Eccomi
di nuovo qui. Mi dispiace per il ritardo, tutta colpa di Dante e
company. In
più, ho appena finito di vedere Harry Potter 6… e
mi sono venuti dei pensieri
strani. Ora se prendete le forbici dalla punta arrotondata (mi sento
una copia
sbiadita di Tonio Cartonio) e tagliate la testa a Draco Malfoy, il suo
corpo
risulta stranamente e inquietantemente (?) simile a quello che io
immagino per
Artemis… Non aggiungo altro.
Inoltre,
ho finito di leggere “Il paradosso temporale”
appena qualche giorno fa. E sapete
che vi dico? Che non sono per niente una fan delle Artemis-Spinella.
Anzi.
Inoltre
(ora la pianto, lo giuro), ho letto una recensione tremenda lasciata a
l’unica
fic con sfondo erotico di Artemis, e mi è venuto in mente:
il mio Artemis è
troppo OOC? E la mia Elinor troppo Mary Sue?
Sono
dubbi che mi assillano, davvero.
Ma,
in
mancanza di risposte, vi lascio con questo capitolo, e con mille scuse
per il
fatto che non ho risposto alle recensioni. Lo farò nel
capitolo che posterò
domenica. (E questa volta, intendo mantenere la mia parola.)
Kisses,
J.
CONCETTI
ARISTOTELICI
Arianna
fissava fuori dalla finestra. Pioveva, esattamente
come quando erano stati catturati. Una delle sue sottili e curate mani
torturava una ciocca dei suoi fluenti capelli neri. Il vestito azzurro
che
Juliet le aveva dato sottolineava la linea flessuosa e snella, e
lasciava
intravvedere le spalle e la forma aggraziata del collo; la sua postura,
sempre
maestosa, ma allo stesso tempo leggera, le donava
un’incredibile delicatezza.
Arianna
era una persona malinconica, e lo sapeva bene. Il
rapimento aveva colpito lei più degli altri, e spesso
invidiava il coraggio di
Elinor, la sua migliore amica, o l’indomabile forza
d’animo di Sissi. Come se
non bastasse, sentiva ogni momento, ogni secondo lo sguardo di Luca su
di sé:
lei sapeva bene ciò che il ragazzo provava, ma non riusciva
proprio a
ricambiare i suoi sentimenti. Perché? Luca era un ragazzo
fantastico, dolce,
giudizioso, carino, e sarebbe stato disposto a fare qualsiasi cosa per
lei.
Perché, dunque, non riusciva a ricambiarlo?
Nel
tempo si era fatta un’idea: Luca era come tutti gli altri.
Lui, non diversamente dalle persone che le stavano attorno, fatta forse
eccezione per Elinor, non riusciva a vedere chi era lei, a capirla per
come era
davvero. Tutti si aspettavano la stessa cosa da lei, Arianna, la bella
e
fragile Arianna, debole e sensibile: che cadesse, che si frantumasse in
mille
pezzi alla prima difficoltà.
Ognuno
era lì per fare la figura dell’eroe davanti a lei,
per
sostenerla e aiutarla, senza neanche prendere in considerazione
l’idea che
potesse farcela da sola, che potesse essere forte quanto gli altri.
Arianna
prese una decisione. Da quel momento, sarebbe stata
lei a salvare se stessa. Sarebbe stata forte.
Leale,
al terzo piano, controllava le varie stanze attraverso
le telecamere. Artemis, nel suo studio, era assorto nella lettura di un
volume
dall’aria infinitamente noiosa; Spinella e Juliet
chiacchieravano in cucina,
come due vecchie amiche; due ragazzi e una ragazza si trovavano al
capezzale
della malata, che, se non sbagliava, si chiamava Milla; il terzo
ragazzo,
quello biondo, stava guardando la TV. Si concentrò con
più attenzione sulla
Sala da Tè: in essa c’era Arianna, al ragazza
bella e dai capelli scuri, che
fissava fuori dalla finestra, mentre la sua amica, Elinor, leggeva un
libro comodamente
seduta sul divano. Leale aveva osservato i ragazzi in quei giorni,
tentando di
memorizzarne i nomi e i comportamenti, e non ci aveva messo molto a
capire che
quelle due ragazze erano molto legate, nonostante fossero
così diverse.
