*
Non ho mai amato
gli ospedali.
Certo nemmeno li
avevo mai davvero odiati, non fino a quel momento.
Mentre percorrevo
i corridoi asettici, scarsamente illuminati, pregni del tipico odore di
malattia e disinfettante, tutti le mie più brutali imprecazioni erano proprio
per l’edificio in sé. Non era un modo di comportarsi sensato.
Però ero
terribilmente in ansia: inquieto e agitato come non credevo sarei mai stato.
Avevo perciò
bisogno di una sottospecie di capro espiatorio: qualunque cosa mi permettesse
di non pensare neanche lontanamente alla persona da cui stavo correndo. Il
primo a subire le conseguenze della mia ricerca era stato il giovanotto di
guardia al cancello: mi aveva guardato per qualche minuto, tentennando
nell’atto di aprirmi il cancello. Immagino abbia poi intuito quanto
vicino a morte prematura si fosse trovato.
Mi resi conto di
essere arrivato nella zona del pronto soccorso solo a pochi passi dalla porta
scorrevole: la sorpassai velocemente e mi avvicinai al banco informazioni,
pronto a chiedere alla prima infermiera di passaggio. Dopo pochi attimi iniziai
però a fremere di impazienza e mi incamminai lungo un corridoio a caso:
sembravano tutti identici, lunghi, grigi e traboccanti di porte bianche.
Non avevo la più
pallida idea di dove mi dovessi dirigere: stavo per cedere ad un crollo nervoso
ma fui salvato all’ultimo momento da un frastuono improvviso. Prestai
maggiore attenzione, colpito da alcune delle voci che si sovrapponevano ed
accavallavano creando un’assordante cacofonia: iniziai a muovermi
lentamente verso quella baraonda e svoltato due volte a sinistra, in fondo
all’ennesimo corridoio grigio, li vidi tutti e tre.
Stringendo gli
occhi quasi mi misi a correre per raggiungere il gruppo assordante: se ne
stavano in cerchio, accalcati attorno ad un uomo in camice bianco, gridandogli
contro delle cose che non riuscii a capire subito.
Veronica e Mirko
erano i più arrabbiati: urlavano come degli ossessi e non sembravano
minimamente intenzionati a smettere. Ray invece, con una mano stretta in quella
della ragazza e l’altra poggiata sulla spalla del nipote, cercava
inutilmente di calmare i bollenti spiriti.
Si rese conto di
quanto l’impresa intrapresa fosse impossibile a realizzarsi quando anche
il camice bianco si lasciò andare in uno sfogo liberatorio, sbattendo il
fascicolo che reggeva su un bancone lì affianco.
Fu in quel momento
che Ray si voltò, accorgendosi del mio arrivo: lo vidi sospirare e rilassare le
spalle prima contratte per via della tensione. Mi rivolse un’occhiata
grata, incitandomi ad affrettarmi.
- E’
arrivato-
Era quasi surreale
il silenzio che calò improvvisamente: si girarono tutti verso di me,
lanciandomi fugaci sorrisi.
Veronica e Ray si
allontanarono di qualche passo, andando a sedersi sulle sedie poco distanti.
Mirko invece mi si avvicinò con aria minacciosa afferrandomi brutalmente
l’avambraccio e trascinandomi verso il dottore che sconcertato osservava
la scena. Non ebbi modo di oppormi né tantomeno ero intenzionato a tirarmi
indietro. Fissai l’uomo di fronte a me: non molto alto, a mala pena un
metro e sessanta forse, calvo e con due corti baffetti neri a colorare il viso
mortalmente pallido. Indossava un camice bianco troppo grande per lui: sembrava
quasi avesse sbagliato misura e ne indossasse uno di due taglie maggiore.
Quando mi vide
strinse gli occhietti neri, fissandomi diffidente. Io non feci niente per
tentare di piacergli: non sorrisi né gli rivolsi alcuna occhiata rassicurante.
