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Autore: Mitsutsuki    27/05/2010    2 recensioni
Il loro è un amore morboso, che uccide le famiglie.
Ma non temere, bella signora, asciugherò il mare anche per te.

[Partecipante al Contest di Eylis - La Nicchia... e la Luna][Fem-slash accennato]
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Serie: Original
Capitolo: 2/2
Disclaimers: Tutto mio.


Moon II
Luna Nuova

Non c’era.
Quella consapevolezza le martellava le pareti del cervello, mentre il cuore picchiava nel petto e il corpo veniva scosso da tremori che le impedivano il movimento.
Il letto sul quale Kelvin dormiva fino a poco tempo prima era disfatto e vuoto.
Suo figlio, il suo unico figlio, non c’era.
Eppure la sua mente preferiva soffermarsi sui futili dettagli della stanza, come se quell’improvvisa sparizione non la riguardasse.
Osservò i buchi sul battiscopa, le pieghe delle tende, le coperte stropicciate e bagnate.
Si concentrò su quella chiazza d’acqua che dal materasso gocciolava in terra, creando un rivolo che si biforcava in due diverse direzioni: una saliva le pareti del bagno, l’altra usciva in corridoio.
Seguì quell’ultima, sperando che Kelvin avesse fatto lo stesso. Anni prima sembrava essere stato il suo più grande passatempo: trascorreva interi pomeriggi percorrendo strade create da una fila di formiche o dal letto di un fiume.
Scese all’ingresso della clinica, dove non poté trattenersi dall’inveire contro una delle infermiere di turno. Una ragazza dall’aria piuttosto assonnata, che a malapena fece segno d’averla notata.
— Possibile che nessuno abbia fatto niente, vedendo un bambino di cinque anni in giro da solo?! — Gridò con quanto fiato aveva in gola, in modo isterico, con un tono che mai avrebbe immaginato potesse uscire proprio dalla sua bocca.
L’infermiera le rivolse uno sguardo disorientato.
— Quale bambino? —
— Il bambino che era con me! L’ha visto quando sono arrivata! —
L’altra corrucciò la fronte perplessa, probabilmente ricercando l’immagine di Kelvin tra i suoi ricordi.
Phoebe sbuffò irritata, proseguendo per la sua strada.
L’acqua continuava il proprio percorso lungo la spiaggia, verso la scogliera.
Si morse un labbro, velocizzando il passo. Era ovvio che fosse andato da quella parte!
Avrebbe dovuto capirlo fin da subito che non sarebbe riuscita a trattenerlo. Quando le aveva chiesto di poterci andare... cosa le aveva fatto ignorare lo sguardo carico di desiderio che le aveva rivolto?
Scosse il capo con forza, cercando di scacciare tutti quei pensieri che altro non avrebbero fatto se non annebbiarle la mente e rallentarla.

L’aria pregna di salsedine le pizzicò il naso, mentre la maestosa immagine della scogliera si faceva via via più grande ed imponente.
Proprio alla base della parete di roccia poté notare la nicchia di cui le aveva parlato suo padre: era grande, sovrastata da una calotta a mezza sfera. Le pietre al suo interno erano state levigate e facevano da sfondo ad altre due pietre, lavorate a mo’ di panchine.
Da quella distanza, le sembrarono entrambe occupate da due figure, una delle quali spiccava particolarmente come illuminata da una tenue luce bianca.
Ma prima che il suo percorso venisse interrotto dalla nicchia, la persona più in penombra si era alzata e si era diretta verso il mare.
Erano le cinque del mattino.

