*
Ilaria
Mi
poggiai trafelata al semaforo: la corsa era stata del tutto inutile, non che mi
aspettassi il contrario.
Fissai
assente lo sguardo sul palazzo dall’altro lato della strada e
improvvisamente mi sentii grata verso l’omino rosso che mi intimava di aspettare
per attraversare: non ero ancora pronta, affatto.
Cosa
mi era passato per la mente?
Sapevo
benissimo che sì, probabilmente avrei fatto il mio lavoro, finalizzando i
driver di ricerca di ogni maledetto computer presente in quella banca, ma allo stesso
tempo ero perfettamente cosciente del fatto che non stavo andando lì solo per
quello: volevo bene a Maurizio, ma lo conoscevo e anche se non sembrava, quando
voleva sapeva essere un uomo molto calcolatore e distaccato, che sicuramente
aveva qualcosa in mente. Ed era di quello che avevo più paura in assoluto: di
quel secondo fine che ancora non conoscevo.
L’omino
davanti ai miei occhi cambiò colore, passando ad un verde acceso, eppure finsi
non fosse successo nulla e rimasi con la schiena contro il semaforo, spostando
lentamente lo sguardo sull’ingresso della banca, cercando di trovare la
forza per muovere quei pochi passi che mi avrebbero portato da lui.
La
forza però non arrivò in tempo: scattò prima il rosso e non me ne dispiacqui,
accogliendo invece con un sorriso a fior di labbra il ricordo che mi travolse,
annullando la mia già sbiadita percezione della realtà per pochi minuti.
Posò la mano sul mio ginocchio, calmando
momentaneamente il tremore della gamba, trasmesso dal movimento incontrollato
ed incessante del piede.
Non lo guardai e con un gesto della mano
secco e frustato spostai con mal grazia le dita di Davide.
Il suo risolino mi giunse
all’orecchio riuscendo unicamente a far aumentare la mia irritazione.
Probabilmente se ne accorse perché con
un sospiro tornò a stringermi il ginocchio, con maggiore decisione, e
carezzandomi lentamente con il pollice, riuscì a far smettere il tremore.
Mi voltai verso di lui: mi squadrava con
un sorriso sotto i baffi, divertito da quella situazione, dal mio immotivato
nervosismo, dal fatto che fossimo fermi nella sua macchina, nel vialetto
d’ingresso di casa sua, da quasi mezz’ora... Strinsi gli occhi,
provando un improvviso moto di stizza per quel suo sorrisetto: avevo una voglia
matta di strapparglielo brutalmente io stessa da quella faccia d’angelo
che si ritrovava.
- Smettila-
Sussurrai appena, a denti stretti.
Il suo sorriso si allargò e io allora
chiusi gli occhi, reclinando la testa all’indietro, poggiandomi sfinita
al sedile riscaldato, preparandomi ad affrontare la sua risata. La risata che
adoravo ma che in quel momento proprio non mi andava di sentire. Eppure non
arrivò. Aspettai un paio di minuti, ma con mia grande sorpresa lui non rise.
Riaprii gli occhi e trovai i suoi fissi nei miei, ora non sorrideva più.
- Se avessi saputo che rischiavo di
farti venire un attacco di cuore, non ti avrei portata qui per…-
Lo aveva detto con voce dolce,
soffocando un misto di preoccupazione e risentimento che gli si leggeva in
faccia. Posai allora la mia mano sulla sua, bloccandogli il resto delle parole
in gola e scossi la testa.
- No, non mi sta venendo un attacco di
cuore, tranquillo. Ce la faccio. Dammi solo altri due secondi-
Con due dita mi prese il mento e
avvicinò il mio viso al suo. Ci misi un po’ a realizzare che stava
parlando, completamente intontita da quella vicinanza.
- Lari, voglio solo farti conoscere mio
fratello: non capisco il motivo della tua preoccupazione! E’ solo
Maurizio per Dio! Se già fosse stato mio padre avrei potuto capire, ma parliamo
di Maurizio! Che te ne importa?! Dov’è che sorge il problema?-
Rafforzai la stretta sul suo polso,
quasi spasmodicamente.