Non ero nelle condizioni per pensare anche ad altri.
- Costringilo a
farci entrare-
Guardai Mirko con
la coda dell’occhio ma lui non se ne accorse: era furioso, con i
lineamenti del viso tesi e irati. Scrutava il medico con l’aria di uno
che non ci avrebbe pensato su due volte prima di saltargli alla gola: ricordava
me con la guardia all’entrata. Non era il modo migliore di comportarsi
però: uccidendo il dottore non credo avremmo risolto molto, così dopo essermi
liberato il braccio dalla sua presa, lo tirai alle mie spalle, costringendolo a
rimanersene fermo.
- Ilaria?-
L’uomo di
fronte a me fece per rispondere ma lo zittii con una mano: non era a lui che mi
stavo rivolgendo. Ray, seduto alle spalle dell’uomo, si passò una mano
sul viso prima di rispondere con voce atona:
- Il taxi ha avuto
un incidente: colpa di un motorino o qualcosa del genere. Ci ha chiamati la
polizia dicendo di venire all’ospedale e siamo qua già da più di
mezz’ora ma non sappiamo niente. Il dottor Misepoli qui insiste a non
voler parlare e si ostina a non volerci far entrare-
- Perché?-
Sollevai le
sopracciglia irritato, non ottenendo risposta e gli occhietti neri si
spalancarono dalla sorpresa:
- Oh, ce
l’ha con me! Senta: ho provato a spiegarlo anche ai suoi amici ma…-
- Non è vero!-
Voltai la testa lo
stretto necessario per guardare Mirko che furioso aveva ripreso ad urlare:
- L’unica
cosa che si è degnato di dirci è che non è grave! Ma che cazzo se è vero perché
non ce la fa vedere?! Non è grave! Non mi sta a significare niente se non la
vedo! E…-
Ormai mi ero
girato del tutto, dando le spalle al medico palla da biliardo e fronteggiando
un Mirko fuori di sé: gli posai le mani sulle spalle, stringendole con fare
rassicurante. Non sapevo cosa dirgli, come calmarlo: Ray mi aveva guardato con
aria sconfortata, spiegandomi silenziosamente che lui ci aveva già provato a
fargli dare una regolata ma non era servito a niente. In fondo non era un
comportamento assurdo il suo: era quello di un fratello spaventato a morte cui
non era stato permesso di vedere la sorella in ospedale e il medico sembrava
essersene reso conto. Non aveva ancora visto il peggio avrei voluto
dirgli… aspetti di vedere quello di chi è innamorato della sorella e poi
decida qual è il male peggiore.
La porta
dell’ascensore si aprì in quel momento e ne uscirono tre ragazzi. Fu
quasi incoscientemente che feci voltare Mirko spingendolo in direzione di
Andrea: ecco, avevo fatto qualcosa, se buttarlo nelle braccia di chi
sicuramente lo avrebbe saputo rassicurare meglio di me era classificabile in quanto
tale.
Subito dopo tornai
a rivolgermi al dottore che senza emettere alcun suono se ne stava immobile di
fronte a me:
- Mi ascolti bene:
deve farmi vedere immediatamente Ilaria. Non voglio sentirle dire altro, sono
stato chiaro?-
L’uomo annuì
stancamente prima di rispondermi a voce bassa, come se temesse di essere
sentito dagli altri e la sua più grande paura in quel momento fosse che a tutti
quei ragazzi venisse l’idea di malmenarlo.
- Come ho già
provato a spiegare al suo amico, non è che non voglia ma non posso! La
signorina è stata portata qui da poco, stiamo ancora facendo tutti gli
accertamenti e delle visite potrebbero solo…-
Scossi la testa a
quelle repliche: non mi interessava niente. Mi passai una mano fra i capelli,
scostandoli dalla fronte con un gesto irritato: forse non mi ero spiegato bene.
