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Autore: rhys89    31/07/2010    0 recensioni
Quando una cometa scivola sinuosa nello spazio infinito, dalla sua coda si staccano migliaia di piccoli brillanti, che vanno ad illuminarne la scia di una luce quasi surreale.
Ecco, io ho raccolto questi gioielli che sono le canzoni di Max Pezzali, li ho levigati fino a quando non ne è rimasta che la frase più esemplificativa e li ho incastonati in tante piccole storie.
Alcune avranno un contesto simile a quello del brano a cui fanno riferimento, altre saranno diametralmente opposte... ma tutte ruoteranno attorno alla luce di quel frammento di cometa, luminoso sulla carta così come nel cielo.
Prima di iniziare, però, ecco un paio di note:
Gli avvertimenti della raccolta NON si ritrovano in tutti i capitoli... infatti ci saranno in prevalenza racconti etero, e solo alcuni yaoi o yuri.
Sottolineo inoltre che le mie storie NON saranno song-fic, ma si ispireranno soltanto al brano scelto per ciascuna.
Detto questo, vi auguro buona lettura! ^^
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash, Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Angolino dell'autrice

Ciau! ^_^
Eccoci di nuovo qui, con questa piccola raccolta che mi rendo conto procede molto a rilento... ma che volete farci, l'ispirazione è una donna capricciosa... -.-"
Comunque bando alle ciance, questa volta vi propongo un capitolo più classico, se vogliamo. E' una het che riprende alcuni cliché (naturalmente non vi dirò quali, però ù.ù) ed è MOLTO melensa, in alcuni punti... ma è uscita così, quindi io mi sono umilmente adattata alle sue richieste ^^"
Per quel che riguarda la canzone, è Se tornerai e il testo lo potete trovare qui: Se tornerai.
Si tratta di una canzone molto triste e malinconica, e un po' la storia ha ripreso queste sue caratteristiche... ma non voglio svelarvi altro ;P
Piuttosto ringrazio moltissimo tutti coloro che, nonostante l'evidente discontinuità, continuano imperterriti a seguirmi e, soprattutto, la carissima Feffe_Cullen_Blast (ormai Solly ^^), che mi lascia quei commenti che mi fanno tanto tanto piacere!! *-*
Di nuovo, visto che è passata un'enormità di tempo, posto il tuo commento prima di rispondere ^^
Feffe_Cullen_Blast: Visto che sono tanto una brava ragazza e recensisco? Voglio un altro biscotto ù.ù
No, scherzo, dai XD Intanto che dire... a parte che quando ho visto che questa volta era una yuri mi hanno scintillato gli occhi? Putroppo hai ragione, ce ne sono poche di storie yuri in giro, ma ho intenzione di colmare questo deficit in tempi relativamente brevi XD
Passando alla storia... come al solito scritta benissimo, questo è ovvio ù.ù Mi è piaciuta, mi è piaciuta! E lo penso anche io, che quella diavolo di porta potevano anche chiuderla, per un po' XD Complimenti ancora e... colgo dell'occasione per augurarti buone feste!

Risposta: Che dire... grazie ancora per i complimenti, fanno sempre piacere... soprattutto se sono di una collega in gamba! ;P Comunque sia spero ti piaccia anche questo capitolo, nonostante sia molto canon (soprattutto per i miei standard, ma vabbé, ho rimediato un po' con lo stile ^^)... e spero di sentire un tuo parere, naturalmente (e questo NON per spingerti a commentare... nooooo!! xD) e... bho, non so che altro dire. Quindi a presto e buona lettura! ^^


Buona lettura a tutti!! ^-^



Prompt N.41: Se tornerai
Titolo: Il colore del cielo
Raiting: Verde
Genere: Romantico, malinconico, introspettivo
Avvertimenti: Nessuno
Disclaimer: Ovviamente i diritti delle canzoni citate non appartengono a me ma all'autore ed io non ci guadagno una lira (figuriamoci un euro XD) a scriverci sopra, solo la soddisfazione personale di complicarmi la vita... e magari qualche commentuccio... vero? *-*

