Capitolo XIX
Il pesante silenzio che si era creato
in macchina fu spezzato
proprio da lui. D’altra parte io non avevo nulla da dirgli
– a parte
l’impellente bisogno di inveirgli contro e al limite
supplicarlo di non
intromettersi ancora nella mia vita.
Purtroppo avevo capito che tanto erano
sforzi inutili.
“Hai letto i miei
messaggi?” Esordì a bassa voce, cercando di
essere gentile.
Io scossi la testa, decidendo che
trincerarmi in un mutismo
ostinato non avrebbe giovato a nessuno, tantomeno a me. “No,
ho il cellulare
spento da ieri notte.” Mormorai, odiandomi per la mia voce
roca a causa del
lungo pianto.
Dalle sue labbra sfuggì una
sorta di sospiro sollevato. “Bene, non
farlo allora.”
Non potei impedirmi di essere curiosa,
così mi voltai inarcando un
sopracciglio e osservandolo con fare interrogativo. “Che
significa?”
Vidi la sua mano stringersi sopra il
cambio, facendo guizzare gli
agili muscoli delle braccia, lasciate scoperte dalla T-shirt blu a
maniche
corte. Com’è che non avevo mai fatto veramente
caso a quanto fosse muscoloso?
Sbattei più volte le palpebre, stupita da quel mio stesso
pensiero, e mi
sforzai di ascoltare la sua risposta titubante. “Continuavi a
non rispondermi
dall’ultima volta che ci siamo visti, e anche se avrei potuto
capirlo, non
sopportavo il tuo silenzio. Sapevo che stavi bene, ma quando ho saputo
di tuo
nonno, beh… Non ho potuto tollerare che mi tenessi fuori
anche in questa… occasione.
Ero preoccupato e arrabbiato,
e mi sono lasciato un po’ prendere la mano nei messaggi. Ti
chiedo scusa.”
Probabilmente il vero evento fu il
fatto che si fosse appena
scusato, ma non ci feci poi molto caso. Non mi degnai neppure di
guardarlo e
così tornai ad osservare la strada, innervosita ma troppo
stanca per
dimostrarlo. “Questa è la mia vita, Enrico, non
hai nessun diritto di farne
parte. Soprattutto in questa
occasione.” Specificai, giocherellando con le cinghie della
mia borsa. “Credevo
che dopo il nostro ultimo incontro avessi deciso di lasciarmi
stare.”
“Invece ti
sbagliavi.” Sussurrò, senza approfondire oltre
l’argomento. Io feci finta di niente e non risposi, in parte
perché non ne
avevo voglia e in parte perché effettivamente non sapevo
cos’altro replicare.
Era talmente cocciuto da far perdere la pazienza ai santi.
Senza più dire una parola,
alla fine, raggiungemmo il bar. Enrico
parcheggiò all’ombra, sotto un pino, e mi
accompagnò dentro precedendomi, come
se si fidasse che l’avrei seguito senza cercare di andarmene.
Cosa che comunque
non avevo intenzione di fare, visto che mio padre sapeva che ero in sua
compagnia e lui non poteva né rapirmi né farmi
del male. Aprì la bocca solo per
chiedermi che cosa volessi.
“Credo che un thè
freddo possa bastare.” Risposi, guardandomi
pigramente intorno.
Lui annuì. “Okay.
Vai a sederti, allora, arrivo subito.”
Con la coda dell’occhio lo
vidi dirigersi al bancone, mentre io
andai a cercare un tavolino appartato, in un angolo, in modo da non
essere
disturbata. Purtroppo la parete del locale era ricoperta da specchi,
così mi
trovai ad osservare di malavoglia il mio riflesso: beh, non avevo di
certo un
bell’aspetto. Malgrado l’abbronzatura, il mio viso
era estremamente pallido, e
gli occhi erano arrossati dal pianto e leggermente violacei. Mi
strofinai il
viso con i palmi delle mani e mi pizzicai le guance per farvi tornare
un po’ di
colorito, in modo che la gente non pensasse che fossi una drogata o una
moribonda, e per un po’ l’effetto sembrò
funzionare. Ma per quello che
m’importava…
Enrico non si fece attendere molto e,
quando tornò, aveva un
bicchiere di gelido thè alla pesca in una mano e un
croissant al cioccolato
nell’altra. Posò entrambe davanti a me,
costringendomi a sollevare sconcertata
un sopracciglio. “Non ho chiesto un
croissant…”
Lui abbozzò un sorriso,
annuendo. “Lo so, te l’ho preso io. Credo
che tu abbia bisogno di zuccheri, fuori c’è troppo
caldo e tu sei troppo
pallida.”