Si fermò.
L’acqua che aveva seguito fino a quel momento raggiungeva la pietra vuota, all’interno della nicchia. Sull’altra, una ragazza la fissava con insistenza da quando l’aveva notata avvicinarsi.
Era pallida. E forse per stanchezza, forse per la sua miopia che andava peggiorando, ma sembrava che riflettesse la luce proveniente dal parcheggio. Come uno specchio.
— Buonasera. — La salutò.
Phoebe guardò verso il mare, poi volse il capo alla strada che portava sulla cima della scogliera. Di Kelvin neanche l’ombra.
Cercò di riprendere fiato. La sua resistenza fisica non era mai stata delle migliori.
— Hai visto un bambino più o meno alto così, con i capelli castani? —
Lei sembrò pensarci qualche istante. Il tempo sufficiente perché il suo cuore battesse fiducioso e la mente si riempisse d’aspettativa.
Si strinse nella spalle — No. —
Per un attimo, e per quello soltanto, perse contatto con il mondo circostante. Sentì il cielo precipitarle sulle spalle, scuro e pesante.
Aveva sbagliato.
Che fine aveva fatto il suo istinto materno? Era sempre stata in grado d’intuire dove fosse Kelvin, cosa stesse provando, quando avesse bisogno di lei o quando preferisse rimanere solo a giocare. E proprio ora che più ne aveva bisogno, lei non riconosceva più la sua maternità. Si era persa come la sabbia smossa dal vento.
Strinse i pugni, voltando le spalle alla scogliera. Doveva tornare indietro e ricominciare da capo. E, cosa che il suo cervello avrebbe dovuto suggerirle molto prima, avrebbe chiesto aiuto.
Qualcuno rise.
Si voltò di nuovo per incontrare il sorriso della ragazza albina.
— Non lo troverai. —
— Come fai a dirlo? Dici di non averlo visto. — Replicò acida.
Quella continuò a sorriderle, quasi a volerle fare intendere che avesse mentito e fosse disposta a farlo di nuovo.
— Chi sei? —
— Ho molti nomi. Tu sei inglese, giusto? —
— Americana. — Puntualizzò, mentre una parte di lei le gridava di riprendere a camminare e l’altra la invitava a restare. Kelvin era lì o no?
— Allora puoi chiamarmi Moon. Piacere. — Si alzò e le fece un breve inchino, chinando capo e schiena come i ragazzi — A dire il vero, mi piace di più Yue. Suona un po’ come un nome maschile. —
Phoebe annuì incerta.
— Tu invece? — Le domandò a sua volta. Solo allora notò che non solo era pallida, ma era completamente bianca: bianco l’abito, bianca la pelle, bianchi i capelli raccolti in una coda con un nastro bianco.
Nulla da ridire che si chiamasse Moon.
— Mi chiamo Phoebe e sto cercando mio figlio. —
— Phoebe è un bel nome. Ricorda il titano della Luna. — Tornò a sedersi, invitandola a fare altrettanto. Phoebe declinò l’offerta, cercando di riportare l’attenzione sul perché si aggirasse per la spiaggia a quell’ora del mattino.
Non le importava un accidenti di cosa significasse il suo nome!
Moon scosse il capo. Accavallò le gambe, poggiò i gomiti sulle ginocchia e abbandonò il volto nei palmi delle mani.
— Non lo troverai. —
— Questo è da vedere. E’ mio figlio, farei qualsiasi cosa per lui. —
— Ah sì. — Mormorò Moon annoiata — Dite tutti la stessa cosa. Mentite sapendo di mentire. —
Poi alzò lo sguardo verso la volta della nicchia, come a voler ricordare qualcosa.
— Essere disposti a fare qualsiasi cosa significa dover anche rinunciare, qualche volta. Lo sai questo, Phoebe? —
Scosse il capo contrariata.
Tra le righe, lesse qualcosa che non le piacque per niente.
L’angoscia le attanagliò la gola, tanto da lasciarla boccheggiare qualche istante.
— Dov’è Kelvin? — Scandì infine, marcando le parole con quanto tono le fu possibile — So per certo che ha seguito questo rivolo d’acqua, gliel’ho visto fare altre volte con le formiche o le linee bianche sulle strade. —
Moon la guardò al metà tra il disgustata e il divertita. La bocca era contratta in una smorfia, gli occhi ridevano.
— Come puoi paragonare Acqua alle vostre sporche strade e a quei minuscoli insetti?! —
La sua voce vibrò irritata, accompagnata da una serie di gesti in cui racchiuse tutto il suo sconcerto per quella che alle sue orecchie era suonata come un’eresia, una pessima scelta di termini di paragone.
— Acqua è splendida! — Ribatté nuovamente, alzandosi in piedi e avvicinandosi pericolosamente a Phoebe, che rimase congelata al suo posto — Non permetterti nemmeno di nominarla. —
Le lanciò uno sguardo carico di odio e risentimento.
Ma fu questione di un istante: un battito di ciglia e tutto sfumò. Si perse nell’aria come vapore al vento.
Rideva. Di nuovo.
— Guarda, sei pallida come me. — Osservò divertita.
Le prese una mano e la portò vicino alla sua.
Aveva ragione. A giudicare dai battiti del suo cuore, doveva essersi spaventata parecchio tanto da assumere la tipica tonalità dei cenci slavati.
Ritrasse la mano, a disagio. Moon era gelida.
Ma non era stata una sua impressione. Brillava.
L’aveva visto chiaramente, quando le loro mani si erano a malapena sfiorate. Attorno quelle di lei c’era un tenue bagliore, mentre le sue rimanevano all’ombra.
— Chi diavolo sei tu? — Chiese ancora.
Moon la guardò spaesata — Moon. — Ripeté, inclinando il capo su una spalla come a voler continuare e dirle “non te l’ho già detto?
Fece un passo indietro e scosse il capo.
— Hai capito cosa intendo. —
Di nuovo assunse un’espressione annoiata di chi deve sorbirsi la solita nenia monocorde.
Calciò via un po’ di sabbia, le mani dietro la schiena.
Prese a parlare come se fosse rimasta da sola.
— Mi chiedono tutti le stesse cose, usando perfino le stesse parole. Mai qualcuno che abbia una più vasta gamma di vocaboli. — Le lanciò un’occhiataccia carica di rimprovero — Siete monotoni! —
Si sedette, mentre nella mente di Phoebe si affollavano i più strani ed infelici pensieri che il suo cervello fosse mai stato in grado di formulare.
— Parliamo di qualcos’altro. — Le suggerì, tornando a sorriderle fiduciosa — Non parlate spesso del tempo? Oggi è una notte splendida, non trovi? L’aria è meravigliosa quand’è ancora bagnata dalla recente pioggia. —
Phoebe fece un altro passo indietro, portando le mani alla testa.
Perché? Perché nessuno rispondeva alle sue domande?
Dov’era Kelvin?
Non le interessava del resto, rivoleva solo il suo bambino. Era pretendere troppo questo?
— Tu non mi stai ascoltando! —
Moon si zittì all’istante.
— Non m’importa sapere chi sei o da dove vieni! Voglio Kelvin, il mio Kelvin. Ti prego, se sai dov’è... —
— Lo so. — La interruppe, senza lasciarle più il tempo di dire nulla — Per questo ti dico che non lo troverai. Non è più di questo mondo, ormai. — Tacque un istante — Credo possa definirsi “morto” anche se non suona bene. “Morte” è una parola che stride terribilmente. Ghiaccia gli animi rimanendo così elegante! Ella scivola lentamente, silenziosa, e ti dona un ultimo abbraccio, portando alle tue orecchie la ninna nanna dell’eterno oblio. —
Phoebe non la stava ascoltando.
Quella ragazza tergiversava su tutto e a lei non importava.
L’unica parola che riuscì a farsi strada fino ai meandri della sua umana comprensione fu “morto”. Il resto fu solo un mormorare vuoto privo di alcun significato.
Kelvin. Morto.

