Chateau
de Chatel-Argent , France. Ai giorni nostri.
Opzioni
di politica del clima per le città a bassa emissione
di carbonio: promesse, rischi e necessità di politiche a
più livelli. Geeta Kakde
decise che tra gli
eventi secondari all’ordine del giorno, avrebbe scelto
proprio quella
conferenza.
Il meeting era
alle
10:30, aveva quindi un paio d’ore per scattare tutte le foto
che desiderava al
castello e soprattutto per visitare il grande salone adibito a museo
dei
manufatti medievali, un periodo storico che fin dai tempi degli studi
alla
University of Cambridge l’aveva sempre affascinata, come
l’Europa di quei
secoli.
Volse le spalle
all’ingresso del torrione, dove erano disposti i pannelli con
le indicazioni
relative agli eventi del giorno e si incamminò nella
direzione opposta per
alcuni passi. Quando si voltò nuovamente verso
l’imponente torre centrale, il
suo naso e la sua fedele Nikon Coolpix erano puntati
all’insù.
Osservare
Chatel-Argent
da così vicino, con le enormi pietre spesse anche due o tre
metri, di un
argento ormai brunito dai secoli, faceva immaginare a Geeta un mondo
misterioso
fatto di battaglie e di assedi, avvenuti in quel luogo di sanguinose
contese
tra gli alleati di Francia e Inghilterra.
Con
l’immaginazione
poteva fantasticare di arcieri nascosti dietro le merlature sulla
sommità delle
torri, di camminamenti di ronda con feritoie e caditoie attraverso i
quali soldati
dall’armatura scintillante sorvegliavano i territori
circostanti.
Piazzandosi
diligentemente
di spalle al sole, immortalò da ogni posizione le torri,
adoperando lo zoom per
inquadrare da vicino le antiche merlature.
Secoli fa, come
Geeta
si figurava, su ogni torre svettavano i vessilli del signore del
castello.
Adesso ondeggiavano al vento le bandiere con i colori delle Nazione
Unite, le
dodici stelle dorate in campo blu, in onore dell’evento
mondiale sul clima che
Chatel Argent ospitava in quei giorni. Lei era invitata a presiedere
quel
congresso annuale in qualità di sottosegretario al Ministero
dell’Ambiente
indiano.
Ciò
che la incantava
maggiormente era il mastio, o torrione, che svettava più
alto di ogni cosa. Era
il cuore della cittadella, la torre più solida e imponente,
alta oltre sedici
metri. Ospitava un tempo la grande sala del banchetto e dei
ricevimenti,
insieme alle stanze private del signore. La costruzione originaria, che
risaliva intorno alla fine del XII secolo, era l’unica
dell’intero castello ancora
parzialmente intatta.
Spostò
quindi il suo
interesse dalla parte opposta, esaminando la cinta muraria
più interna, ancora
abbozzata, alla ricerca di una inquadratura suggestiva. Secoli addietro
quelle
mura avevano avuto il compito di proteggere il mastio insieme al nucleo
abitato
che comprendeva il palazzo del signore e la sua famiglia, le abitazioni
dei
domestici e dei soldati, la cappella, i magazzini e i servizi comuni.
Quasi tutti
questi fabbricati
erano stati ristrutturati nel corso dei secoli e riconvertiti di
recente,
cercando di salvaguardare la facciata esterna delle costruzioni, in
lussuosi
alloggi riservati agli ospiti del castello, oppure in ristoranti, in un
parcheggio
coperto e nell’immancabile spa.
Più
avanti ancora,
oltre l’ampio cancello rinascimentale dove un tempo era
collocato il barbacane,
come se le inferriate del cancello fossero in realtà le ante
di uno scrigno, si
schiusero davanti a lei i maestosi giardini di Chatel-Argent.
Erano introdotti
da un
sontuoso viale di platani, ombreggiato e fresco, e mentre Geeta li
immortalava
con la Nikon, la sua fantasia li popolava di sfarzose carrozze,
cavalieri in
sella alle loro candide cavalcature, dame dall’abbigliamento
eccentrico, scudieri,
paggi e ancelle.
I giardini,
suddivisi
in due dall’asse del vialetto di platani, erano articolati su
due temi diversi:
alla sua sinistra, Geeta fotografò entusiasta il giardino
labirinto composto da
siepi dalle forme più inverosimili: a forma di fate, orchi,
folletti, draghi e
altri motivi presi a prestito della foresta incantata. Sulla destra,
invece, si
poteva ammirare la precisa geometria del giardino ornamentale di bossi
topiati.
