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Autore: LaMiya    01/02/2010    0 recensioni
Spero che vi possa piacere, giacché ho cercato di renderla il più comprensibile possibile. I primi due capitoli sono un po' particolari, poi a partire dal terzo la narrazione prende una direzione più confacente agli stili a cui noi siamo abituati.
***
Esisteva un tempo, in cui il mondo era guidato da esseri giusti e saggi, chiamati Nomadi. Poi arrivò un uomo che li spodestò, instaurando la sua tirannia su tutte le terre del globo... E se qualcuno provasse a combatterlo?
Dal Capitolo Quarto:
“Attendere? È così che combattete voi altri?” Jim afferrò il ragazzo per la collottola, alzandolo di peso fino alla sua altezza:
“Ora chiariamo una cosa, nanerottolo. Non m’importa se voi altri…” pronunciò le ultime due parole con sprezzo, facendo girare di poco la testa in maniera da inquadrare tutti i venti componenti del gruppo, poi riprese “… se voi altri preferite crepare pur di sembrare un poco eroici, ma noi siamo venuti qui per compiere una ben specifica missione e farci distruggere solo perché un branco di mocciosi ha deciso di voler comparire nell’”Annuale dei Deficienti Massimi” non rientrava nei nostri programmi. Mi sono spiegato?”
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Salve a tutti!
Questo capitolo è la correzione di quello che precedentemente fungeva da "Prologo". Ho dovuto apportare delle piccole modifiche poiché non mi convinceva del tutto e poiché si potevano notare passaggi contrastanti tra loro.
spero vivamente che vi piaccia e aspetto recensioni e consigli!!
Miya


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La congrega dello Zodiaco



La ragazza sentì distintamente sulla pelle il tessuto del vestito che portava, era estate e la minigonna nera faceva intravedere le gambe snelle e appena depilate della giovane. La camicetta, aperta in modo da mettere in rilievo il seno prosperoso, leggerissima e dello stesso colore della gonna, si appiccicava al corpo grazie allo spostamento d’aria prodotto dalla rapida camminata mettendo in risalto il corpo snello e le curve della ragazza.
I capelli biondi, confrontati agli abiti scuri, metteva ancor più in evidenza la carnagione pallida della giovane.

TIC TAC TIC TAC
Il ticchettio delle lancette dei secondi proveniente dall’orologio al polso della ragazza accompagnava il rumore che producevano i tacchi di ella sull’acciottolato. Con passo deciso si diresse verso la costruzione che sovrastava la piazza del centro città. Era imponente: sorretta da colonne e decorata con fregi stile barocco l’università era in grado di ospitare dai due ai tremila studenti; con le sue duemila aule occupava un piano di seimila metri quadrati per dieci piani di altezza e tre di profondità; negli ultimi tre piani in cima vi risiedevano gli scolari la cui dimora era troppo lontana da raggiungere a piedi o con il treno.

TIC TAC TIC TAC
L’orologio continuò a battere i secondi e poi i minuti e poi le ore di quel venerdì sera. La ragazza cominciò a salire la grande gradinata che conduceva alle porte dell’università. A tracolla portava, aperta, una borsa militarizzata.
Il rimbombare dei passi lungo la navata centrale, a quell’ora vuota, faceva sentire ancora più sola la studentessa. Senza riuscire a celare il nervosismo bussò tre volte ad una porta, dall’altra parte una voce maschile la invitò ad entrare. Quando la porte le si richiuse alle spalle la targhetta che vi era appuntata brillò cupa: Professor P.Peercival

“Naturalmente avrà bene in chiaro il motivo per il quale l’ho fatta venire qui questa sera, signorina Eyre” l’uomo si alzò, la camicia arrotolata all’altezza dei gomiti e fuori dai pantaloni, la ragazza tentò di restare calma quando notò che la zip era abbassata.
“In effetti, professore, temo di non essere riuscita ad afferrare del tutto il motivo per cui ha chiesto di vedermi a quest’ora. Sono le otto!” andrà tutto bene, si ripeteva.
“Sa che cosa sono stato addolorato di constatare oggi, signorina Eyre?” il professore cominciò ad avvicinarsi lascivo alla giovane, che indietreggiò di un paio di passi.
“Temo di non capire, professore”
“Il suo rendimento scolastico nella mia materia è molto peggiorato, signorina Eyre” ormai il viso dell’uomo era a pochi centimetri dal suo e lei si rese conto all’improvviso di quello che stava succedendo.