- E se non dovessi piacergli? Se gli
stessi antipatica? Cioè tu non hai idea di quel che si prova a non andare a
genio a quelli che sono cari alla persona con cui stai: tu piaci sempre a
tutti! E’ una cosa quasi rivoltante come nessuno, dico nessuno, mi abbia
mai detto: “il tuo ragazzo proprio non lo sopporto” … E se
Maurizio ti venisse a dire una cosa del genere? O la andasse a riferire a
qualcun altro? Semmai a tuo padre!-
Stavo per andare in iperventilazione:
avevo detto tutto senza fermarmi un attimo, senza respirare quasi, realizzando
appieno solo in quel momento cosa mi mettesse tutta quella paura addosso.
Furono le sue labbra a evitarmi una
crisi: quelle labbra che premette sulle mie, prima con fare rassicurante, poi
sempre più voglioso.
Quelle labbra che riuscirono
nell’ardua impresa di togliermi ogni preoccupazione.
- Me ne fregherei altamente-
Non capii subito, e lui se ne accorse:
mi sorrise ancora, indulgente e prima di scendere dall’auto mi spiegò:
- Se Muzi mi venisse a dire che non gli
piaci me ne fregherei altamente, e anzi potrei anche prenderla a male sai? Un
bel pugno sul naso non glielo toglierebbe nessuno a quel punto-
Scesi anch’io, sperando con tutto
il cuore che scherzasse sull’ultima parte, prima di iniziare a
rincorrerlo lungo il vialetto. Lo raggiunsi che aveva già aperto la porta ed
era quasi entrato, lo guardai stranita e lui soffocando ancora una volta una
risata mi fece segno di aspettarlo lì.
Accolsi con piacere l’idea di
rimanere ancora per un po’ sotto quell’immenso portico, senza
entrare in una casa la cui magnificenza avrebbe sortito come unico effetto
quello di farmi sentire ancora più a disagio.
Nel tentativo di non soccombere
nuovamente al nervosismo lasciai vagare lo sguardo, distogliendolo dalla porta
attraverso la quale Davide era sparito, facendolo scorrere al di sopra del
prato perfettamente curato, soffermandomi appena sulle miriadi di fiori e
indugiando invece sulla piscina, quella in cui ancora non avevo fatto un
bagno… fu in quel momento che sentii la porta aprirsi: girandomi mi
ritrovai di fronte a Davide, lo guardai con aspettativa e veloce mi avvicinai
di più a lui, stringendogli la mano:
- Allora? Tuo fratello? D. non lasciarmi
più sola in momenti come questi: altri pochi minuti e rischiavo di cedere alla
voglia di buttarmi in piscina!-
Non sentendo arrivare da lui alcuna
risposta né tanto meno un accenno di risa come suo solito, sollevai lo sguardo
per incontrare i suoi occhi, leggermente dilatati, come se fosse sorpreso.
Con un po’ di difficoltà realizzai
diverse cose assieme: prima di tutte che si comportava in modo strano,
osservandomi quasi con diffidenza, allontanandosi da me istintivamente non
appena mi ci ero avvicinata e ricambiando la mia stretta con una freddezza non
sua.
Continuai a squadrarlo senza capire, e
casualmente mi cadde l’occhio sul suo collo: indossava una cravatta!
Cosa? Davide e una cravatta?
- D. ma che hai fatto? Ti sei andato
anche a cambiare? E perché…-
Non riuscii a terminare la frase,
distratta dalla porta che si apriva di nuovo: rischiai seriamente di farmi male
a causa della meraviglia. Vidi uscire di casa infatti un’altra volta
Davide.
Per riflesso lasciai andare la mano che
stringevo nella mia ed iniziai ad arretrare, senza accorgermi dello scalino
alle mie spalle che mi fece perdere l’equilibrio facendomi trovare un
istante dopo distesa supina sul prato.
