Kaizoku no Allegretto
L’allegretto
del pirata
Atto 6
–parte prima-
Atto 6, scena 1
Nella mensa la
ciurma del grande Imperatore Bianco era già immersa nelle delizie della cena,
quando Ace, più mesto in viso che mai, apparve nella sala, dirigendosi a passi veloci
verso il tavolo dei comandanti, tenendo le mani nelle tasche dei pantaloni. Ad
attenderlo, con il suo solito sorrisino solare, c’era Satch,
affiancato da Vista e da Jaws, troppo presi a parlare
tra loro per accorgersi della sua apparizione.
Il moro si gettò
senza troppi preamboli sulla propria sedia, una delle più vicine al babbo,
sbuffando con una non trascurabile nota di stizza. E che stizza! Persino quel
musone di Jaws, dovette ammetterlo quando quel rumore
gli fece accorgere dell’arrivo del fratello, non sarebbe riuscito a fare di
meglio.
Satch lo squadrò, intuendo pienamente quello
che doveva essere accaduto e questo fece sì che il suo sorriso si sfumasse di
divertimento e soddisfazione.
Non avrebbe mai creduto che Ace e Marco ci
avrebbero messo così poco ad entrare in competizione: e dire che la Fenice era
scomparsa dalla mensa da nemmeno dieci minuti!
“Tutto bene,
Ace?” chiese il biondo ostentando la migliore delle sue espressioni da faccia
tosta.
Pugno di Fuoco
gli rispose dapprima con un ennesimo sbuffo, incrociando le mani dietro la
testa, calandosi meglio sul viso il cappello con lo stesso movimento, poi, con
le labbra rivolte all’ingiù in una smorfia tutt’altro che felice, diede voce ai
propri pensieri:
“Insomma.” Disse,
attirando non solo l’attenzione di Vista e di Jaws,
ma anche quella di Edward Newgate e Betty, lì vicino
solo per controllare meglio le dosi di sake
ingurgitate dal capitano. Il moro intercalò quella pausa con un sospiro mezzo
affranto e mezzo scocciato “Non è andata benissimo con Momo…”
Un sopracciglio
biondo di Satch scattò all’insù, non aggiungendo né
chiedendo altro in proposito, attendendo pazientemente che l’altro vuotasse il
sacco da sé. Ace poteva essere orgoglioso, cocciuto e tante altre cose, ma
sapeva bene di non potersi tenere troppo a lungo i propri crucci.
Bastava
pazientare un po’ e si sarebbe sfogato da solo.
Un ringhio
irritato esplose nella gola del comandante in seconda, mentre scattava in
avanti con la schiena, stropicciandosi nervosamente i capelli già spettinati di
loro. Il tutto sotto le occhiate mezze stranite, mezze divertite di Vista, Jaws e Barbabianca.
“Ma in che cosa
sbaglio?” fu la fatidica ed ingrata domanda, cacciata fuori quasi in un sospiro
dalle labbra del moro, fiondatosi, con la stessa grinta di un bradipo, con la
forchetta nel proprio piatto di pasta.
Satch fu sul punto di dire qualcosa ma,
bloccato dalle occhiatine significative di Vista, già sogghignante di fronte
all’invitante prospettiva di dar sfoggio delle sue conoscenze in materia, impose
alla propria natura da ficcanaso patentato di mettere bocca sulla questione in
un secondo momento.
“Non credo che
con la madamigella farai molta strada, continuando in questo modo.” Decretò
lisciandosi seraficamente i baffi il comandante in quinta, facendo scattare su
di lui gli occhi di tutti, in primis quelli stupiti di Ace.
“In che
senso?Spiegati.” rispose un poco punto sul vivo da quell’affermazione. Insomma,
lui cercava solo di farla divertire e farla sentire al sicuro, ma tutto quello
che faceva sembrava finire inevitabilmente con un bel buco nell’acqua.
Accanto a lui Satch ridacchiò e questo gli diede una buona ragione per
fulminarlo con gli occhi.
Da parte sua però
il biondo non accusò il colpo del fratellino: era troppo divertente vedere Ace
brancolare nel buio in quel modo, nonostante la risposta fosse talmente
semplice e lampante. Persino lui era riuscito a capire dove Vista volesse
andare a parare.
“Come ti appare
la signorina Momo?” rispose intanto l’uomo dal cilindro, quasi facendo finta di
non aver udito la domanda impaziente di Pugno d Fuoco, continuando imperterrito
ad accarezzarsi i baffi.
A quelle parole
il moro strabuzzò gli occhi, accigliandosi poi con fare sospettoso.
“Come mi appare?”
“Sì. Come la
descriveresti a parole tue?”
Ace gli scoccò
un’altra occhiatina sospettosa, alzando poi lo sguardo pensieroso verso l’alto,
ragionando meglio su quello che l’altro gli aveva chiesto.
Per un attimo si
figurò l’immagine di Momo, il suo corpicino esile non ancora del tutto ripreso
dal digiuno del naufragio, il modo in cui allargava gli occhi quando si
sforzava di capire qualcosa di nuovo, il tremore che sembrava scuoterla da capo
a piedi ogni volta che veniva colta da un attacco di panico, il modo in cui si
era poggiata al suo petto davanti all’infermeria…
Tutto quello gli
fece salire spontanei due aggettivi.
Satch lo guardò aprire bocca con trepidazione,
aspettando la fatidica risposta del moro che non tardò ad arrivare.
“Piccola e
fragile.”
E a quel punto il
comandante della quarta flotta non riuscì più a trattenersi dal parlare.
“Tombola!”
esclamò divertito, non riuscendo però a contagiare con il proprio sorriso anche
Ace che, troppo confuso dalla situazione, si limitò ad incitare il biondo a
starsene zitto con un’occhiata.
Cosa che,
ovviamente, Satch non fece.