Te lo stanno portando via”.

Si riscosse dopo quella che le parve un’eternità.
Non seppe spiegarsi come, ma le era letteralmente saltata addosso, scaraventandola a terra, le mani strette sul suo collo.
Ma Moon non sembrò accusare il minimo dolore fisico e la sua voce rimase tranquilla e pacata.
— Non puoi uccidermi. Se anche ci riuscissi, condanneresti il mondo. —
— Zitta! Sta’ zitta! —
— Non è colpa mia, Phoebe. Tuo figlio è venuto da solo. Vengono tutti da soli. —
— Non voglio ascoltarti! Perché lui? La clinica è piena di gente! —
Vide la sua espressione farsi perplessa.
Phoebe lasciò scivolare le mani a terra, ma rimase sopra di lei. Come se temesse di vederla sparire sotto i suoi occhi senza averle dato delle risposte.
— Dunque ritieni che uccidere qualcuno non sia sbagliato? Se avessi preso qualcun altro dalla clinica, a te non sarebbe importato? —
Scosse il capo. Era una cosa orrenda.
Ipocrita.
Ricacciò indietro le lacrime.
— Rivoglio il mio bambino. Farò qualsiasi cosa, ma ridammi il mio bambino. —
Moon sorrise, facendo leva sui gomiti per mettersi seduta.
Si mise a gambe incrociate davanti a lei.
— Ascoltami. E lo rivedrai. —