Il colore del cielo

…Però credimi
se tornerai
magari poi
noi riconquisteremo tutto…


Era un giorno strano, quel martedì. Uno di quei giorni che sembrano uguali a tutti gli altri, eppure presentano una nota stonata.
È un sussurro quasi impercettibile, la sensazione irrazionale che qualcosa sarà diverso.
E non resta altro da fare che sedersi in un angolo ed aspettare di scoprire cosa.
E così Monica aspettava, seduta composta al suo banco, lo sguardo distratto rivolto all’insegnante e la mente chissà dove.
Era l’ora di inglese, la terza di quella lunga mattina… ma lei non ne poteva già più. Lanciava rapide occhiate all’orologio della sua compagna di banco, seriamente convinta che fosse rotto: il tempo non poteva passare così lentamente!
Poi un lieve bussare la riscosse appena dal suo torpore, giusto in tempo per vedere una testa bionda far capolino dalla porta dell’aula.
«Professoressa Leoni?» Chiese il ragazzo con un sorriso imbarazzato.
«Sì, cosa c’è?» Fece la donna, seccata per l’interruzione.
Tuttavia, prima che lui potesse rispondere alla domanda, il custode aveva fatto irruzione nella stanza con un banco tra le braccia e, senza che nessuno gli avesse detto niente, lo aveva poggiato di malagrazia accanto alla cattedra ed era riuscito. Stessa sorte era toccata ad una sedia in legno alquanto malridotta.
«Suppongo che tu sia il nuovo studente.» Disse quindi la professoressa dopo alcuni secondi di silenzio attonito. «Come ti chiami?»
«Francesco de Santi.» Rispose lui, ancora un po’ shockato.
«Well, welcome on board, Francesco. Sistemati in prima fila accanto a lei.» Ed indicò con un cenno distratto una sbalordita Monica. «Ah, se qualcosa non ti è chiaro chiedi pure.» Aggiunse come ripensandoci, per poi tornare alla spiegazione, riprendendo ad elencare le numerose opere di Shakespeare.
Il ragazzo annuì una volta, poi allineò il banco dove gli era stato detto e si sedette.
«Piacere, Monica.» Sussurrò la ragazza, approfittando della distrazione della prof, impegnata a scrivere alla lavagna.
«Francesco.» Rispose lui con un sorriso a trentadue denti, decisamente più luminoso della pallida imitazione che aveva esibito al suo ingresso.
«E io sono Elisabetta.» Si intromise la ragazza alla destra di Monica.
«E io Carolina.» Aggiunse la bionda della fila accanto.
«Marco.» Le fece eco il compagno di banco.
In breve tutta la classe si era presentata al nuovo venuto, che rispondeva a tutti con un sorriso di ringraziamento.
Arrivò infine la tanto agognata ricreazione.
Francesco si ritrovò letteralmente assediato dai ragazzi della IV D, tanto da non riuscire quasi a respirare.
Ogni singolo alunno lo voleva conoscere, come se fosse stato chissà quale celebrità.
Bhé, ovviamente c’era qualche eccezione.
Monica, ad esempio, aveva deciso di scendere in cortile a fumare con le amiche. O meglio, a guardar fumare le amiche: solo a vedere una sigaretta iniziava a tossire. Stupida asma.
E stupidi pure i suoi compagni di classe, aggiunse tra sé. Come se non lo sapesse che il loro interesse era esattamente quello che hanno i bambini per un giocattolo nuovo: dai loro modo di abituarsi alla sua presenza e quasi non lo considerano più.
Con questo non intendeva dire, anzi, pensare, che il nuovo arrivato non fosse interessante, tutt’altro. Soprattutto per quegli occhi grandi, più azzurri del cielo d’estate. Aggiungendo poi i boccoli biondi e il sorriso da favola, quel ragazzo sembrava quasi un cherubino venuto in missione sulla terra.
Chissà dove aveva lasciato arco e frecce. E soprattutto il simpatico completino… era sicura che gli avrebbe donato ancora più di jeans e maglietta.
Ridacchiò alla propria battuta, dandosi anche della pervertita: ancora non lo conosceva e già se lo immaginava nudo?