L'amore era il
motivo
dominante di quest’ultimo ambiente: sapientemente modellate
nei bossi intagliati,
ricorrevano le forme delle lame di pugnale che simboleggiano l'amore
tragico,
le corna e i rami d'albero che alludevano all'amore dissoluto e infine
i cuori
arrotondati che ricordavano l'amore eterno. Il funzionario del governo
indiano
si lasciò trasportare per molti minuti nei dedali verde cupo
delle siepi di
bosso, cercando di imprimere nella propria memoria e in quella digitale
della
Nikon, quella vista incantata.
Solo quando fu
sicura
di avere esaurito la prima memory card, la donna decise che era giunto
il momento
di esplorare gli interni. Ripercorse il vialetto alberato,
oltrepassò il
cancello e si diresse, scansando i cartelli con le indicazioni sulle
conferenze, verso l’ampia scalinata che consentiva
l’accesso al cuore del
castello.
Impiegò
qualche istante
ad abituarsi alla tenue luce che illuminava l’ambiente,
mentre una piacevole e
frizzante sensazione di fresco l’intirizziva leggermente.
Al
piano si trovavano le stanze dove un tempo
risiedevano i famigli, tutte dotate di grandi camini con la canna
fumaria in
comune, ora utilizzate invece dai domestici per vari scopi.
All’interno della
stanza centrale, l’unica di qualche interesse, Geeta
fotografò le scale di
accesso alle antiche carceri sottostanti ed un pozzo di acqua sorgiva.
Sotto il
pavimento
della stessa sala, così faceva sapere un apposito cartello,
era situata la
neviera. L’insegna spiegava che si trattava di un ambiente
sotterraneo,
interamente rivestito in legno, in modo da ottenere un discreto
isolamento
termico, dove in origine veniva immagazzinata la neve, raccolta negli
inverni
freddi e utilizzata per conservare le vivande e alcuni cibi al fresco.
Geeta,
delusa, di non vedere un accesso alla neviera, non si
scoraggiò e fotografò il
cartello.
Le varie sale
dell’ala
meridionale un tempo erano utilizzate come semplici magazzini, come
l’immancabile pannello segnalava, ma adesso ciò
che Geeta poteva vedere erano
sale da svago e un caratteristico lounge bar, ricavato nella roccia,
dalle numerose
nicchie dove erano incassate finte lumiere ad olio, alimentate ora
invece da
faretti alogeni.
L’ultimo
ambiente di
quest’ala del castello era una grande cucina e tuttora ne
conservava il forno. Un’ammiccante
freccia illuminata invitava a scattare l’ennesima foto alla
scalinata nascosta che
emergeva dal buio: esisteva in questa stanza una scala segreta, che
conduceva
al piano superiore, quello nobiliare.
Dalla
cucina comunque si usciva nello
splendido cortile interno: evidentemente conservato e vezzeggiato dalle
stesse
mani che provvedevano ai giardini, già intravvedeva un
trionfo di colori.
Non appena fu
all’aperto, i sensi furono storditi da un profumo intenso e
inebriante: una
varietà infinita di rose di ogni forma e colore adornava il
cortile. I
giardinieri avevano dipinto con le rose un angolo di Paradiso.
Dopo che ebbe
scrupolosamente passato in rassegna ogni angolo del cortile, Geeta fu
costretta
a controllare quanti scatti le restavano ancora sulla seconda memory
card.
Scoprì
che la stanza attigua alla cucina, dove si trovava in precedenza, dava
accesso
alle cisterne olearie, grandi ambienti sotterranei che potevano
contenere circa
cinquemila quintali d’olio. Nonostante l’opportuno
pannello che informava della
loro capacità, Geeta ritenne di non dovere catturare un
ricordo di
quell’ambiente.
Ritornò
invece
nell’atrio da dove era possibile accedere, salendo le scale
illuminate da
sottili strisce di led bianchi incassate sotto ogni gradino, alla
loggia, la
cui copertura era impostata su una doppia fila di colonne, posta
esattamente
sulle cantine.