Era
strano, pensò, avere tutti quei ragazzi in casa. Era
passato poco più di una settimana, ma già si
stava abituando all’idea. In
fondo, gli piaceva un po’ più di
vitalità e energia all’interno di quella
grande villa, che, a volte appariva troppo buia e silenziosa. Con
Artemis era
sempre stato diverso: se lo ricordava, a quattro o cinque anni, quando
aveva
iniziato a passare le sue giornate sui libri, oppure a sei, quando
aveva
inaugurato un suo personale piccolo laboratorio. A sette aveva vinto il
primo
concorso di Scienze. Anche se non poteva definirlo con esattezza, a
Leale
piaceva pensare a quell’evento come la fine
del’infanzia relativamente normale
del suo protetto, e il suo ingresso nel mondo degli adulti. Ma Leale
sapeva
che, anche se Artemis non l’avrebbe mai ammesso, da bambino
aveva continuato a
tenere e a sfogliare i romanzi di Rohal Dahl, i primi che avesse mai
letto,
alla veneranda età di due anni e mezzo, sotto al cuscino
fino all’età di dieci
anni, prima della disastrosa spedizione in Russia del padre.
Da
quel momento, dell’Artemis bambino non era rimasta alcuna
traccia.
Leale
rimase incantato a fissare lo schermo, cosa che
succedeva assai di rado. I suoi sensi, sempre vigili e attenti, erano
per il
momento assopiti, e si godeva tranquillamente quel momento, osservando
le due
ragazze e immaginando per un istante quanto sarebbe stato bello avere
di nuovo
lì l’Artemis bambino, un innocente e geniale bimbo
che scorrazzava, o meglio,
camminava (Artemis non era stato un granchè nelle
attività motorie neanche nei
suoi primi anni) indossando un camice, e che scopriva il mondo intorno
a lui.
Artemis, che considerava come un fratello. Artemis, che da tanto tempo
ormai
non sorrideva più così spesso, che non era
davvero felice, o forse non lo era
mai stato.
Artemis,
in quel momento, non sospettava minimamente di essere
l’oggetto di così tante riflessioni. Anzi, era
concentrato in tutt’altra
faccenda: con gli occhi fissi sul computer, continuava a aprire file su
file,
nella speranza di ottenere qualcosa, un indizio, su tutto
ciò che avrebbe
potuto aiutarlo a capire ciò che stava succedendo. Aveva
perso il conto delle
ore passate sullo schermo, a sbuffare e a scartabellare su una
quantità enorme
di fogli gettati alla rinfusa sulla sua scrivania. Perfino il suo
proverbiale ordine
era andato a farsi benedire, e il ragazzo stava cominciando ad
accettare le
idea di aspettare la prossima mossa del nemico, cosa che lo rendeva
alquanto
inquieto. C’era comunque qualcosa di diverso in lui, una
sorta di fastidio che
lo rendeva agitato e incapace addirittura di concentrarsi
adeguatamente, e alla
fine dovette ammetterlo controvoglia: voleva sapere cosa stava
succedendo lì
dentro, a casa sua. Chiudendosi all’interno del suo studio si
era completamente
isolato, se si eccettuavano pochi e brevi colloqui con Spinella e
Leale. Ora,
però, la curiosità stava prendendo il
sopravvento: nonostante i ragazzi in
generale non lo entusiasmassero un granchè, non poteva fare
a meno di provare
un qualcosa nei loro confronti, un sentimento intermedio fra
compassione,
dubbio e fastidio. Devo provare a interagire con loro, si disse. In
fondo, che
male ci sarebbe stato? Naturalmente, tutto a scopo di studio. Magari
avrebbe
potuto pubblicare una ricerca su una qualche rivista scientifica sul
comportamento degli adolescenti in difficoltà.
In
più, c’era la questione di Spinella. O, meglio, di
Elinor,
la ragazza che l’aveva aiutato. Spinella, dopo avergli dato
dell’idiota, e
Artemis sapeva bene di esserselo meritato, aveva insistito per ore
affinchè lui
si scusasse, e infine lui aveva accettato. Chiunque conoscesse bene
Artemis
Fowl sapeva che, in una discussione, avrebbe potuto stracciare le tesi
degli
avversari e far prevalere la sua in qualsiasi momento: il fatto che
questa
volta Spinella l’avesse spuntata contro di lui era, come
Artemis avrebbe
ammesso a malincuore, una scelta che Artemis stesso aveva fatto. Il
ragazzo
sapeva di essere diventato una persona migliore, in quegli ultimi anni,
e come
tale avrebbe dovuto comportarsi: basta nascondersi dietro una facciata
di puro
gelo; avrebbe chiesto scusa a Elinor, e le avrebbe offerto spiegazioni
di ciò
che aveva combinato.
