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Autore: Onigiri    30/08/2010    2 recensioni
Ci sono mostri che non stanno sotto, ma sopra i letti, e i giochi pericolosi delle farfalle, e re piccolissimi, e stelle marine carnivore, e alberi che piangono, e maschere di carne, e bambole che si vedono solo ad occhi chiusi, e mongolfiere nell'acqua con pesci di carta, e donne che piangono con forza negli angoli più bui degli incubi peggiori.
E c'è una bambina. E favole da raccontare. E legami pericolosi.
Genere: Dark, Fantasy, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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(Le pietre blu) 











Capitolo 5








 Scale

che non portano da nessuna parte

scale

che salgono soltanto per scendere

è difficile orientarsi

nei dintorni del nulla.

  

Scale (Poesia)- Luciano Erba

























Ed era strano, quello sguardo.

Stupito, pensieroso, arrabbiato, e al contempo nessuna di queste cose.

Ed era freddo: qualcosa che alla vista sapeva di ghiaccio, di vento, di inverno specchiato nel volto della luna.

Era il loro colore –che al buio scintillava come una gelata notte di stelle- ad essere strano?

Mila non capiva, e il non capire le metteva in bocca un untuoso sapore d’angoscia.

L’adulto era fermo, immobile. Le labbra, di un denso e scuro color garofano, erano strette, serrate in una smorfia senza nome che le faceva venir freddo fino alle ossa. La camicia, col colletto rivoltato verso l’esterno e chiusa con cura fino all’ultimo bottone, pareva tremare con forza nel cercare di seguire la direzione incostante del vento, quando il tessuto si stendeva, si piegava, s’ingrossava appena in dune di cotone e subito si appiattiva contro il corpo dell’uomo delineandone il petto e la forma delle braccia.

Mila socchiuse le palpebre e si strinse le gambe alla pancia, rabbrividendo dal freddo quando il vento si alzò ancora sfregandosi come uno straccio ruvido sulla sua pelle bagnata. Guardò quella camicia, quel suo ipnotizzante alzarsi e abbassarsi e strattonarsi con forza per sfuggire alla presa dell’orlo dei pantaloni, e poi guardò la cintura, e quella sua fibbia gialla e ovale che quasi le pareva un occhio: era come se la stesse guardando, fissandola dritta in un’unica pupilla fino a riuscire a vedere persino i suoi pensieri. Deglutì. Colpì appena l’erba con le dita dei piedi, dai mignoli agli alluci, e poi all’incontrario: le mosse piano, le piegò tutte insieme e le ritrasse subito, quando s’accorse che attorno a lei c’era solo buio e la paura le fece tremare le ginocchia. E come faceva quando suo padre spegneva la luce in camera sua, tese le orecchie e rimase in ascolto. C’era l’acqua dell’irrigazione, un sibilo piacevole senza sfumature che solo ogni tanto s’interrompeva e immediatamente ricominciava, e allora il rumore diveniva diverso, come una sorta di catarroso colpo di tosse, e le gocce, nel loro cadere, sembravano farsi più pesanti, e si sentivano scendere in picchiata contro la terra umida come proiettili su un corpo già morto.

Ancora: un grillo, forse; magari in cerca di una compagnia che non riusciva a trovare.

Ancora: il suo respiro rosicchiato tra i denti come una crosta di pane. Si morse il labbro e trattenne il fiato.

Ancora: le foglie. Provò a sollevare lo sguardo verso destra, poi verso sinistra, fino a scorgere tra le pieghe della penombra quel groviglio di rete che separava il bosco dal giardino dello zio. Degli alberi, così alti in confronto a come li aveva visti dalla finestra della sua camera, riusciva appena a scorgerne le punte delle chiome. Erano ombre nere, riflessi scuri dondolanti su sé stessi come barche sul mare in burrasca, e che a volte sembravano corpi, volti che si rivolgevano l’un l’altro per guardarsi negli occhi, parlarsi, sgridarsi, scontrarsi, e baciarsi, o che agitatissimi si sbracciavano tutti in una sola direzione come per nascondersi, scappare via, urlare invocando aiuto o pietà. Mila si girò, fissò i pantaloni dell’uomo e guardò oltre le sue gambe, fino al lampione che splendeva di bagliori così tiepidi e morbidi che avrebbe voluto alzarsi in piedi per raggiungerli, e stringerseli forte al petto e avvolgerseli attorno come una coperta. Guardò fino all’albero del giardino che aveva visto prima di andare a letto, diviso a metà dalla luce gialla e arancio del lampione: delle sue due parti, adesso, vedeva solo quella nera, e col cuore pulsante al centro della gola la guardò tendersi nella sua direzione, e porgerle i rami agitandoli come se volesse parlare con lei: fuggi, corri, più lontano che puoi! , sembrava dire, a tratti; Vieni, vieni da me, non te ne andare, se anche scappi tanto ti acchiappo, ti stringo, e poi ti mangio.

Qualche goccia d’acqua scivolò dai capelli sulla fronte, sulle ciglia, fino a raggiungerle gli occhi, e Mila, lasciando la presa dal terreno molliccio, abbassò le palpebre e se le grattò frettolosamente con una mano sola. Scosse il corpo, presa da brivido più forte che quasi le fece scappare un mezzo starnuto, e sfregò le gambe l’una contro l’altra per staccarsi dalla pelle la stoffa fradicia e fastidiosa del pigiama. Sentì ancora troppo freddo e si fece scappare un flebile piagnucolio di fastidio, prima di tornare a guardare l’adulto ancora in piedi di fronte a lei: di nuovo, per poterlo vedere in volto, alzò tanto il mento verso l’alto che finì col farsi male al collo -di nuovo, non ci badò.

I capelli riuscì a vederli meglio degli occhi: scuri (scuri?), lisci, tagliati in un soffice caschetto che si gonfiava e si piegava appena dove le punte si scontravano con le spalle. Erano più lunghi di quelli dello zio Amos, e Mila fu certa che se la mamma fosse stata lì avrebbe subito scosso la testa al solo vederli da lontano.

Ancora, la sagoma di Daniela e le sue mani e la sua bocca calda riaffiorarono tra altri suoi mille e confusi pensieri. La voglia di piangere tornò prepotente a pizzicarle gli occhi, e non si preoccupò nemmeno di ricacciarla indietro. Si lasciò tremolare il labbro e inumidire gli occhi, e nel coprirsi il viso con entrambe le braccia emise un lamento lungo e disperato simile a quello di un animale ferito. Singhiozzò una, due volte, e poi pianse, e lacrime sempre più calde scavarono tra il freddo sottilissimo sulle sue guance già bagnate. Pizzicavano, bruciavano, e al sapore non erano salate, ma amare. Ogni tanto, in uno spiraglio tra le sue braccia e con la vista annebbiata dal pianto, provava a guardare l’uomo che aveva di fronte, e, singhiozzando, aspettava. Lui era un adulto, ed era certa che qualcosa avrebbe fatto: parlarle, prenderla in braccio o accarezzarla e pulirle la faccia o dire qualcosa prima di aiutarla a mettersi in piedi e portarla dove si trovava sua madre.

Ma lui non fece nulla: solo, la fissava, la scrutava, con quello sguardo strano.

