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Autore: A_Dark_Fenner    19/04/2010    2 recensioni
Quattro luglio 2009. Oggi è il compleanno di America, come tutti sanno. E lui adora il suo compleanno. Ma è davvero soddisfatto delle cose così come stanno? Forse non sarà il SOLITO compleanno.[terza classificata al contest "Multifandom:Birthday contest" indetto da Himechan84 sul forum di EFP]
Genere: Comico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nick Autrice: A_DaRk_FeNnEr
Titolo: Not A Usual Birthday
Fandom: Axis Powers-Hetalia
Genere: Introspettivo, sentimentale, comico.
Protagonisti: America (Alfred F. Jones), Inghilterra (Arthur Kirkland), breve apparizione di altri stati.
Rating: giallo
Pairing: UsUk (AmericaxInghilterra)
Avvertimenti: shonen-ai, long-fic (two-shot+ epilogo/omake)
Note dell'autrice:In fondo alla storia (non voglio fare spoiler XD)
Trama: Quattro luglio 2009. Oggi è il compleanno di America, come tutti sanno. E lui adora il suo compleanno. Ma è davvero soddisfatto delle cose così come stanno? Forse non sarà il solito compleanno.

[Terza classificata al contest "Multifandom: Birthday's contest" indetto da Himechan84 sul forum di EFP]








Not A Usual Birthday



Capitolo I: “Speech and memories”




“Good Morning, America!”

Ridacchiò contro il cuscino. Era tentato di rispondere, come se quel saluto fosse effettivamente rivolto a lui.

“The Independence’s sun is shining up there, so get out of that freakin’ beds!”

Allora, una mano emerse dal caos appallottolato delle lenzuola a stelle e strisce. Invece di spegnere la sveglia con un colpo secco e qualche borbottio, come avrebbe fatto in qualunque altro giorno dell’anno, il proprietario di suddetta mano portò le dita alla rotellina che regolava il volume, alzandolo al massimo.

“HAPPY BIRTHDAY, AMERICA!”

Sorrise e, stavolta, non seppe trattenersi.
“Thank you.” Rispose, prima di spegnere la sveglia.