Continuavo a fissare sconvolta i ragazzi
davanti a me: dei due conoscevo solo il
secondo arrivato.
Quelle conclusioni mi colsero alla
sprovvista e troppo velocemente: il primo ad uscire di casa, quello a cui mi
ero buttata addosso, a cui avevo stretto convulsamente la mano, sempre lo
stesso che mi aveva fissata disorientato e che indossava una cravatta, era
Maurizio, il fratello di Davide.
Il fratello gemello di Davide.
Sbattei ripetutamente le palpebre come
per assicurarmi di essere sveglia.
Dopo la quarta volta mi trovai davanti
agli occhi una mano tesa. La afferrai ancora stordita e mi tirai su.
Fu la sua risata a farmi tornare
completamente in me: stava ridendo, quel
figlio di buona donna stava ridendo di me! Dopo aver rivolto una veloce
occhiata di ringraziamento al fratello che mi aveva aiutata, concentrai tutta
la mia attenzione su di lui: lui che era piegato in due dalle risate. Ridussi
gli occhi a due fessure, cercando di trasmettergli tutta la rabbia e il rancore
che provavo in quel momento:
- Tu! Che mi ridi? Diavolo, Davide, non
ti vergogni?!-
Smise di ridere progressivamente, e
asciugandosi una lacrima con l’indice della mano sinistra, provò a
stringermi la spalla con fare comprensivo. Io però mi ritrassi ancora del tutto
inviperita, coalizzandomi inconsciamente con il fratello che al mio fianco lo
squadrava biasimevole.
- No, piccola, non prendertela: non
volevo ridere! Io solo non mi aspettavo una reazione del genere!-
Mi avvicinai di qualche passo con
l’unico scopo di affibbiargli un dovuto ceffone sul braccio:
- E’ stata colpa tua! Potevi anche
dirmelo che eravate gemelli! Ma no: era un semplice e inutile particolare! In
fondo come ho fatto a non aspettarmelo? E’ così banale… gemelli!
Non so se te ne sei accorto, ma quando è uscito, credevo fossi tu! Mi hai fatto
fare una figura di…-
Mi interruppi vedendo che non mi
ascoltava più, troppo impegnato ad ammiccare con il fratello:
- Non le avevi detto che siamo gemelli?-
- Ma dai, non mi era nemmeno passato per
la testa che potesse non saperlo: dire che è notizia di dominio pubblico, non
rende l’idea!-
Continuarono così, con mezze risate,
frasi smozzicate, parole messe lì lì senza alcun
probabile senso. Capendosi in un modo incomprensibile agli altri: con un solo
gesto scoppiavano a ridere e con un pensiero non detto riuscivano a dare
l’idea di aver appena concluso un discorso in piena regola.
Mi passai una mano fra i capelli,
indecisa se schiarirmi la gola nel vano tentativo di attirare la loro
attenzione o continuare tranquillamente a farli divertire senza infierire.
Furono loro a togliermi
dall’impiccio: Davide mi si avvicinò in pochi passi, circondandomi i
fianchi con un braccio mentre Maurizio si sporse verso di me per stringermi la
mano:
- A questo punto credo che possiamo anche
saltare le presentazioni, ti va una cena?-
Annuii con un sorriso stampato in
faccia, seguendoli in auto senza riuscire a pensare ad altro che non fosse
quello che Davide mi aveva sussurrato all’orecchio:
… Gli piaci …
Mi
accorsi all’improvviso di avere pochi secondi per attraversare prima che
scattasse di nuovo il semaforo.
Attraversando
di corsa mi chiesi quanto tempo avessi passato ferma lì, quante volte fosse
scattato il rosso, e quindi il verde… ma in fin dei conti non mi
importava. Mi avvicinai all’entrata della banca, verso la porta girevole
che però anche dopo numerose spinte non si aprì.
Scrutai
confusa l’orologio: ero in ritardo di pochi minuti, perché non si apriva?