Mila allora abbassò lo gli occhi e pianse sempre più forte, cercando di chiamare sua madre tra le lacrime che avevano iniziato ad impastarle la bocca di caldo e sale.

L’aria era fresca, umida, vischiosa, e la sentiva appiccicarsi addosso come un vestito troppo stretto, ma nonostante la pelle d’oca in ogni punto del corpo non coperto dal pigiama non ci fece neanche caso. Piangendo con voce sempre maggiore, Mila starnutì, e chiuse le palpebre con forza. Le asciugò. Le riaprì.

Quando vide l’uomo sfiorarle la mano con un suo dito sobbalzò a tal punto che quasi le sfuggì un grido strozzato. E nel sentire il suo respiro –ghiaccio, fuoco, menta- scorrerle ruvido lungo la fronte Mila indietreggiò, premendo i piedi e un gomito sul terreno, pungendosi di erba e fango e scivolando due o tre volte per poi fermarsi e sentire irrigidirsi come legno ogni più piccolo muscolo del corpo. Il fiato saettò dai polmoni fino alla punta dei denti, si ritrasse verso la gola e lì si annodò stretto facendosi pesante come un macigno.

L’uomo socchiuse gli occhi. Mila allargò i suoi.

Quando si era inginocchiato?

L’unghia del suo indice era sottile, bianca come uno spicchio di perla, e se anche le stava appena sfiorando il palmo per Mila fu come sentire la pelle scavata e incrinata dalla punta di un ago -e trattenne il respiro, aspettando quel dolore lacerante che sarebbe dovuto arrivare subito, ma che mai si presentò.

In un gesto quasi meccanico socchiuse piano le dita verso il palmo, e se anche l’uomo non stava facendo nulla per trattenerle la mano lei non riuscì a ritrarla da quel tocco appena accennato.

Non ricevette un solo sguardo sfuggevole, neanche un barlume di attenzione se non rivolto a quella mano che le stava sfiorando: ma Mila, ora che era distante a meno di un passo dalle sue ginocchia, lo osservò attenta, senza volersi lasciar scappare nulla del suo aspetto. In che modo riuscisse a vederlo così bene, nonostante il buio del giardino spesso come un velo di cuoio, non se lo chiese neppure.

Il suo volto era chiaro, levigato, severo e immobile in un’espressione concentrata rivolta alla sua mano sporca di acqua e di terra – muoveva il dito in cerchio in diverse direzioni, e sembrava disegnare, toccare, cercare qualcosa. I capelli, lunghi poco oltre le spalle, oscillavano quieti col vento in una sola direzione, in fili lucenti che parevano ragnatele rivestite di rugiada. E gli occhi, contornati da ciglia che sfumavano d’argento, le trattennero il fiato in gola: il colore (che al’inizio le era parso scuro, poi chiaro, e che ora splendeva di un quieto pallore simile a quello del fumo) era rigido, freddo e duro come una parete di roccia, eppure fluente e scorrevole come un turbine di pioggia e di fiamme.

Era asfalto e vento. Ghiaccio e mare. Stelle e gocce.

Pietra e acqua.

Un colore, insieme, così immobile e mobile al contempo come Mila non aveva mai visto negli occhi di nessun altro.

Non appena si sentì puntato addosso quello sguardo, il cuore sembrò fremerle troppo forte nel petto, e iniziare a pulsarle dentro orecchie come un convulso rullo di tamburi.

Era un’espressione intrisa di disgusto che Mila non riuscì a interpretarla come tale: le sembrò invece severa, arrabbiata. Come quella di un genitore quando scopre il pasticcio appena combinato da un bambino.

Trattenne il fiato: voleva picchiarla?

“Massimiliana!”

La voce, alta e stridula come quella di un uccello, le procurò un sussulto tale da farle tremare le labbra. Mila si voltò col collo all’indietro, verso le strisce di luci alle finestre della casa dello zio Amos, e frugò nel buio cercando la persona che le aveva appena rivolto la parola. Ne distinse i contorni oscillare appena mentre correva verso di lei e, allo stesso tempo, facendo forse attenzione a non inciampare: e più si avvicinava più riuscì a vedere le gambe lunghe e scoperte, i polsi fini e i il seno rotondo. Allargò gli occhi: mamma, fu i suo primo, caldo, confortante pensiero. Ma Daniela, si rese conto pian piano, non aveva i capelli così corti. O così mossi. E non aveva mai indossato una maglietta a bretelle col disegno di una mucca buffa intenta a rosicchiare il gambo di un fiore tra gli incisivi.

Monica la raggiunse e le afferrò il braccio prima ancora che Mila si ricordasse quale fosse il suo nome. “Che fai qua?” la sentì esclamare, senza fiato nella voce, interrotta subito da uno spruzzo d’acqua che le sfiorò il polpaccio e la fece balzare poco all’indietro. Monica tornò a guardarla, convincendola, con uno strattone leggero, a mettersi in piedi. “Che accidenti stai facendo? Di notte? Da sola? Ma lo sai da quanto tempo ti stiamo cercando?!”. Mila si resse a fatica sulle ginocchia, sentendole sotto il suo peso doloranti e molli come budini, riuscendo però a non cadere in avanti. Il vento, una volta in piedi, sembrò farsi più secco contro la sua pelle, e più ruvido e fastidioso; le gambe le tremarono e una sua mano andò subito a coprire la pancia e sfregare le nocche contro il pigiama ancora fradicio. Guardò le gambe di Monica scontrarsi l’una con l’altra, forse prese da un brivido di freddo; la vide scuotere il capo senza dir nulla, e poi voltarsi e iniziare ad andarsene tirando fuori un lungo, basso lungo sbuffo scocciato. Mila fece un primo passo in avanti, barcollò, e nel sentirsi tirare per il braccio si girò subito, senza una vera ragione, cercando il signore del cappello con lo sguardo.

Ma non lo trovò: vide solo tenebra, l’irrigazione che di nuovo si fermava e tossicchiava sputando fuori con forza gocce più grosse delle altre, e la metà nera dell’albero coi rami ancora tesi verso di lei - vieni, vieni, che tanto ti acchiappo ti stringo e ti mangio!. Mila afferrò con più forza la mano di Monica e provò a cercare ancora, ma non riuscì a vedere nient’altro; quando il collo indolenzito iniziò a chiedere tregua si voltò, e si guardò i piedi affondare nell’erba scura già schiacciata dal passo più pesante di Monica, senza osare nemmeno pensare di chiederle di rallentare un poco perché non riusciva bene a starle dietro senza sentir male al braccio e alle gambe. Quando rialzò lo sguardo dal prato erano davanti a una porta a vetri che lei non ricordava d’aver mai visto prima. Monica l’aprì, rabbrividì grattandosi un braccio con l’altra mano, entrò dentro di un poco e cercò a tastoni l’interruttore contro la parete. Non appena accese la luce fece un passo in avanti, s’immobilizzò, e con gli occhi larghissimi si guardò subito le scarpe da ginnastica. Una manciata di fango, grande quanto un’impronta, macchiò le piastrelle di melma nera e verdastra che odorava di umido e qualcos’altro che a Mila piacque molto da annusare. Sentì Monica dire qualcosa senza capirne il significato, e alzando gli occhi verso il suo volto incrociò subito i suoi, contorti in uno sguardo che le parve preoccupato. Lasciò che la scrutasse con attenzione sotto la luce bianca del lampadario, e che la scoprisse scalza, bagnata e sporca come al buio non aveva notato. “Senti, Massimiliana…” la osservò chinarsi per togliersi le scarpe in modo goffo e gettarle malamente fuori dalla porta, rimanendo anche lei a piedi nudi con unghie laccate di uno smalto rosa e giallo. La fece entrare strattonandola un poco e le lasciò la mano “Rimani qui, ok? Io arrivo subitissimo… non ti muovere!” aggiunse, camminando all’indietro verso un’altra porta dall’altra parte della stanza senza smettere di guardarla. “Chiudi lì e aspettami, eh? Non muoverti. Capito? Eh?”