“Allora signorina Eyre, mi faccia vedere un po’ quello che abbiamo qui.”

TIC TAC TIC TAC
L’orologio continuò a produrre quel suono simile a quello del battere con le dita su di una tastiera. La lampada, accesa sulla scrivania del professor P.Peercival, proiettò sul muro l’ombra di una ragazza, che tentava con scarsi risultati di dibattersi presa tra le forti braccia di un uomo.

La camicetta le venne strappata via brutalmente dal corpo, e la gonna fatta scivolare giù per le giovani gambe. Accovacciata ormai per terra in posa fetale, la giovane guardava terrorizzata il suo professore di biologia togliersi la camicia e gettarla in un angolo seguita poi dai pantaloni. Chiuse gli occhi, schifata, mentre le mani sudaticce dell’uomo le percorrevano il corpo, insinuandosi tra i seni, torcendoglieli, salendo sempre di più tra le gambe, accarezzandole le cosce e poi il vertice.

La ragazza si dibatteva, sentendo il calore della saliva dell’uomo su tutto il corpo, la sentì sui seni, sui capezzoli, sul collo, in bocca, la sentì scendere per poi insinuarsi tra le gambe. Suo malgrado le scappò un gemito. Inarcò la schiena, dischiudendo le labbra. Altro gemito di dolore, questa volta più forte.
L’uomo le fece aprire con forza le gambe, permettendo così al fallo di entrarle dentro. Ogni spinta da parte del professore significava un gemito da parte della ragazza. Tentò di ribellarsi, ma ormai le energie le venivano meno. Sentì il calore del liquido caldo scivolarle lungo le cosce, il dolore crebbe ancora, attanagliandole le viscere, finché non se ne liberò, gemendo e tremando. Sentì delle mani afferrarle la testa e spingerla giù, verso il fallo. Senti l’odore acre e pungente degli umori che questo conteneva. Tentò ancora, con le ultime energie rimaste, di scappare, ma alla fine fu costretta ad arrendersi, lasciando che la sua bocca accogliesse quel liquido di cui non avrebbe mai voluto sentire il gusto.

TIC TAC TIC TAC
La ragazza cominciò a piangere mentre la lingua si rimpossessava del suo corpo. Mentre sentiva il fiato corto del professore insinuarsi di nuovo tra le sue gambe,mentre sentiva le mani stringersi possessive sulle sue cosce, provocandole dolore. Ancora una volta riprese a tremare e gemere, contorcendosi mentre il piacere e il dolore si mischiavano in una cosa sola.

TIC TAC TIC TAC
La porta sbatté alle spalle del professor P. Peercival. All’interno dell’ufficio una ragazza era rannicchiata a terra. Tutt’ intorno era silenzio, interrotto solo da dei singhiozzi.

TIC TAC TIC TAC
L’orologio continuava la sua interminabile corsa. La lampada continuava a mandare raggi di luce per la stanza, uno di questi illuminò la schiena della ragazza. Su di essa risplendeva cupo un tatuaggio, raffigurante il simbolo del cancro.


***




Con calma si issò sul tetto e tirò fuori dallo zaino un involucro nero, aveva superato solo il primo di innumerevoli ostacoli che lo attendevano. La punta di acciaio di un grappino risplendette nell’oscurità, all’estremità vi era attaccata una corda. Impugnò il manico e inarcò la schiena, i muscoli del braccio si tesero prima di scattare in avanti e scagliare con tutte le loro forze l’arpione. Quest’ultimo si incastrò perfettamente nell’unico appiglio possibile, il camino, che lo accolse con un tonfo sordo:
“Puoi salire! Non ha sentito nessuno, aspetta che ti butto la corda.”
Sussurri, tra le silenziose ombre della notte.