Feci qualche passo in direzione dell’uomo:
- Dottor…
Misepoli. Credevo di essermi spiegato-
Lui arretrò
istintivamente e un ghigno mi increspò le labbra: non pensavo di poter fare
tanta paura.
Abbassai
anch’io la voce ma nonostante ciò sembrò rimbombare nel corridoio: gli
unici altri rumori erano solo bisbigli, frasi sussurrate dagli altri che il
dottore sapeva benissimo non erano dalla sua parte.
- Deve farmi
vedere Ilaria-
Lo avevo detto
lentamente, calcando su ogni parola, così da assicurarmi che gli giungessero
chiare.
Lui mi fissò in
viso ancora per un minuto, come studiando la situazione, poi sospirò affranto e
sconfitto:
- Va bene. Ma solo
lei. Non accetterò certo tutti quanti siete! E deve promettermi che non rimarrà
molto: l’accompagno io ora ma giusto cinque minuti poi deve andarsene-
Gli feci cenno con
la testa di incamminarsi. Non promisi niente e se anche Misepoli se ne accorse,
non si azzardò a tornare sull’argomento: nulla mi avrebbe convinto ad
andarmene, solo Ilaria avrebbe potuto persuadermi a lasciarla sola ma anche su
quello non avrei messo la mano sul fuoco.
Seguii il lungo
camice bianco senza guardare gli altri: era come se avessi paura di vedere le
loro espressioni preoccupate, a quel punto infatti non sarei più stato sicuro
di riuscire a mantenere il controllo sulle mie emozioni. Se fino a quel momento
in qualche modo ero riuscito a canalizzare la paura, non sapevo per quanto
ancora vi sarei riuscito.
E se il dottore
avesse mentito? Se in realtà fosse stato qualcosa di grave?
Un trauma cranico
o cose simili…
No, non potevo
nemmeno pensarci! Stavo seriamente rischiando un esaurimento nervoso…
Misepoli dovette
accorgersene perché mentre percorrevamo corridoi ai miei occhi completamente
indefiniti, parlò, con voce calma che doveva essere rassicurante.
- Davvero non è
grave, non si preoccupi tanto. Dai primi accertamenti abbiamo riscontrato un
paio di costole incrinate ed una frattura al polso, per il resto solo
contusioni lievi-
Strinsi gli occhi
mentre parlava: e per lui due costole incrinate e un polso fratturato non erano
niente?!
- Non sono cose di
cui si può morire, signor D’Amico-
Ignorai il fatto
che conoscesse il mio nome, così come che gli avrei volentieri assestato un bel
destro in faccia.
- E non c’è
nessuna possibilità di traumi o…-
Non conclusi la
domanda e probabilmente il dottore ne fu contento, perché quando mi lanciai di
corsa verso il letto in cui stava Ilaria non disse nulla, limitandosi a
seguirmi lentamente.
Non si era accorta
di me: concentrata sull’infermiere che delicatamente le puliva un taglio
sulla fronte, distraendola con chiacchiere di cui ben presto si sarebbero
dimenticati entrambi. Lanciai di sfuggita uno sguardo al giovane in camice
celeste, poi tornai a concentrarmi unicamente su di lei.
Era pallida,
spaventata. Teneva il braccio destro immobile, fasciato dal polso fino a metà
avambraccio, posato delicatamente sul lenzuolo sotto di lei: si sotto, era
semisdraiata sul letto ma a quanto pareva non aveva voluto mettersi sotto le
coperte… sorrisi fra me e me, rallentando il passo: alla fine ci si era
ritrovata in ospedale e comunque aveva mantenuto la parola.
“Ti giuro,
se pure un giorno ci dovessi finire, non accetterò mai di indossare quegli
orrendi camici né di farmi trattare come un malato terminale o paralitico
quando non lo sono!”
Lei sì che odiava
gli ospedali.