“Sei troppo rude
con lo scricciolo, Ace, devi trattarla con un po’ più di riguardo!” aggiunse il
biondo, ricevendo appoggio da parte di Vista e Jaws,
che annuirono vigorosamente alle sue affermazioni.
“Ma io non sono
rude!” obbiettò con convinzione il moro lentigginoso, guadagnandosi da tutti,
compresi il babbo e Betty, degli sguardi decisamente poco convinti, cosa che
gli fece seriamente rivalutare le sue ultime parole.
Abbassò
istintivamente con una mano il cappello davanti agli occhi.
“Ok, forse un
pochino lo sono…” ammise, nascondendo il proprio
imbarazzo dietro la falda arancione del proprio copricapo “…, ma il fatto
rimane che non riesco a capire come trattarla! Ad ogni cosa che faccio o si
mette a piangere o si arrabbia!” si giustificò immediatamente, spostando lo
sguardo da una parte, provocando le risatine mezze intenerite e mezze divertite
degli altri quattro.
Satch ci aveva visto giusto: anche Ace era più
o meno nella stessa situazione di Marco, l’unica differenza era che lui almeno
sapeva di esserci, mentre il biondo ancora no. Soppresse a stento una risatina
di troppo: ci sarebbe stato da divertirsi.
“Uff… voi uomini.”
Tutti quanti si
girarono verso Betty, che, lasciato il compito di esaminare la cartella del
capitano a Carol, si era avvicinata verso di loro, ancheggiando in modo
talmente letale da scatenare una sinfonia di emorragie dal setto nasale di
almeno una decina di tavoli dietro di lei. Come faceva a non accorgersene?!
Quegli occhiali scuri che si ritrovava dovevano essere davvero micidiali per
non farle notare una cosa così lampante! Betty come carattere non era certo la
donna più socievole e trattabile del mondo - concesso -, ma se la si guardava
sotto un altro punto di vista, letteralmente, diventava immediatamente la più
bella cosa da guardare nell’ora dei pasti, omettendo l’eterea ed angelica
presenza di Penelope al suo fianco, e questo le aveva fatto guadagnare nel giro
di poche ore dal suo arrivo sulla
nave il titolo di “spezza-cuori della Moby”, tante
erano state le povere anime che, impavide, avevano tentato di, se non far
breccia nel suo cuore duro come il ghiaccio, riuscire nella folle impresa di
incastrarla sotto un intreccio di lenzuola.
I quattro
comandanti osservarono la formosa figura di Betty sedersi con nonchalance sul
ripiano del loro tavolo, cominciando a guardarsi distrattamente le unghie di
una mano, dando loro le spalle.
“Scovate ed
esplorate isole su isole seguendo qualche indicazione su una mappa ingiallita,
sbaragliate eserciti di marines con il semplice gesto di una mano…” disse con tono pensieroso la donna, accavallando
elegantemente le gambe. E via altri dieci tavoli. “… ma vi perdete come dei
bambini quando si tratta di leggere nel cuore di una donna.” Terminò con un
sospiro mezzo affranto.
Si voltò verso i
quattro comandanti, constatando, con una punta di soddisfazione visibile
nell’incurvatura della sua bocca, che pendevano letteralmente dalle sue labbra,
specie il comandante Ace.
Rimase per un
istante in silenzio, puntando i propri occhi invisibili su volto d Pugno di
Fuoco, saggiando compiaciuta la tensione da lei stessa creata, alzando poi una
per volta le dita della mano che poco prima stava esaminando.
“Delicatezza.
Moderatezza. Inventiva.” Disse in un lampo, lasciando spiazzato il moro e
prossimi ad uno scoppio di risate Satch e gli altri.
“Ovvero?” la
domanda scivolò quasi da sola dalle labbra di Ace, facendo sbuffare
clamorosamente Betty. Chissà se quel testone avrebbe capito meglio usando dei disegnini…
“Ovvero, Comandante Ace…” scandì, calcando con impazienza
le ultime due parole “…, trattatela con la stessa cura che si usa con una
bambola di porcellana, non fate il cafone, non invadete i suoi spazi e soprattutto…”
fece una pausa enfatizzando l’ultima parte come in una supplica, alzando gli
occhi, nascosti dalle lenti degli occhiali, al soffitto della mensa “… fate
qualcosa di carino per lei.”
La faccia di Ace
era a dir poco scombussolata.
“In sostanza,
fratellino: non fare più quello che hai fatto fino ad ora ed aspetta che sia
lei a venire da te. ” intervenne con tono divertito Satch,
non riscuotendo però alcuna reazione negativa da parte del moro, che intanto si
era messo a vagare con gli occhi neri come la brace un punto indeterminato
della sala.
Nella sua mente troneggiava l’espressione di
Momo davanti al tramonto che l’aveva portata ad assistere, il colore dei suoi
capelli reso più caldo dalla luce cremisi della sera, i suoi occhi spalancati e
rapiti da quello spettacolo come se non avesse mai avuto l’occasione di
contemplarne uno simile, le sue lacrime di pura commozione scivolare lungo le
sue guance leggermente abbronzate dal sole.
Un ghigno
furbesco gli stirò le labbra: ma sì, in fondo che ci perdeva ad essere un poco
paziente?
Di certo non
sarebbe volata via.
Atto 6, scena 2
Marco si stupì di
trovarla ancora lì quando riuscì a tornare sul ponte, tenendo con una mano il
vassoio discretamente pieno del poco che era riuscito a racimolare dalla mensa.
La notte era calata più velocemente del previsto ed il cielo si era imbrunito a
tal punto da far comparire in lontananza le prime stelle della sera.
Vide la ragazza,
rimanere seduta per terra a gambe incrociate con lo sguardo rivolto verso
l’alto, alla bramosa ricerca, forse, di altre stelle, senza neanche voltarsi in
sua direzione, sicuramente non avendo percepito il suo arrivo.