Si
massaggiò le tempie per qualche momento, in un gesto che
per i semplici umani era qualcosa di simile al rimettere in moto il
cervello,
ma per lui era l’inizio della formulazione di un piano. Dopo
tanto pensare,
ovvero dopo cinque secondi di riflessione, spense il computer, si
alzò e si
avviò verso la porta, e con fastidio si accorse che il suo
passo era meno fiero
e sicuro di quello che aveva immaginato.
Elinor
chiuse il libro con un gesto rapido e secco. Distese le
gambe sul divano, mise le mani dietro la testa e chiuse gli occhi, nel
tentativo di rilassarsi. Ma cosa diamine stava facendo lì?
Un sorriso pieno
d’amarezza le affiorò sulle labbra: ancora non
riusciva ad elaborare il fatto
che era tenuta prigioniera in un posto sconosciuto; tuttavia, era
incredibilmente più tranquilla, di notte riusciva a dormire,
e, tutto sommato
non credeva che Leale, Juliet e Meg fossero cattivi, nonostante
l’ultima
arrivata fosse indubbiamente un po’ strana. Nutriva qualche
dubbio in più
riguardo ad Artemis, il ragazzo: lo incrociava poco, dal momento che se
ne
stava sempre rinchiuso al terzo piano, che per loro non era
accessibile, ma quando
s’incontravano fra di loro non c’erano che gelidi
silenzi e duri sguardi
d’odio. Lui l’aveva sfruttata, l’aveva
usata e presa prigioniera, facendola
sentire anche tremendamente in colpa nei confronti dei suoi amici; in
cambio,
nulla se non un soggiorno relativamente tranquillo in una
località ignota.
Basta,
pensò Elinor. Basta lamentarsi e pensare al peggio.
Erano passati dieci giorni dal loro rapimento, ed era chiaro che non ne
sarebbero usciti molto presto. Tanto valeva ricominciare a vivere da
persona
normale, anche se là dentro, senza continuare a chiudersi in
quei tristi
silenzi che caratterizzavano ormai ogni sua giornata. Elinor doveva
essere
forte, per sé e i suoi amici; doveva smetterla di
comportarsi come uno zombie e
prendere atto della situazione, cercando di coglierne i pochi aspetti
positivi.
Qualcosa doveva cambiare, a partire da quella sera.
Quella
sera, a cena, qualcosa cambiò. Erano seduti tutti in
salotto, comprese Juliet e Meg, che parlottavano tra loro in un angolo
della
stanza. I ragazzi qualche giorno prima avevano suscitato la
pietà di Juliet,
che era ricomparsa in casa reggendo fra le mani una Playstation e
qualche
gioco, in cui loro si erano immersi, e non ne erano ancora riusciti.
Milla, che
si stava riprendendo dall’influenza, e Arianna erano
comodamente sedute sul
divano, e parlavano con Sissi, che invece si era distesa a terra senza
un’evidente
ragione. Elinor invece era ancora raggomitolata sulla poltrona, immersa
nella
lettura di una prima edizione del “Signore delle
Mosche” che aveva trovato
nella libreria della Sala da Tè. Non era il suo libro
preferito, ma credeva che
si adattasse bene alla loro situazione, anche se, grazie al cielo, le
vicende
dei due gruppi di ragazzi stavano prendendo pieghe diverse. O almeno
così
sperava.
Juliet
ad un certo punto si alzò e disse che era ora di
preparare cena. Fu a quel punto che si ebbe il colpo di scena: anche
Elinor si
alzò.
“Posso
darti una mano?”
Silenzio.
Tutti tenevano lo sguardo fisso su Elinor, tranne
Meg, che fissava Juliet con un sorriso stampato in faccia, in attesa di
una sua
reazione. Nessuno, prima di quel momento, aveva offerto aiuto a Juliet
o a
Leale, non perché fossero tutti maleducati, ma
perché offrire aiuto ai loro
rapitori era qualcosa di assolutamente innaturale, anche se loro
facevano di
tutto per essere gentili e simpatici con i ragazzi. Elinor
più di tutti aveva
motivo di restarsene chiusa nel suo guscio di silenzio e ritrosia, dal
momento
che oltre alla prigionia, doveva portare sulle spalle anche il peso del
senso
di colpa.
Ma,
nonostante questo, si era alzata, e aveva offerto il suo
aiuto a Juliet per preparare la cena.
“Grazie,
accetto volentieri.” Rispose Juliet con un sorriso,
ponendo fine a quel silenzio carico di pensieri. “Sai, ho
proprio bisogno di
qualcuno che mi aiuti a tagliare le fragole”.