Un’altra figura, identica alla prima, salì sul tetto. Non erano coperti da nient’altro che dei semplici abiti, un po’ strappati: Jeans e maglietta neri aderenti, scarpe da ginnastica nere e un cappellino calcato in testa che faceva intravedere poco più della bocca, dalle labbra carnose e morbide come a prima vista lo sembrava la pelle che le circondava. Salirono ancora, arrampicandosi su per quel muro bianco coperto di edera, attenti a non lasciare alcuna traccia dietro di loro.
Il primo passò al secondo un altro involucro, che teneva legato alla cinta:
“Fa attenzione, fratellone!”

Con un cenno di intesa l’altro si calò giù per il lucernaio, che il fratello aveva aperto pochi istanti prima,che portava all’attico.
Uno strisciare sordo nel buio, passi sul parquet.
Il “CLAC” secco di una porta che viene aperta, forzatamente.
Altri passi, questa volta più forti.
Lo scricchiolare delle assi vecchie e mal assestate. Si fermò, restando immobile. Il fratello che ansimava dalla preoccupazione.
Che sia accaduto qualcosa? No, era tutto regolare.
E poi la videro. Lui, sul tetto a fare il palo si sporge dalla finestra per guardare.
L’altro, la guardò estasiato.
Illuminata dai raggi lunari ella li attende, trepidante di essere salvata da quella prigione di vetro. Preoccupata che qualcosa possa andare storto e che debba ancora restarsene richiusa a lungo. Di diamanti e perle essa è fatta. Come oggetto di ammirazione e di voglia essa è venerata. Diadema stupendo. Gioiello perfetto.
Si guardò intorno, conscio degli allarmi invisibili che affollavano quella piccola e a prima vista delicata bacheca. Si chinò, strisciando sul pavimento freddo, come un rettile. Allungò una mano e toccò la serratura che scattò, miracolosamente sotto il suo tocco.
I pensieri di positività conciarono ad impossessarsi di lui, mentre stringeva le dita attorno al diadema, pronto ad impossessarsi di quel gioiello tanto desiderato.
Ma qualcosa andò storto. Facendo si che l’allarme fece risuonare il suo ululato tra le mura della casa.
“Fratellone afferra la corda, ti isso io sul tetto.”

I muscoli spasimavano dal dolore e dalla fatica.
“Jack, é inutile, le guardie saranno qui a momenti e per noi sarà la fine. Prendi il diadema e scappa, ci penso io a trattenerli.”
“Col cazzo, io non ti mollo da solo.” Un paio di secondi di silenzio, mentre il più giovane supplicava il più anziano con lo sguardo. “Allunga la mano, svelto!”
“No!”
Sguardi che si incrociarono.
“Scappa! Fallo per la mamma.”
Lacrime che colarono lungo il viso. Una mano che si allungò ad afferrare quella tentazione di perle e diamanti.
Passi in corsa per il corridoio, la figura nera che svoltò l’angolo, precipitosamente, sparendo alla vista del fratello.
Troppo precipitosamente.
Spari. E un corpo ormai privo di vita e macchiato di sangue che scivolò a terra, con un tonfo.

Urla silenziose, di una persona che non voleva cedere al dolore.
Urla che non hanno niente di silenzioso, che cercavano qualcuno che ormai era riuscito a fuggire.
Un tatuaggio, nascosto dai vestiti, venne rivelato dalle mani indagatrici degli uomini della sicurezza, mentre un altro tatuaggio, ormai denudato dell’unica copertura di cui era fornito viene lentamente ghermito e circondato dall’acqua. Un corpo immerso nel liquido e dalla schiuma che essa, a contatto con il sapone produce.
Lacrime che scendono e lasciano una traccia di salsedine e tristezza sulle gote di una persona.
E il più giovane ormai capì che doveva sparire: doveva farlo per Roy e per sua madre. Il corpo bagnato si alzò da quel calore, ormai raffreddatosi.
Sul petto, inciso con inchiostro nero e rosso, il simbolo dei gemelli.