Non seppe mai dirsi quanto quella storia venne a durare.
Forse una manciata di respiri o un’eternità passata a fare cerchi nella sabbia.
Fu egualmente lunga e insopportabile.

Improvvisamente le parve d’impersonare un ispettore di polizia costretto a sorbirsi le giustificazioni di un pluri-omicida, che addossava le colpe dei suoi peccati ad una terza persona.
Perché ad ogni frase, ad ogni punto ed ad ogni virgola, Moon ripeteva che non fosse colpa sua.

— Mi chiamo Moon, sono il satellite che ruota attorno al pianeta Terra. —

D’istinto, le venne da alzare lo sguardo ad un cielo che tendeva sempre più all’azzurro del mattino, senza trovare ciò che cercava.
Doveva forse partire dal presupposto che quello che diceva fosse la verità?
Decise di non darsi risposta.
Non le importava.
Avrebbe dato ascolto anche al vaneggiare senza senso di Helen, se questo le avesse permesso di riabbracciare suo figlio.
Era disposta a qualunque cosa, checché ne dicesse Moon.
— Un giorno — Rise — O una notte, nell’altro emisfero, m’innamorai. Sai cos’è l’amore, Phoebe? —
— Non divagare. —
Moon s’imbronciò, ma fu questione di un attimo.
Dubitava fosse in grado di mantenere lo stesso umore per più di un paio di minuti.
Così le confidò del suo amore per una tale Acqua, che Phoebe ricollegò alla ragazza che le sembrava di aver intravisto al suo arrivo alla nicchia.
— Sai perché si formano le onde nel mare? —
Phoebe strinse i lembi del vestito, cercando di mantenersi calma.
A premiare i suoi sforzi, la sua bocca modulò un tono di voce poco amichevole, più gelido che altro — Ti ho già detto di non divagare. —
— Non sto divagando. Ci sono le onde perché, in questo modo, Acqua mi fa sapere che mi trova bella. —
Oh, naturalmente.
Se doveva dare retta a una che le diceva di essere un satellite, avrebbe dovuto anche credere che avesse una relazione con l’acqua del mare.
Scosse il capo.
Era assurdo.
— Adesso mi dirai che c’era qualcuno ad ostacolare il vostro amore, mh? — Continuò per lei, volendo sottolineare quanto la sua storia somigliasse a una qualche telenovela di dubbia fama.
Ancora si ripeté che era solo un piccolo prezzo da pagare per riavere Kelvin, bastava avere pazienza.
Moon si strinse nelle spalle — Già. Nettuno non ne fu proprio entusiasta. —
— Nettuno il dio del mare? —
— Nettuno il padre di Acqua. — La corresse — Sono due persone distinte. —

Chiunque fosse questo famigerato Nettuno, stando a quanto le venne raccontato più tardi, si rivelò essere il classico padre geloso della figlia.
— Non tanto perché nel nostro caso si possa parlare di omosessualità. — Continuò Moon, con un’alzata di spalle — Voglio dire, siete stati voi umani a darci nomi femminili. Anche se, da qualche parte nel mondo, parlano di me al maschile. —
Phoebe le lanciò un’occhiataccia, che bastò a farle intendere di tornare al nocciolo del discorso e, soprattutto, di stringere.
— Per farla breve, Nettuno ci sorprese una notte, qui alla nicchia. M’intimò di non vedere più sua figlia, già promessa in sposa a qualche oceano di cui non ricordo il nome. —
— Un classico. — Sbuffò.
Moon rise, facendo un cenno del capo — Non è una storia poi tanto interessante, vero? —
— Va’ avanti. —
— Mi disse che se non gli avessi dato ascolto, non sarei più potuta tornare alla mia forma originale, a meno che non uccidessi queste sembianze umane. Il che mi avrebbe portato a rinunciare alle mie notti di luna nuova con Acqua, non essendo in grado di tornare sulla Terra. —
Phoebe fece un rapido cenno del capo, vedendo delinearsi la fine della storia e i primi raggi di Sole all’orizzonte.
Ma Moon volle fermarsi comunque. Una pausa estenuante, che la penetrò come una lama.
Stava per invitarla a proseguire, quasi le interessasse davvero il finale, quando riprese, con la più triste espressione che Phoebe ebbe modo di vedere delineata su un volto, umano o meno che fosse.
— Così accadde perché rifiutai. Questo corpo deve morire, affinché torni alla mia forma di satellite. — Si alzò — Capisci che non è colpa mia. —
Phoebe scosse il capo.
Cosa c’entrava tutto questo con Kelvin?