Rimase ancora per
qualche istante sulla soglia che collegava la coperta al ponte, osservandola
meglio nel suo vagare gli occhi lungo la volta del cielo notturno.
Il biondo si aspettò
di vederli tornare a brillare come poche ore addietro, ma poi distolse lo
sguardo, liberando la figura di Momo dal suo sguardo.
Non sapeva perché, ma fissarla in modo così
insistente in quella situazione gli diede quasi la netta impressione di star
assistendo a qualcosa di estremamente intimo, come se stesse assistendo ad un
momento strettamente privato di cui lui era indesiderato spettatore.
Fu tentato di
cedere all’urgenza di tornare sui propri passi, ma scosse subito la testa,
chiedendosi cosa diavolo stesse andando a pensare.
Non era da lui
comportarsi in quella maniera. Ma il fatto era che...
I suoi occhi
azzurri ritornarono sul volto di Momo, trovandolo ancora concentrato sui
piccoli lumini che uno ad uno iniziavano ad apparire sulle loro teste. Le
palpebre erano leggermente abbassate in un’espressione trasognata e vagamente
rilassata.
Serrò le
mascelle, maledicendo la linea dei propri pensieri.
… gli dispiaceva
distruggerle quel momento di tranquillità.
Si sforzò di
ignorare la rigidità che avevano assunto i suoi muscoli, trascinandosi con meno
facilità del solito al centro del ponte, dove Momo continuava ad osservare il
cielo.
Arrivò a meno di
un metro da lei senza troppi problemi, nonostante quella strana vocina dentro
il suo petto continuasse ad urlargli insistentemente di lasciarle lì il vassoio
e girare i tacchi.
Poi,
incredibilmente, la vide sbattere un paio di volte gli occhi stupita e girarsi
verso di lui, facendo incontrare i loro sguardi.
E la vocina
petulante si zittì in un istante.
“Ti ho portato da
mangiare.” Disse, recuperando immediatamente la propria compostezza,
abbassandosi alla sua altezza flettendo un ginocchio.
Gli occhi di Momo
indugiarono ancora un po’ su di lui, poi sul vassoio che aveva interposto tra
loro , sciogliendosi infine in un’espressione a cui il cuore di Marco reagì
mancando un battito: gli sorrise.
Non era nulla di
speciale come sorriso, le labbra erano semplicemente strette tra loro e
leggermente rivolte all’insù, ma al
primo comandante parve una cosa speciale come poche, così tanto che si era
ritrovato a desiderare inconsciamente di risponderle allo stesso modo.
Atto 6, scena 3, Arioso della cena
Mi ero stupita di
non aver sentito arrivare Marco.
Vedermelo
apparire a pochi centimetri di distanza così all’improvviso mi aveva colto alla
sprovvista, ma poi mi ero accorta che, oltre a non essersi dimenticato di me
come avevo temuto pochi istanti prima, si era anche premurato di portarmi la
cena.
Sorrisi di
gratitudine e di sollievo, stringendo però inconsciamente le caviglie
incrociate tra le mani a causa del prurito che di nuovo era esploso alla base
della mia gola. Sperai che il mio sorriso non apparisse troppo tirato a causa
di quella sgradevole sensazione che combatteva contro il mio forte desiderio di
ringraziarlo.
Se soltanto
avessi potuto dirgli “Arigatou gozaimasu”
come mi avevano insegnato Betty e Penelope…
Ma sì, in fondo
che male avrebbe fatto un semplice “grazie”? Di certo non sarebbe crollato il
mondo.
Spinta da quel
mio veloce e rassicurante ragionamento, atto soltanto ad auto-convincermi,
diedi aria alla gola, guardando in viso Marco.
Il modo in cui
sbarrò gli occhi, sorpreso di vedermi fare una cosa simile, mi fece però
bloccare le parole a mezz’aria e io mi morsi le labbra per la rabbia.
Ma perché?!
Perché sentivo di non doverlo fare? Che cosa spingeva il mio corpo a reagire in
quell’assurda maniera?
Scossi la testa
serrando gli occhi, mentre con un ringhio strozzato mi voltavo da un’altra
parte, stropicciandomi i capelli per il nervoso. Non mi interessava che Marco
fosse lì a guardarmi reagire in quella maniera: ero arcistufa! Non ne potevo
più! Più cercavo di capirci qualcosa più mi sembrava impossibile dare una
spiegazione logica a tutto quello che mi ritrovavo a subire!
Eppure c’era una
spiegazione. Ne ero certa. In mezzo a quel profondo ed oscuro abisso che avevo
in testa, avevo il sentore si nascondesse qualcosa di concreto. L’unica cosa
che dovevo fare era dissipare quella maledettissima coltre che la sottraeva
alla mia vista.
L’odore di
qualcosa leggermente acre e lievemente salato mi stuzzicò le narici portandomi
a riaprire di scatto gli occhi,
ritrovando davanti a me un piatto pieno di qualcosa che osai su due
piedi definire polpa di pesce.
Sbalordita seguii
la linea del braccio che mi teneva quella pietanza dinanzi, incontrando gli
occhi azzurri all’apparenza assonnati di Marco.
E mi venne un
colpo nel vederlo increspare le labbra in un leggerissimo sorriso.
“Anata ga tabereba hoo ga
ii desu.” Disse immediatamente lasciandomi stupita
dal modo in cui scandì bene la frase, forse per farmi capire al meglio
possibile le parole che la componevano.“Anata wa watashi yori
yaseta desu.” Terminò
con un tono che mi parve lievemente sarcastico.
Tra tutto quel groviglio
incomprensibile di parole ero comunque riuscita a capire soltanto anata e watashi, e mi
venne spontaneo solamente annuire ed allungare entrambe le mani sotto la
stoviglia che mi stava porgendo, arrivando con le dita a percepire il calore
emanato da quella pietanza attraverso la sottile ceramica di cui era composta.