«Non si fa, Monica.» Borbottò tra sé, prendendosi in giro.
«Cosa non si fa?»
Come nella più classica delle commedie, Francesco le era spuntato alle spalle, curioso di sapere perché mai parlasse da sola in mezzo al corridoio. E magari anche di cosa parlasse.
«Niente, niente, parlavo da sola.» Gli rispose, grattandosi il collo imbarazzata.
«Questo l’avevo capito.» Ribatté lui con un sorriso ironico.
Sorrise anche lei, appoggiandosi al muro e alzando la testa per guardarlo in viso: era decisamente alto.
«Confessa, pensavi male di me, giusto?» L’accusò in tono scherzoso.
«Certamente.» Confermò, finta seria. «Dopotutto ti conosco così bene, ho migliaia di motivi per odiarti.»
Francesco gli concesse una mezza risata, per poi chiederle «Allora perché sei scappata a ricreazione, anziché stare con me?».
Il tono era divertito, ma la ragazza seppe che la domanda era seria. Per quanto potesse esserlo in una situazione del genere, ovvio.
«Credevo che avessi abbastanza compagnia da non sentire la mia mancanza per un quarto d’ora.» Lo prese in giro.
Lui non rispose, ma si sedette sulle scale vicine, guardandola pensieroso.
«Dunque non pensavi male.» Disse dopo un po’, studiando le sue reazioni.
«Però pensavi a me, vero?» Aggiunse con un ghigno, dopo una pausa effetto.
Monica rimase pietrificata: ma come poteva essere così sfacciato?
«Sei egocentrico.» Sbuffò irritata, voltandosi e cominciando ad allontanarsi.
«Sei arrossita.» La provocò lui, alzandosi e affiancandola di nuovo. «Dai, ammettilo che ho ragione.» Continuò, punzecchiandola leggermente alle costole per farle il solletico.
La ragazza non riuscì a trattenere un sorriso: dopotutto Francesco non era uno di quei tipi pomposi che sanno di essere carini e se ne pavoneggiano per tutta la scuola. Non lo era, altrimenti l’avrebbe lasciata andare via imbronciata per poi prenderla in giro non appena fosse capitata l’occasione.
«Ma te la sei presa davvero? Guarda che scherzavo.» Si scusò infatti il ragazzo, neanche un corridoio dopo.
Tutto sommato poteva bastare, si disse la giovane, fermandosi di nuovo a guardarlo.
Le sorrideva, e lei non poté fare a meno di ricambiare.
«Per stavolta ti perdono, ma se mi prendi ancora in giro mi arrabbio sul serio.» Gli disse.
L’espressione minacciosa che voleva mostrare, però, su quel viso delicato appariva come il broncio di una bambina capricciosa.
O almeno fu quello che vide Francesco, perché le sorrise intenerito, prima di alzare solennemente la mano destra, portarsi la sinistra sul cuore e promettere «Non lo farò più, parola d’onore.»
La campanella di fine ricreazione impedì a Monica di ribattere a tono, così i due si avviarono verso la classe.
«Che ne dici di farmi da Cicerone?» Chiese Francesco, mentre salivano le scale.
«Intendi la tizia che ti accompagna per la scuola dicendoti dove sono presidenza, segreteria eccetera?»
«Proprio lei. Allora?»
«Non si è offerto ancora nessuno?» Domandò sorpresa, senza rispondere alla domanda.
Lui esitò un po’ prima di rispondere.
«A dire il vero sì.» Disse infine. «Ma vorrei che lo facessi tu. Se ti va, ovviamente.»
Erano arrivati alla porta. Era chiusa, segno che il professore era già entrato, ma loro si attardarono ancora un po’ nel corridoio.
«Ci stai provando con me?» Fece, scettica: non era il tipico “cesso”, vero, ma di certo non era la più carina della classe. Come mai proprio lei?
«O mi stai prendendo in giro?» Aggiunse, cercando di rimanere impassibile.
«Veramente io volevo solo conoscerti meglio…» Rispose lui, sicuro. «Dopotutto siamo compagni di banco, no?»
L’espressione di pura innocenza che si dipinse sul volto di Francesco, a quelle parole, fu il colpo di grazia per Monica: adesso era veramente un angelo.
E non si può dire di no ad un angelo.