Elinor
seguì Juliet in cucina, piacevolmente soddisfatta da se
stessa. Tagliò le fragole, chiacchierando con Juliet
riguardo al menù della
serata, e, una volta finito, incominciò a preparare la
tavola. Proprio mentre
stava finendo di disporre i piatti sul tavolo, Artemis
entrò. Indossava una
camicia con le maniche arrotolate fino ai gomiti, e i capelli erano in
disordine, come se ci avesse passato le mani mille volte.
Inaspettatamente non
disse nulla, ma rimase davanti alla porta a fissare la scena,
all’apparenza
abituale e casalinga, che si svolgeva sotto i suoi occhi. Elinor non
l’aveva
neanche guardato in volto, e disponeva le posate facendo finta che lui
non
fosse mai entrato; lo stesso non si poteva dire di Juliet:
“Artemis,
finalmente sei riemerso! Senti, siamo un po’ in
ritardo, dunque perché non dai una mano a Elinor?”
La
ragazza maledì mentalmente la bionda.
“Uhm.
Sì, certo.” Disse Artemis, vergognandosi al tempo
stesso
della sua completa mancanza di parole intelligenti, che superassero in
lunghezza quei pochi monosillabi.
Si
diresse verso una dispensa, che, ne era quasi sicuro,
conteneva dei bicchieri. Li trovò, ne prese un paio e li
appoggiò lentamente
sul tavolo. La sua mente era concentrata in pensieri molto
più urgenti e
assillanti di quelli sulla disposizione delle posate, in quel momento.
I suoi
occhi seguivano Elinor, che ancora si affaccendava intorno al tavolo, e
che non
lo degnava della minima attenzione.
Artemis
decise di rimandare il problema delle scuse a un altro
momento. Sinceramente, non gli andava di ricevere altri sguardi
d’accusa
pienamente motivati, senza contare che non vedeva alcuna occasione di
poterle
parlare a quattr’occhi. Decisamente, non era il momento
adatto.
“Direi
che è quasi pronto.” Disse Juliet, rompendo il
silenzio. “Elinor, ti dispiacerebbe chiamare gli
altri?”
La
ragazza uscì senza dire una parola. “Artemis, ti
chiamo
dopo quando gli altri hanno finito, ok?”
Artemis
riemerse lentamente dai suoi pensieri, che l’avevano
lasciato come inibetito a fissare la porta da dove era uscita Elinor.
“Uhm?”
Il suo vocabolario era decisamente migliorato.
“Per
la cena. Quando i ragazzi se ne vanno puoi mangiare tu.”
Ripetè Juliet, con aria perplessa. Artemis,
sembrava… addormentato. La qual
cosa non gli si addiceva per nulla.
Il
ragazzo riflettè un momento. La cena era considerata in
tutto il mondo come un importante momento di condivisione, un modo per
riunirsi, parlare, stare assieme. Dunque, perché non tentare?
“E’
un problema se mangio con voi?” Quel tono così
gentile
sorprese perfino se stesso. In realtà, era proprio dubbioso
della sua scelta.
Juliet
lo guardò con occhi spalancati. Fino a quel momento,
soltanto lei, e talvolta Leale, avevano mangiato con i ragazzi. Artemis
non si
era mai fatto vivo.
“Ok…”
disse con tono un po’ incerto. Mentre prendeva piatti e
posate per Artemis, la ragazza non potè fare
a meno di lanciargli qualche occhiata inquisitoria. Che
aveva intenzione
di fare?
In
quel momento i ragazzi entrarono in cucina, chiacchierando
fra loro. Sembrano sereni, pensò Artemis. Cambiò
subito idea quando si accorse
delle loro reazioni nel vederlo; quando poi prese posto vicino a
Juliet, sul
fondo della tavola, una di loro, quella riccia e rossa, non
tentò neanche di
nascondere il suo stupore:
“E
lui che ci fa qui?” sussurrò all’amica
che le stava a
fianco, quella che era stata malata, che non rispose. Pian piano i
maschi
trovarono il coraggio per alzare lo sguardo e osservarlo come un
animale
sconosciuto; soltanto Elinor e la sua amica bruna, che erano sedute
l’una
affianco all’altra, si scambiarono un rapido sguardo
d’intesa.
Un
silenzio irreale avvolgeva la tavola. Improvvisamente,
mentre tutti erano impegnati con i loro spaghetti, Sissi
scoppiò in una sonora
risata. Artemis annotò mentalmente che quella ragazza aveva
tutti gli attributi
tipici di una malata mentale, ma nondimeno alzò lo sguardo e
la fissò stranito,
cercando di capire come stesse succedendo, come d’altronde
tutti gli altri
commensali.