La sua mano
scivolò via come un soffio di vento e io, un poco imbarazzata da quella strana
atmosfera che era improvvisamente calata su di noi, mi impegnai a portarmi alla
bocca piccoli bocconi con le dita, tenendo la testa china per non incontrare il
suo sguardo.
Cavoli, ma non
c’era proprio nessuno sul ponte a quell’ora? A parte il rumore delle onde che
si infrangevano sui fianchi della nave, l’unica cosa udibile in quel momento
sembrava il suono emesso dai miei denti che masticavano la carne bianca di
chissà quale animale!
Era strano però… Notai che, a differenza degli altri giorni, non mi
creava alcun fastidio ingoiare. Neanche un minimo accenno di dolore. Neanche
quando mandavo giù un boccone troppo consistente o mal masticato.
Lo trovai così
strano che mi bloccai nell’atto di portarmi alla bocca un’altra manciata di
pesce.
Osservai con fare
critico i rimasugli della pietanza nel mio piatto, analizzando con sospetto
ogni singolo filamento corposo che ne faceva parte, finché la voce di Marco non
mi giunse alle orecchie, distraendomi.
Atto 6, scena 4
Dopo essersi
seduto al suo fianco ed averle dato una delle pietanze da lui racimolate in
mensa, era rimasto ad osservarla con il volto inclinato e sorretto da una mano,
puntellando il gomito sulla gamba, studiandola in silenzio mentre masticava
lentamente e con gusto ogni piccolo boccone.
Almeno finché non
smise improvvisamente di mangiare senza alcun preavviso.
“Non hai più
fame?” disse il comandante della prima flotta, fronteggiando nuovamente gli
occhi della naufraga, in quel momento allargati da un leggero stupore, come se
si fosse improvvisamente ricordata che ci fosse anche lui, seduto accanto a
lei, sul ponte.
Alle sue parole
Momo tentennò, certamente confusa dalle sue parole e forse anche combattuta se
parlargli o meno. Non era difficile da capire. Poco prima l’aveva vista essere
sul punto di azzardare una parola, ma solo per bloccarsi un istante prima di
riuscirci e dissolvere quel momento di aspettativa che le sue labbra, schiuse
in sua direzione, avevano creato.
Il biondo si
corrucciò, sentendo l’irrefrenabile e frustante bisogno di far luce su quello
strano comportamento che, era ormai certo, era legato indissolubilmente al modo
in cui aveva pronunciato il suo nome soltanto un giorno prima.
Il problema però,
stava nel come.
Davanti a lui
Momo, avvertendo lo sguardo della Fenice mutare in un’espressione certamente
meno morbida del solito, parve farsi inquieta, girando gli occhi altrove, indirizzandoli nuovamente verso l’alto e,
dopo un attimo di esitazione dettato dallo stupore, illuminando il proprio viso
con un sorriso tanto entusiasta da portare Marco a fare lo stesso.
“Wow.” Fu tutto
quello che la Fenice riuscì a dire osservando quello che sopra di loro si era
andato silenziosamente a formarsi.
Una consistente e
brillante coltre di stelle, tanto densa da lasciare a malapena spazio al blu
scuro del cielo notturno, ondeggiava sulle loro teste, schiarendo con la loro
luce vibrante il ponte della Moby, quasi fosse stato giorno. Nella sua vita da
pirata Marco aveva avuto occasione di vedere cose bizzarre, delle quali ne
aveva letto l’esistenza sui libri che componevano la biblioteca della nave,
solitamente visitata solo da lui, ma mai
gli era capitato di assistere in prima fila ad un esibizione della famosa Mirukīu~ei.
Ai suoi occhi era
come se il cielo notturno avesse tracciato una rotta luminosa per la stessa
Moby, dividendo il cielo in due parti con una sorta di fenditura centrale, impreziosita
da quei piccoli brillanti paragonabili solo a qualcosa di timidamente
sovrannaturale.
Come piccole e
lontane fate bianche che con il loro bagliore incitavano quell’enorme
imbarcazione a proseguire sicura il suo
lungo viaggio, in una notte in cui soltanto una leggera brezza ne
gonfiava languidamente le innumerevoli vele.
Definire quello
spettacolo incantevole sarebbe stato
addirittura un insulto. Era semplicemente…
Per lui però la
calma provocata da quella vista spettacolare venne bruscamente interrotta da
Momo che, per chissà quale motivo, si era alzata di scatto, abbandonando il
piatto sulle travi del ponte, dirigendosi decisa verso il parapetto della nave,
dove si poggiò con entrambe le mani, sporgendo in avanti la testa in avanti,
nell’atto di osservare meglio quella scena che era stata capace persino di
mozzare il fiato a lui, uno dei più temuti uomini di Barbabianca.
Il biondo rimase
lì, fissandola passivamente da lontano, mentre quella si dondolava lievemente
allo stesso tempo dei suoi capelli, mossi dalle leggerissime folate di vento a
quell’ora ricco di salsedine fresca mettendosi poi a sorridere inconsciamente.
Quella ragazza,
che nonostante la corporatura doveva avere come minimo vent’anni, dava una
sensazione di spensieratezza fuori dal comune. Era come vedere un bambino che
si entusiasma per qualche fuoco d’artificio: stesso identico principio.
Le sue ciglia si
aggrottarono nel notare la spallina della camicia che indossava, scivolare
lungo la linea della spalla, lasciandola scoperta.
Distolse lo sguardo, maledicendo se stesso, la
sua camicia e le insinuazioni dannatamente fondate di Ace.
Quella che aveva
davanti non era una ragazzina.
Poi un’ombra lo
oscurò, facendogli accorgere che Momo si era riavvicinata a lui e questa volta
seria in volto. Non fu però solo quello a far inquietare Marco, anche se di
poco.
La ragazza lo
stava guardando intensamente e senza un’ombra di un sorriso, e con gli occhi
che brillavano. Erano diventati dorati.