E l’angelo in questione se ne era approfittato fin troppe volte, pensò la ragazza con un sorriso mesto, sistemandosi meglio su quella sedia scomoda. Rifiutò di cedere alla tentazione di guardare ancora l’orologio sopra la sua testa: probabilmente erano passati soltanto pochi minuti dall’ultima volta che aveva controllato.
Sospirò piano, rendendosi conto di quanto fosse strano trovarsi in una situazione del genere senza lui al suo fianco a consolarla…

Da quel famoso giorno erano diventati inseparabili, sia a scuola che fuori. Avevano iniziato col passare insieme la ricreazione, poi l’ora di ginnastica, poi il tragitto fino a casa di lei (nonostante Francesco abitasse da tutt’altra parte… ma questo Monica venne a saperlo solo molto tempo dopo), poi i pomeriggi di studio pre-compito…
Quando infine si misero insieme ormai tutti si erano talmente abituati all’idea che la notizia apparve loro una naturale conseguenza, un po’ come l’alternarsi delle stagioni.
Incredibile che fossero passati soltanto sei mesi…
In poco tempo erano arrivati a conoscersi l’un l’altra anche meglio di loro stessi.
Certo, c’erano stati i momenti duri, come in tutte le coppie. Ma ogni volta che litigavano e giuravano di non parlarsi mai più, puntualmente, dopo neanche un giorno, uno dei due faceva marcia indietro e cercava l’altro. Sempre.
E ritornavano insieme, uniti come prima e forse anche di più.
Come diceva quel detto? “Varrebbe la pena litigare con chi si ama solo per poi far pace.”
Monica non ci aveva mai creduto. Mai… prima di conoscere Francesco.
Con lui far pace era la cosa più bella del mondo: sembrava che in quei momenti riuscissero a dirsi ciò che altrimenti avrebbero tenuto nascosto nel cuore, per chissà quali paure.
Come quel discorso di fine maggio.
Quel giorno avevano avuto un litigio abbastanza acceso, adesso non ricordava nemmeno bene su cosa. Forse su una sua ex che lo contattava troppo spesso.
Erano seduti in camera della ragazza, ma ciascuno guardava ostinatamente il muro di fronte.
D’un tratto, però, Francesco si era avvicinato a lei.
«Dai, amore, lo sai che per me esisti solo tu… pace?» Le aveva detto, mettendole tra le mani “Il piccolo principe”.
Monica aveva guardato sorpresa il suo libro preferito, poi si era voltata verso di lui e lo aveva abbracciato.
Avevano passato il resto del pomeriggio a leggere il capolavoro di Saint-Exupéry, soffermandosi su quei passi che tanto piacevano alla giovane.
Come quello della rosa: Non ho saputo capire niente, allora! Avrei dovuto giudicarlo dagli atti, non dalle parole! *
O quello famosissimo delle stelle: Mi domando se le stelle sono illuminate perché ognuno possa un giorno trovare la sua. *
Ma, soprattutto, quello della volpe: “La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”
[…]
Così il piccolo principe addomesticò la volpe.
E quando l’ora della partenza fu vicina:
“Ah!” disse la volpe, “… piangerò”.
“La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”
“È vero”, disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“ È certo”, disse la volpe.
“Ma allora che ci guadagni?”
“Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”.
*
Lui, allora, l’aveva abbracciata ancora più stretta e, con dolcezza, le aveva sussurrato «Per favore, addomesticami.».