“Che
succede?” le chiese Luca, nascondendo a malapena un
sorriso.
“Beh…”
bascicò Sissi fra una risata e l’altra.
“Oggi è il 31.”
“Dunque?”
Giova continuava a guardarla come se fosse stata
effettivamente pazza.
“Oggi
c’era filosofia.”
Silenzio.
Sissi continuò sogghignando: “L’avevo
studiata così
tanto…”
I
volti degli altri si distesero. Pian piano si levò una
risata collettiva, soprattutto dalla parte maschile.
“In
che senso l’avevi studiata tanto?”
replicò Giova, con un
sorriso. “Io non avevo aperto libro.”
“Beh,
l’avevo studiata. Ma non ci avevo capito niente.”
“Aristotele
era un cretino.” Se ne uscì Lorenzo.
“Sono
completamente d’accordo.” Milla si unì
alla
conversazione. “Dai, tutte quelle cose sulle categorie, la
sostanza e compagnia
bella… ma perché uno dovrebbe perdere il suo
tempo in cose così…
così…”
“Stupide?”
Luca ci mise del suo. “Ad esempio…
com’era quella
definizione, quella di concetto?”
“Ah,
si, questa la so!” Disse Elinor con un sorriso. Si erse
poi in tutta l’altezza che la sedia le concedeva, e
imitò la voce tonante e
austera della professoressa: “Il
concetto
è la traduzione mentale dell’essenza.”
Tutti
scoppiarono a ridere, al ricordo delle spiegazioni in
classe.
“E
quella… non mi ricordo molto bene, ma quella che aveva
detto lui della natura, che non aveva senso…
com’era già?” chiese Arianna
pensierosa.
“Il principio e la causa
del movimento e della quiete della cosa alla quale inierisce
primieramente e
per sé, non accidentalmente.”
La
voce di Artemis di levò limpida sopra le altre. Tutti
ammutolirono di colpo, e lo fissarono con aria sorpresa.
Il
ragazzo non fece in tempo a darsi dell’imbecille da solo.
Il suo cervello da genio gli disse che forse il declamare una
definizione
complessissima in un’altra lingua all’interno di
una conversazione in cui lui
non c’entrava nulla, per poi chiudersi in un imbarazzante
silenzio, non era il
modo migliore per interagire con gli altri.
Cercò
di rimediare: “Sì, insomma, non ne sono proprio
sicuro,
ma…”
Inaspettatamente,
Arianna gli sorrise: “Probabilmente è
giusta.” E di nuovo guardò Elinor, alla sua
sinistra, che non aveva neanche
rivolto uno sguardo al ragazzo, a differenza degli altri.
Pian
piano la conversazione riprese, e per quella sera Artemis
non proferì più parola, convinto di aver
già detto abbastanza. Più di una volta
alcuni dei ragazzi si rivolsero direttamente a lui, anche solo per
chiedergli
di passare loro dell’acqua. L’unica che non gli
rivolse mai la parola né uno
sguardo fu Elinor.
“Strano,
non trovi?”
“Dici?
A me sembra soltanto cretino presuntuoso detestabile
rapitore di ragazzi e anche indiscutibilmente incapace di preparare una
tavola
decentemente.”
Elinor
e Arianna stavano salendo le scale verso le rispettive
camere, in fondo al gruppo. Per l’ennesima volta stavano per
essere rinchiusi
nelle loro piccole prigioni private.
Arianna
soffocò un risolino.
“Intendevo…
il fatto che ti abbia guardata per tutta la sera.
Sembrava, come dire, dispiaciuto. Credo che voglia chiederti
scusa.” Sussurrò
Arianna.
Elinor
si voltò verso l’amica, sinceramente sorpresa.
“Ma che
stai dicendo? Sicuramente mi guardava per accertarsi che non volessi
lanciargli
un bicchiere in testa.” Riflettè un momento.
“Il che, per altro, è un’idea
niente male.”
Arianna
sorrise. “Lily, io credo che dovresti veramente tentare
di comportarti civilmente con lui. Provaci, almeno.”
Elinor
si fermò, trattenendo l’amica per il braccio:
“Neanche
per sogno. Arianna,” la guardò negli occhi, sicura
delle proprie parola: “io
detesto quell’essere abominevole. E non
c’è nulla al mondo che mi farà mai
cambiare idea su di lui.”
Tatan!
Eccomi
di nuovo qui… come vedete, l’opinione che Elinor
ha di lui non è cambiata
granchè… ma la storia non è finita qui
^^
A
presto, baci a tutti… J.