Non trovai niente di meglio da dire
che: “Tu non ti arrendi mai,
vero?”
Il suo sorriso si allargò
impercettibilmente, mentre incrociava le
braccia e le posava sul tavolino. “No, decisamente
no.” Rispose, con un tono
sin troppo dolce per i miei gusti.
Mi limitai a sospirare, rassegnata.
“Va bene, come vuoi. Quanto ti
devo per…?”
“Non dirlo neanche per
scherzo, mi sembra evidente che qui offro
io.” Mi interruppe, risoluto.
Lo guardai a lungo, indecisa su cosa
dire. “Enrico, senti, voglio
chiarire che…”
Ma neanche questa volta mi diede
l’opportunità di parlare.
“Questo non è
né il luogo né il momento adatto per parlare di
certe cose, Giulia. Adesso non preoccuparti e mangia, ne hai
bisogno… Va bene?”
Mi limitai a scrollare le spalle,
senza alcuna voglia di
discutere. “Okay.” Mormorai, portandomi alle labbra
la bevanda ghiacciata –
che, effettivamente, mi fece parecchio bene.
Rimanemmo in silenzio, grazie al Cielo
avevo la scusa di dover
tenere la bocca occupata nel mangiare, altrimenti la mia stupida
educazione mi
avrebbe costretto a trovare per forza qualcosa da dire. Per quanto il
silenzio
non fosse eccessivamente imbarazzato, anzi: ma il solo fatto di essere
per
l’ennesima volta da sola, in sua compagnia – in
quello che somigliava terribilmente
a uno dei nostri vecchi appuntamenti – beh, diciamo che era
qualcosa di cui
avrei fatto volentieri a meno.
Quando, finalmente, ebbi terminato sia
il thè che il croissant, ci
alzammo entrambi e, senza dire una sola parola, come se ci fossimo
letti nel
pensiero a vicenda, ci dirigemmo verso l’uscita. Una volta
fuori notai una
panchina libera sotto un albero, nel piccolo giardinetto del bar, e la
raggiunsi per cercare un po’ di riparo al calore terribile
del sole. Mi
sedetti, ma non invitai lui a fare lo stesso.
“Vuoi che ti riporti subito
in ospedale?”
Sollevai lo sguardo per incrociarlo
lentamente con il suo, notando
che i suoi profondi occhi verdi erano colmi di preoccupazione. Per me?
Stentavo
a crederlo. Poi scossi la testa. “No, non subito. Fra un
po’.” Mormorai.
Lui annuì, poggiandosi al
tronco dell’albero e facendo per
estrarre il pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni. Distolsi
lo
sguardo mentre stava per accenderne una: se avessi anche solo sentito
l’odore
acre del fumo mi sarei sentita male.
Enrico d’altra parte
sembrò capirlo perché ritirò
nuovamente il
pacchetto, che sparì all’improvviso
così com’era apparso. “Scusa,”
disse. “Ti
prometto che oggi non fumerò.”
Scrollai le spalle, ostentando
indifferenza. “Fai come vuoi…”
Lo sentii sospirare paziente, mentre
veniva a sedersi accanto a
me. “Giulia,” esordì a bassa voce,
cercando di sfruttare tutta la calma e la
dolcezza di cui era capace. “Sono venuto da te non appena
l’ho saputo. Voglio
solo starti vicino e consolarti. Ma tu… Tu non me lo
permetti. Perché? Mi odi
così tanto? So che non è il momento
più adatto per affrontare un simile
discorso, ma a questo punto voglio saperlo. Non riesco a pensare ad
altro, solo
a te… Tu credi che sia solo l’ennesimo capriccio
di un ragazzino viziato, ma ti
posso assicurare che non è così. Io tengo molto a
te, davvero… Cosa dovrei fare
per dimostrartelo? Neppure i miei regali sono valsi a
qualcosa…”
A quel punto scossi la testa,
voltandomi finalmente per
fronteggiarlo. “I tuoi regali non servono a niente, Enrico, e
sai perché?