A dispetto dei suoi sforzi una piccola lacrima fece capolino tra le ciglia socchiuse, scivolò lenta lungo la guancia ed andò a morire su quelle labbra rosse, contratte nello sforzo di controllare le proprie emozioni.
Era tutto perfetto, allora… ma la vita non è una fiaba, e Monica l’aveva scoperto a proprie spese.

Fin da quando erano solo amici c’erano stati giorni in cui Francesco rimaneva irrintracciabile anche per molte ore di seguito. I primi tempi non ci aveva fatto neanche caso, ma da quando si erano messi insieme aveva iniziato a notare che queste sue assenze erano scandite da un ordine ben preciso, che non poteva essere frutto dei vari imprevisti con cui il ragazzo si giustificava.
Poi una sera, quasi quattro mesi prima, Francesco era dovuto passare da casa a prendere dei libri e lei lo aveva accompagnato. Si era fermata in cucina mentre lui saliva in fretta le scale per andare in camera e, maniaca dell’ordine com’era, aveva subito iniziato a mettere a posto alcuni fogli che probabilmente una folata di vento aveva fatto cadere dal tavolo. Tra questi ce n’era uno, intestato a Francesco, che portava la firma del dottor Carli, cardiologo.
Da allora Monica smise di chiedere spiegazioni per quelle periodiche assenze.

Un movimento improvviso la riscosse da quei pensieri. Mise giù le gambe, raddrizzò la schiena e concentrò tutta la sua attenzione sulla figura nel corridoio.
Ma era soltanto un’infermiera di passaggio che la degnò a malapena di uno sguardo curioso, quindi si accucciò di nuovo sulla sedia.
Prima, però, si voltò svogliata verso l’orologio alle sue spalle. Erano le quattro e cinque.
Quel dannato intervento andava avanti da quasi cinque ore, ormai. Doveva solo resistere un altro po’: il dottor Carli le aveva spiegato che un trapianto di cuore dura in media sei ore, se non si presentano complicazioni.

La prima volta che Francesco le aveva parlato della sua malattia erano proprio in quell’ospedale: si era sentito male mentre erano insieme ed era stata la ragazza a chiamare l’ambulanza, seguendola poi fino a lì.
Francesco aveva perso conoscenza, ma i medici le avevano assicurato che era fuori pericolo, almeno per il momento.
Una volta soli, il ragazzo le aveva raccontato ogni cosa. Le aveva rivelato che soffriva di un disturbo cardiaco che, in poche parole, lo costringeva a vivere nella consapevolezza che il suo cuore avrebbe potuto fermarsi da un momento all’altro. Per quello doveva fare controlli frequenti, così da tenere più sotto controllo possibile la situazione.
Le rivelò anche di essere in lista per un trapianto da più di due anni, ormai, e che forse entro dicembre sarebbe arrivato il suo turno.
Lei lo aveva lasciato parlare, ascoltando dalle sue labbra la conferma di quelle teorie che le ronzavano in testa da un po’ e che l’avevano tenuta sveglia per molte notti.
Ma naturalmente a lui non lo disse, limitandosi a consolarlo e a stargli accanto.

Da allora erano passati più di tre mesi. Novantotto giorni ad essere precisi, rifletté dopo un rapido calcolo.
Ed in tutto quel tempo il loro rapporto non aveva fatto altro che crescere, ogni secondo di più: stavano insieme ogni momento disponibile e condividevano tutto.
Si erano persino presentati alle rispettive famiglie, e non era raro che passassero le sere in casa di uno o dell’altra in loro compagnia.
Ma quella routine idilliaca era stata bruscamente spezzata dalla telefonata del dottor Carli.