Poi venne l’alba.
Il Sole cominciò a farsi spazio all’orizzonte, schiarendo definitamente gli ultimi resti di una notte senza Luna.
Moon si alzò e si spostò verso il bagnasciuga, fino a coprire il Sole.
La donna si mise in piedi a sua volta e la seguì con lo sguardo, ma dovette portare una mano a proteggere gli occhi dalla luce, che, forte, passava attraverso Moon e le feriva la vista.
— Hai mai visto un’eclissi come questa? —
Phoebe sgranò gli occhi.
Oltre al volto di Moon, poté chiaramente vedere quello di Kelvin, come se la ragazza fosse improvvisamente divenuta trasparente.
Il suo nome le morì in gola, come Moon sussurrò — Ti avevo detto che l’avresti rivisto. —
C’era qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui pronunciò quelle parole.
Qualcosa che non le piacque per niente.
Fece un passo verso di lei, ma inciampò e cadde in ginocchio.
Rimase, impotente, a guardare il suo bambino svanirle sotto gli occhi.
— Affinché io possa tornare in queste sembianze la prossima Luna nuova, qualcuno deve prendere il mio posto al loro interno. — Sorrise — Ma c’è un motivo se ho scelto Kelvin, se, dopo tanti anni, io e Acqua ci ritroviamo sempre alla clinica. —
Phoebe non l’ascoltava.
O forse sì, ma non le importava.
Le sue parole le scivolavano addosso, come la sabbia smossa appena dalla brezza del mattino.
— Se vengo qui è perché posso scegliere di prendere a chi Morte ha già negato l’alba. —

Quando scomparve, rimase a guardare la luce del Sole che si alzava in cielo.
L’avrebbe fissata fino a diventare cieca, così da imprimere per sempre nella sua mente l’ultima immagine di Kelvin che la salutava.
E mentre non trovava più lacrime da versare, decise che sarebbe divenuta sorda, pur di non sovrapporre altri rumori alla voce del suo bambino che la chiamava “mamma”.
Avrebbe annientato se stessa, su quella spiaggia, pur di averlo ancora accanto, fosse solo nel suo immaginario.

Qualcuno le si mise di fronte, facendole ombra.
Phoebe mormorò qualcosa che non giunse chiaro nemmeno alle sue orecchie, ma che implorava di lasciarla da sola, di non salvarla, di non toglierle quella luce che la stava uccidendo.
Lentamente, venne avvolta in un timido abbraccio.
— Dimentica, bella signora. —
— Non posso. —
Helen si allontanò un po’ da lei, tenendola per le spalle.
Aveva il viso imbrattato di sabbia.
— Allora asciugate il mare con me. —
— Finché amerà. —
La vide adombrarsi, corrucciando la fronte.
— Ma, bella signora, ella amerà fino all’ultimo essere umano. —
Phoebe si alzò, lo sguardo perennemente rivolto alla luce del Sole.
Si rese conto di essere disposta ad aspettare l’estinzione di tutte le generazioni avvenire, se questo le avesse permesso di essere l’ultima persona sulla faccia della Terra.
Perché Moon non avrebbe avuto altri da scegliere se non lei. E l’avrebbe ricongiunta a Kelvin, volente o nolente.

Perché una madre era disposta a tutto e gliel’avrebbe dimostrato.

  
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