Oltre la rampa
che un
tempo portava agli appartamenti nobiliari, come ben sapeva, si
trovavano ora alcune
delle sale conferenza, attrezzate con la più moderna
tecnologia informatica. Il
tempo per controllare l’orologio e decise che aveva a
disposizione un’altra ora
abbondante.
Continuando a
salire,
sulla destra, dopo aver attraversato un piccolo ambiente anonimo, si
aveva accesso
ad una anticamera, dotata di un grande e favoloso camino. Probabilmente
restaurato nei secoli successivi, finemente istoriato con una
variazione sul
tema della caccia, meritò diverse fotografie come del resto
le splendide
decorazioni sulle porte e su ciò che rimaneva degli enormi
affreschi che
coprivano quasi interamente le pareti.
Attraversò
il corridoio in cui si affacciavano
le sei ampie stanze da letto, ora adibite a sale conferenze per gli
eventi
secondari.
Dopo averlo
percorso
tutto, Geeta s’imbatté ancora nella scala segreta
che metteva in comunicazione
questo piano con quello inferiore esplorato in precedenza. Ripercorse
queste
stanze accedendo finalmente alla Gran Sala, detta sala a capriate
– così
informava un pannello – per
il
particolare tipo di copertura con travi lignee lasciate a vista.
Le pareti della
Gran Sala
erano interamente attraversate e decorate con stucchi raffiguranti
stemmi
araldici probabilmente restaurati, visto lo stato impeccabile con cui
si
presentavano all’obbiettivo della Nikon di Geeta.
Ogni angolo
tradiva la
magnificenza del suo passato e attraverso i ritratti e gli affreschi
era
possibile ricostruire, attraverso i secoli, la storia del castello.
Questo salone,
un tempo
adibito a sontuosi ricevimenti e grandi riunioni che avevano deciso le
sorti di
popoli e regioni, ospitava adesso il main
event della conferenza.
I consigli di
amministrazione di alcune società europee avevano discusso i
bilanci di fine
anno in questa sala, celebrando tra fiumi di champagne, i risultati
proiettati
sull’immenso monitor con pannelli OLED di ultima generazione.
All’occorrenza,
per fortunate coppie dalle ingenti disponibilità economiche,
poteva
trasformarsi nella sala cinematografica privata più
esclusiva. Gli sposini, che
avevano scelto il castello come meta del loro viaggio di nozze,
avrebbero
rivisto le immagini e i video del loro matrimonio su quello stesso
schermo,
godendo della cornice probabilmente più suggestiva al mondo.
Quello che Geeta
non
poteva immaginare, era che in quella stessa stanza, su quello stesso
schermo,
un giorno sarebbe stato rivelato il più sconvolgente, forse
il più importante, segreto
dell’intera storia dell’uomo.
In ogni caso il
funzionario indiano conosceva il salone già a memoria, dopo
aver trascorso
dentro sei ore in video conference il giorno prima, decise infine di
oltrepassarlo
e si trovò davanti un altro splendido e immenso stanzone,
probabilmente ciò che
era anticamente un soggiorno. Adesso era l’elegante
ristorante principale.
Non era ancora
riuscita
a trovare la stanza di maggior interesse per lei e per la sua macchina
digitale:
il museo medievale.
Raccolse
quindi dalla borsa la brochure del United
Nations Framework Convention on
Climate Change. Una vivace piantina del castello evidenziava
come raggiungere
le camere da letto degli ospiti e la spa, le sette sale conferenza che
aveva
appena oltrepassato, i quattro ristoranti a tema, i due lounge
bar…
“Eccolo
finalmente!”
l’ingresso del museo si trovava proprio lì, oltre
quella scalinata alla sua
destra. Il suo
abituale sorriso radioso
si stemperò poco dopo in una smorfia di disappunto, quando
sull’opuscolo lesse
che ”in quest’area è severamente vietato
fotografare i manufatti esposti”. Aveva
acquistato all’aeroporto una memory card aggiuntiva, credendo
di riempirla solo
con le foto del celebre museo!
Bertrand
LeClercq notò
subito la donna in tailleur pantalone beige, dalla carnagione scura e
dai
bellissimi occhi neri, incerta sulla soglia dell’ingresso del
salone. Credette
fosse l’occasione giusta per sfoderare il suo fascino.
