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Autore: Afaneia    23/01/2010    3 recensioni
Febe, quattordici anni, studentessa toscana, iscritta al liceo classico. Una stravagante quarta alfa, tra professori troppo belli per essere veri e presidi dal look alternativo. Una vita buia, immersa nella sua solitudine, vissuta cercando di ignorare il senso di vuoto infinito che la sopprime. Perché di giorno ci sono lo splendore del sole e le risate, e di notte il pallore della luna e un'esistenza cupa di cui nessuno si accorge mai. Il contrasto estremo: serenità e malinconia.
Genere: Comico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Come avevo preannunciato

Come avevo preannunciato, il decimo capitolo è pronto e lo posto oggi, prima di un week end piuttosto impegnato, anche perché forma una specie di "dittico" con il nono (parlo come la mia prof d'italiano XD). Non so quando posterò l'undicesimo, ma cercherò d'impegnarmi.

Ringraziamenti:

Amaerize: hai proprio ragione... sono viva XD!! Beh, adesso lo scoprirai....leggi, leggi!!

Atari: ma no, non credo che interromperò la pubblicazione, è solo che ci metti tanto...però spero che d'ora in poi le cose si renderanno più facili anche per me all'interno della trama. In ogni caso ecco la risoluzione del mistero, spero che non sia troppo banale ^^

Smolly_sev: io? masochista? ma dove? come? quando? Io sono piena di autostima *disse quella con un rasoio in mano* Ma no dai a parte questo...un giorno mi devi presentare la tua compagna di banco, sono sicura che è molto simpatica!!

Beh, fatti i dovuti ringraziamenti vi lascio a questo capitolo... spero che non sia venuto male!!

 

A ricreazione, quello stesso giorno, portai le mie amiche a vedere Fabio.

Nei giorni precedenti qualche volta l’avevo visto, ma di sfuggita, con la coda dell’occhio, e subito l’avevo perduto di vista. E poi, tanto ero abituata a vederlo, che neppure ci avevo fatto caso.

Quel giorno dovetti cercarlo a lungo, per una volta che volevo veramente vederlo. Alla fine mi riuscì di trovarlo e lo indicai alle mie amiche, appoggiato alla porta della palestra, la sigaretta in mano e una maglia blu.

Era bello, cavolo se era bello, cogli occhi grandi e languidi di quel marrone scuro che sfociava nel nero, i capelli neri e ricci. Aveva una bocca bellissima, un po’ larga, col labbro inferiore leggermente sporgente in quell’espressione che sembrava vagamente imbronciata; ma non era della sua bocca che andavo pazza.

Erano le sue sopracciglia che adoravo.

Ho sempre avuto una passione per le sopracciglia della gente. In particolar modo adoravo quelle di Fabio così decisamente arcuate, lunghe, quasi un semicerchio attorno all’occhio, scurissime e folte. Se le aggiustava poco, solo in fondo e al centro della fronte, senza rovinare quell’alta arcata perfetta. E amavo come le corrugava: aveva quel modo tutto suo particolare, che la loro stessa forma esaltava, di aggrottarle avvicinandole al centro e sollevandole leggermente. Giuro che mai più ho visto un paio di sopracciglia come le sue. Le veneravo.

In quel momento fumava. Teneva la sigaretta con la mano destra, per lo più abbassata, mentre parlava con i suoi amici. Aveva gli occhi allegri e ridenti mentre chiacchierava con loro, sembrava così sereno!

- E’ bello, vero?- chiesi a bassa voce guardandolo da lontano.

- Insomma- rispose Sandra alzando le spalle. Mi volsi piccata:

- Come, insomma?

- C’è n’è di meglio- commentò candidamente Penni.

- Vai, vai- disse Sandra vedendomi infastidita da quei magri commenti e mi spinse verso di lui. Mi spaventai e feci di tutto per resistere alle sue spinte:

- Vai? Vai dove, vai?

- A ringraziarlo per le rose- disse Vittoria. – Noi ti aspettiamo in classe. vai, vai!

Un’ultima spinta mentre protestavo, e mi ritrovai a pochi passi dal gruppo dei suoi amici. Mi voltai, ma le mie amiche stavano già rientrando nell’edificio.

Non volevo ringraziarlo per le rose. Non volevo ringraziarlo affatto, eppure ero lì, sola, a tre metri e mezzo da lui. Volevo girare sui tacchi e andarmene, ma chissà cos’avrebbe pensato se proprio mentre mi affrettavo ad andarmene avesse sollevato gli occhi e mi avesse visto fuggire…

Così, Fabio mi vide mentre stavo lì a torcermi le mani, indecisa su cosa fare. I suoi occhi su fecero più grandi, colmi di stupore. Aprì poco la bocca, abbassando la sigaretta, si staccò dal muro, fece un passo avanti, lo sguardo fisso su di me. Vedendolo così spaesato i suoi amici si volsero verso di me e tutti rimasero in silenzio.