Non sopportava
niente di quegli ambienti impregnati di dolore. Non le piaceva l’odore né
l’aria mesta e pesante che vi si respirava. Ma più di tutto non le
piacevano le cure e io sapevo il perché.
- Lari…-
Fissò lo sguardo
nel mio, sorpresa: spalancando ancor di più gli occhi già dilatati. Ero ormai a
meno di un passo da lei e quasi crollai sul pavimento, trovando invece nel
letto un aiuto inaspettato: mi ci aggrappai con tutte le mie forze, resistendo
all’impulso di fiondarmi ad abbracciarla, semplicemente per la paura di
farle male.
- Davide, cosa ci
fai qui? Stai bene?-
Mi salì in gola
una risatina nervosa, quasi incredula: lei si preoccupava della mia
salute?
Stavamo
decisamente sconfinando nel paradossale.
Non mi diedi la
pena di risponderle, continuando a studiare ansioso quel viso di cui non avrei
saputo fare a meno: c’era tensione, molta, e sperai non stesse soffrendo
troppo perché non credo avrei saputo sopportarlo.
Le labbra le
tremavano leggermente e aveva un piccolo taglio sul labbro inferiore da cui
usciva una minuscola goccia di sangue. La fissai per un po’ e poi tornai
a cercare i suoi occhi, trovandoli umidi e sofferenti: sentii una stretta al
cuore mentre capivo di non poter semplicemente rimanere lì in piedi. Non ne
sarei stato capace.
- Non sai cosa mi
hai fatto passare, piccola-
Lei sorrise, poco,
inarcando giusto un attimo le labbra e scuotendo la testa:
- Non dovevi preoccuparti…
e nemmeno correre qui! Chi ti ha chiamato?-
- Mirko. Ha
chiamato Andrea e ha fatto bene: credo che se avesse chiamato me, avrei
rischiato di avere un infarto-
Parlando avevo
lanciato una veloce occhiata in giro per la stanza: era grande, con sei letti,
immersa nella penombra. L’infermiere di poco prima sembrava scomparso e
il dottor Misepoli era occupato con l’unico altro paziente nella camera:
nel letto più lontano, un anziano signore con il viso completamente ricoperto
da capelli e barba bianchi. Felice di quella relativa tranquillità mi sporsi
vicino al letto vicino, tirando con me una sedia pieghevole: la posizionai
accanto a Lari, in modo da poterle stare vicinissimo.
- Non farmi più
una cosa del genere-
Lo avevo solo
sussurrato, portandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio e
guardandola negli occhi.
Non era una frase
sensata: lei non lo aveva mica fatto apposta eppure capì il senso delle mie
parole, sorridendomi, questa volta per davvero. Ricambiai il sorriso, contento
che un po’ di colore tornasse sul suo viso e quando notai che la
gocciolina di sangue si era ingrandita sul suo labbro, avvicinai il mio viso al
suo involontariamente. Stavo pensando a quante volte avevo passato la mia
lingua sulle sue labbra e a come in quel momento stessi morendo dalla voglia di
farlo ancora: in fondo la saliva ha poteri lenitivi, no?
Non potevo farlo
però e mi fermai giusto in tempo, grazie ad un controllo ed una forza di
volontà che non sapevo di possedere: semplicemente allungai piano il pollice,
passandolo gentilmente sul suo labbro e togliendone il sangue con più
delicatezza possibile.
La sentii
rabbrividire a quel contatto e sorrisi ancora, divertito, illudendomi che il
freddo non c’entrasse niente.
- Com’è
allora stare in ospedale?-
Lari sbuffò, guardandomi
di traverso: non avrebbe risposto e lo sapevo, non ne ebbe però lo stesso il
tempo.
Il dottor Misepoli
in quel momento si avvicinò a noi, guardandoci con un’espressione
indecifrabile, poi si rivolse a Ilaria senza chiedermi di andarmene, cosa di cui
gli fui infinitamente grato.