***




“Yan!”
Un ragazzo dai capelli corvini e dai profondi occhi blu alzò la testa smunta dal banco dov’era appoggiata:
“Signorino Yakamura, mi potrebbe rendere partecipe del suo sogno giacché questo l’interessava e la rendeva molto attento alla mia lezione?”

Alzò gli occhi al cielo, pregando Iddio che facesse finire in fretta quell’incubo. Quanto odiava il venerdì. Girò leggermente la testa verso il suo vicino di banco, perché non se l’era presa con lui? Lui si che faceva rumore quando dormiva. Nemmeno dei rinoceronti sarebbero arrivati a tanto. Sbuffò, indignato e si spostò dalla fronte il ciuffetto di capelli che vi ricadeva scompostamente. Perché suo padre non era il sindaco di Tokio? O magari uno dei rappresentati del governo, quello si che sarebbe stato figo, o tanto meno interessante, chissà come avrebbero reagito allora gli insegnanti?
“Yan Yakamura! Mi risponda.”
Non si era mai reso conto di quanto bene la maestra sillabasse le parole quando era arrabbiata. Non riuscì a trattenere quel suo classico sorrisetto sfacciato che gli comparve sulle labbra. In fretta iniziò a pensare a una risposta che poteva dare alla sua insegnante, quando un trillo argentino risuonò fuori dall'aula.
Stava quasi per saltare in piedi e svignarsela quando si rese conto che quello che aveva appena udito non era nient’altro che il campanello che la loro stramba docente di storia dell’arte aveva fatto appendere fuori dalla porta un qualche mese prima.
Gli studenti si alzarono in piedi come un sol uomo, pronti ad accogliere colui o colei che sarebbe entrato nell’aula 317 del liceo di Tokio.
“Buongiorno signor direttore.”
“Professoressa, Ragazzi, oggi sono giunto qui con l’intento di presentarvi il vostro nuovo compagno di classe e di corsi, viene dalla città di Hong Kong e confido sappiate trattarlo con tutto il dovuto rispetto. Yan Yakamura? Vieni qui.”
Tutti gli studenti spostarono la loro attenzione verso il ragazzo alto, dai capelli neri e gli occhi azzurri che stava in piedi pochi metri dietro il preside dell’High School di Tokio.
Fece un passo avanti, affiancandosi a quest’ultimo e chinò brevemente la testa in cenno di saluto e rispetto verso i suoi nuovi compagni e la sua nuova docente.
“Signori, io vi lascio con il vostro nuovo compagno, buon proseguimento di giornata… signorina Ying.”
E chinando la testa verso la professoressa si chiuse la porta alle spalle, lasciando la classe nella più totale curiosità.
“E così anche voi vi chiamate Yan Yakamura, bene… spero per noi tutti che non si comporterà come il suo omonimo. Per precauzione la farò sedere il più lontano possibile da quest’ultimo, in quanto a voi” si voltò verso l’altro ragazzo che stava fissando il nuovo arrivato “spero che abbiate riposato abbastanza in queste ultime tre ore perché alla fine della giornata lei verrà nel mio ufficio in punizione.”

Un pugno, preciso, letale, si abbatté su quel tale dai capelli rossi.
Un altro, se possibile ancora più forte, lo seguì.
“Hey matricola! Non ti conviene giocare troppo con il fuoco altrimenti va a finire che ti farai dei nemici. Posso sapere che hai combinato per farti venire addosso non un componente, ma addirittura tutta la banda di Riku? Nemmeno io sono mai riuscito a farli arrabbiare tanto.”
Yan Yakamura, fisico perfetto e muscoli d’acciaio, si girò verso il suo omonimo che in quanto a bellezza fisica non era da meno e gli tese la mano, aiutandolo così ad alzarsi:
“Non credevo che sedersi ad un tavolo della mensa fosse vietato.”
“Non è mai stato vietato sedersi ad un tavolo della mensa, ma quello è il loro tavolo, esattamente come quello la in fondo è il nostro. Per fortuna sei bravo a tirare a pugni, altrimenti saresti diventato polpetta per cani.”
Sorrisero, entrambi divertiti.
“Su vieni, andiamo a mangiare.”
Si diressero a passi sicuri verso il fondo della mensa, seguiti dagli sguardi ammirati delle ragazze che avevano assistito alla loro performance.
Seguirono le presentazioni degli altri ragazzi, un moro, due rossi, tre biondi e uno dai capelli corvini. Yan era sicuro che non sarebbe mai riuscito a ricordare tutti quei nomi, sparati a raffica in un paio di secondi. Nessuno sembrò particolarmente stupido dalla netta somiglianza che scorreva tra i due ragazzi, nemmeno quando entrambi tirarono fuori dalla borsa una scatoletta di alluminio, contenente verdura ed insalata verde. Di carne nemmeno l’ombra.