Perché non puoi comprarmi con soldi e fiori profumati, io
non sono quel tipo di
ragazza! E mi sembra di avertene dato prova in più di
occasione. E sai cosa ti
dico? Sì, è vero, credo che il tuo sia solo un
capriccio, perché se tenessi
davvero a me non mi obbligheresti a frequentarti e non ti arrabbieresti
se non
rispondessi ad uno dei tuoi cento messaggi giornalieri!
Anch’io ho una vita, lo
sai questo? Non ho sempre il cellulare in mano, e se non ti rispondo
c’è una
ragione! Uscivo con te ogni santo giorno, ho trascurato i miei amici e
la mia
famiglia per te, Dio! Ma questo non ti è bastato,
perché sei l’essere più
egoista del mondo, e allora hai pensato di farmi tenere sotto controllo
anche
le poche volte che non ero insieme a te. Ti sembra un comportamento da
persona
matura? No, non direi proprio. Quindi, se davvero tieni a me
– cosa di cui,
lasciami dire, ma dubito – vedi di cambiare atteggiamento,
perché io non sono una cosa tua.”
Lui mi fissava improvvisamente
rabbuiato, ma non mi importava: era
ora finalmente che capisse a che cosa mi aveva portato il suo stupido
orgoglio
e il suo egoismo. E se ero riuscita a farlo arrabbiare, tanto meglio:
forse era
la volta buona che si stufava e mi lasciava stare una volta per tutte.
Distolsi
nuovamente lo sguardo da lui, fissando un punto imprecisato davanti a
me.
Speravo con tutta me stessa che se ne andasse e mi lasciasse in pace,
ma avevo
sottovalutato – per l’ennesima volta – la
sua testardaggine.
“Non
c’è proprio niente che io possa fare per farti
cambiare
idea?” Mormorò tristemente.
Oh no,
caro, pensai.
Non usare quel tono
da cucciolo bastonato con me!
Mi presi la testa tra le mani,
poggiando i gomiti sulle ginocchia
e lasciando che i capelli sciolti mi piovessero sul viso per
nascondermi al suo
sguardo. Sospirai profondamente prima di rispondergli.
“Potresti sempre
lasciarmi in pace. Rinuncia e ritirati con onore.” Citai,
senza guardarlo.
Dalle sue labbra fuoriuscì
una strana risata, a metà tra l’amaro e
il divertito: forse perché il mio tono era risultato
talmente tanto stanco – e
con una linea sarcastica di troppo – che preferì
non prendermi sul serio.
“Mi dispiace, ma questo non
rientra nei miei piani.” Mormorò,
suadente.
Beh, valeva la pena tentare. Scrollai
le spalle, rimettendomi a sedere
normalmente. Non parlai per un po’, e lui rispettò
il mio silenzio. Dopo quelli
che mi parvero i minuti più lunghi di tutta la mia vita mi
alzai, sempre senza
guardarlo: temevo che i suoi occhi avrebbero potuto incantarmi
un’altra volta.
“Mi puoi riportare in
ospedale?”
Lui annuì.
***
Se c’era qualcosa che avrei
dovuto riconoscergli, in quella
occasione, era che non mi aveva lasciata sola per un attimo durante
tutta la
sera. Persino quando l’orario delle visite fu terminato e
dovemmo tornare a
casa, Enrico ci seguì in macchina – senza forzarmi
ad andare con lui, cosa di
cui gli fui grata – e rimase a farmi compagnia, mentre la
casa di mia nonna
veniva invasa da un via vai di parenti che sembrava non voler cessare.
Dopo averne visti talmente tanti da
non ricordarne neppure il
nome, però, ne ebbi abbastanza. Andai a rifugiarmi nel
salone che la nonna non
usava più – e che serviva soltanto per conservarvi
libri, foto, vasi e
soprammobili di vario genere. Era la stanza più fresca di
tutta la casa,
probabilmente, e senza alcun bisogno del condizionatore:
perciò mi chiusi
dentro e mi accoccolai sul divano, stringendo con forza il cuscino.
Ormai non
avevo nemmeno lacrime da versare.
Tuttavia non rimasi sola molto a
lungo. Anzi, forse non passarono
nemmeno cinque minuti. Dopo un po’ infatti la porta si
aprì e sentii il rumore
attutito di passi sopra il tappeto: temevo di sapere a chi
appartenessero, e
infatti non mi sbagliavo.