***

America stringeva tra le mani la gigantesca tazza di caffè esageratamente zuccherato e ne beveva il contenuto, deglutendo rumorosamente. Una vocina nella sua testa, con un accento sospettosamente britannico, gli stava ricordando che “quell’orrenda mistura di caffeina, panna e zucchero che  hai il coraggio di chiamare caffè” non gli avrebbe fatto per niente bene, ma America optò per l’ignorare anzidetta voce, e procedette nella sua occupazione; voleva essere al massimo della sua forma e sicuramente quella bevanda sarebbe servita allo scopo. In più, era dannatamente buona.
Quando vi diresse lo sguardo, il braccio muscoloso di Superman sull’orologio appeso in salotto lo informò che era quasi in ritardo. Normalmente, la sua cognizione di tempo era molto elastica; uno, due, o venti minuti di ritardo non potevano poi essere un grande problema.
Ma il quattro di luglio, all’improvviso, diventava l’uomo più puntuale del mondo: alla festa non poteva mancare il festeggiato, no?
Anche se quell’anno la tradizionale, enorme festa con le altre Nazioni non ci sarebbe stata.
Il suo boss aveva progetti più importanti ed urgenti sui quali puntare.     
Il presidente aveva fatto notare alla Nazione che una festa non avrebbe mandato in bancarotta le finanze dello stato, ma America aveva fermamente insistito.
Non voleva pesare sulla sua gente, non quest’anno.
Poteva ancora scorgere sul suo stesso corpo i segni della recessione: i vestiti gli cadevano troppo larghi sulle spalle e la pelle era innaturalmente pallida per l’anemia. Sapeva sin troppo bene che la sua gente aveva sofferto anche di peggio.
Poteva sentirlo.
Per una volta, allora, aveva messo da parte il suo egocentrismo e le sue onnipresenti manie di protagonismo e aveva rinunciato a qualcosa, per il bene della sua gente.
Dopotutto, pensò ispirato, lui era l’eroe, ed un eroe si vedeva nel momento del sacrificio e della responsabilità.
Di nuovo la vocina di prima borbottò qualcosa che suonava come Bloody hell…Se tu sei diventato una persona responsabile, allora posso capire perché tutti siano so bloody concerned  riguardo una probabile prossima fine del mondo.”.
Per un momento, uno solo, America si chiese perché mai apparentemente la sua coscienza quel giorno avesse adottato la voce, l’accento ed il tic verbale di Inghilterra; poi decise semplicemente di ignorarla, come dopotutto faceva spesso anche con la Nazione proprietaria di quella voce.
Infilò in bocca un’ enorme ciambella grondante di panna ed uscì dalla cucina come un ciclone, seminando pezzi di dolce ovunque.
Corse in camera, avventandosi sul suo armadio a quattro ante, che scricchiolò pericolosamente a causa della forza dell’impatto. Dopo una rapida occhiata al suo interno ed una ancor più rapida decisione, afferrò i vestiti che gli sembravano più adatti e, dopo aver lanciato con assoluta noncuranza il suo pigiama sopra il letto ancora sfatto, li indossò ad una velocità allarmante.
Si lanciò per il corridoio, ed afferrò il suo fidato bomber, prima di precipitarsi fuori dalla sua villa, direzione Casa Bianca.
Mentre correva per le strade di DC, America si guardò intorno eccitato.
Da quasi ogni finestra pendeva la bandiera americana, e l’inconfondibile melodia del suo inno nazionale echeggiava da qualche stereo particolarmente patriottico. La gente attorno a lui aveva le guance dipinte a stelle e strisce, e nell’aria riusciva già a respirare l’inconfondibile profumo dei suoi adorati hamburger, nonostante fosse ancora mattina presto.
Dopotutto, considerò, era sempre un buon momento per un hamburger. Sorrise, e si sentì gonfiare il petto di orgoglio.
La sua gente stava facendo tutto questo per lui.
Beh, loro tecnicamente non sapevano nulla della sua esistenza, ma questo non contava davvero, no?
Finalmente, raggiunse il grande edificio neoclassico sede del suo governo e si lanciò verso South Lawn, l’enorme giardino dove sapeva presto si sarebbero aperti i festeggiamenti. Arrivato ai cancelli sud della Casa Bianca, si avvicinò esaltato alle guardie dell’ingresso.
“Salve! Buon quattro luglio!”
Le guardie lo fissarono impassibili da sotto i loro occhiali scuri.
“Buon quattro luglio anche a lei, Mr. Jones. Prego, entri. Il presidente la aspetta nel suo ufficio.” Rispose una di loro, digitando alcuni numeri su di un display.
Un piccolo cancello laterale si aprì dopo la conferma del codice, ed America si lanciò per uno dei sentieri che salivano verso l’immenso prato presidenziale, salutando le guardie con un gesto della mano.