“Bonjour Madame”
esordì emergendo dall’ombra e accennando un lieve
inchino di cortesia, nella convinzione che avrebbe impressionato
favorevolmente
le donne che approcciava a quel modo. “Vi prego, lasciate che
mi presenti: sono
il Curatore del Museé National du Moyen Âge di
Cluny”, dichiarò offrendole un
ricercato biglietto da visita, “se tutto ciò che
vi interessa è racchiuso in
questo oscuro salone, ma avete il legittimo timore ad entrarvi da sola,
permettetevi
di accompagnarvi nella visita e di annoiarvi con qualche erudito
commento”, le
sorrise porgendole il braccio.
Geeta, a
metà tra la
sorpresa e lo sconcerto, osservò l’uomo che
sembrava apparso dal nulla: aveva
un viso magro e affilato e i capelli neri lucidi erano raccolti
all’indietro in
una corta coda di cavallo. Era vestito con gusto straordinario: Geeta
avrebbe
scommesso che l’abito, su misura, era di una delle migliori
sartorie italiane e
le impeccabili calzature, invece, inglesi.
Dopo essersi
presentata
accettò l’invito e il braccio dell’uomo
e insieme entrarono nello stanzone.
L’ambiente era quasi in penombra, la moltitudine di faretti
illuminava soltanto
gli oggetti esposti dietro le vetrate. Geeta rabbrividì sia
per il fresco che
per il senso di inquietudine che quel luogo trasmetteva. Si
soffermò sulle
armature, esposte subito ai lati dell’ingresso: proprio sulla
destra dietro una
vetrina erano in bella mostra una cotta di maglia e la sua successiva
evoluzione,
l’usbergo.
L’osservò
con curiosità,
confrontando ciò che si era sempre figurata leggendo romanzi
sull’amor cortese,
con la realtà: sembrava davvero una lunga cappa fatta da
anelli di ferro intrecciati
a maglia. Non doveva essere agevole indossarne una, soprattutto doveva
essere
veramente pesante.
“I
cavalieri lo
indossavano sopra una tunica imbottita e proteggeva efficacemente dai
colpi
fendenti di un’arma da
taglio, non altrettanto dai colpi di
punta” spiegò LeClercq “e
questo qui sopra”, aggiunse indicando un flessibile copricapo
dalla vaga
somiglianza a un cappuccio composto di maglia di ferro,
“è invece il camaglio. Costruito
con la stessa tecnica dell’usbergo, proteggeva il capo e la
gola dei cavalieri
durante le battaglie”.
Poco
più avanti, dietro
il vetro, i faretti illuminavano una scintillante armatura a piastre,
mantenuta
in perfetto stato.
“Che
splendore, non
sembra affatto costruita così tanti secoli fa!”
esclamò Geeta entusiasta.
“Sei
secoli per la
precisione, Madame”
confermò l’uomo.
Geeta esaminava
ammirata
i particolari della corazza. Era montata sopra un manichino, coperto
quasi
interamente da piastre di metallo lucente, tranne le giunture dei
gomiti e dei
ginocchi, dove era visibile la foderatura in raso bordeaux che
rivestiva il
modello di plastica. Incuteva timore anche così.
La corazza
ricurva che
proteggeva il petto era decorata in rilievo con un disegno che
ricordava i
contorni di un falco con le ali spiegate.
Anche
l’elmo calato sul
volto riprendeva la stessa effige. Ai fianchi una spessa cintura
cingeva
l’armatura e reggeva, sulla destra, un pesante spadone con la
guardia, l’elsa e
il pomolo preziosamente istoriate. Sotto al bordo della corazza, una
cotta di
maglia arrivava fin dove iniziavano le piastre che avvolgevano le
gambe,
decorate anch’esse sopra e sotto il ginocchio da alcuni
rilievi che
raffiguravano le ali aperte stilizzate di un falco. Gli stivali
d’acciaio terminavano
con un puntone che a Geeta rammentò sorridendo le scarpe
décolleté a punta, dai
tacchi vertiginosi, che le donne europee sfoggiavano con disinvoltura
la sera. Era
indecisa su quale calzatura tra le due dovesse infine essere la
più scomoda.
Il suo
accompagnatore
intanto stava osservando: “come avrete notato, alle maglie di
metallo del basso
medioevo, furono gradualmente aggiunte piastre o dischi nel tentativo
di
proteggere le parti del corpo più esposte e
vulnerabili… La cosa vedo che vi fa
sorridere, Madame.”