Mi
guardai intorno spaesata quando notai nel cubicolo lì vicino un omone che
sonnecchiava dietro il vetro. Bussai leggermente, cercando di attirare la sua
attenzione, ma non sembrava esserci modo di farlo: gli occhiali scesi sul naso,
le gambe allungate sulla scrivania, una rivista di enigmistica aperta sulle
ginocchia… strano che non russasse anche.
Fu
il fastidio ad avere la meglio su di me e ripresi a bussare sul vetro con
maggiore insistenza. A quel punto l’omone dormiente sembrò risvegliarsi e
con un aria a dir poco seccata si sistemò meglio gli occhiali per guardare chi
avesse osato disturbarlo.
-
Buongiorno. Chiedo scusa, ma non è che potrebbe aprire la porta? Ho un
appuntamento con il signor D’Amico. Un appuntamento di lavoro-
Mi
sentii in dovere di aggiungere l’ultima parte, come se altrimenti la
frase potesse avere un senso troppo ambiguo, o almeno suonava così alle mie
orecchie. L’uomo davanti a me chiuse l’enigmistica e con un sorriso
divertito scosse la testa:
-
Signorina, la banca a quest’ora è ancora chiusa: l’ingresso è
libero dalle nove in poi. Torni fra tre quarti d’ora-
Mi
prendeva in giro? Non aveva sentito cosa gli avevo detto?
-
No, guardi forse non ha capito: devo vedermi con il signor D’Amico-
-
L’ho sentita anche prima, signorina. Ma l’unico appuntamento che il
signore mi ha riferito è con un tecnico informatico che doveva essere qui nove
minuti fa. Lei invece mi ricorda solo una delle tante signorine che vengono qui con ben altri fini-
Lo
guardai furiosa: mi stava forse insultando? Oh sì, per quanto velati quelli
erano insulti. Ma come si permetteva? Io, una delle tante signorine?!
Brutto…
-
Guardi che io sono il tecnico che
aspettate. Mi scuso per il ritardo di ben nove minuti, ma ora sono qui, mi fate
entrare o preferite parli io con il signore?-
Lui
scoppiò a ridermi in faccia, per poi afferrare il telefono che aveva a portata
di mano: compose veloce un numero e ancora sghignazzando iniziò a parlare:
-
Gerardo? Non ci crederai: c’è qui una tipa che pur di entrare sta
dicendo…-
No,
ora era troppo. E insultarmi poteva anche andare, ma addirittura sfottermi con
i colleghi!
Presi
il cellulare con uno scatto nervoso e alla velocità della luce feci il numero,
non gli diedi nemmeno il tempo di rispondere: non appena sentii lo scatto di
risposta cominciai a parlare.
-
Maurizio sono io, non è che saresti così gentile da farmi entrare?-
Dall’altro
lato sentii un istante di esitazione seguito da un suono inarticolato, poi
sembrò tornare in sé:
-
Cosa? Io quasi credevo non venissi più! Sei qui fuori?-
Sbuffai
spazientita: ma che avevano tutti? Non potevano fare sul serio!
-
Dieci minuti! Neanche dieci minuti di ritardo! E sì, sono qui fuori! Mi faresti
un’enorme cortesia venendomi ad aprire la porta prima che uccida la iena
cicciona che avete come portiere!-
Mi
voltai appena per fulminare con lo sguardo l’uomo dietro il vetro che
ancora ridacchiava, osservandomi però allo stesso tempo con un misto di
curiosità e sorda comprensione; quindi mi avviai di nuovo verso la porta a
vetri, giusto in tempo per veder aprirsi un ascensore laterale da cui uscì di
corsa quello che era ancora al telefono con me.
Si
avvicinò rapidamente alla porta, per poi premere qualcosa che mi diede
finalmente la possibilità di entrare. Con un gesto esasperato mi chiusi la
porta alle spalle, godendomi l’aria decisamente più calda.
Annuii
riconoscente a Maurizio che mi stava davanti sorridente e che mi fece segno di
seguirlo.