Monica urtò lo spigolo di un mobile, si massaggiò l’anca stringendo con forza un labbro in bocca, e borbottando qualcos’altro che Mila non riuscì a capire si girò su sé stessa e scomparve oltre la porta che lasciò aperta a metà, lasciandola sola.

Sentendo le gambe tremare e il naso farsi gonfio in maniera fastidiosa, Mila si passò il dorso di una mano sulla faccia e poi si strinse nelle spalle, mentre il vento dietro di lei le premeva forte la schiena come per spingerla ad avanzare ancora; ma non si mosse, nemmeno quando le punte dello zerbino iniziarono ad infilzarsi nella pianta dei piedi costringendola a dondolare su sé stessa per provare meno dolore, sentendosi piccola e intimorita in quella stanza che le era del tutto sconosciuta e che odorava di sale e farina. Una cucina bassa, ampia e strana, dall’aria spigolosa nonostante il soffitto dolcemente tondo come un coperchio, e colorata di vernice che variava dal bianco all’arancio scuro. Mila guardò il punto dove Monica era scomparsa, e poi, infreddolita e intimidita e con le mani strette sulle braccia, si osservò attorno, partendo da sinistra perso destra: vide un quadretto di natura morta appeso alla parete, un’altissima credenza marrone con un cassetto lasciato aperto, la lavastoviglie, il lavello con affianco due bicchieri rovesciati e lasciati ad asciugare sopra un panno, il piano di cottura, il forno, un tavolo di granito al centro esatto della cucina, un brutto orologio a muro appeso sopra la porta da cui Monica era andata via, il mobile che Monica aveva urtato, un altro mobile, uno altro quadro che sembrava pieno di colori, un attaccapanni spoglio come un albero in autunno. La luce del lampadario era chiara e dolce, rendendo persino le ombre sul pavimento quieti e innocue come cuccioli che dormono. Mila si abbracciò e abbassò gli occhi verso la macchia fangosa disegnata tra due mattonelle scure del pavimento in cotto, cercando di dare un nome a quella buffa forma verdognola, e poi, di nuovo, rabbrividì e starnutì forte. Fissò la porta davanti a lei, aspettando qualcuno che non si presentò, tirò su col naso e tornò a guardare la cucina, partendo però dalla sua destra: attaccapanni, quadro, mobile, tavolo, forno, lavello, scale, credenza e altro quadro con dipinta della sgraziata frutta viola. Strofinò le ginocchia tra loro, sentì freddo, chiuse gli occhi. Li riaprì di scatto.

Lavello, scale, credenza.

Immediatamente, alzò lo sguardo con le sopraciglia corrugare sulla fronte.

Quali scale?

Le fissò, stropicciando gli occhi quando nel sollevare la testa sentì la luce farsi troppo forte. Quelle scale erano –anche prima?- ad una breve distanza dallo zerbino in cui si trovava, ed erano strane, come un po’ trovava il resto della cucina. I gradini che, alla vista, sembravano fatti di legno e sorretti da soli a mezz’aria l’uno davanti all’altro, erano piatti, larghi, neri come sottili strisce di carbone -Mila, alzando le dita di un’unica mano davanti agli occhi, ne contò cinque in tutto. Niente corrimano. Un buco tondo e piatto sul soffitto, come una bocca senza denti, verso il quale l’ultimo gradino era puntato. Mia tirò il collo verso l’alto per osservare bene quel buco, non vedendoci dentro altro che nero che all’iniziò non le fece alcun effetto, ma che poi, continuando a studiarlo con lo sguardo, sembrò accendere qualcosa nella sua testa: la sua immaginazione iniziò, frenetica, a lavorare, mandandole immagini di scrigni e tesori, oggetti antichi dimenticati nella polvere, ingressi per mondi pieni di delizie, creature nascoste dietro le loro catene scricchiolanti o nell’angolo più scuro del buio ad attendere pazienti un bambino troppo curioso come lei. La curiosità iniziò subito a pruderle il corpo e a farle dimenticare del freddo, di Monica, del signore del cappello scomparso nel giardino, e provò un’eccitazione e una paura tale da farle galoppare il cuore nel petto dalla voglia di avvicinarsi e di arretrare al tempo stesso.

Strana scala, a guardarla bene: perché era sdraiata proprio davanti alla credenza, così vicina da sfiorare quasi col suo secondo gradino il pomello del cassetto lasciato aperto. Come si potessero aprire le ante che si trovavano in alto per metterci dentro o toglierci delle cose, con quella scala che stava proprio di fronte, Mila non riuscì a capirlo bene. Avrebbe voluto che un adulto fosse con lei perché glielo spiegasse. Pensò a sua madre, poi a Monica che ancora non era tornata. Poi guardò ancora il cerchiò scuro scavato così bene nel soffitto: si alzò sulle punte dei piedi, si piegò verso il basso con le ginocchia, ma ancora non riuscì a vedere altro che nero. E quella bocca perfettamente rotonda sembrava parlare per invitarla a raggiungerla, come aveva fatto l’albero a due facce del giardino. Ma quello si muoveva in un modo che le annodava lo stomaco dal terrore, e le foglie che agitava forte al vento le parevano denti che affondano dentro un pezzo di carne, e nei rami aveva artigli pronti ad afferrarla a un solo passo fatto più avanti per stringerla fino a spezzarla e schiacciarle le ossa. Vieni, diceva il buco, con una voce più dolce di quella dell’albero, e più sottile, e così reale nel sentirla scorrere in un orecchio che le vennero i brividi sulle braccia.

Il passo barcollante e il respiro rumoroso di Monica annunciarono il suo ritorno, facendole dimenticare a cosa stava pensando: la vide entrare veloce con un asciugamano sottobraccio e lo sguardo frettoloso, poi sorpreso, poi arrabbiato. “Ma che fai?!” tuonò, tanto forte da metterle spavento “Spostati! Ti avevo detto di chiuderla!” . La superò e afferrò la maniglia della porta per tirarla verso di sé, e il brusco clack che seguì quel gesto fece sobbalzare Mila sullo zerbino. Guardò Monica dal basso e l’asciugamano che aveva in mano: pensò, e fu certa di questo, che l’avesse portato per pulire il pavimento dal fango, e non trattenne alcun verso di stupore quando invece la vide inginocchiarsi di fronte a lei, afferrarla per le ascelle e farla sedere sulla sua gamba. “Sei fradicia!” la sentì dire da sotto l’asciugamano che le stava sfregando sui capelli e tutta la testa. Cercò di ribellarsi a quel trattamento muovendo le braccia in direzioni opposte, ma fini con l’arrendersi subito. “E stavi tutta tranquilla in mezzo alla corrente! Vuoi ammalarti? Prima sparisci e poi…”

Monica, le scale, non le guardò nemmeno. Sollevò Mila da terra lasciando cadere l’asciugamano e allontanandoselo dai piedi con un calcio, e con lei in ben sorretta tra le braccia uscì dalla cucina sputando fuori sbuffi più lunghi e forti ad ogni passo che faceva. Mila, aggrappandosi forte alla sua spalla nuda, non riuscì a vedere molto dei posti che stavano attraversando: scorse un piccolo corridoio che odorava di chiuso e di acqua stagnata, una stanza piena di cesti e fili da bucato, due gradini di marmo che conducevano a una porta verde e chiusa, e, oltre la porta, l’illuminato salone d’ingresso della villa dello zio Amos. Riconoscendo, finalmente, il posto in cui si trovava, strinse le mani su Monica e alzò il mento in avanti, alla frenetica ricerca di sua madre con lo sguardo.