Luminosi,
palpitanti, appena oscurati dalle palpebre lievemente abbassate, illuminati
come se al loro interno fremessero la soffusa e calda fiamma di una candela.
Il capitano della
prima flotta fece appena in tempo a rendersene conto prima che la voce di Momo vibrasse
in aria con la stessa tonalità di un lungo respiro ritmato da pause e parole
così ben misurate da somigliare ad una canzone.
Gli occhi cerulei
di Marco di dilatarono.
Quella, però, non
era una canzone.
“Vorrei
tanto che tu mi capissi. Ma purtroppo, dovrò aspettare di conoscere un po’
meglio questa lingua Marco-san.” Vi fu una pausa, scandita da un
sorriso imporporato sulle guance ma sincero “Non so perché parlo in questo
modo, ma … a quanto sento, pare che per parlarci dovremo aspettare la notte… Quindi… Visto che siamo
qui, … m’insegnerebbe qualcosa’altro a parte Anata wa e Watashi wa? ”
E si ritrovò ad
annuire inconsciamente, stupito di quello a cui stava assistendo.
Comprendeva perfettamente, nonostante la
confusione iniziale, quello che aveva voluto dirgli. E, anche se stentava a
crederci, mentre si alzava in piedi davanti a lei guardandola con occhi
indagatori, una cosa la capiva: gli aveva appena rivolto la parola. A lui, solo
a lui. In modo unico e spontaneo che sembrava andare oltre la sua volontà.
E il tutto sempre
guardandolo con quegli occhi fiammeggianti.
Atto 6, scena 5, Arioso sul ponte
L’espressione di
Marco dopo avermi sentito parlare in quel modo mi aveva un poco preoccupata. Lo
avevo visto alzarsi e puntarmi addosso i suoi occhi rapaci per dei secondi che
mi parvero interminabili, analizzandomi così intensamente il volto da farmi
quasi desiderare di scappare via.
Poi però, come se
il tempo si fosse improvvisamente sbloccato, lo avevo visto ricominciare ad
accompagnare le parole ai gesti, indicandosi la camicia slacciata che
indossava, pronunciando lentamente una frase che avevano diede inizio ad una
seconda ed inaspettata lezione di lingua.
“Watashi no shatsu.”
Era cominciata
così.
Ed io avevo cominciato a registrare ed a
ragionare su ogni singola parola, da lui pronunciata nel bel mezzo del silenzio
con tono lento e strascicato, a volte
interrompendo l’atmosfera con i miei impacciati tentativi di imitare alla
perfezione la sua pronuncia, fallendo miseramente tuttavia ogni qualvolta la
mia voce provava a liberarsi da quell’assurdo modo di parlare mezzo cantato.
Ancora non
riuscivo a spiegarmi come mai mi fossi improvvisamente decisa a parlargli.
Era stato poco
prima che, mentre mi beavo del bagliore lontano di quella distesa di stelle, la
mia mente era stata scossa da uno schiocco improvviso, e i miei pensieri erano
deragliati in un istante sul fatto che non riuscivo a rivolgere la parola a
quello strano biondino.
Poi avevo sentito… qualcos’altro, come una consapevolezza
di sicurezza diffondersi nel mio petto, facendomi allargare gli occhi e
dirigere a passi veloci verso di lui, distante di soli pochi metri, cominciando
a pronunciare ogni frase in un modo che, per un istante, mi face dubitare che
fossi io a parlare e non qualcun’altro.
Marco però, anche
quell’iniziale attimo di mutismo, sembrava non avervi dato troppo peso e
continuava ad insegnarmi parole su parole, standomi seduto accanto con la
stessa identica espressione seria di sempre, mentre io, facendo di tutto per
non farmi distrarre da quel formicolio all’altezza della gola, stavo distesa di
pancia sul ponte, dondolando distrattamente le gambe avanti ed indietro,
ripetendo a mezza voce le sue parole.
Avevo imparato
molto in quei pochi intensi minuti: come si indicava una cosa estranea, cosa si
aggiungeva alla fine di una frase negativa o interrogativa, come dire sì o no.
Insomma, alla fine non era così difficile dopo aver capito qual’era il soggetto
e quale il verbo.
“Kore wa fune desu ka?”
chiesi, sempre modulando in lunghi suoni le parole, oscillando il dito indice
sopra la superficie legnosa del ponte principale, come aveva fatto lui poco
prima. Mi stupii quando lo vidi scuotere leggermente la testa in segno di
negazione.
“Īa, kore wa fune no hashi desu. Kore wa dekki desu.”
Mi corresse, ondeggiando una mano in modo da simulare qualcosa di piatto e
allora capii: dekki = ponte della nave.
Annuii un poco
titubante, premendo con poca convinzione il dito indice sul legno freddo sul
quale ero sdraiata “Décchi” ripetei stravolgendo
la pronuncia. Mi morsi la lingua e cercai di ripetere quella parola un altro
paio di volte.
Fu allora che
Marco, sbuffando appena, si alzò da terra, chinandosi accanto a me con un
braccio poggiato sulla gamba flessa, mentre il ginocchio dell’altra si era
impuntato per terra .
Sbarrai gli occhi
quando lo vidi allungare una mano verso
e il mio viso e poggiarla delicatamente sui lati della mia mascella tastarne
delicatamente la pelle con la punta delle dita, scandendo poi la stessa parola,
tenendo la mano premuta sempre allo stesso modo.
“Dekki” ripeté, guardandomi dritto negli occhi. Io per un
attimo rimasi incantata, osservando il modo in cui le sue pupille, nonostante
la scarsa luce, mantenevano sempre la stessa tonalità di azzurro limpido, lo
stesso che assumeva l’acqua di mare quando la sabbia cominciava gradualmente a
prenderne il posto prima di diventare spiaggia.