- Febe…volevi parlarmi?

Mi mancava la voce. Annuii, provando a balbettare qualcosa, ma riuscii solo ad arrossire e ad avvicinarmi a lui con lo sguardo fisso a terra, mentre i suoi amici si allontanavano in silenzio. Ecco, alla fine rimasi sola davanti a lui nel cortile affollato.

Dopo qualche istante di silenzio, Fabio mi sorrise, imbarazzato come al primo appuntamento.

- La Pina ti ha portato…

- Sì.

Sospirò e mi tese la sigaretta. – Vuoi fare un tiro?

- No, grazie…ho smesso.

- Ah.- Quell’ “ah”, lo stupore dei suoi occhi mentre lo pronunciava, il modo in cui mi guardò mi fecero capire che mai l’avrebbe creduto possibile. Finsi di non accorgermene. Si riprese e dopo pochi istanti di silenzio mormorò: - Senti…l’hai letto il biglietto?

- Sì, l’ho letto.

Distolse lo sguardo da me e i suoi occhi assenti si persero nella folla della scuola. Non riusciva a guardarmi. – Febe…mi dispiace veramente.

- Lo so. Ci credo. Ma non è stata colpa tua, Fabio…credo che dovesse andare così.

- Ma no, avremmo potuto…bisognava impegnarsi di più…

- Ma te l’immagini, se stessimo insieme ancora adesso?- dissi, la voce innaturalmente alta e forte, costringendolo a guardarmi. – Sarebbe ridicolo.

- No, dai, non è vero…basterebbe…

Suonò la campanella. Non gli veniva in mente cosa sarebbe bastato. Si affannò per trovare qualcosa, poi si arrese e tacque. Dovevo andare.

- Grazie per le rose, comunque- dissi per accomiatarmi.

- Vai di già su? Io finisco la…- E sollevò la sigaretta per chiedermi, indirettamente, di restare ancora un paio di minuti.

- Sì…ho italiano ora. Vado.

- No, dai…un minuto.

- Il prof si arrabbia. Vado.- Non era vero, al Napodano non importava che tornassi su un minuto o due più tardi. Ciò nondimeno, mi affrettai a rientrare e a dirigermi in classe.

Credevo che avrei pianto durante le ore di narrativa, eppure non lo feci. Anzi, avevo gli occhi asciutti e tranquilli, credo, perché né Albina né Sandra si accorsero che non ero allegra come al solito, e il Napodano, che credevo abile nel capire i sentimenti delle persone- come aveva capito che non era trucco bruciante negli occhi a gonfiarmi le palpebre quel venerdì di scuola- non mi guardò neppure.

 

Un sabato sera di settembre, l’ultimo per me prima di tornare a scuola e iniziare la terza media, un gruppo di ragazzi sedette allo stesso tavolo che occupavo col mio gruppo di false amiche e, per non saper che fare, iniziò a provarci.

Seduto accanto a me sul divanetto, c’era Fabio. Ovviamente, io non lo sapevo. Per me era solo il più carino del gruppo, con quegli occhi languidi e quelle sopracciglia perfette, che – quasi fosse un po’ a disagio- anziché andare al sodo come facevano gli altri la tirava per le lunghe, parlava poco, stava a lungo in silenzio e raramente mi guardava direttamente. Non ero abituata a quel modo di fare. Mi sembrava molto bello. Lo guardavo e parlavo poco. Alla fine uscimmo a farci un giro.

Ero in tacchi alti e indossavo una gonnellina a pieghe, una camicetta e una giacca nera come una studentessina. Fabio aveva una giacca nera, una camicia bianca e un foulard blu avvolto attorno alla gola. Mi piaceva molto. Ci baciammo su una panchina, poi lui insistette per aspettare che mi venissero a prendere. Mi chiese il numero di cellulare e glielo diedi perché pensavo che lo facesse solo per salvare le apparenze, che in realtà non ci saremmo più sentiti. Fanno tutti così.

Il sabato successivo mi arrivò un messaggio per chiedermi se quella sera sarei uscita, così se magari ci fossimo incontrati al pub avremmo potuto stare insieme. Gli dissi di sì.

Da quel giorno cominciammo a vederci: dapprima irregolarmente, poi sempre più spesso. Ci mettemmo insieme ufficialmente alla fine di settembre. Con lui iniziai a fumare. Gli volevo molto bene.

A quei tempo andava di moda avere la ragazza più giovane, ma so che anche lui mi voleva bene, un bene dell’anima. Frequentava il quarto anno del liceo scientifico, era del ’90.