Il giorno prima era domenica. Una bella domenica di giugno, calda e soleggiata.
Avevano deciso di andare un po’ al mare nel pomeriggio con altri loro amici, ed avevano quasi finito di preparare le ultime cose per la partenza.
La madre di Francesco era entrata in camera con un’espressione indecifrabile ed aveva passato il telefono al figlio.
Il mare, adesso, era il loro ultimo pensiero.
L’indomani erano arrivati all’ospedale di buon mattino e Francesco era stato portato via da alcuni medici per la preparazione pre-operatoria. Quando poi avevano concesso ai familiari di entrare a salutarlo prima dell’intervento, Monica si era tenuta in disparte, sentendosi quasi un’intrusa.
Il ragazzo, però, l’aveva chiamata a sé.
L’aveva presa per mano ed aveva lanciato a sua madre uno sguardo eloquente, che la donna recepì al volo. Così gli diede un bacio in fronte, gli sussurrò un «A presto.» con voce commossa ed uscì, sorretta dal marito.
«L’hai sempre saputo, vero?» Le aveva chiesto Francesco, non appena la porta si fu richiusa dietro ai suoi genitori.
«Lo sospettavo…» Ammise lei, sedendosi sul bordo del lettino.
«Ma sei rimasta con me.»
«Già…»
Cadde tra loro un pesante silenzio.
«Posso farti una domanda?» Disse lui dopo qualche minuto.
«Certo.»
«Perché?» Le chiese guardandola dritta negli occhi. «Perché non sei andata via quando eri ancora in tempo?»
«Perché hai voluto soffrire?» Aggiunse sottovoce, quasi parlasse tra sé.
«Perché ti amo, sciocco…» Sussurrò lei, consolandolo con dolci carezze.
«Non…» Iniziò, per bloccarsi all’istante: non cosa? Non dirlo? Come poteva essere tanto infantile in un momento del genere?
La ragazza lo guardava curiosa, aspettando senza mettergli fretta.
Francesco sospirò profondamente, accarezzando quelle mani così piccole, in confronto alle sue.
«Non doveva andare così…» Mormorò soltanto.
Lei gli sorrise teneramente.
«Sai una cosa?» Gli chiese. «Sono felice di averti incontrato.»
A quelle parole i suoi occhi divennero pericolosamente lucidi. L’abbracciò stretta, forse per impedirle di vedere le sue lacrime.
«Sei impossibile.» Le sussurrò poi sui capelli. «Sono io che dovrei dirtelo… Tu hai illuminato la mia vita, mentre io sono riuscito soltanto a farti soffrire…»
Per tutta risposta Monica rise piano contro il suo petto.
«Cosa c’è di così divertente?» Le domandò allora, stringendola ancora di più.
«Tu mi hai dato molto più di quanto immagini.» Gli disse lei, sollevandosi per guardarlo in viso e rispecchiarsi nei suoi enormi occhi azzurri. «Mi hai regalato il colore del cielo…»
Prima che potesse ribattere, prima che potesse anche solo assorbire l’enormità celata dietro quella piccola frase, il dottor Carli si affacciò nella stanza.
«È ora.» Disse semplicemente, per poi portarlo via col suo lettino.
Via da quella stanza, via da lei, via dalla risposta che non aveva saputo darle.

E adesso era lì, seduta sulle scomode sedie nel corridoio davanti alla sala operatoria. Ormai erano le cinque, l’intervento sarebbe dovuto finire a momenti.
Quasi lo avesse chiamato, il chirurgo finalmente uscì dalle doppie porte.
La ragazza si alzò in piedi di scatto, ignorando il dolore sordo alle gambe per essere stata ferma tanto a lungo.
L’uomo si tolse lentamente la mascherina, guardandoli cauto uno per uno.
«Il trapianto è andato bene…» Iniziò con voce pacata.
Qualcosa nella sua espressione, però, impedì al sollievo di prendere possesso della ragazza, lasciando invece spazio ad una profonda inquietudine: aveva un pessimo presentimento.
«Ma…?» Chiese il padre di Francesco, stringendo la vita della moglie con fare protettivo.
Anche lui, quindi, aveva la stessa sensazione.
Il medico spiegò loro tutti i particolari, ma la ragazza aveva smesso di ascoltarlo. Soltanto poche parole avevano fatto breccia nel muro che aveva innalzato tra sé e il mondo, sprofondando tutto il resto nella voragine dell’indifferenza: è entrato in coma.

