fortuna baciare una ragazza fortunata in amore.

“Ma chi, io?” pensai tornando a posto. In classe c’era confusione, ma la Corsi era troppo interessata a me per preoccuparsi di sedarla.

- Chi è?- sussurrò Sandra sporgendosi quando fui seduta.

- Non lo so!

Era vero, non lo sapevo. Solo una persona mi aveva mandato rose a scuola in vita mia…e quando l’aveva fatto, non era stato un buon segno. Ma ormai avevo chiuso con quella persona. Appoggiando le rose sul quaderno di latino con la versione tutta cancellata, presi il biglietto e lo aprii.

…Oddio, no.

- Chi è?- fece la prof tutta interessata. Non si avvide del colpo che tirai sul banco col palmo della mano aperta, né dell’espressione ansiosa che assunsero i miei occhi: era tanto contenta per me…Sandra lesse il biglietto dalla mia mano.

- Febe, che significa?

- Febe, ce lo leggi?- chiese la Zadini dal banco in fondo. Niccolò le disse a bassa voce qualcosa sul fatto che non era bello farsi i fatti degli altri e gli fu rivolto un cenno distratto della mano, a indicargli che non le interessava.

Guardai la prof. Mi sorrideva incoraggiante, serena: voleva sapere chi era, se mi rendeva contenta, se era affidabile, lei mi voleva bene, come una zia…avrebbe voluto essere contenta di ciò che mi rendeva felice, perché era una vecchia prof e io ero la sua alunna. E anche i miei compagni lo volevano sapere, per curiosità, per affetto, per ozio…

Chinai gli occhi sul biglietto. Era di carta azzurra, di quella spessa, di buona marca, come la usava lui; riconobbi un inchiostro da stilografica viola, di quello che usava lui; e come non riconoscere quella P minuscola così precisamente disegnata…

Strinsi il biglietto tra le dita. Sandra mi prese la mano sinistra, quella libera, e la strinse. Dall’altra parte, Albina gettava un’occhiata al di sopra della mia spalla. Vidi aggrottarsi le sue sopracciglia così artificiosamente assottigliate in un’espressione di dubbio, mentre leggeva.

- Sì, Michela, lo leggo.- dissi forzatamente ad alta voce. Sollevai il biglietto davanti agli occhi, mi schiarii la voce e lo lessi.

Tutti, dopo, mi chiesero cosa significasse, chi l’avesse mandato. A queste domande non rispondevo. Fingevo di non sentirle.

Sul biglietto c’era scritto: mi dispiace.

   
 
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