“Cosa abbiamo adesso?”
“Ginnastica”
Sbadigliò assonnato, e alzò le braccia al cielo, facendo crocchiare la colonna vertebrale.
Spogliatoi. Il solito via vai di ragazzi che, indossate le tute da ginnastica, si dirigevano verso le palestre. Due, identici, si fissarono stupidi, alzarono le mani, contemporaneamente. Sembravano uno specchio, due gocce d’acqua provenienti dallo stesso limpido lago di montagna.
Si portarono una mano all’addome, poco sotto l’ombelico.

Scorpione.
Toro.

Stesso spogliatoio, stessa vita che si intrecciò in un’unica, grande avventura.


***




“Friedrich, svegliati, Vanessa ti sta aspettando.”
Un ragazzo nerboruto, della stessa stazza di un armadio Ikea a doppia anta, si stagliò sulla soglia di casa, dove una ragazza minuta lo stava aspettando, sbadigliò, in preda alla stanchezza. Era alto, forte e spesso incuteva paura a chi lo guardava. Solo chi lo conosceva realmente, come Vanessa, riusciva a percepire la dolcezza e il buon cuore che aveva e sapeva trasmettere.
Camminarono, mano nella mano, per la città, parlando del più e del meno, raccontandosi le ultime novità. Si diressero verso Victoria Station, dove avrebbero preso la metrò che li avrebbe condotti fuori da Hyde Park.
Scesero le scale, soffermandosi ogni tanto per scambiarsi quelle effusioni tipiche delle persone innamorate. Una, due, tre rampe di scale.
In lontananza si udì l'eco di una ragazza che piange.
“Fried, hai sentito anche te?”
Senza aspettare risposta lasciò la mano al suo ragazzo e cominciò a correre in direzione dei lamenti, finché non raggiunse un angolo isolato e buio in cui una ragazza era accucciata a terra, appoggiata ad un muro, i singhiozzi che le squassavano il corpo rendendola cieca a quello che succedeva al di fuori di esso.
“Aspetta, ti aiuto.”
Lei scosse la testa, cercando di farsi ancora più piccola: la camicetta nera era strappata, innumerevoli bottoni non esistevano più. La gonna, anch’essa malridotta, era sporca e stropicciata.
“Sei dell’università, non puoi andartene in giro così, ti do una mano a tornare a casa.”
Vanessa si tolse la giacchetta rosa pink e la poggiò sulle spalle della sconosciuta.
“Non voglio tornare all’università, mi lasci in pace.” All'improvviso Vanessa ebbe un'illuminazione, riconoscendo la ragazza che le stava ai piedi:
“Non posso lasciarti in queste condizioni, mia cara. Anche perché dopo che direbbe la zia?”
Con il volto rigato di lagrime la giovane alzò lo sguardo e incontrò il viso amico di sua cugina che lo squadrava. Ricominciò a piangere, catapultandosi in quelle braccia che sapeva non le avrebbero fatto mai male.
“Jessika, che cosa ti è accaduto?”