Corse attraverso tutta la lunghezza della tenuta, passando accanto a barbecue, tavoli da campeggio, campi da gioco e piccoli banchetti di souvenir.
Presto, il prato si sarebbe riempito di famiglie, milleduecento per essere precisi. America sorrise al pensiero di tutta quella gente che si sarebbe riunita per festeggiare il suo compleanno.
Il giorno della Libertà.
Il giorno dell’Indipendenza.
L’enorme sorriso morì un po’ sulle sue labbra quando un pensiero si fece largo nella sua mente, insistente, nonostante i tentativi di ricacciarlo indietro.
Inghilterra.
Non che gli importasse cosa il suo ex-tutore facesse il giorno del suo compleanno; se stesse male come sosteneva o se fosse solo uno dei tanti modi che trovava per lamentarsi di lui; se lo avrebbe chiamato per fargli gli auguri, se pensasse a lui quel particolare giorno dell’anno.
No, assolutamente non gli importava.
Un eroe incredibile come lui non aveva bisogno dell’approvazione di nessuno. …Vero?
Sospirò, ma poi alzò orgoglioso il mento verso l’alto. Era il suo compleanno, e voleva goderselo fino in fondo, nonostante la Recessione, nonostante tutto quello che stava succedendo.
Con o senza Inghilterra.
Tutto ciò di cui aveva bisogno era di concentrarsi su sé stesso.
Una cosa che, tra l’altro, gli riusciva piuttosto bene.
Sì, ne era convinto: poteva passare la giornata tranquillamente senza pensare a quel noioso old man.
La sua convinzione durò circa trenta secondi.
“Chissà perché poi odia così tanto il mio compleanno.” Pensò ingenuamente.
Onestamente, Inghilterra aveva perso una guerra, ed una colonia, ma stava facendo un po’ troppe storie, considerato tutto il tempo che era passato.
“Beh, di sicuro è abbastanza naturale che non sia così incline a voler festeggiare il giorno in cui è stato rimandato nella sua terra a calci in culo dalla sua maledetta colonia preferita, no?”
Ottimo, oltre alla voce e all’accento, la sua coscienza pareva avere adottato anche il linguaggio colorito di Inghilterra.
Ed ovviamente il suo sarcasmo made in England.
Stava per ribattere a quella velenosa affermazione, quando realizzò di essere arrivato di fronte all’imponente entrata sud della Casa Bianca.
Alright, America. Ora smettila di fare il bambino. Sorridi, è il tuo compleanno! Fai vedere a tutti come un vero eroe festeggia la sua nascita!” Pensò deciso.
Scrollò un po’ la testa, come se in questo modo potesse farne uscire la miniatura di Inghilterra che, ormai ne era sicuro, aveva preso in ostaggio la sua coscienza.
Probabilmente era un esperimento alieno, avrebbe dovuto chiedere chiarimenti a Tony, più tardi.
A grandi passi, salì la scalinata d’ingresso, ed entrò nell’edificio.
Percorse i corridoi che conosceva a memoria (aveva aiutato a costruirli, ai tempi) e si ritrovò di fronte alla Sala Ovale.
Di nuovo, alcune guardie lo riconobbero, gli augurarono un buon quattro luglio ed aprirono la porta per lui.
Entrato nella grande stanza, vide che il suo boss era già seduto davanti alla telecamera, la schiena rivolta alla grande bandiera americana del suo studio.
Incrociò il suo sguardo, mentre alcuni tecnici sistemavano il microfono davanti a lui. Il boss sorrise cordialmente ad America, e sillabò le parole “Happy birthday”, mentre gli faceva cenno di sedersi accanto alla sua scrivania, fuori dal raggio visivo della telecamera.
America sorrise in risposta e si sedette. Il presidente era uno dei pochi a conoscenza della sua effettiva natura di Nazione ed era felice di aver ricevuto i primi auguri di tutta la giornata effettivamente rivolti a lui, ad Alfred F. Jones.
“In onda tra tre minuti, signore.” Informò uno dei tecnici.
America gli mostrò I pollici alzati e sorrise incoraggiante.
Era il suo primo discorso per il Giorno dell’Indipendenza, dopotutto.
Ridacchiò divertito. Era quasi strano pensare di essere più vecchio di quell’uomo che dimostrava almeno vent’anni in più di lui.
“E non solo fisicamente.” Commentò la Iggyscienza.
Sì, aveva dato un nome alla sua coscienza.
Un nome molto calzante, a suo parere.
“Devi per forza essere così irritante?” chiese infastidito.
“Sono un prodotto della tua immaginazione, che ti aspettavi?”
Insomma, da un certo punto di vista si stava rimproverando da solo.
Con la voce di Inghilterra.
“Great.”
O forse era una di quelle maledizioni che Inghilterra proclamava di saper eseguire.
Sì, una maledizione per farlo stare male il giorno del suo compleanno, ecco cos’era.
“Bloody idiot…”
America aveva aperto la bocca per rispondere, quando sentì le telecamere accendersi e qualcuno urlare:
“Three, two, one…You’re on air, sir!”
Allora chiuse la bocca, e si concentrò sulle parole del suo boss.