-
Sì, grazie. Meriterebbe di essere
licenziato quel bel tipo, ma non sono così cattiva da suggerirtelo. Sappi
comunque che è un odioso maschilista-
Maurizio
che mi precedeva di pochi passi si voltò a squadrarmi con un sorrisetto mal
celato:
-
Nervosa? Ti va un caffè? O preferisci guardarmi mentre do dell’
“odioso maschilista” al portiere?-
Sorrisi
di rimando e mi passai una mano sul viso, cercando di non notare tutti gli
uffici provvisti di computer che stavamo superando. Con un sospiro lo
raggiunsi, affiancandolo, e mormorai:
-
No, a tutto, ma grazie lo stesso. Preferirei mettermi al lavoro: ho la vaga
impressione che ci vorrà un po’.-
Mi
poggiò una mano sulla spalla, con fare consolatorio, senza rendersi conto che
facendolo confermava solo i miei atroci sospetti. Continuai a studiarlo: non
era cambiato, sempre uguale, profumato, elegante, con una camicia bianca e la
giacca blu tenuta solo su una spalla. Una cosa però era diversa:
-
Niente cravatta, signor Direttore?-
Gli
chiesi, con finta aria innocente, ricordandogli garbatamente tutte le prese in
giro subite negli anni passati.
-
No, fino alle nove niente cappio al collo, nuova regola-
Mi
rispose sorridente, poi continuò con un tono falsamente più professionale:
-
Comunque per mezzogiorno dovresti riuscire a finire: a quel punto passi nel mio
ufficio per dare una controllatina anche al mio computer e sarai libera…
semmai pronta per pranzare-
Ignorai
l’ultima parte concentrandomi sul fatto che secondo i suoi calcoli mi ci
sarebbero volute circa quattro ore, ma che sicuramente aveva tralasciato cose
come interruzioni e complicazioni varie, tutt’altro che trascurabili.
Cercai lo stesso di non deprimermi troppo e dopo avergli rivolto un ultimo
sorriso tirato mi avviai verso il primo ufficio in fondo al corridoio.
Alla
fine i calcoli di Maurizio non si erano rivelati del tutto errati:
all’una meno un quarto ero fuori la porta del suo ufficio, con la schiena
contro il muro ed un caffè doppio in mano.
Un
caffè che ero decisa a finire prima di aprire quella porta.
Non
era stata tanto dura in fin dei conti: tutti molto gentili e disponibili,
alcuni anzi fin troppo; le segretarie per qualche assurdo motivo mi sembravano
tutte dalla mia parte, e a darmene conferma erano stati gli occhiolini ricevuti
senza un reale motivo.
Nonostante
questo cercai con tutte le forze di non provare neanche lontanamente a
spiegarmi il motivo di tale comportamento: ad aiutarmi nell’impresa poi,
intorno alle undici, era anche arrivato il portiere, trafelato e sudato, che
con occhi supplici ed espressione pentita mi aveva implorato di scusarlo, cosa
che non potei negargli quando mi offrì una delle sue ciambelle, anche solo per
il fatto che iniziavo ad avere un certo languorino. A parte il portiere però,
gli unici su cui mi applicai seriamente furono le decine di computer che
dovetti riformattare, finalizzare, programmare… bella fregatura mi aveva
rifilato Maurizio: un lavoretto da niente, sì come no.
Mai
credere al fratello del diavolo, ormai avrei dovuto saperlo.
Capii
di dovermi necessariamente fare coraggio ed aprire quella porta quando mi
accorsi di star inclinando verso le labbra un bicchiere ormai vuoto già da un
bel po’.
Con
un gesto che doveva essere deciso così entrai nell’ultimo ufficio, il più
difficile e soprattutto pericoloso.
Era
un bell’ufficio, bellissimo anzi: il più grande di tutti quelli che avevo
visto. Con il parquet, scrivania in cedro, vista sul parco, poltrone e divano:
l’ufficio del direttore in conclusione.