“Dekki” dissi infine, combattendo contro la strana
inquietudine che quella mano premuta sulla mia gola mi provocava. Lo guardai
con occhi lievemente intimoriti e confusi, e parve accorgersene, a giudicare da
come sussultò e biascicò a testa bassa uno “scusa”, mentre allontanava le sue
dita ruvide dal mio collo, facendole scivolare via.
Mi sentii in
colpa, ma non ebbi nemmeno il tempo di dirgli di non preoccuparsi che subito
lui si era diretto verso il parapetto della nave, poggiandovi una mano e
grattandosi con nervosismo la testa china per l’imbarazzo.
Stavo giusto per
avvicinarmi a lui per chiedergli scusa quando vidi attraverso l’aria scura della
notte le sue spalle irrigidirsi e la sua testa scattare dritta, puntando con
gli occhi verso un preciso punto dell’orizzonte.
Indirizzai
istintivamente lo sguardo più meno nella sua stessa direzione e sentii
chiaramente il cuore cominciare a pulsarmi più forte nel notare qualcosa di
diverso galleggiare sulla imperturbata distesa d’acqua.
Due ombre grandi
e scure, si ergevano poco sotto la linea del cielo, oscurando di poco la vibrante
e cristallina superficie del mare. La sagoma di tante forme quadrate trafitte
da qualcosa di perpendicolare ad una terza forma indefinita si ripeteva una
seconda volta creando uno strano effetto di specularità, nonostante le
dimensioni delle due figure variassero di poco essendo chiaramente distanziate
tra loro di qualche metro.
Realizzai che si
trattava di due navi solo quando mi sentii afferrare per mano da Marco e tirare
via da lì, portandomi giù per la
sottocoperta, e mi venne quasi da obiettare quando i miei occhi vennero
duramente feriti dalla luce delle lampade che illuminavano l’interno
dell’imbarcazione, costringendomi a coprirmi il viso con una mano, mentre
davanti a me l’altro borbottava qualcosa con una punta di irritazione.
“Hōmon suru ni hitobito Akagami
wa shiranai.”
Atto 6, scena 6, Red Force
“Ehi Shanks.” La voce di Yasopp arrivò
stranamente limpida alle orecchie intorpidite del capitano, facendogli
socchiudere oziosamente un occhio, ma solo per poi richiuderlo non appena un
clamoroso sbadiglio proruppe dalla sua gola, allargandogli di almeno tre volte
tanto la bocca.
“Mmmh?” mugugnò poi, mentre cercava di focalizzare bene il
paesaggio notturno che circondava la sua nave, calata nel più completo silenzio
con l’arrivo dell’oscurità. Si strofinò la guancia destra con la mano,
rialzandosi faticosamente dal parapetto sul quale era crollato dopo aver fatto
uso del proprio haki per ben 18 ore di fila.
Diamine, ma dove
la prendeva tutta quell’energia il nonnetto?
Se il vecchio
Marine non si fosse provvidenzialmente addormentato in piedi durante la sua
ennesima scarica di lanci diretti alla sua nave, era certo che sarebbe stato
costretto a chiudere velocemente il loro piccolo diverbio con una ritirata
strategica.
Cosa che, tra
l’altro, non avrebbe fatto che sia peggiorare l’umore di Garp,
sia mandare a monte i propri progetti. Eh no, aveva aspettato da mesi
un’occasione simile e non se la sarebbe fatta sfuggire così facilmente!
Fortunatamente,
anche se il vice ammiraglio era stato interrotto da un inaspettato attacco di
narcolessia, i suoi sottoposti sembravano sempre più intenzionati a non perdere
di vista la Red Force ed a stare loro appiccicati
come delle sardine sul ventre di una balena.
Tanto meglio per
loro.
Ridacchiò tra sé
e sé, mentre al suo fianco il suo fidato cecchino lo squadrava dubitando
seriamente della sua salute mentale… non che avesse
mai fatto il contrario, ma, dopotutto, quello di essere un completo pazzoide
con un potere senza eguali tra le mani era una cosa che lo aveva spinto a
diventare suo compagno di disavventure.
Soprattuto disavventure.
“Siamo arrivati,
bell’addormentato.” Disse semplicemente il rasta, godendosi la vista
dell’imperatore Rosso sbarrare gli occhi per la sorpresa e scoccargli
un’occhiata incredula, con ancora l’unico braccio alzato nell’atto di
scompigliarsi la fulva capigliatura.
“Davvero? Così
tardi?” esclamò il capitano guardando il cielo completamente scuro sopra di
loro “Ma è notte!” obbiettò infine, ribadendo l’ovvio a quei pochi della ciurma
che, per godersi lo spettacolo fino in fondo si erano letteralmente accampati
sul ponte scolandosi del buon sake fresco di botte
fino a ritrovarsi più ubriachi che addormentati.
“Ma non mi dire.”
Sentenziò sarcastico Ben seduto a gambe accavallate sul parapetto della nave,
guardando i ponti della Moby Dick accendersi man mano che il vento li portava
più vicini all’imbarcazione nemica.
“E ci siamo
giocati l’effetto sorpresa.” Terminò lugubre, parlando con la sigaretta
consumata tra le labbra, che ben presto venne gettata senza troppi riguardi in
mare.
“Chi c’è al
timone?” domandò di getto Shanks accigliandosi più
serio che mai, mettendo in allarme i tre suoi ufficiali più fidati, che si
irrigidirono da capo a piedi per un istante.
“Rockstar.”
Rispose il vicecapitano tenendo ancora in mano la sostituta della prima stecca
di tabacco, senza osare accenderla per la tensione. Rockstar era solo un
novellino tra loro, e gli sarebbe dispiaciuto vederlo alle prese con uno dei
rari, ma comunque temibili, momenti in cui il Rosso si arrabbiava con uno di
loro. C’era solo da sperare che il capitano
non esagerasse o sia lui che Lou e Yasopp si sarebbero dovuti coalizzare per evitare inutili
scenate.