Monica era seduta in quella stanzina illuminata dalla calda luce di fine giugno, ma era come se i raggi del sole non riuscissero a raggiungerla, tale era il freddo che sentiva.
Stava leggendo “Il piccolo principe” per quella che doveva essere la centesima volta in pochi giorni. E intanto parlava con Francesco.
«Vedi?» Gli diceva. «Nel pianeta del Piccolo Principe bastava spostare un po’ la sedia per vedere un tramonto… sarebbe bello se anche sulla terra fosse così, no?»
E per un momento, un infimo battito di ciglia, si illudeva che quella volta il suo ragazzo le avrebbe risposto, anche solo con un sbuffo divertito.
Ma, ancora una volta, fu solo il lieve ronzio dei macchinari a parlare per lui.
La ragazza, allora, posò il libretto sul comodino e si massaggiò piano le tempie, stanca come se non dormisse da settimane.
In effetti erano quindici giorni che non riusciva a chiudere occhio, pensò poi.
Si portò le ginocchia al petto e ci poggiò sopra la fronte, nascondendosi dietro i capelli, nella stessa posa che assumeva da bambina quando stava per scoppiare in lacrime.
Un sorrisetto amaro tese leggermente quelle labbra pallide, al pensiero: ormai non aveva più nemmeno la forza di piangere.
E intanto il tempo passava.
Sentiva il ticchettio dell’orologio a muro nei lunghi minuti lasciati vuoti dal suo silenzio, macchiato solamente dal brusio nel corridoio. Probabilmente l’orario di visite era quasi finito.
Tra poco sarebbe dovuta ritornare a casa. Avrebbe salutato suo padre, rassicurato sua madre, e sarebbe salita in camera. Lì, finalmente, avrebbe gettato la maschera sul comodino e si sarebbe seduta sul davanzale a guardare il cielo con un sorriso triste, aspettando il prossimo passo al sicuro nella sua bolla…
La porta si aprì cigolando e un’infermiera si affacciò nella stanza.
Monica sospirò piano, salutò Francesco con un bacio sulla guancia e un «A presto.» sussurrato a mezza voce ed uscì.

Era appena l’alba quando il cellulare squillò.
La ragazza, già sveglia, guardò distratta il numero: era la madre di Francesco.
Rispose subito, giusto il tempo di schiarire la voce arrochita dal lungo silenzio.
«Pronto?» Fece con tono incolore, troppo stanca persino per preoccuparsi ancora.
«Monica… vieni in ospedale.»

Non seppe mai dire quanto tempo passò da quella telefonata al suo arrivo in quell’ospedale che ormai conosceva come una seconda casa. Era come se il suo cervello si fosse bloccato; come se, per proteggersi, volesse evitare di pensare a quelle poche parole che l’avevano sconvolta.
Si fermò nel corridoio per calmare il cuore in tumulto e riprendere fiato: era arrivata a corsa, troppo agitata per sopportare il traffico dei pendolari.
Poco dopo vide la porta aprirsi lentamente e due persone andare verso di lei. La donna le sorrise appena, facendole cenno di entrare nella stanza.
Monica fece un profondo respiro. Ed entrò.
Francesco era sdraiato sul letto, pallido come al solito… ma al solo vederla il suo volto sembrò illuminarsi, tale era la luce emanata da quegli occhi azzurri che, dopo tanto tempo, si mostravano di nuovo al mondo.
Gli si avvicinò piano, andando a sedersi al suo fianco. Sfiorò il suo viso con tocchi leggeri, scendendo lungo il braccio fino a stringergli la mano nella sua.
«Sei sveglio davvero!» Esclamò poi, quasi non credesse alle sue stesse parole.
«Bhé, che ti aspettavi?» Le rispose lui con un accenno del suo antico sorriso, ricambiando debolmente la stretta. «Mi lasci con una frase del genere e poi hai il coraggio di credere che non sarei tornato da te?»




* tratto da Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry
   
 
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