Geeta sorpresa
nelle
sue considerazioni a occhi aperti, non poté non sorridere
ancora, come del
resto ogni volta che quel gentiluomo la chiamava signora
in francese.
LeClercq
scambiò la sua
espressione con l’invito lusingato ad andare avanti nelle sue
dotte spiegazioni.
“Fu già nel XIII secolo che le ginocchia furono
coperte con acciaio e due
dischi circolari furono applicati alle giunture delle braccia per
fornire
protezione in assetto da guerra. Il camaglio a protezione del capo si
evolse in
un grosso elmo: la parte posteriore fu infatti allungata per coprire il
retro
del collo e i lati della testa. Ulteriori piastre di acciaio furono poi
sviluppate per proteggere stinchi, piedi, gola e il torace. Intorno al
1400 molte
parti della maglia furono coperte da queste piastre protettive.
E’ tutto così
affascinante, non trovate?
“Oh
sì, il 1400… i
tornei, l’amor cortese, i cavalieri… E voi siete
un connaisseur straordinario e
appassionato, sbaglio forse?”
“Per
me, la storia è
più di una passione accademica, Madame.
E’ la mia vita, la mia sposa, la mia
amante…”
Un
fanatico di storia medievale, tradusse
mentalmente Geeta.
“Ebbene,
oggi dev’essere il vostro giorno
fortunato!” affermava intanto l’uomo con enfasi.
“Qualche mese fa il museo di
cui sono il curatore ha concesso a Chatel-Argent per il periodo di un
anno,
l’onore di ospitare uno dei manufatti medievali
più preziosi mai rinvenuto: il
manoscritto miniato originale su cui è incisa la storia del
casato di questo
castello, dal basso medioevo fino al XVIII secolo. Solo una persona al
mondo
avrebbe potuto mostrarvelo e perdonatemi l’orgoglio, Madame, quella persona è
proprio qui dinanzi a voi!”
Sempre
sottobraccio, la
trascinò letteralmente verso la vetrina principale.
LeClercq si
schiarì la
voce: “Eccolo” esclamò con ostentata
fierezza mentre disinseriva l’allarme
collegato alle forze di pubblica sicurezza, digitando un codice sul
tastierino
numerico che sembrava apparso dal nulla. Geeta, intuì la
straordinaria importanza
storica di quel manufatto, probabilmente unico nel suo genere, ma
più di questo
era affascinata dalle storie che doveva contenere: le vite, le gesta
eroiche,
le guerre, gli amori di quei nobili che avevano vissuto da protagonisti
quell’epoca così seducente.
Sempre
apparentemente
dal nulla, l’uomo porse alla ragazza un paio di guanti di
lattice, “Se volete
toccarlo usate questi”. Senza sollevarlo dal piedistallo
dov’era collocato, l’uomo
stava decantando le qualità dell’antico codice
miniato: “le pagine sono di una
pergamena particolare, pelle di vitellino da latte, calcinata, depilata
ed
essiccata sotto tensione, una chicca anche per
l’epoca” ammiccò LeClercq.
“Posso
aprirlo? Vi
prego, solo una pagina, a caso… sono così curiosa
di sapere quali vite, quali
battaglie, quali amori potrà rivelare la pagina che
sceglierò!” lo supplicò
Geeta, “voi la tradurrete per me, non è vero? Non
metto in dubbio che un uomo
della vostra cultura sappia leggere il latino non meno agevolmente
della
propria lingua madre…” cinguettò lei.
“E va
bene, Madame, chi sono io per dir
di no alla
curiosità di una donna del vostro fascino?”
Subito
dopo, indossando i sottili guanti di
lattice, Geeta aprì il gigantesco manoscritto, scegliendo
una pagina a caso. Vi
scorse splendide e preziose miniature dipinte a mano da mani
infinitamente abili
e pazienti. Alcune raffiguravano i volti giovanissimi di un uomo e di
una
donna.
Geeta
esibì uno dei
suoi sorrisi più accattivanti, mettendo in risalto i denti
bianchissimi e nello
stesso istante in cui si ravviò i lunghi e setosi capelli
neri, chiese
implorante:
“Che
ne dite di una
foto? Un’unica foto che mi ricordi di voi… magari
a fianco di questo codice antico?”
“Madame, ciò che mi chiedete
è proibito...”
“Proibito,
dite?