Direttore
appisolato sul divano per precisare. Mi avvicinai, e con un semplice gesto
delicato gli allentai il nodo della cravatta, quindi presi posto sulla poltrona
più prossima. Lui si rigirò sul fianco, e quasi rischiò di cadere, ma
all’ultimo momento poggiò prontamente un piede sul pavimento, riuscendo
così ad equilibrarsi.
-
Mi avresti lasciato cadere?-
Mormorò
con voce impastata, riuscendo a strapparmi un sorriso velato dalla stanchezza.
-
Era un’idea: dicono che la risata faccia bene e ho proprio bisogno di
riprendermi-
Risposi
io, concludendo il tutto con un sonoro sbadiglio. Maurizio non aveva ancora
aperto gli occhi, e dandosi una spinta con il piede tornò a sistemarsi sul
divano, piegando le braccia dietro la testa a mo’ di cuscino.
-
Sì, hai ragione. Se vuoi c’entriamo in due qua: ti faccio spazio e ci
concediamo un bel sonnellino ristoratore-
Scossi
la testa, e lui dovette intuire il mio diniego perché poco dopo aggiunse:
-
Il computer va bene, manca solo un reset all’hard disk perché…-
Il
resto delle frase fu coperto da un rumore sordo appena fuori la porta, non fu
un problema però: avevo sentito abbastanza. Mi misi al lavoro, lanciando di
tanto in tanto una fugace occhiata ad un Maurizio ormai quasi incosciente sul divano.
Iniziai
a chiedermi se non fosse il caso di concludere la faccenda, una volta per tutte
e come si deve.
Avrei
fatto io la prima mossa, ero la più lucida in quel momento in fondo. Mi
inginocchiai sotto la scrivania per poter raggiungere più facilmente le prese e
gli attacchi usb che mi servivano.
Senza
sollevare lo sguardo dalle mie dita mi decisi a parlare:
-
Maurizio…. Senti, sappiamo bene entrambi che non mi hai convocato qui
solo per resettarti il computer, eppure nonostante ci stia pensando su da un
po’ non trovo un’altra plausibile spiegazione per il tuo gesto. Non
è che ti andrebbe di illuminarmi a proposito?-
Biascicò
qualcosa che non riuscii ad afferrare, le sue parole successive però mi
giunsero chiarissime:
-
Ma niente, ora non serve più… volevo solo chiederti di baciarmi-
Lasciai
andare di colpo l’aggeggio che avevo preso in mano per sollevarlo sulla
scrivania.
Mi
cadde di mano schiantandosi sul pavimento con un forte rumore che sembrò
ripercuotersi nell’aria.
La
mia mente era però bloccata sull’ultima cosa detta da Maurizio: una cosa
completamente assurda, che non riuscivo a spiegarmi nonostante non
l’avessi ancora appieno realizzata.
Alzai
gli occhi su di lui.
Lui
che mi fissava sconvolto, in parte a causa del rumore improvviso che lo aveva
fatto scattare a sedere e in parte a causa delle parole da lui stesso
pronunciate.
Parole
che certo avevano avuto il loro effetto, su di lui quanto su di me, ma che non
eguagliarono minimamente la potenza catastrofica di quelle che giunsero poco dopo:
quelle che arrivarono da una terza persona appena entrata, che aveva aperto la
porta inquieta, spaventata forse dal rumore, e che aveva chiesto:
-
Maurizio?! Che succede? Stai be…-
Non
aveva concluso la frase.
Ma
non perché fosse sconvolta dalle sue parole, solo perché non si aspettava di
vedere quello che vide.
Così
come io non mi aspettavo di sentire quella voce.
La
voce che però avevo sentito e che ora meno che mai avrei potuto affermare di
non essere in grado di riconoscere ovunque, in qualsiasi momento.
La
voce che mi fece desiderare di perdere coscienza, per poter uscire da quella
situazione in cui non mi andava assolutamente di essere.
Lo
svenimento però non giunse, lasciandomi lì, cosciente, in quella stanza, con
quella voce.
*