“Hello and Happy Fourth of July, everybody.”

“Salve, e buon quattro luglio a tutti!”


America sorrise al saluto informale del suo boss. Amava il modo in cui parlava alla gente, alla sua gente. In modo così rilassato e cordiale.

“This weekend is a time to get together with family and friends, kick back, and enjoy a little time off. And I hope that’s exactly what all of you do. But I also want to take a moment today to reflect on what I believe is the meaning of this distinctly American holiday.”

“Questo weekend è un momento per stare insieme alla famiglia ed agli amici, lasciarsi andare e godersi un pò di tempo libero. E spero sia esattamente quello che tutti voi fate. Ma voglio prendere un momento oggi per riflettere su quello che io credo sia il significato di questa particolare festa americana.”


Passare del tempo con la propria famiglia..
America ne aveva una?
Aveva Canada, il suo gemello. Certo, America aveva la tendenza di dimenticarsi facilmente della sua esistenza, tendenza che, tra l’altro, sembravano avere anche tutte le altre Nazioni; ma ciò non toglieva che volesse bene al suo fratellino del nord.
E poi c’era… C’era stato
No, non era sicuro di avere qualcun altro.
Non più almeno.

“Today, we are called to remember not only the day our country was born – we are also called to remember the indomitable spirit of the first American citizens who made that day possible.”

“Oggi siamo chiamati a ricordare non solo il giorno in cui la nostra nazione è nata- siamo anche chiamati a ricordare l'indomabile spirito dei primi cittadini americani che hanno reso questo giorno possibile.”


Allora, dopo quelle parole, il petto di America di gonfiò di orgoglio, come quando stava camminando per le strade di Washington poco tempo prima.
Già, il suo compleanno era anche questo.
Era celebrare se stesso per ciò che era, per il suo sangue libero, per la sua anima ribelle e coraggiosa.
Era ricordare a se stesso di essere forte, il più forte, o per lo meno di esserlo stato; per non cadere a pezzi e per non lasciare che tutto ciò che stava accadendo lo trascinasse giù, spezzando i suoi grandi, enormi sogni e le sue speranze.
Non poteva permettere che accadesse: per sé e per la sua gente.
I suoi indomiti cittadini americani.
Essere una Nazione era difficile.
Doveva fare i conti con il fatto di essere praticamente immortale, di dover veder cambiare il mondo, il suo mondo, e di dover accettare questo cambiamento, anche se faceva male.
Qualunque cosa facesse, creava la storia.
Nel vero senso della parola.

“We are called to remember how unlikely it was that our American experiment would succeed at all; that a small band of patriots would declare independence from a powerful empire; and that they would form, in the new world, what the old world had never known – a government of, by, and for the people.”

“Siamo chiamati a ricordare come fosse poco possibile che il nostro “esperimento americano” avesse successo; che un  piccolo gruppo di patrioti dichiaravano indipendenza da un impero potente; e che avrebbero formato, nel nuovo mondo, quello che il vecchio mondo non aveva mai conosciuto- un governo di, da e per il popolo.”


Quel giorno, ormai, risultava abbastanza chiaro come fosse totalmente senza senso tentare di non pensare ad Inghilterra.
Quell’ “Impero Potente” di cui parlava il suo boss, quello che tassava il the sino a farlo costare più del sale e che gli impediva di commerciare con Francia e con gli altri Europei.
Quello stesso impero che gli leggeva le favole prima di andare a dormire, che lo faceva rimanere nel suo letto durante i temporali e che gli cantava ninne nanne in Gaelico per farlo addormentare.
Ricordava come la sua rivoluzione era iniziata.
Quando a Boston aveva versato il the di Inghilterra nell’acqua pallida del porto, rendendola torbida; il the che aveva dovuto comprare ancora da Cina.
Eppure Inghilterra sapeva che lui preferiva il caffè.
Ricordava anche come dopo si erano ritrovati a combattere per anni, nel fango e nelle lacrime.
Ricordava come Inghilterra gli avesse puntato contro il fucile e come si fosse poi lasciato cadere, senza sparare.
Allora lo aveva guardato, aveva guardato l’impero dall’alto in basso.
Per la prima volta da quando lo conosceva, non era più “Big Brother England” o “Big Brother Arthur”.
Era solo Arthur Kirkland. E lui era solo Alfred F. Jones.
Quel giorno era nato. Era nato come “United States of America”, e non aveva la minima idea di come sarebbe andata a finire.
Ma ce l’aveva fatta.
Ed era felice, era orgoglioso, era stupito.
Era felice di poter festeggiare il suo compleanno come Nazione vera e propria, era orgoglioso della sua gente e della sua forza, ed era stupito di essere riuscito ad arrivare dov’era arrivato.
Pero’, in tutto questo, mancava qualcosa.
E quel qualcosa, era più un qualcuno. Qualcuno con dei capelli biondi perennemente in disordine, delle sopracciglia fuori dal comune ed un accento dannatamente sexy.
Sì, mancava lui.
E, in un certo senso, mancava ancora.
Anche se non si sarebbe mai potuto pentire della sua scelta.
Mai.
Era talmente immerso nelle sue riflessioni, che non ascoltò gran parte del restante testo del discorso. Riuscì ad afferrare qualcosa riguardo lo spirito di iniziativa che li aveva tratti in salvo dal tracollo economico degli anni trenta, le energie rinnovabili (probabilmente un suggerimento di Germania e Giappone) e l’assicurazione sanitaria.
La sua attenzione venne nuovamente attratta dal discorso quando il suo boss giunse alla fine.