Esclamò con finto stupore. “Oh, ma che volete
farci, questo non fa che accrescere
il desiderio di questa foto!” civettò la ragazza.
Quando LeClercq
si atteggiò
in posa per farsi immortalare accanto al manoscritto, Geeta
puntò l’obiettivo
nella sua direzione, preoccupandosi però di zoomare sul
libro finché sul display
la figura dell’uomo non scomparve del tutto, lasciando la
scena alle sole pagine
aperte del codice. Solo allora scattò due foto in rapida
successione.
“Sono
presentabile?” volle subito
sapere lui, mentre Geeta controllava il risultato sul display digitale.
“Certamente,
ma… cosa fate ancora lì
impalato!? Leggetemi cosa c’è scritto! Vi prego,
muoio dalla voglia di saperlo!”
LeClercq si
accigliò un poco e iniziò
a tradurre la prima delle due pagine aperte.
“In
queste righe narreremo per sommi
capi la vita e le indimenticate gesta di Thierry conte di Ponthieu,
figlio di
Francois e Caroline, ai tempi della grande guerra che
durò….”
“Oh
cielo!” sospirò all’improvviso
Geeta guardando l’orologio, “sono quasi le dieci e
trenta, devo scappare! Farò
tardi alla mia conferenza!”
***
Ty era ancora
una volta in ritardo
mentre salutava alla reception la biondina assorta nella lettura di
Vanity Fair
e si infilava direttamente negli spogliatoi, mentre ancora in corsa si
era
levato il giubbino e stava già facendo scivolare la felpa da
sopra le spalle.
Frequentava
quella palestra da quasi
sei mesi, all’inizio per pura curiosità, poi
questa si era trasformata in una
vera passione. Gettò sulla panca il borsone blu dove
campeggiava in bianco la
scritta Ottawa Medieval Fightclub.
Sotto, più in piccolo la spiegazione di quel nome
altisonante: Sword Training &
Medieval Sword
Techniques.
Se un corso di
Orienteering l’aveva
salvato nel bosco vicino a Morges, dalla trappola ordita dal barone di
Gant, non
era sicuro a cosa sarebbe mai servito un corso di scherma e di tecniche
di
spada medievale, ma tanto bastava per ricordagli i brividi
dell’ultima incredibile
avventura nel XIII secolo.
Il Maestro
d’arme, attendeva il suo
miglior allievo da solo nell’ampio salone riservato
all’addestramento, con lo
sguardo cupo: “Thierry, la puntualità non
è davvero il tuo forte!” lo
rimproverò con le consuete parole, “se tu fossi
stato al servizio di un vero
cavaliere, avresti imparato a suon di frustate cosa significa
rispettare gli
orari!”
Se
solo il maestro sapesse la verità!
Sogghignò mentalmente Ty, se solo il maestro sapesse
che lui aveva visto un vero cavaliere, e che cavaliere! Lui conosceva
il Falco
d’Argento. Lui, discendeva
in qualche
modo direttamente da lui.
Aveva
già indossato le protezioni
obbligatorie per ogni allenamento di scherma del suo livello. In sei
mesi,
frequentando assiduamente la palestra e esibendo un naturale talento
per la
scherma aveva appreso oltre quaranta tecniche di fendenti diversi dei
cinquantadue conosciuti e tutte le tecniche di guardia.
Si
avvicinò alla rastrelliera di
legno per scegliere l’arma. Una di fianco all’altra
facevano bella mostra di sé
le riproduzioni perfette delle spade utilizzate dal basso
all’alto medioevo.
Dopo averle provate tutte, Ty aveva scelto di affinare maggiormente la
scherma
con la spada lunga o a una mano e mezza, detta bastarda, la spada
maggiormente
in uso nel medio-alto medioevo.
La
sfilò dalla sua sede e soppesò il
ferro: l’impugnatura allungata permetteva la presa piena di
una mano costantemente
sull'elsa e quella parziale della seconda mano per stabilizzare,
indirizzare e
controllare il ferro.
L’elsa
terminava con un pomolo finemente
istoriato di forma trapezoidale, che in certi frangenti poteva essere
usato
anch’esso, come il maestro gli aveva spiegato, come arma di
offesa.
La guardia della
spada, che aveva il
compito di offrire una qualche protezione alle mani che stringevano
l’elsa dai
colpi che potevano scivolare sulla lama, era una sezione di metallo
orizzontale
e formava una croce con la spada, delimitando l’impugnatura
dalla lama.