Che si fosse reso
conto che non sarebbe comunque servito a niente?
- Come si sente?-
Lari annuì
impercettibilmente prima di rispondere:
- Bene!-
Forse vide la mia
espressione irritata con la coda dell’occhio, perché dopo qualche secondo
di silenzio continuò, con voce più bassa, quasi indecisa:
- Solo il braccio:
è che… il polso…-
Misepoli annuì con
aria greve, spiegando poi per tranquillizzarla:
- E’
normale: essendo solo fasciato anche il più piccolo dei movimenti è doloroso ma
fino a domattina non possiamo ingessarlo. Cosa sente di preciso? Per capire se
c’è bisogno di intervenire già in qualche modo-
Lari guardò prima
me, come se si vergognasse di star soffrendo e doverlo dire apertamente, allora
io mossi la mano verso la sua, fermandola a pochi millimetri così che sentisse
il mio appoggio. Lei prese un bel respiro e fingendo che non ci fossi parlò al
dottore:
- Prima era
peggio: come se un tir ci fosse passato sopra spappolando tutte le ossa, ora
invece è un dolore sordo, forte, pulsante… e come ha detto lei, al più
piccolo movimento sento una fitta enorme che attraversa tutto il braccio, fino
alla spalla-
Fu una fortuna che
Lari non mi guardasse più: non ebbi bisogno di celare le mie reazioni.
Per prima cosa,
sentendo quanto stesse soffrendo sbarrai gli occhi, preso completamente alla
sprovvista, poi cominciai a fissare Misepoli, lanciandogli occhiate di fuoco:
come se fosse possibile dare a lui la colpa di tutto.
Perché non
potevano ingessarglielo ora? E che diavolo almeno facessero qualcosa perché non
stesse tanto male!
Il dottore o non
si accorse della mia rabbia immotivata o non diede minimamente a vederlo. Dopo
qualche attimo di riflessione si decise, dicendo con voce sicura:
- Sa che le dico?
Una bella dose di antidolorifico non potrà farle che bene-
Mi rilassai un
poco sentendoglielo dire, almeno si era convinto ad intervenire! Guardai Lari,
credendo di vedere anche lei sollevata ma mi sbagliavo: notai nei suoi occhi un
lampo di paura che non riuscii a spiegarmi.
Cosa?
- D.!-
Non ero nemmeno
sicuro che lo avesse detto: forse lo avevo solo letto nel movimento delle sue
labbra, la cosa importante era però che mi aveva chiamato e qualcosa la stava
spaventando. Stavo per entrare in crisi, non capendo il perché della sua
reazione quando mi accorsi dei movimenti del dottore: si rigirava fra le mani
una siringa, guardandone la capienza nel raggio di luce di una lampada.
Sgranai gli occhi,
avvicinandomi di scatto a Lari il più possibile e prendendole la mano sinistra
nella mia: la strinsi il più possibile, cercando di passare un po’ di
calore e conforto. Lei però continuava a non guardarmi.
Come avevo fatto a
non pensarci?
Il terrore degli
aghi era una delle poche fobie della mia piccola.
Erano uno dei
motivi per cui odiava tanto gli ospedali: sapeva che era una paura infondata,
se ne rendeva perfettamente conto e per questo non lo raccontava quasi a
nessuno eppure non appena ne vedeva uno andava in tilt.
C’era stato
un periodo, in cui Andrea era venuto a conoscenza di questa paura, che non
dimenticherò mai: ogni volta che gliene capitava l’occasione, con Ilaria
presente, Andrea si divertiva ad infilarsi un ago sotto la pelle del
pollice. Era indolore ed al tempo stesso raccapricciante. Ilaria tentava sempre
di non guardarlo ma lui tanto faceva che alla fine mi ritrovavo sempre ad
entrare in una stanza con lui piegato in due dalle risate e lei pallida e
spaurita. La situazione stava degenerando e mi ero deciso ad intervenire
drasticamente quando non ce ne fu più bisogno: Andrea smise improvvisamente,
non seppi come mai, cosa Ilaria avesse fatto. E non riuscii nemmeno a farmelo
dire: forse lei aveva scoperto una qualche paura di lui o chissà cosa gli aveva
fatto, l’unica cosa certa fu che non vidi più Andrea con un ago in mano
se c’era Lari al suo fianco.