Ci fu un momento
di silenzio sulla nave, durante il quale il volto dell’imperatore Rosso venne
oscurato da un’espressione indecifrabile. Gli occhi vennero coperti da
un’ombra, accentuata dalla scarsità di luce dovuta all’ora tarda, e gli angoli
della bocca rivolti all’ingiù, aumentando l’ansia dei presenti, specie quella
del povero Rockstar, ora aggrappato al timone come un bambino colto con le mani
nel sacco dalla mamma ed irrigiditosi proprio nella stessa incriminante
posizione.
Il povero pirata
da 94.000.000 di berry sulla testa tremò al pensiero di dover già
rimpiangere i vecchi santini, regalati dalla sua povera mamma il giorno della
grande partenza, che aveva incoscientemente buttato via alla prima occasione,
ritenendoli “inutili gingilli per creduloni”.
Che male avrebbe
potuto fargli qualche piccola, e forse ultima, preghiera?
Poi però accadde
qualcosa. Le labbra del capitano si incurvarono lentamente ed inaspettatamente
nel senso opposto a come erano prima ed una fragorosa risata esplose dalla gola
del rosso, lasciando interdetta tutta la ciurma di bucanieri.
“Ahahah! Ehi, Rockstar! Bel lavoro! Continua per questa
rotta! Dopo io e te ci scoliamo cinque botti di sake
insieme!”
Tutti quanti si
guardarono con gli occhi che se non erano usciti dalle orbite poco ci mancava.
Ben e Yasopp si guardarono con altrettanta perplessità: si erano
persi qualcosa loro o il loro capitano si era rivelato ancor più ottimista di
quanto già non fosse?
Poco importava.
L’unica cosa che sembrava certa era che Shanks era
riuscito a sorprenderli per l’ennesima volta in circa vent’anni di pirateria.
“Dirigiamoci
ancora per un po’ verso la Moby e poi serrate le vele quadre per metterci in
panna!” decretò con voce chiara il Rosso, rivolgendosi a coloro che assistevano
a quella scena da sopra i pennoni del grande veliero, ergendosi nel bel mezzo
del ponte con la mano destra che gesticolava con una certa premura.
“E mi raccomando:
issate su la bandiera bianca! Non sia mai che anche il vecchio Newgate decida di prenderci a cannonate per precauzione!”
Atto 6, scena 7, Moby Dick
“Quel mocciosetto …” borbotto Newgate
con gli occhi puntati sulla nave sempre più riconoscibile che si stava
avvicinando a loro, portandosi appresso come un cagnolino una nave della
marina.
E non una nave
qualunque, pensò allargando ancor di più il proprio sorriso non appena
riconobbe l’inconfondibile polena a forma di cane, ma quella del vecchio Monkey D. Garp!
Quanto tempo era
passato dall’ultima volta che l’aveva visto? Dieci anni? Ricordava bene le
poche volte che le loro strade si erano incrociate e dire che il divertimento
fosse stato esaltante era addirittura poco.
Che motivo poteva
avere quel marmocchio dai capelli rossi per portargli un simile regalo?
I suoi grandi
occhi s’impuntarono su qualcosa che lentamente stava risalendo l’albero maestro
di quella barchetta, chiamata così pomposamente veliero, sventolando
freneticamente come se scalpitasse di venire notata.
Una bandiera
bianca. Addirittura.
“Moccioso irritante…” ribadì quasi dimenticandosi di essere in mezzo
ai propri figli che, come lui, si erano riuniti sul ponte principale dopo
essere stati avvertiti dal primo comandante Marco dell’arrivo di
un’imbarcazione nemica all’orizzonte.
E si poteva ben
immaginare lo scalpore generale quando la nave in questione si era rivelata
essere quella di Shanks il Rosso.
“Ma che diavolo
vuole il Rosso a quest’ora?!” “Non lo so, ma di certo nulla di buono.”
“Accidenti a lui…” “Ma siete ciechi o idioti?! Non
avete visto che a messo su bandiera bianca?!” “Bandiera bianca?!” “Vuole
arrendersi?!” “Se, se… aspetta e spera. Il Rosso non
si arrende mai.” “Al massimo viene qui a rompere le scatole.”
“Piantatela di
fare i bambini.” Sbottò con tono piatto la voce di Marco, passato accanto senza
neanche rivolgere loro lo sguardo con le mani infilate stancamente nelle tasche
dei suoi pantaloni, attirando così su di sé le occhiate di buona parte della
ciurma da lui zittita che però non perse tempo a ricominciare a bisbigliare,
questa volta riferendosi proprio al primo comandante della Moby.
“Ma che ha il
comandante Marco?” “Già, oggi sembra addirittura irritato.” “Chissà perché…” “Ma non l’avete la testa voi? Non vi ricordate con
chi era quando ha avvisato tutti in sala da pranzo?” “Con chi?” “Sveglia! Era
con Momo!” “Momo chi? Vuoi dire la naufraga?” “E chi se no…”
“Aaaah! Vuoi dire che il comandante Marco…?”
L’imperatore
bianco vide i volti dei propri figli allargarsi in sorrisetti sornioni e
compiaciuti almeno quanto il suo in quel momento, avendo sentito tutta la
conversazione.
Bene bene. Altre novità in arrivo.
“E dovè adesso?” “L’ha di nuovo affidata alle cure di
Penelope, ma neanche lei sembrava molto contenta di essere separata dal
comandante.” “Oh-o! Quindi gatta ci cova per
davvero!” “Ma non era la gallina a covare?” “È solo un modo di dire, idiota.”