“Ah, sei qui.” Un
tenero sussurro che sembrava però un urlo,
nell’avvolgente
silenzio della sala. Sollevai una mano in modo che capisse che mi
trovavo dall’altra
parte del divano, nascosta dietro lo schienale, e subito i passi
vennero nella
mia direzione.
Fece il giro del divano fino a
trovarsi di fronte a me, e qui si
inginocchiò sul tappeto, poggiando le braccia incrociate sul
divano. “Mi sono
spaventato, sei sparita all’improvviso…”
Non potei trattenermi dallo sbuffare,
infastidita. “Sono a casa
mia, Enrico, dove diavolo sarei potuta andare?”
Il suo sguardo – ferito?
– mi fece capire di aver frainteso le sue parole, come del
resto si affrettò a
spiegare lui stesso.
“Sai bene che non intendevo
quello.” Ribattè infatti, aggrottando
le sopracciglia. “Credevo fossimo arrivati ad una tregua, noi
due.”
Lo fissai ancora un po’ poi
sospirai, arrendendomi. “Sì, lo so. Hai
ragione. Scusa.” Ammisi, senza guardarlo negli occhi.
“Sono solo un po’ nervosa…”
“Posso capirlo
benissimo…” Replicò, con rinnovata
tenerezza. “Sai,
quando… Quando è morta mia madre…
Credevo che il mondo mi fosse crollato
addosso. È stato come essere privato
dell’ossigeno…”
Quell’improvvisa quando
inaspettata confessione mi colse del tutto
impreparata. Sgranai gli occhi, stupita e malgrado tutto addolorata, e
non potei
fare a meno di provare pena per lui e di sentirmi male al solo
pensiero. “Tua
madre… Enrico, non lo sapevo… Mi dispiace
così tanto…” Balbettai, incerta se
sfiorarlo o meno.
Ma lui scosse la testa, con un amaro
sorriso sulle labbra. “Ero
più che un bambino, avevo otto anni. Non ricordo molto di
lei.” Mormorò,
abbassando lo sguardo. Le folte ciglia scure gli sfiorarono la pelle
sotto gli
occhi, tremando impercettibilmente.
A quel punto non potei fare a meno di
allungare una mano e posarla
sulla sua spalla, cercando di confortarlo con un misero tocco
– non sapevo in
che altro modo fargli sentire la mia presenza. “Non me ne hai
mai parlato…”
Sussurrai poi, come ripensandoci.
A quel punto alzò lo
sguardo, immobilizzandomi con quei maledetti
occhi ora incredibilmente cupi. “Non volevo fare la parte del
povero orfanello,
Giulia. Magari questo avrebbe influito sull’idea che tu avevi
di me e forse mi
avresti visto diversamente, ma… Ad essere sincero, preferivo
che tu odiassi il
vero me piuttosto che farti provare un affetto derivante dalla
compassione.”
La fermezza con cui aveva pronunciato
quelle parole – vere, d’altronde
– mi diede l’opportunità di riflettere
brevemente e farmi un ennesimo quadro
generale della situazione. Come aveva detto lui, in effetti mi sarei
aspettata
di più che usasse quella tragedia per toccare quella
maledetta sensibilità
femminile che sembra appartenere ad ogni essere privo del cromosoma Y
– se mi
avesse detto una cosa simile, dovevo ammetterlo, ma l’avrei
guardato con occhi
diversi. Probabilmente anche giustificando le azioni che invece, nella
mia
beata ignoranza, mi facevano innervosire.
Ma quello che mi aveva davvero colpito
era stata la sua ultima
frase. Preferivo che tu odiassi il vero
me piuttosto che farti provare un affetto derivante dalla compassione.
Che cosa
voleva dire con questo? Perché queste sue parole non
coincidevano minimamente
con l’idea di ragazzo egoista e arrogante che mi ero fatta di
lui? Credevo che
uno della sua risma potesse arrivare a tutto pur di raggiungere il
proprio
scopo, e se davvero il suo scopo ero io, allora, perché non
usare anche quella
triste verità?
Possibile che fosse sul
serio… Poteva essere…?
Che diavolo, certo che no!