Seduta su di una sedia nella cucina degli Harrison, Jessika Eyre stava cercando di riacquistare le forze e contemporaneamente di smettere di piangere. Aveva appena finito di narrare quello che le era accaduto a sua cugina, Vanessa Eyre, e al suo ragazzo Friedrich Harrison.
Entrambi la fissarono ammutoliti e con l’aria schifata.
“Stronzo!”
Friedrich si voltò verso la sua ragazza, nessuno aveva mai sentito Vanessa imprecare, ma quella, dovette ammettere, era la volta buona che le stava dando perfettamente ragione.
“Jessika, lo dobbiamo denunciare”
“No! Voi non capite, se lo denunciamo io sarò bocciata. Sai quello che dirà mia madre se boccio?”
“Tesoro, tua madre per una volta dovrà capire che quella che ha torto qui non sei assolutamente te. Non puoi lasciar passare inosservato un atto così grave.”
La ragazza annuì, poco convinta, mentre sua cugina le sistemava premurosamente i capelli.
“È meglio che vai a dormire tesoro, vedrò se riesco a prendermi un paio di giorni liberi dal lavoro e poi ce ne andremo in vacanza, lontane da rumori o altro. Così riuscirai a riprenderti.”
Friedrich accompagnò le ragazze nella stanza degli ospiti adiacente alla sua, poi le lasciò sole.

“Mi sono sempre chiesto perché nessuno di noi tre ricordasse il perché, il quando e il dove dei tatuaggi.”
Si guardò l’avambraccio sinistro, dove risplendeva il simbolo del sagittario. La ragazza alzò le spalle e si guardò la caviglia.
Vergine.
“Conosco un ragazzo, che abita a New York, ed ha un tatuaggio simile, però ha il leone. Nemmeno lui se lo ricorda. Dice che gliel’hanno inciso i suoi genitori appena è nato.”

***



Jim odiava fare l’avvocato: la sera era stanco; durante il giorno era stanco; la mattina era stanco... e per di più spendeva i tre quarti del suo stipendio solo per i caffè, che lo aiutavano a restare sveglio in presenza dei clienti. Jim odiava fare l’avvocato.
Si sedette in macchina e accese il motore. Guardò il portachiavi raffigurante un piccolo leone.
Afferrò il volante con entrambe le mani e partì, sgommando, verso la A68 che lo avrebbe condotto proprio nel centro di Parigi.
Una macchina grigia lo sorpassò. Strano -nella sua testa cominciarono a formarsi dei ricordi- non era la stessa di ieri? La guardò allontanarsi, curioso.
Si, ne era sicuro, era la stessa macchina che ieri lo aveva sorpassato e si era fermata poi davanti al suo ufficio. Un clacson lo fece sobbalzare. Merda! Sono fermi! Pigiò il pedale del freno con tutte le sue forze e fu solo per pura fortuna che riuscì a tenersi in carreggiata.
Il porsche rosso si fermò a pochi centimetri dalla macchina grigia ferma davanti a lui.
Vide le persone attraversare la strada dirette a una destinazione sconosciuta, anche se, a giudicare dall’orario -le 6.30 di mattina-, probabilmente erano diretti a lavoro.
Un’ora e mezza dopo, dopo aver clacsonato una buona mezz’ora dietro un camion e dopo essere riuscito a districarsi dal traffico mattutino che affollava le strade di Parigi, Jim parcheggiò il suo gioiellino davanti allo French Study Advocate Agency.
Era giovane, aveva ventotto anni, ma questo non lo aveva fermato nella sua ascesa lavorativa. Il suo principale, un avvocato di alto rango e dalla lunga esperienza, aveva notato subito lo spiccato senso per la legge del ragazzo e lo aveva aiutato a costruirsi la strada, alzandolo più tardi dal grado di semplice segretario e prendendolo al suo fianco come assistente. Tre anni dopo, la compagnia aveva finalmente deciso di promuovere ad avvocato quello che tutti definirono “il ragazzo prodigio”.
Scese dall’auto, togliendosi gli occhiali da sole e si diresse a passo deciso verso le porte a vetri che lo avrebbero poi condotto nell’attico dove avrebbe preso l’ascensore per raggiungere il suo ufficio al terzo piano, quando due turisti lo fermarono:
“Ci scusi, signore, credo di non essere stato poi così bravo a decifrare questa cartina, sarebbe così gentile da indicarmi i magazzini LaFayette?”
Prima che potesse fare un solo gesto la signora lo prese sotto il braccio, aveva una presa ferrea, ma non fu quello a spaventare il giovane. Sentì distintamente sulla schiena la canna di una pistola di piccolo calibro, abbastanza potente da infliggere una ferita mortale:
“Amore, io credo che questo bel giovanotto sarebbe ben felice di accompagnarci, non credi, caro?”
Lo spinse verso una macchina e lo fece sedere con poca galanteria sul sedile posteriore, dopo essersi assicurata che nessuno avesse fatto caso a loro chiuse la portiera. Il marito o chi per esso fosse, accese il motore e partì. Viaggiarono per un’ora prima di abbandonare la A54 e uscire dalle affollate strade di Parigi.