Fabio era molto vanitoso. Si credeva il più bello, il più intelligente, il più affascinante, quello a cui io non avrei mai saputo – né potuto- rinunciare. Ma io amavo la sua vanità, considerandola l’espressione perfetta di una natura nobile e malinconica. L’assecondavo. Come gli volevo bene, con la sua passione per i Queen e le belle penne e la carta preziosa, i dischi in vinile e i vecchi film in bianco e nero, per le macchine d’epoca e le sigarette…e per me.

Alla fine, non so come, divenne un’abitudine. Io sapevo che lui c’era e lui sapeva che io c’ero e questa consapevolezza ci bastava, anzi ci annoiava. Smettemmo di uscire insieme, di vederci. Qualche volta ci sentivamo per telefono, ed erano telefonate lunghe e noiose, di baci mandati per abitudine come per seguire una prassi, di ti amo detti per riempire i momenti di silenzio.

Credo che fosse tutto finito molto prima che ce lo dicessimo in faccia. Non litigammo mai, non cominciammo a odiarci, non serbammo mai rancore. La nostra storia, se di storia possiamo parlare, finì a poco a poco, placidamente, dopo una lunga malattia. Non facemmo molto rumore. Fu come morire lentamente…sì, proprio così. Come morire lentamente.

Un giorno durante l’ora di educazione tecnica, il custode della scuola mi recapitò un mazzo di rose. Erano bianche e nel biglietto c’era scritto: Usciamo insieme.

Ci vedemmo quella sera, perché il pomeriggio dovevo studiare, e ci lasciammo. Eravamo stati insieme per quasi nove mesi, da settembre alla fine di maggio.

Quando avevo detto a Fabio che non era colpa sua non lo dicevo per dire. Avevo sempre pensato che fosse solo così che poteva finire. Con i miei pantaloni troppo stretti, e i suoi ti amo troppo frequenti…ci volevamo bene, forse troppo, ma non eravamo fatti per stare insieme, credo. Forse era la differenza d’età, oppure…non so. Forse eravamo entrambi persone troppo tristi, troppo chiusi nell’egoismo di un dolore che ci sentivamo in colpa a provare, troppo concentrati nella commiserazione di noi stessi…era andata esattamente come avevamo fatto in modo che andasse. Solo questo.

 

Tornata a casa, misi le rose in un vaso pieno d’acqua e per un po’ rimasi seduta a guardarle, semplicemente. Mi piacevano le rose…

Avrei dovuto mangiare, ma non avevo appetito. Presi un pezzo di schiacciata e accesi il computer, con un sospiro. Erano quasi le due.

Era da prima di maggio che non visitavo il blog di Fabio… c’erano più foto, qualche video… Non seppi trattenermi dal guardare le foto. Come mi sembrava bello il mio Fabio, col suo cappotto nero e le camice bianche e la giacca blu! E com’erano perfette quelle sue sopracciglia così ardite e nere! Tamburellai con le dita sul tappetino del mouse e per qualche istante dovetti distoglierne lo sguardo. Guardai le rose. Gli dispiaceva…

Tornai a guardare il blog. Fabio scriveva poesie, qualche volta. Le lessi per l’ennesima volta. Qualcuna l’aveva postata dopo maggio…lessi anche quelle.

Ce n’era una che parlava di me. Strinsi il pugno e mi morsi le nocche. Mi bruciavano gli occhi mentre la leggevo, muovendo le labbra via via.

Sì, ero io. Forse non in tutta la poesia, forse c’era solo un verso che parlava di me, ma di quel verso ero sicura, sapevo con sicurezza che c’ero io in quel verso: e ci scambiavamo baci che erano come testate. Non so cosa mi dicesse che di me Fabio parlava in quelle poche parole di mediocre poesia, eppure lo sapevo con sconcertante certezza, perché, arrivata a quel punto, trasalii e ricordai quegli ultimi giorni di tremenda agonia.

Bruscamente spensi il computer e mi alzai dalla sedia della mia camera. Dovevo studiare. E non mi importava nulla di quella stupida poesia, o delle rose, o del biglietto, o di Fabio e delle sue belle sopracciglia nere…no, non mi importava e dovevo studiare.

Sì, davvero, io volevo studiare, veramente. Ma perché continuavo a pensare a quella poesia che, nonostante tutto, mi era piaciuta tanto?

Ma perché mi bruciavano tanto gli occhi e mi sembrava di vedere tutto appannato?

E perché quello stupido imbecille del professor Napodano scelse proprio quel giorno per mettersi ad ascoltare Who wants to live forever dei Queen?

E perché, nonostante il volume fosse normale, a me sembrava che fosse così forte che non riuscivo a sentire il mio respiro?

 

Un commentino, un commentino... positivo come negativo... se non per me, per la povera Febe... su, che vi costa? XD

   
 
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