Scossi la testa, sentendomi la bocca
improvvisamente arida. “Non
so… Non so cosa dire, Enrico.” Mormorai infine,
scrollando lievemente le
spalle. Ero dispiaciuta, certo, e mi odiavo per provare
l’irritante impulso di
abbracciarlo, ma quelle parole mi avevano confuso e scioccato
più del lecito.
Il mesto sorriso che apparve sulle sue
labbra non fece che
terminare di mandare al diavolo tutto il mio severo autocontrollo.
“Non c’è
nulla da dire, Giulia. Volevo solo dirti che capisco come ti
senti.”
Oh bene, perfetto. Io mi riferivo alla
seconda parte del discorso
mentre sembrava che lui avesse deciso di ignorarla, come se si fosse
pentito
delle parole che gli erano sfuggite di bocca in un momento di
appartente
intimità… Che fare con un ragazzo così?
Sospirai, scostandomi per fargli
spazio sul divano. “Vieni, su. Devi
essere scomodo lì per terra.” Dopotutto avevamo
firmato una tregua, no?
Un angolo delle sue labbra si
curvò verso l’alto, mentre Enrico
prendeva posto di fianco a me e si posava un cuscino sulle gambe. Poi
fece
qualcosa che – senza ombra di dubbio – non mi sarei
mai aspettata. Picchiettò leggermente
sul cuscino e mi sorrise, dolcemente, indicandomi di avvicinarmi.
“Metti la
testa qui e sdraiati, forza. So che hai bisogno di
riposarti.” Mi invitò, senza
nessuna ombra di maliziosità o doppi sensi.
Il mio sguardo dovette esprimere tutto
il mio scetticismo perché il
suo sorriso si fece leggermente più ampio.
“Davvero, Giulia, sono serio. Non voglio
fare nulla di male, soltanto… Permettimi di essere il tuo
conforto adesso,
senza nulla in cambio. Non ti chiedo altro.”
Con parecchia esitazione mi avvicinai
a lui, senza mai distogliere
lo sguardo per paura che potesse fare qualcosa di cui mi sarei
sicuramente
pentita. Tuttavia si comportò proprio da bravo ragazzo e non
fece nulla di
tutto quello che mi ero invece immaginata io, lasciando che posassi la
testa
sul suo cuscino e rannicchiassi le gambe lungo il divano, in lungo.
Rimanemmo immobili per un tempo che mi
parve infinito, prima che
le sue mani, capricciose, raggiungessero i miei capelli e lì
si fermarono, intrufolandosi
tra i ciuffi e accarezzandomi con una strana dolcezza che preferii non
considerare tale, perché in caso contrario sarei stata
costretta a cambiare
completamente il parere che avevo di lui.
Il rumore del suo respiro e le carezze
tra i miei capelli mi
cullarono, trascinandomi in un lieve sonno senza sogni. Ero troppo
stanca per
combattere anche quella battaglia, ed Enrico di certo non ne avrebbe
approfittato. Speravo solo che non si facesse strane idee,
perché io non avevo
nessuna intenzione di cambiare o di rivedere la mia posizione al
riguardo.
Enrico era cattivo, egoista, arrogante
e presuntuoso. Ed io dovevo
stargli alla larga.
O forse no?
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AA - Angolo Autrice:
Acciderbola, che parto! Chiedo scusa per il ritardo - okay, tutti i miei aggiornamenti contengono delle scuse, che bello -.-'' ormai mi conoscete! :D
Dunque! Siccome è tardi e sono stanca, non mi dilungherò nelle note come mio solito... Ma corro a ringraziare i miei fedeli discepoli che, bene o male, seguono tutti i miei aggiornamenti ^^
Un enorme grazie a coloro che hanno recensito lo scorso capitolo, ossia Rosella, Alebluerose91, Ada Wong e lara27;
grazie infinite alle 108 fantastiche persone che l'hanno aggiunta alle preferite e alle 162 che l'hanno messa tra le seguite! Grazie, grazie, grazie! =*
Mi raccomando, fatemi sapere che ne pensate dei nuovi capitoli e di come si sta evolvendo la storia di Giulia ed Enrico, sono ansiosa di sapere che ne pensate e - soprattutto - che idea vi siete fatta! Si metteranno insieme o no? Giulia è troppo cinica? Enrico troppo stronzo? Mistero! :O
Lo scoprirete alla prossima puntata... Forse xD
Un bacio e un abbraccio a tutte! Vostra,
GiulyRedRose