“Signora” chiamò Monica, salendo le scale verso i piani superiori, con un tono di voce meno stridulo rispetto a quello che aveva usato con Mila. “Signora, è qui! L’ho trovata.”

Mila non capì da dove sua madre fosse uscita fuori: solo, quando si guardò attorno nell’accorgersi di essere arrivata al primo piano, la vide nel corridoio con una mano che sfiorava la maniglia di una porta, i capelli scomposti, gli occhi gonfi, gli stessi vestiti che le aveva visto addosso durante la cena. Non capì bene nemmeno chi delle due riuscì ad afferrare l’altra per prima, ma non se lo chiese neppure. Quando Daniela la strinse contro il petto, scoppiò di nuovo a piangere.











1 miglione

2 miglioni

3 miglioni di anni fa

Erano tre frasi sbiadite ma ancora leggibili, scritte con un pennarello rosso poco sopra alla parola Girraffa appuntata in stampatello in un angolo del libro. E c’era, fatta con l’inchiostro quasi sciolto di una penna nera, una croce sottile su ogni g di miglione, e un cerchio, grande quanto una monetina, ricalcato appena sopra il sorriso a quattro denti che la giraffa del disegno le stava rivolgendo. In realtà, anche se non si capiva bene, quel cerchio sarebbe dovuto essere una piccola luna.

…la giraffa aveva il collo la metà della metà.

Ma credendo che la luna fosse dolce l’assaggiò,

ed il collo da quel giorno lungo lungo diventò.

Facendo forza con i palmi aperti delle mani, Mila spinse il libro aperto dentro l’acqua calda, immergendo le braccia fino ai gomiti quando sentì d’aver toccato il fondo della vasca: e allora mollò la presa, alzò le mani verso l’alto e guardò il libro tornare a galla sporco di schiuma profumata di albicocca. Agitando i piedi per spostarsi di più all’indietro mosse le dita e voltò pagina, deliziata dal contatto morbido e liscio con la gomma sotto i polpastrelli bagnati. Mila aveva due libricini da bagno in tutto, e il suo preferito era quello con la copertina verde e dentro gli animali della fattoria: le piaceva, soprattutto, il disegno di un maialino rosa che si trovava fra le pagine in mezzo, con la coda riccioluta come una molla e una farfalla gialla poggiata sul suo naso schiacciato, e dei dolcissimi occhi marroni che somigliavano a due grosse nocciole. Ma sua madre, in valigia, aveva messo solamente il libro dalla copertina azzurra, con gli animali dello zoo rinchiusi nelle gabbie e con sopra le figure, in rosso ciliegia, il loro nome scritto in stampatello con la calligrafia incerta di chi ha appena imparato a reggere un pennarello dentro la mano. Voltò pagina, e lesse scimmia, foca, rino ceronte; si fermò quando sentì sua madre sfregare con troppa forza tra i suoi capelli per passarci lo shampoo. Le uscì un mugolio di protesta che Daniela ignorò, facendo solo attenzione che la schiuma non le cadesse negli occhi potandole la testa all’indietro.

“Buona” la sentì borbottare, con quel tono severo che non ammetteva repliche. “Finisce subito.”

Ora, notò Mila, la sua voce era nervosa, e pareva quasi arrabbiata. Prima, quando l’aveva afferrata e stretta forte contro il seno, era spezzata da singhiozzi colmi di sollievo e preoccupazione; poi era stata solo sollevata, poi solo preoccupata, e dopo ancora, rivolgendole domande sul dove fosse stata e cosa avesse fatto alle quali lei non era riuscita a dare risposte concrete, si era fatta rigida e indagatoria. Ora non riuscì a capirlo bene, ma preferì obbedire alle sue carezze troppo dure e non lamentarsi per paura che si arrabbiasse più di quanto non sembrava gia.

La terra e l’erba appiccicata ai piedi e alle gambe se ne era andata, le tracce secche delle lacrime sulle guance erano sparite facendole tornare lisce e rosa come caramelle. Perfino tutto il freddo che aveva preso si era sciolto immediatamente a contatto con l’acqua tiepida. Uno spruzzo troppo caldo la colpì in piena fronte facendole sfuggire un altro gemito infastidito, sentendo le dita di sua madre passarle tra i capelli come un pettine e la schiuma scovolare via dalla testa sulle spalle e sulla schiena. Quella posizione le fece male al collo, ma durò poco. Appena Daniela la lasciò spostò qualche ciuffo dietro l’orecchio per non bagnarsi gli occhi e tornò a concentrarsi sul suo libro, a immergerlo con forza nell’acqua e a guardarlo tornare pigramente a galla da solo, e a sfogliare di nuovo le pagine di gomma sofficissima con curiosità. Zebbra, leone, elefrante, lesse, guardando puntualmente le figure in basso ad ogni nome rosso scorto con gli occhi. Le venne in mente Kala Nag, e che sua madre non aveva voluto fargli fare il bagno con lei perché, a detta sua, poi non avrebbe potuto dormire con lui.

…l’elefante non aveva la proboscide che ha.

Ma partendo per il Congo la famiglia salutò,

e volendo fare “ciao” la proboscide inventò.