Intanto, vicino a
Satch e gli altri comandanti, la Fenice stava
appoggiato al parapetto della nave, guardando con dovuto astio la Red Force farsi sempre più vicina. Non gli era andata giù
quell’interruzione da parte del Rosso e, il fatto che sembrasse essere capitato
tra capo e collo solo per infastidire con la propria presenza il babbo, non
faceva che rafforzare considerevolmente il nodo che gli stringeva
fastidiosamente la bocca dello stomaco.
Sbuffò più
rumorosamente del solito, voltando le spalle a quello spettacolo che rischiava
di fargli venire la prima ulcera della propria vita, e dirigendo gli occhi al
cielo dove le stelle continuavano tranquillamente a scintillare, facendogli
ritornare alla mente quella surreale situazione vissuta pochi minuti prima in
compagnia della naufraga.
Nelle orecchie
parve riecheggiare la voce appena sospirata e soave di Momo, mentre ripeteva
insistentemente ogni più piccola parola da lui presentata e spiegata, e sullo
sfondo del cielo nero sembrarono apparire due iridi dorate.
Aggrottò la
fronte.
Non era normale.
Non era normale che una persona per parlare
sentisse spontaneo pronunciare interi discorsi in quel modo dannatamente dolce
e melodioso.
Non era normale che lui, non appena scorta
all’orizzonte la nave del Rosso, avesse desiderato ardentemente che il tempo si fermasse solo per dargli ancora un po’
di tempo.
Tempo per capire
sia lei … che lui.
Perché,
soprattutto, non era assolutamente
normale che lui avesse provato il forte desiderio di avvicinarsi a quella bocca
vibrante tanto da poterne avvertire sulle labbra i suoni prodotti.
Merda, era l’unico pensiero che riusciva a realizzare, mentre si copriva
gli occhi con una mano, covando l’inutile speranza di riuscire ad oscurare
quelle immagini che continuavano però a tormentarlo.
E mentre Ace lo
guardava incuriosito, ignaro dei discorsi di Satch e
gli altri sull’arrivo del Rosso, Marco si ritrovò a sperare che l’imperatore
riuscisse a dimostrarsi irritante anche per lui.
Almeno avrebbe
impegnato la testa in qualcos’altro.
…
Merda.
Fine prima parte Atto Sesto.
Freme tutte! Non uccidetemi! Posate arpioni, cannoni, c4 e armamenti
vari!
Lo so! Ho finito l’atto troppo presto e l’ho pubblicato tardi! Non ho
fatto entrare in scena Roid e ne sono davvero
dispiaciuta! Ma capitemi! Y-Y Non volevo farvi un torto e non è nemmeno
mancanza di ispirazione! Giuro!!!
Ok. Sono riuscita ad impietosirvi?
*cicale di sottofondo*
Direi che ho fatto di peggio. Vabbè passiamo
al nocciolo della questione così magari evito di venire abbattuta da uno dei
vostri cecchini prima di porre le mie motivazioni e SOPRATTUTTO (alza un dito,
bloccando il cecchino in apnea) le domande fondamentali che arricchiranno la
seconda parte dell’atto!
*partono applausi*
Ah, la sala si è ripopolata. Bene bene.
Partiamo con raccomandazioni e ringraziamenti.
1°: L’incontro tra Momo e Roid S.S.P.M (non dico per cosa sta, fate voi. XD) ci sarà!
Eccome!
2°: Ringrazio Mishka per ribadire sempre
quanto le piaccia il mio stile di scrittura! ^^
3°: Ringrazio tutte voi che avete recensito, preferito, seguito questa
ff, che continuerà, dando un senso alla sua
esistenza! Y-Y sob, mi commuovo sempre.
Ok basta. È una ff su One
piece non su 100 vetrine o chissà che soap opera.
Passiamo alle domande con le dovute spiegazioni:
1)
Volete
dare un aspetto a Momo?
Breve motivazione di quest’assurda ed autolesionistica domanda: mi è
stata messa una pulce nell’orecchio da HG (sì! Tu che volevi il disegno!) su
un’impellente bisogno di sapere che aspetto ha la nostra Momo, ma, come dissi
nel primo capitolo/atto della fan fiction, essendo una readerxPG
il personaggio rimane immacolato per lasciare che il lettore (appunto reader) possa
immedesimarsi nella protagonista, ma se il vostro volere è dare un aspetto
preciso a questa bambolina pucciosa, io, come vostra
autrice schiava (calme eh?) asseconderò i vostri desideri.
Quindi, se la risposta alla prima domanda è sì passate direttamente
alla seconda:
2)
Se sì,
compilate la seguente “scheda”
Occhi: colore
Capelli: colore, lunghezza, consistenza (crespi,
spinosi, ricci, lisci, ondulati), frangetta o meno
Pelle: colore/ abbronzata (di quanto)
Altri segni particolari
Come vedete sono solo le cose essenziali. Per scegliere sceglierò i
“denominatori comuni” per così dire, ovvero gli elementi più citati nelle
vostre descrizioni, componendo alla fine l’aspetto di Momo per mettere un po’
di tutto nella descrizione.
Ovvio che, se deciderete di
darle un aspetto in maggioranza io non mi tirerò indietro e posterò poi più
avanti un disegno della nostra pucciosa naufraga! X3
Ed inoltre la seconda parte dell’atto conterrà delle descrizioni fisiche di
Momo più dettagliate! Che dite?
Aspetto con ansia le vostre risposte!
Bye bye!
Note di LIBRETTO: Jap > Ita
Anata ga tabereba hoo ga
ii desu
> Sarebbe meglio se mangiassi.
Anata wa watashi yori
yaseta desu > Sei più magra di me.
Watashi no shatsu > La mia camicia.
Kore wa
fune desu ka? >
Questo è la nave?
Īa, kore wa fune no hashi desu. Kore wa dekki
desu > No, questo è il “ponte della nave”. È il
ponte.
Dekki >
Ponte (della nave)
Hōmon suru ni hitobito Akagami
wa shiranai. > Il
Rosso non sa quando far visita alla gente