“We are not a people who fear the future. We are a people who make it. And on this July 4th, we need to summon that spirit once more. We need to summon the same spirit that inhabited Independence Hall two hundred and thirty-three years ago today.”

“Non siamo persone spaventate dal futuro. Noi siamo persone che lo fanno. E in questo quattro di luglio, abbiamo bisogno di convocare ancora una volta quello spirito. Abbiamo bisogno di convocare lo stesso spirito che abitò l’Indipendence Hall duecento trentatré anni fa.”

 
Quando la sua mente registrò le parole, gli occhi di America si dilatarono, e la bocca si aprì, formando una piccola ‘o’ di stupore.

“That is how this generation of Americans will make its mark on history. That is how we will make the most of this extraordinary moment. And that is how we will write the next chapter in the great American story. Thank you, and Happy Fourth of July.”

“Questo è il modo in cui questa generazione di americani lascerà il suo segno nella storia. Questo è il modo in cui trarremo il massimo di questo momento straordinario. E questo è il modo in cui scriveremo il prossimo capitolo nella grande storia americana. Grazie, e Felice Quattro Luglio.”


Il discorso finì, e le telecamere si spensero.
Scrivere il nuovo capitolo…Della storia Americana?
Lentamente, la sua bocca si chiuse, e la ‘o’, divenne un sorriso sicuro.
Sapeva cosa doveva fare.
“Alfred!” lo chiamò sorridendo il Presidente.
“Scusi, devo fare una cosa importante! Ne va della salute del paese…” si fermò un attimo, riflettendo sulle sue parole “… Che poi sarei io, ma non sottilizziamo! A dopo, boss!” e detto questo, sfrecciò via, salutando il boss con una mano.
Il presidente ridacchiò tra sé e sé, si sedette dietro la sua scrivania e guardò fuori dalle grandi finestre che davano sul giardino.
Sorrise.
Doveva pensare come fare degli auguri originali all’altra sua piccola America.




Fine Capitolo uno




NOTE DELL’AUTRICE:

Okay, eccomi qui a pubblicare la mia prima fic su Hetalia! Onestamente, sono stata molto sorpresa del risultato che ho ottenuto al contest (che per inciso richiedeva di scrivere riguardo al compleanno di un personaggio a scelta), e spero che anche voi lettori apprezzerete la mia fic come ha fatto la giudice!^^
Che dire su questo capitolo? Ebbene sì, sono una fan di Obama e volevo includerlo nella fic, quindi quale modo migliore se non quello di utilizzare il suo discorso alla nazione il quattro luglio? E poi, calzava a pennello con quello che avevo intenzione di scrivere.
Ve lo giuro, mentre scrivevo mi sentivo veramente una indomita cittadina americana. Sì, sono patriotta di paesi che non sono il mio, ma penso sia abbastanza comune quando si segue Hetalia, no?

Detto ciò, ecco le referenze storiche/culturali/varie ed eventuali in questo primo capitolo:
·    Links alla descrizione dei festeggiamenti del quattro luglio: http://www.whitehouse.gov/video/4th-of-July-at-the-White-Househttp://america24.it/content/festa-alla-casa-bianca-barbecue-1200-famiglie-di-soldati
·    Link al discorso integrale di Obama 
·    Tony è l’amico alieno di America, per chi non lo sapesse.
·    Quando America parla di quando gettò il the di Inghilterra in mare si riferisce al Boston Tea Party, quando i coloni americani versarono per protesta il the inglese nell’acqua del porto di Boston, travestiti da nativi americani.
·    Quando Obama parla della sua piccola America, si riferisce ad una delle figlie, nata anche lei il quattro luglio.

Mi sembra di aver scritto tutto. Se vi resta qualche perplessità fatemelo semplicemente sapere nelle recensioni.
* Recensite =D *
Kissu^^
   
 
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