Daniela tolse le mani dall’acqua e le agitò appena sopra la vasca per togliere dei grumi di schiuma rimasti impigliati sulle nocche, e con un sospiro più forte dei precedenti si portò i capelli all’indietro sistemandoli in una modesta coda bassa. Il vapore del bagno si incollava ai vetri della finestra e rendeva l’aria del bagno troppo densa da respirare, mettendole addosso un tale caldo di cui in altre circostanze avrebbe volentieri fatto a meno. Si sistemò sul pavimento in una posizione più comoda, sollevando le ginocchia dalle mattonelle e sorreggendosi con una sola mano, chiudendo gli occhi per un istante in cui la stanchezza cercò di prendere il sopravento. Le faceva male la testa come se fosse circondata da una corona di carboni ardenti, ma cercò di non pensarci, massaggiandosi le tempie con la mano libera.
Invece, non riuscì a non ricordare ancora con angoscia a quando era scoccata l’una e mezza del mattino: a quando aveva salutato Amos con voce allegra dettata dal troppo vino, ed era tornata in camera sua e aveva scoperto che il loro letto era vuoto e freddissimo. Pensò, con l’affanno di quei minuti di terrore che tornò maligno ad attorcigliarle la gola, a quando aveva cercato sua figlia per tutta la casa senza dar retta alla voce di Monica che le chiedeva di calmarsi, perché a molti bambini piace nascondersi per far preoccupare i genitori, e di sicuro Mila stava giocando, si era infilata da qualche parte solo per farle uno scherzo, e che quando si sarebbe stancata sarebbe uscita fuori da sola e si sarebbe arrabbiata perché nessuno era riuscito a trovarla.
Come se non lo sapessi!: voleva fermarsi, a volte, e urlarglielo in faccia e dirle di aiutarla o di andarsene invece di ripeterle le stesse cose come una cantilena fastidiosa, ma non l’aveva mai fatto. Daniela sapeva già per davvero che Mila era solita fare queste cose: c
’era stato un periodo, anzi, da quando Oliver era morto, in cui una cosa del genere accadeva di continuo. Succedeva quando lei si intratteneva a lavoro fino a tardi, e ad accoglierla a casa era sempre più spesso una gracile e disperata signora Sebastiana con le lacrime agli occhi che, di nuovo, non aveva idea di dove si fosse cacciata la bambina che le aveva affidato nel pomeriggio. Anche a scuola, quando riusciva ad andare a prendere Mila al posto della sua vecchia vicina di casa, accadeva non più di rado che una maestra la fermasse per parlarle ed elencarle le ore che sua figlia aveva passato fuori dalla classe perdendo quasi tutte le lezioni: che la trovavano chiusa a chiave nel bagno delle femmine, rannicchiata dietro il muretto che dava agli alberi di mimose nel cortile, appiattita a terra dietro il cumulo di materassi della palestra a disegnare cerchi immaginari sul pavimento con le dita. Ma a scuola scovarla non era complicato, e il loro appartamento non era più grande di ottanta metri quadri, e dopo aver imparato a memoria quali fossero i posti preferiti di Mila per nascondersi (sotto il divano, o fra le lenzuola piegate nell’armadio, o dentro la piccola cassapanca colorata dopo avervi tirato fuori i suoi giocattoli e sparsi in disordine per tutta la camera) trovarla, tirarla fuori e tenerla in braccio e coccolarla aspettando che le tornasse il buonumore era diventato sempre più facile e veloce.
Quella villa, invece, era grandissima a confronto, con sei camere da letto e sei bagni per ciascuna, un bagno in disparte per piano, due salotti, uno studio, quattro terrazze, e poi la lavanderia, la cucina, la soffitta, la cantina e la dispensa che lei non aveva mai visitato: e Mila non era in nessuna stanza, non era dietro le ante di alcun armadio, non era acquattata sotto un letto o raggomitolata dentro un qualche grosso cassetto, e per quanto l’avesse chiamata con parole sempre più acute e tremanti di paura la voce della figlia non le aveva mai dato una risposta.
E anche se non era la prima volta che Mila spariva nel nulla, ad ogni angolo vuoto controllato dei pensieri terribili avevano iniziato a farsi largo nella sua testa (neve, autobus, cuscino) ed era entrata in un panico tale da farla quasi mettere a urlare.

Respirò a fondo e si grattò distrattamente un orecchio, alzando poi lo sguardo verso le spalle bianche di schiuma della figlia mentre giocava col libricino da bagno che le aveva portato. Si chiese ancora se davvero non sapeva cosa fosse successo, oppure –come, ritenne in quel momento, era più plausibile- se le stesse solo raccontando bugie. Da una parte, Daniela voleva che Mila le dicesse la verità: che, per esempio, le era venuta sete o aveva avuto un incubo e che nel cercare lei o la cucina si era persa fino a ritrovarsi in giardino, o che, come Monica aveva detto, aveva solo deciso di farle uno scherzo. O che era successo qualcosa che le aveva fatto venire in mente suo padre e le era venuta voglia di nascondersi. O che…

il bosco!, pensò all’improvviso, sussultando appena sul pavimento: voleva vedere il bosco al punto da scappare in piena notte dal letto in cui l’aveva lasciata? Le venne voglia di chiederglielo, ma si morse la lingua ancor prima di articolare la domanda col pensiero. Dall’altra parte conosceva sua figlia e sapeva quali erano le sue reazioni in momenti del genere: ogni volta che la trovava infilata in qualche improbabile nascondiglio e la strapazzava troppo di rimproveri, le bastava il tempo di distogliere lo sguardo un momento per scoprire che non era più dove l’aveva lasciata, ma di nuovo nascosta chissà dove, di nuovo con le orecchie tappate e le spalle tremanti come foglie, più e peggio di quanto l’avesse trovata all’inizio. E nonostante si sentisse in dovere di sgridare sua figlia o di indagare maggiormente sulla cosa, pensò anche che forse non era quello il momento buono, e che le due del mattino erano passate da un pezzo, e allora, seppur non convinta, decise di imporsi a rimandare ogni altra domanda o eventuale sgridata al giorno successivo.

Monica entrò in quel momento con un passo tanto pesante da farla quasi sobbalzare sul posto. “Grazie.” mormorò quando la vide superarla e poggiare su uno sgabello un asciugamano che solo da lontano profumava di caldo e di pulito. Daniela si avvicinò al bordo della vasca muovendosi sulle ginocchia, e guardò la figlia troppo occupata a contemplare il suo piccolo libro impermeabile per far caso a lei o alla domestica. Gettò un’occhiata alle figure disegnate sulla pagina aperta, e sorrise, ricordando a un tratto la barba di suo padre sporca di noccioline e un uomo con la faccia colorata che le regalava un palloncino di cui non rammentava il colore. “Una volta ho visto una giraffa” raccontò, ottenendo così tutta l’attenzione della figlia su di sé. Anche Monica, per un attimo, si voltò a guardarla, ma lei non ci fece caso. “Avevo la tua età, credo… o no, forse ero già in terza elementare. C’era il circo, e dopo lo spettacolo ci hanno fatto dare da mangiare agli animale. C’era anche una tigre bianca con i cuccioli, ma erano appena nati e la mamma non ce li ha volti far vedere bene. Una giraffa a un certo punto si è chinata su di me dalla gabbia e mi ha leccato tutta la mano.” Ed era stato come sfregare la pelle contro un foglio di carta vetrata, ma questo preferì non dirlo. Sorrise a Mila e prendendola per i gomiti l’aiutò ad alzarsi in piedi senza farla scivolare nella vasca. Il libro navigò per un tratto d’acqua senza una particolare direzione, fino a tornare indietro e sfiorarle la mano mezzo immersa nella schiuma: Daniela, attratta da quel tocco, lo guardò ancora dall’alto. I tre miglioni rossi con una croce per ogni g le fece scappare una risata leggera, e quella canzoncina che cantava spesso a Mila quando era più piccola iniziò a intrufolarsi fra le sue labbra in un dolce solletico. “Un milione, due milioni, tre milioni d’anni fa…” tirò fuori Mila dall’acqua e subito l’avvolse con l’asciugamano che Monica aveva portato. Le sfregò con cura la schiena e la testa e poi, con un altro asciugamano, le legò i capelli in un morbido turbante color salmone. “il bassotto era un gigante e lo chiamavano Maestà”