***



“Signori, sono felice che abbiate risposto al mio invito, e vogliate scusarmi la probabile mancanza di tatto dei miei uomini.”
Dodici ragazzi sedevano ad una tavola, si girarono verso la provenienza della voce. Dall’ombra emerse un uomo, sulla settantina, parzialmente affetto da calvizie e con indosso un paio di jeans sgualciti e una vecchia maglietta con scritto: “I love NY”
“Possiamo sapere perchè diavolo ci avete portato a fare qui?” Un ragazzo si alzò in piedi, rivolgendosi all’uomo.
“Fried?” Il ragazzo si guardò intorno, cercando tra le persone colui che lo aveva chiamato per nome.
“Jim! Come ti butta, amico? Ti hanno trascinato anche te in questa trappola per topi?”
“Fried, stronzo che non sei altro, che cazzo ci fai qui?”
“Sempre molto fine, come al solito, eh?”
Fu strano per tutti rendersi conto di non essere terrorizzati dalla situazione: la sala fissava tranquillamente l'uomo da cui erano stati convocati, aspettandosi il verdetto finale. Sapevano di essere andati contro quasi tutte le leggi che erano state loro imposte da Gregory, tiranno che governava ormai l'intero globo da molti anni, ma non avrebbero mai avuto paura ad ammettere di essere degli eretici nemmeno sotto minaccia di pena capitale. Il loro ospite riprese a parlare:
“Prima di spiegarvi il motivo di questo piccolo… - come lo si potrebbe chiamare…- convegno, vi prego di aprire il fascicolo che trovate davanti a voi e di compilarlo, poi potremo passare ai convenevoli.”
Per un paio di minuti, nella grande sala rotonda, non si sentì altro che lo scribacchiare delle penne sui fogli, poi silenzio.
“Molto bene, avete finito? Allora vi prego di passare in avanti le vostre risposte… grazie mille.”
Ancora silenzio, mentre l’uomo leggeva.
“Signori, noto con piacere che non avete perso il coraggio che avete dimostrato in tutti questi anni. Sebbene non sappiate chi io sia, avete risposto onestamente a tutte le domande che vi sono state poste." Sorrise, benevolo. "Ora... voi sapete che governo vive la fuori, vero?”
“Un governo di stronzi!”
“Molto bene, signor Bryan, veramente molto azzeccata come risposta, nemmeno io sarei riuscito a dire di meglio. Qualcun altro la pensa come lui?”
Sentendo la replica i dodici ragazzi tirarono un impercettibile sospiro di sollievo. Undici mani si alzarono all’unisono.
“Perfetto, signori, ora vi leggerò quello che avete risposto nel questionario che vi ho dato poco fa, molto probabilmente lo avete preso come una presa in giro, ma vi posso assicurare, come vi spiegherò poi, che non è assolutamente mia intenzione prendermi gioco di voi. Allora, iniziamo con…” scorse rapidamente i fogli con lo sguardo “il signor David Noam?” Un uomo alto, dai folti capelli arancioni raccolti in una coda si alzò in piedi, nessuno fece caso ai suoi vestiti strappati. “Il suo nome è David Noam, di provenienza Israeliana…”
“Sono di Be'er Sheva, signore.”
“Be'er Sheva? Anche mia nonna era Israeliana, ma lei veniva da Karak, ma andiamo avanti… qui lei ha scritto che disprezza il modo in cui il nuovo governo tratta il popolo, che cosa intende dire, precisamente?”