Mossi il pollice
su e giù per il suo palmo ma non riuscii ad attirare la sua attenzione: quando
sentii un piccolo brivido attraversarle il corpo capii che era necessario
distrarla.
- Ehy, ehy!
Piccola! Guarda me! Su, guarda me…-
Se avevo iniziato
con voce squillante e imperiosa, verso la fine mi ero ritrovato a bisbigliarlo
quasi al suo orecchio, con tono dolce e pregante. Il dottore dovette intuire
qualcosa perché mentre riempiva la siringa si girò, dandoci le spalle. Lari a
quel punto riuscì a guardarmi e io le regalai un sorriso enorme, prima di
cominciare a parlare con voce calma e rilassante:
- Vuoi sapere
l’ultima novità?-
Lei non sembrava
davvero interessata, eppure annuì, capendo le mie intenzioni:
- Sai niente di
una nuova coppia fra le nostre schiere?-
Lari sollevò le
sopracciglia con fare interrogativo e io sorrisi, felice di star riuscendo ad
attirare la sua attenzione. Lei poi si accigliò bruscamente, forse
fraintendendomi e con voce solo un po’ tremante rispose:
- Davide scherzi?
C’ero anch’io con te quando abbiamo visto Mirko e Andrea, lo sai?-
Ridacchiai
sommessamente a quella sua uscita: che credeva che lo shock era stato tale da
farmi dimenticare che li avevamo scoperti assieme? Scossi piano la testa,
riprendendo subito il discorso non appena mi accorsi che Misepoli le stava
sfregando il braccio con dell’alcool: anche lei se ne era accorta e
sentii la sua mano stringere più forte la mia, cercando di trarne coraggio.
- Non parlo di
loro. Nemmeno io me ne ero reso conto: è stato Maurizio a lasciarselo sfuggire.
Lo vuoi sapere?-
- Certo che sì-
Era confusa, ma
non era questo che mi importava: ora l’unica cosa fondamentale era che
fosse concentrata sulle mie parole al punto da non pensare più all’ago della
siringa che le stava per entrare nel braccio.
- Scommetto che
nemmeno tu lo avevi notato…-
Si innervosì a
quel punto, conficcandomi di proposito le unghie nel palmo, io però non ci feci
caso e aspettai ancora qualche secondo prima di riprendere il discorso:
- Veronica e tuo
zio-
Era stata una
carognata: avevo calcato appositamente sull’appellativo zio invece di
chiamarlo semplicemente Ray, fui felice perciò di vedere subito dopo il viso di
Ilaria scomporsi per la sorpresa.
Non pensava più
all’ago, ne ero sicuro.
Vidi di sfuggita
anche il dottore sorridere, divertito da quel mio giochetto. Ilaria continuò a
fissarmi per un po’ cercando di capire se stessi scherzando e non
trovando nel mio viso alcun accenno di bluff poi sbiancò di colpo.
Mi avvicinai, non
aspettandomi quella reazione e lei in risposta cercò di allentare la presa
sulla mia mano, io non glielo permisi: almeno non finché Misepoli non avesse
finito con quella dannata siringa.