Prese Mila in braccio e si alzò in piedi a sua volta, barcollando appena per il sonno e il caldo del vapore che le si stava attaccando a tutta la faccia come una collosa seconda pelle. Uscì dal bagno e appoggiò la figlia sul letto, e subito cercò Kala Nag tra le coperte per passarglielo. Guardò Mila stringere il peluche al petto e strusciare la guancia sulla punta della sua proboscide grigia, e poi, senza capire il perché, alzare gli occhi in alto, alla sua sinistra, verso il quadro appeso sopra il camino. Daniela, distrattamente, lo guardò a sua volta, osservando senza interesse i due amanti del Bacio che era stato oggetto di conversazione a cena con suo cognato. Distolse gli occhi dalla tela e si inchinò verso la valigia che aveva lasciato sotto il letto. “non aveva che un soldino, che per terra rotolò” frugando tra la biancheria che si era sempre dimenticata di aggiungere a quella già infilata nei cassetti, tirò fuori una maglietta sbrindellata, delle calze corte e un paio di mutande rosa, e poi si rialzò poggiando le mani sulle ginocchia e appoggiò il tutto in un angolo del materasso. “e il bassotto per cercarlo basso basso diventò.” Sfregò un lembo dell’asciugamano che Mila aveva addosso sulla pianta dei suoi piedi, assicurandosi di averli asciugati bene accarezzandoli con il dorso della mano. Afferrò le calze senza guardarle, le piegò al dritto e, una alla volta, gliele infilò, facendole il solletico con le dita. Sua figlia rise di riflesso, e di riflesso lo fece anche lei mentre continuava a cantare. “Avanti, dinne un’altra, ma che sia la verità.”

Qualcuno bussò alla porta, e tutti i presenti si voltarono verso l’ingresso. Monica, che era rimasta in piedi dietro Daniela, trattenne il fiato.

“…è permesso?” Amos, dalla soglia, esibì un sorriso leggero, con un pugno ancora poggiato alla porta e l’altra mano nascosta nella tasca dei pantaloni. Due bottoni della camicia non erano chiusi, e il suo sguardo, per qualche strano motivo, pareva quasi più scintillante del solito.“Va tutto bene? Vi serve qualcosa?” “No, no, va tutto bene!” Daniela s’affrettò a rispondere mettendosi dritta con la schiena e lisciando la gonna sulle gambe. Sorrise all’uomo facendogli segno di avvicinarsi “abbiamo fatto il bagno e ci stavamo vestendo. Vero, tesoro?” sorrise a Mila, ma lei non rispose, abbassando lo sguardo verso la faccia ridente di Kala Nag e stringendo le ginocchia alla pancia senza emettere un fiato. Quando Amos entrò nella stanza, con quel suo passo così leggero da non fare quasi rumore con le scarpe –in che modo ci riuscisse, Daniela non l’aveva ancora capito- si avvicinò alla nipote, e, veloce, alzò una mano per sfiorarle il mento: Daniela notò che le guance di sua figlia, a quel contatto appena accennato, si erano fatte bianche come conchiglie. “Massimiliana” la chiamò lui, con la sua voce e il suo sorriso più docili “come stai?” .

La risposta di Mila fu uno starnuto improvviso e così forte da farle scuotere violentemente le spalle. Daniela le si avvicinò subito, e notando gli occhi lucidi e il naso rossastro che aveva iniziato a colare si affrettò a cercare il pacchetto di fazzolettini che ricordava d’aver lasciato dentro la valigia, borbottando qualcosa. “Signora.” Monica fece subito un passo in avanti, e sebbene si stesse rivolgendo a Daniela non smise mai di guardare le spalle di Amos “Vuole che le prenda il phon?”
“Sì, grazie…” Daniela, brandendo un fazzoletto di carta (di quelli ruvidi e profumati di camomilla che Mila non aveva mai sopportato) guardò Monica tornare nel bagno e si chinò sulla figlia per strofinarglielo con cura sotto il naso, ignorando le sue deboli lamentele al riguardo. Amos non fece nulla, assistendo alla scena con le braccia conserte davanti al petto e i boccoli neri spostati sopra un’unica spalla; ma quando Monica tornò indietro, con le guance colorate dal caldo del vapore, avvicinò una mano a Daniela per sfiorarle il braccio e catturare la sua attenzione dalla figlia. “Posso parlarti?”.

Quelle dita, così poggiate sulla sua pelle nuda, erano lisce e piacevolmente tiepide al tatto. Daniela accarezzò la frangia bagnata di Mila e seguì il cognato fino allo stipite della porta, voltandosi solo una volta per vedere sua figlia seguirli con lo sguardo e la schiena di Monica intenta a cercare una presa della corrente sul muro. Amos inclinò la testa verso un lato, e i capelli seguirono subito quella direzione. “Tutto a posto?”, domandò, con quella sua voce che pareva una cascata di seta. dallo sguardo sembrava molto preoccupato “Massimiliana ha detto perché è uscita fuori di casa?” “No…” Daniela scosse il capo e abbassò gli occhi verso il pavimento. Dietro di lei, il phon si intromise nel loro discorso in un flebile ruggito. “Ha detto di non sapere… come ci sia finita.” Si strinse tra le braccia e sfregò piano le mani sulle spalle, prima di lasciarle scivolare lungo i fianchi. La paura di quei momenti tornò a stringerle la gola con forse troppa forza. “Non credo che sia la verità. Però non so… quando l’ho lasciata ero certa che stesse dormendo…”
“Può darsi” la interruppe Amos, senza mai mutare espressione “che sia stato un caso di sonnambulismo?”

Daniela, sbattendo le palpebre, alzò lo sguardo. “cosa…?!”
“Sonnambulismo. So che non è insolito che si manifesti nei bambini. Massimiliana ne ha mai sofferto prima?” . Sotto la luce del corridoio, il volto di Amos splendeva come fosse fatto di marmo. Daniela scosse il capo, sia per negare alla sua domanda sia per scacciare dalla testa quella considerazione, e con le mani aggrappate alla pancia si voltò verso il loro letto, e fissò Mila, raggomitolata sopra il materasso, che cercava con le mani di allontanare il pettine che Monica le stava passando tra i capelli. Provò ad immaginarla alzarsi sul pavimento, e camminare, con gli occhi chiusi e le braccia allungate in avanti, aggirandosi nel buio come un fantasma. Ma non riusciva bene a farlo, sapendo che quando Mila dormiva era difficile riuscire a svegliarla fino al mattino seguente, o che ogni volta che avevano condiviso lo stesso letto non l’aveva mai sentita muoversi anche solo per lanciare un calcio o tirarsi addosso le coperte.
Nel pensare a queste cose, un ricordo sfocato si accese in un angolo della sua testa: il salotto, una lampada caduta, sua figlia a due anni in pigiama che piangeva tra le braccia del padre. Aveva avuto un incubo ed era corsa via dalla sua camera in lacrime cadendo e sbucciandosi le gambe contro le mattonelle; niente di più.
“N… no. Mai. Però come…” si rigirò verso Amos, accarezzandosi il petto “come funziona? Cioè, scusa, non m’intendo bene dell’argomento… è possibile che all’improvviso… e fino al giardino…?!” “In realtà non sono più informato di te, Daniela. Ma non escluderei questa ipotesi, viste le circostanze: so che è una questione psicologica, e forse la morte di mio fratello…” Amos, nel pronunciare quelle ultime parole, distolse lo sguardo per posarlo su un punto impreciso del pavimento “…ha avuto un certo impatto su di lei che può essersi manifestato solo ora. L’ingresso principale era già chiuso, lei può aver scovato una porta di servizio lasciata aperta ed essersi svegliata solo una volta arrivata fuori.”
“O cielo…”