“Vede, io lavoro in un museo a Jerusalem, un giorno ho scoperto una sezione nascosta, dove tenevano i vecchi manoscritti. Ne ho letti alcuni, e ho scoperto che nel 2000, quindi più di mille anni fa, il modo di vivere era molto diverso da quello dei giorni nostri. In tutta onestà, non mi è mai piaciuto il metodo di Gregory di comandare il pianeta. Ho sempre immaginato un mondo dove la gente potesse avere la libertà di parola e non dove c’è una persone che decide per tutti: vorrei che la povertà e la repressione forzata fossero eliminate.”
“Molto bene, lei ha risposto perfettamente alla ma questione, ora, lei ha poi scritto che pratica la religione dell'Islam -l'ebraismo-, perché ha scelto di andare contro una delle dieci principali leggi che il preside Gregory ha scritto?”
“Io credo, signore, che ognuno abbia il diritto di credere e di professare la religione a lui più vicina, naturalmente senza nuocere ad altri ed io non ho mai fatto del male a nessuno.”
“Perfetto, davvero perfetto. Qualcuno è dello stesso avviso del signor Noam?”
Undici mani si levarono, per la seconda volta.
“Allora, a questo punto sarebbe inutile continuare con questo interrogatorio. Io farei solo un breve giro dove ognuno direbbe il suo nome, la sua provenienza, chi conosce tra le persone che sono sedute a questo tavolo e di che segno zodiacale é…non credo che serva dire anche religione o altro visto che siamo tutti dalla stessa parte.”
Uno alla volta i dodici personaggi si alzarono in piedi.
“Mi chiamo Jessika Eyre, provengo dalla Scozia e di segno zodiacale faccio Cancro. Conosco mia cugina, Vanessa Eyre e il suo fidanzato Friedrich Harrison.”
“Jim Bryan, Parigi, Leone. Conosco Friedrich Harrison.”
“Vanessa Eyre. Svizzera, lavoro in Scozia. Vergine. Conosco Friedrich e Jessika, ma ho sentito parlare di Jim.”
“Yan Yakamura. Tokio. Bilancia. Conosco il mio compagno di classe Yan Yakamura.”
“Siete Gemelli?”
“No, solo omonimi.”
“Molto bene, procediamo.”
“David Noam. Israeliano. Scorpione. Conosco di vista Corazòn che ha lavorato per un breve periodo nel mio stesso museo.”
“Friedrich Harrison. Australiano, ma vivo in Scozia. Sagittario. Conosco Jim, Jessika e Vanessa.”
"Sono Ruby Gloom, Nuova Zelanda, di segno zodiacale faccio capricorno. Non conosco nessuno.”
“Nadir. Brasile. Acquario.”
“Presumo che le sia stato tolto il cognome.”
“Esatto.”
“Corazòn, anche io senza cognome. Spagnola, ma vivo in Israele. Pesci. Conosco di vista David.”
“Elisabeth, senza cognome. Stati Uniti. Ariete.”
“Yan Yakamura. Tokio, ma provengo dall'Irlanda. Toro. Conosco il mio omonimo.”
“Jack. Norvegese. Gemelli.”
“Il suo cognome?”
“Non ho più un cognome.”

“Come potete notare, a questo tavolo stanno sedute dodici persone, ognuna di esse ha un proprio segno zodiacale e, ne sono assolutamente convinto, ognuna di voi ha un tatuaggio sul corpo che rappresenta questo segno, dico bene?”
“Non capisco questo cosa centri.”


“Avete mai sentito parlare della Congrega dello Zodiaco?”



Angolo delle mie storie:

The Begin of the Experience Originali - Generale

Blood's Angels Originali - Generale

Bring me in your World Harry Potter

Memorie di un uomo Originali – Drammatico

Volere… Volare Originali - Drammatico
   
 
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