La lama, come Ty
aveva imparato nelle
prime lezioni, era a doppio filo ed era divisa in tre sezioni, dalla
punta
all’elsa: il debole, il medio e il forte. Il debole era
l’unico segmento che
poteva provocare danni letali all’avversario e doveva avere
sia il filo diritto
che il filo rovescio sempre
affilatissimi, anche se durante le sue lezioni il doppio filo era stato
accuratamente smussato. Il compito del medio consisteva nelle prese di ferro, ovvero il complesso di
tecniche atte a imprigionare l’arma nemica e ridurre
l’avversario
all’impotenza, oltre ad essere di vitale importanza nelle
tecniche di gioco
stretto. Il forte, il segmento più largo a contatto con la
guardia, era usato
invece per parare i colpi vibrati dal nemico.
Fece per
avvicinarsi al maestro,
valutando la posta iniziale da assumere nel duello, quando –
imprecando tra sé
– si rese conto che aveva scordato ancora una volta di
stabilire la misura.
Come il maestro
gli aveva ripetuto
decine di volte, prima di dare inizio allo scontro, era fondamentale
misurare
la distanza dall’avversario: tecnica e misura erano variabili
strettamente
dipendenti e inscindibili.
Avrebbe
adoperato le tecniche di
misura del gioco largo per gli scontri sulla media distanza, oppure
tecniche di
misura a gioco stretto per il corpo a corpo. Chiese dunque
diligentemente al
maestro quale tipo di allenamento avrebbero approfondito oggi.
Sapeva che
doveva migliorare nelle
tecniche portate a distanza ravvicinata e infatti il maestro
acconsentì
all’addestramento a gioco stretto.
Scelse la
posizione di guardia che
preferiva, la posta iniziale più sfacciata e provocatoria.
Ben piantato sulle
gambe appena divaricate, portò la mano sinistra aperta sul
petto e alzò il
braccio destro che stringeva l’arma fin sopra il capo, col
gomito piegato ad
angolo retto, in modo che la lama si trovasse quasi orizzontale sopra
la sua
testa, con la punta rivolta contro l’avversario esattamente
come l’aculeo
letale di uno scorpione.
Il Maestro, con
un ghigno feroce e
soddisfatto, replicò la stessa postura del giovane allievo,
e poco dopo,
urlando selvaggiamente, entrambi si lanciarono all’attacco,
in un cozzare di
metallo contro metallo.
***
Ian era
incredulo e sconcertato.
Donna guardava ora l’uno ora l’altro mentre
parlavano e bisticciavano,
comprendendo la metà di tutto e quindi senza riuscire a
capire realmente nulla.
Isabeau, non osava ancora intervenire in quella discussione dove tutti
parlavano di lei come se non fosse nemmeno presente, ma il cipiglio
cupo della
sua espressione faceva ben intendere il suo stato d’animo.
“Ti
dico che non c’è nessun pericolo
a fare la prova con Isabeau! Proviamo almeno, cosa ti costa?”
“Dannazione
è di mia moglie che
stiamo parlando, Daniel! E se la tua geniale
intuizione…”, Ian sottolineò le
ultime parole disegnando con due dita di ogni mano un paio virgolette
sospese
nell’aria, “si rivelasse invece completamente
sbagliata?”
“Se mi
sono immaginato un film che
non esiste, non succederà nulla! Ma finché non
facciamo un tentativo, come
accidenti posso saperlo?”
“Di
grazia, chi mi spiega almeno cos’è
un film, Messieurs?”
alzò la voce
Isabeau all’improvviso, “Ho capito che devo fare
qualcosa se vogliamo essere
certi che l’idea di Monsieur
Daniel
funzioni… Bien, sebbene
nessuno di
voi abbia avuto la cortesia di chiedermelo, la mia risposta
è sì, io
accetto”, annunciò risoluta la
ragazza.
Ian e Daniel la
guardarono stupiti e
incerti per qualche secondo. Poi entrambi ripresero a parlare,
sovrapponendo esattamente
come prima le loro voci, ognuno fermo nelle proprie posizioni.
“CELA
SUFFIT!” scoppiò alla fine
Isabeau. “Ho detto che farò la prova,
adesso!”