Parlarono ancora, il tempo che bastò a Monica per asciugare i capelli di Mila, pettinarla e finire di vestirla, gettando ogni tanto un’occhiata curiosa verso di loro tirando a indovinare su cosa stessero discutendo. Amos spiegò che se anche fosse stato non era nulla di grave, che l’importante era aver trovato Mila e che non le fosse successo nulla; Daniela si sentì prendere una mano tra le sue, in una stretta morbida e leggera come una piuma, e a quel contatto percepì il suo respiro frantumarsi prepotente dentro la bocca. Si sentì dire qualcos’altro, ma non ascoltò: e alzando, per un attimo, lo sguardo, al sorriso dolce di Amos vide sostituirsi quello luminoso di Oliver. Distolse subito gli occhi e diventò rossa senza più aggiungere altro.

“Monica” Amos si affacciò nella stanza rivolgendo alla domestica un sorriso cordiale “potresti restare ancora con mia cognata nel caso abbia bisogno di qualcosa?” “Certo!” lei sorrise a sua volta, stringendo l’asciugamano umido che aveva appena finito di piegare in quattro parti uguali. “Certamente, signor Capitta.” ripeté.

Chiedendo di essere informato in qualunque caso di necessità, Amos augurò la buonanotte; solo Mila, abbassando lo sguardo verso i disegni zigzaganti della coperta, non si preoccupò nemmeno di rispondere al suo saluto, ma non sembrò farci caso: alzò la mano per salutarla da lontano, la intrecciò insieme all’altra dietro la schiena, e con un ultimo cenno del capo rivolto a Daniela si allontanò, lasciandosi ingoiare dalla penombra sempre più fitta del corridoio. Vagò con passo sicuro senza preoccuparsi nemmeno di accendere una luce. Anche quando raggiunse le scale, e il buio del piano inferiore lo accolse dal basso con le fauci spalancate, non sembrò turbarsene affatto. Rimase fermo un momento, osservando il vetro di una finestra scuotersi e tremare quando il vento ci si scontrava addosso come il mare contro gli scogli. Guardò, senza alcuna espressione sul viso, il profilo minaccioso della luna già bassa apparire e scomparire dietro nuvole sottilissime, la luce sfumare e tendersi nel cielo come ombre di fantasmi e poi tornare al suo circolare anello d’alabastro. Amos non amava la luna: sempre immobile, imprigionata nelle sue curve perennemente dolci, così crudelmente sorda e muta dietro la sua faccia angelica da apparirgli quasi stupida. A volte, quando da terra sollevava gli occhi nella sua direzione, alzava anche una mano davanti al volto, racchiudendo le gobbe della luna tra l’indice e il pollice, e nel premere forte i polpastrelli tra loro immaginava di schiacciarla come fosse un insetto disgustoso. Distolse piano lo sguardo, e senza più badare a nulla di particolare superò il primo gradino che incontrò, sfiorando il corrimano con la punta del gomito senza degnarlo di una minima attenzione. Stringendo le labbra, si accorse che erano secche –non era vero, ma gli piaceva pensare così quando la voglia di bere un sorso di vino tornava a raschiargli la gola. Camminò senza alcuna incertezza nel buio che incontrò alla fine delle scale: riconobbe, sotto le scarpe, la morbidezza spinosa del tappeto, e contro il naso il profumo intenso di aria calda e quello debole di rose già appassite. Poi, quasi d’un tratto, si fermò, e come se avesse potuto vedere la porta eretta a meno di un passo da lui, porse la mano in avanti fino a quando non poggiò le dita sulla sua maniglia ghiacciata. La prima cosa che catturò la sua attenzione oltre quella porta, fu lo spiraglio di luce dimenticata accesa che proveniva dalla cucina. Amos, rilassando il viso in un’espressione serena, seguì quella luce.

“Oggi sono di ottimo umore” parlò prima ancora di entrare o scostare la porta con un movimento leggerissimo della mano; nel farlo, notò che la cucina era più fredda rispetto alle altre stanze. Si avvicinò al lavabo e ai due bicchieri rivoltati sopra il panno per asciugare, scegliendo quello che gli parve meno grosso. “E solo per stavolta vi lascerò andare” . Si chinò dentro il frigorifero, afferrando per il beccuccio la bottiglia già aperta e non finita durante la cena: Château Latour del ’53, rosso. Riempì il bicchiere a metà e lo avvicinò al naso, ascoltandone le fragranza e poi assaggiandola con le labbra. Un gusto piacevole gli scivolò sulla lingua facendogli chiudere gli occhi e scappare un sospiro soddisfatto. Dopo il primo sorso si appoggiò a una parete con la schiena, e sollevando il bicchiere davanti agli occhi osservò distrattamente il liquido sanguineo ondeggiare contro il vetro ad ogni suo movimento del polso. “Ma se dovessi ancora vedervi in questa casa, vi ucciderò.”

Arcuò il collo all’indietro e sorrise, zuccherino, voltando un poco lo sguardo verso la macchia di fango rimasta sul pavimento. Le scale distese davanti alla credenza, per un brevissimo istante, parvero tremare, come scosse da un brivido.

Amos non ci badò, e chiuse gli occhi, preso da un chissà quale delizioso pensiero, raccogliendo con la lingua una goccia di vino caduta sul suo labbro inferiore. Fissò la superficie luccicante del tavolo, la parete davanti a lui e il quadro appeso poco sopra un mobile, con nella tela la gobba di un ponte madreperlato, la lastra rossa e azzurra dell’acqua, gli spruzzi delicati e festanti di colore tra gli alberi e i fiori: Lo stagno delle ninfee, armonia rosa, di Monet. Un uomo interessante, considerò. Poi, improvvisamente pensieroso, racchiuse il mento in una mano e iniziò a grattarselo con l’unghia del pollice. “…o manderò qualcuno a farlo per me.”

Il buco nel soffitto tremò con forza, come se stesse lanciando un grido senza voce. Dentro, delle ombre si mossero, agitate come spettri, vorticando e inchinandosi e stiracchiandosi in forme irrequiete e spaventose. E poi, dall’alto, cadde qualcosa, scivolò su un gradino e si schiacciò contro quel quadrato di pavimento che separava la credenza dai piedi della scala. Il verme, se di quello si trattava, si attorcigliò su sé stesso rotolando a pancia in su e poi in giù, lasciando sulle mattonelle un qualcosa di verde e vischioso che pareva bava di lumaca. Corto, grosso, liscio e cieco, il verme alzò quella parte del corpo che doveva essere il muso, e lo fece vibrare appena, forse annusando l’aria. La schiena s’incurvò in una gobba perfetta e il verme strisciò in avanti, lento, verso la scarpa di Amos.

Lui, il verme, non lo guardò nemmeno: senza mai staccare gli occhi dai fiori del quadro o dal suo bicchiere di vino rosso, ascoltò le ombre nel buco frusciare, come lembi di mantelli, volteggiare e piegarsi verso il basso. La loro voce, in quell’unica parola, parve fatta di cristallo, di battiti di ciglia, di convulse danze di scheletri.