- Mi prendi in
giro? Non è possibile!-
Tornai a respirare
normalmente mentre lei si accalorava per l’indignazione e proseguiva
infervorata:
- Hanno più di
dieci anni di differenza!-
- Non conta
l’età quando c’è l’amore, Lari-
Lei mi rivolse uno
sguardo sprezzante per quella frase da Bacio perugina e ribattè:
- E secondo te il
loro è amore?! Ma per cortesia! Io non…-
A bloccarla fu la
voce del dottore: togliendosi il guanto di lattice con uno schiocco deciso
annunciò sorridente:
- Ecco fatto!-
Lari spostò lo
sguardo su di lui, meravigliata:
- Di già?-
Misepoli annuì, per
poi continuare con tono professionale, di chi ha già detto le stesse cose tante
volte:
- Con questa dose
dovrebbe alleviarsi il dolore. L’effetto comincerà a sentirsi fra al
massimo venti minuti. Per il resto cerchi di tenere il polso fermo, anche ora,
nel caso si addormenti ci sarebbe bisogno di…-
Guardò me, quasi
aspettandosi una conferma per quello che avrebbe proposto:
- E se lo
legassimo con la fasciatura stessa al…-
Lo interruppi
prima che avesse modo di concludere: non mi piaceva come idea e poi non ce
n’era bisogno.
- Non serve-
Dissi solo quello,
alzandomi e accennando a sedermi affianco ad Ilaria.
Sia lei che il
dottore mi rivolsero un’occhiata sconvolta: fu lei a prendere la parola,
bisbigliando seria.
- Cosa credi di
fare?-
In risposta la spostai
delicatamente più a destra, prendendo agilmente posto accanto a lei e
sdraiandomi con un sospiro soddisfatto. Le passai un braccio dietro la schiena
e con estrema attenzione sollevai il suo braccio destro poggiandolo piano sul
mio petto.
- Così siamo più
sicuri: sto attento io, non si preoccupi dottore-
Misepoli era senza
parole ed Ilaria mi fissava sconcertata: ero sicuro che se fosse stata una
qualunque altra situazione mi avrebbe già buttato a calci giù dal letto. Non
era così adesso però.
- Fingerò di non
aver visto niente-
Lanciai
un’ultima occhiata al dottore che, ridendo sommessamente e passandosi una
mano sulla pelata si stava allontanando velocemente, poi tornai a concentrarmi
su Lari vicino a me:
- Ti do fastidio?-
Lo avevo chiesto per
cortesia, non accettando di ammettere nemmeno con me stesso che una risposta
affermativa mi avrebbe distrutto: io non ero mai stato meglio.
Lari però non
rispose, limitandosi ad avvicinarsi di qualche millimetro e poggiare la testa
sulla mia spalla.
Avevo una voglia
incredibile di fare cose come abbracciarla, o accarezzarle i capelli, ma sapevo
di non essere nella condizione adatta a fare nessuna di quelle.
- D.?-
Tornai subito
sull’attenti sentendomi chiamare e feci per dire qualcosa ma lei fu più
veloce di me:
- Parleresti
ancora un po’ con me mentre non fa effetto la medicina?-
Lo aveva chiesto
con una voce talmente dolce che temevo mi si sarebbe sciolto il cuore.
Strinsi il braccio
attorno a lei e senza aspettare un momento di più ripresi a chiacchierare,
incurante del fatto che ci trovassimo in ospedale, alle tre di mattina e che un
anziano signore, dall’altro lato della stanza, ci osservasse in silenzio
con un sorriso malinconico dipinto sul volto.
*
Non
credo di aver mai scritto un capitolo tanto lungo =)
Ringrazio
subito tutti quelli che sono riusciti a leggere tutto, fino a qui, senza
addormentarsi sulla tastiera o chiudere la pagina con un gesto isterico e
orripilato ^^
Forse
fa schifo, devo dirvi però che mi sono divertita a scriverlo **
Naturalmente
attendo con ansia commenti vari, sperando che ce ne saranno: ci tengo a sapere
se la storia inizia ad essere pesante e noiosa.
Nel
caso cercherò di chiuderla al più presto così da smettere di infastidirvi
inutilmente ^^
Alla
prossima!