Viziato!

Amos chiuse gli occhi e alzò il viso verso l’alto scoppiando in una risata fragorosa. Il vino nel bicchiere oscillò contro i bordi senza rovesciarsi, e poi s’acquietò in un largo cerchio rosso senza più una sola increspatura sulla sua superficie scarlatta, immobile nella presa salda di Amos.

Il verme strisciò goffamente verso di lui, alzando e stendendo la schiena marrone in un movimento brutto e poco ritmico, fermandosi ogni tanto per rialzare dal pavimento la sua testa senza peli e senza occhi e iniziare a scuoterla come un sonaglio. Ripeté quel movimento fino a quando il suo riflesso sfocato non dondolò sopra la scarpa lucidissima di Amos, e allora, improvvisamente, s’irrigidì. Con la coda piegata sotto la pancia e il muso congelato nel vuoto, solo la parte nel mezzo sembrò percossa da un brivido leggerissimo. Sul muso spuntò fuori un taglio, e il taglio si allargò in un’ellisse nera di ruvida peluria, e l’ellisse vomitò una fila di tre denti che brillarono e stridettero quando le punte graffiarono e scheggiarono il cotto del pavimento. I denti furono la prima cosa che si spezzò quando la scarpa su cui si stava specchiando cadde proprio sopra il verme.

Amos, con ancora un’espressione profondamente divertita sul volto chiaro, raccolse un ciuffo di capelli col dorso della mano e lo sistemò con cura dietro all’orecchio. Si allontanò dalla parete con gli occhi ancora chiusi, e li riaprì giusto per rivolgerli alla scala che stava al suo fianco. Un sorriso tagliente e crudele si disegnò sulle sue labbra morbide. Sparite.”

E sparirono, senza un suono, come nebbia dissolta dalla pioggia.

Un silenzio sbieco sprofondò nella cucina, interrotto solamente dai singhiozzi dell’orologio a muro che sembrava aver trattenuto il fiato per tutto quel tempo. Persino il vento, fuori dalla porta a vetri, tornò a respirare d’un tratto con ancora più forza di prima.

Amos non badò a queste cose: bevve un ultimo sorso di vino, godendo di ogni goccia scivolata sulla lingua fino alla gola, e poggiò il bicchiere sporco al centro del tavolo senza fare alcun rumore. Non guardò in basso, dove prima c’era il suo piede e il corto verme senza occhi, e ora solo granelli di ceramica bianca. Camminando senza fretta verso la porta, non guardò l’interruttore quando alzò la mano per sfiorarlo con la punta di due dita; uscendo fuori dalla cucina, da uno specchio squadrato appeso nel corridoio, scorse il contorno incolore del proprio riflesso, e si fermò per osservarlo. Vide la sua fronte, il collo, i capelli sulle guance e le labbra sottili come curve lame di coltelli. Amos abbassò le palpebre, preso da un altro squisito pensiero che gli fece sfuggire un sospiro di delizia. Le riaprì piano, rivolgendo un sorriso allo specchio che non tardò a ricambiare. Spense la luce.

La luna, rossa di tramonto, sparì lenta nel buio.








 


 




Onigiri






note autrice:




[ATTENZIONE: Capitolo dedicato alla mia carissima sensei Rohchan: perché mi incoraggia, mi consola e ascolta le mie baggianate ogni volta che mi va di tormentarla ^^"! Per chi avesse voglia di fare la conoscenza con un'autrice di vero talento, vi consiglio caldamente di visitare il suo profilo =)]


*La canzone che canta Mila nella vasca è una dello zecchino d'oro del 1967: Un Milione di anni fa
*il dipinto di Monet è questo: Lo stagno delle ninfee, armonia rosa.

E-eccome! Chiedo scusa per il ritardo, ma questo capitolo si è rivelato più lungo del previsto e mi ha preso molto tempo per farsi scrivre @_@"! Oltretutto è uno schifo e non si capisce niente! Chiedo scusa ç-ç

Piuttosto, piuttosto... Chi sarà l'uomo misterioso del giardino? e queste stupide scale da dove spuntano fuori? assumerà un senso questa storia?
xD posso rispondere con certezza solo alle prime due, però rassicuro: non c'è niente scritto a caso. Tutto quello che c'è da sapere si saprà pian piano =P (MOLTO piano, per certe cose °__°"...)


*Choung* passiamo ai ringraziamenti, che è meglio u_u:





 darllenwr  : ...non so più come fare con i tuoi commenti! sono tutti così dettagliati e incoraggianti che i normali ringraziamenti mi sembrano sempre più superflui da usare >//>. Sì, c'è un nesso tra le "Avventure di Dhovir" e le "Avventure di Mila" XD: ma si svelerà solamente più in là. Non sono certa di aver interpretato bene Dhovir: ho immaginato un ragazzo che ha perso tutto, che vede la causa della morte della persona a lui più importante l'oggetto adorato dal resto del mondo, e per questo vede in tutti dei nemici e in suo figlio qualcosa di ancora peggio. Ho immaginato così le sue reazione, sperando di aver azzeccato qualcosa... . Grazie, comunque. Adoro leggere le tue recensioni e stare davanti al computer a gongolarmi sulla sedia come una cretina ^^". Grazie mille ancora =D!


Kinpatsuchan :  Kinpa! *-* A te doppio ringraziamento per il tuo stupendo doppio commento >///>! E non ti preoccupare mai se non hai tempo o voglia di recensire questa storia idiota u_u.... a proposito, spero siano andati bene i tuoi esami =). E grazie anche per le parole della filastrocca francese *////*! le avevo tradotte "manualmente", ma non avendo mai studiato questa lingua ho avuto paura star qui a dire che questa parola significava questo e che un francese o qualcuno del genere mi mandasse lettere minatorie o cosa così e cosà xD. Per l'identità dell'uomo misterioso non bisognerà aspettare molto, ma per molte altre cose sul suo conto non andrò molto di fretta con le spiegazioni ^^. Davvero ti è piaciuto il capitolo di Dhovir? *-* Aww! Mi piace come personaggio: è triste e sfortunato e ha bisogno di tante coccole. ...no, ok, la smetto xD. Ma no, io non intendevo dire che è il tuo fascicolo di commenti ad essere inquietante! °O° scherzi?! Intendevo dire che sono io ad esserlo, quando mi metto al buio in un angolo della stanza e mi metto ad accarezzarlo come farebbe una bambina posseduta con la sua bambola (O__O" cosa!? /ndKinpa) . Grazie Kinpa! 



Lion of darkness : *-* aww... che gentile che sei! Grazie, grazie davvero >////>. eheh, la trama è confusa di suo, volutamente -forse troppo °_°- ingarbugliata ^^", e per capire molte cose si dovrebbero solo aspettare i capitoli seguenti. Spero solo di non spaventare nessuno facendo così XD. COmunque sia, grazie davvero! Non immagini quanto mi abbia fatto piacere leggere quella tua immeritata recensione ç/////ç! Grazie! *saltella a mò di scema del villaggio*


E poi, ovviamente, grazie infinite anche a chi solo ha deciso di leggere codesta storia assurda. *-* spero di migliorare e che questa storia non deluda nessuno. grazie ancora a tutti! 

=D onigiri.





   
 
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