Tutti cessarono
di parlare e Ian la
guardò sconcertato, mentre Daniel e soprattutto Donna
cercavano di trattenersi
dal ridacchiare. Non aveva mai visto la sua angelica moglie prendere
posizione
in quel modo in una discussione.
“Oh
sì, non guardarmi così, Jean!”
chiarì subito la giovane “Madame
Donna mi ha spiegato molto bene come devono comportarsi le donne nel
vostro
mondo per farsi rispettare, quindi non fare quella faccia stupita,
adesso!”.
Ian la
esaminò ancora più sconvolto
da quella rivelazione. “Cosa credi, da quando tu e Guillaume
avete deciso che
dovrò andare nel tuo mondo… mi sto allenando in
segreto nelle vostre abitudini!”
Dopo qualche istante di teatrale silenzio, Isabeau si sciolse in una
risata argentina
e contagiosa.
“Ad
ogni modo è inutile stare qui a
parlarne all’infinito”, proseguì infine
facendosi seria, “se una prova
dev’essere fatta, ebbene, facciamola! N’est
pas, Messieurs?”
Ian alla fine si
vide sconfitto e a
malincuore dovette accettare di fare il tentativo di cui parlava
Daniel. Ma
Isabeau non aveva finito di stupirlo quel giorno poiché
aggiunse con genuina
naturalezza:
“E
adesso, Monsieur Daniel, ditemi
finalmente cos’è un film”.
Mentre scandiva l’ultima parola, sollevò le
braccia e
muovendo rapidamente due dita di ogni mano, disegnò
nell’aria un paio di
virgolette. Tutti scoppiarono in una nuova risata che
stemperò definitivamente
la tensione per i pericoli che dovevano ancora affrontare.
***
Daniel
spiegò agli altri ragazzi
l’ultimo fondamentale dettaglio del suo piano: prima di
raggiungere Ian aveva
controllato che nello stesso giorno, al castello di Chatel Argent nel
presente,
era in corso la Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sui Cambiamenti
Climatici.
Dalle
parole che Isabeau avrebbe udito di là, non
appena le avessero fatto sfiorare la mela rossa del menù del
gioco lasciandola
in sospeso tra il presente e il passato, avrebbero avuto la conferma
sulla
destinazione della ragazza quando avrebbero chiuso la partita nel XIII
secolo.
Li
informò anche della parziale
ristrutturazione del castello e che adesso le camere da letto nobiliari
del
torrione erano state convertite in altrettante sale conferenza.
“Stanze per
riunioni”, chiarì frettolosamente a Isabeau che lo
guardava con un’espressione
interrogativa.
Secondo Daniel,
Isabeau sarebbe
apparsa nel presente esattamente nello stesso luogo da cui fosse
partita, pertanto
dovevano trovare un posto dove nessuno avrebbe potuto vederla apparire
dal
nulla.
“La
scalinata segreta del torrione” affermarono
contemporaneamente Ian e la ragazza, “lì Isabeau
potrà ascoltare la vicina sala
conferenza senza essere vista” aggiunse Ian.
La giovane
francese non perse tempo,
uscì dalla stanza da letto e raggiunse in fondo al corridoio
la scala segreta
che metteva in comunicazione il loro piano con quello inferiore.
“Ici
nous sommes, enfin…” sospirò
con un filo di voce. “Adesso mostratemi cosa
devo fare…”
“Help!”
al comando vocale di Daniel
apparve istantaneamente la mela rossa fosforescente, l’icona
di Hyperversum,
che fluttuava pigramente a mezz’aria in attesa di ulteriori
comandi.
Isabeau e
persino Donna, come per un
riflesso condizionato, indietreggiarono di un passo non appena
l’icona luminosa
prese forma dal nulla.
Isabeau
l’aveva vista un paio di
volte, sempre in occasioni tragiche ed era ancora terrorizzata da quel
prodigio
per lei inspiegabile.
Ian si
avvicinò alla ragazza e le
prese la mano, serrandola nella sua, nel tentativo di infonderle
coraggio.
Daniel stava
già pronunciando le
parole per poter attivare l’utenza della ragazza.
All’improvviso, sotto l’icona
della mela, apparve il rettangolo luminoso con le scritte:
CONTROLLO PARTITA
Nome utente:
daniel.freeland
Codice utente: _
La linea
orizzontale del cursore
lampeggiava proprio al termine dell’ultima riga. Daniel
confermò la password e
all’interno dello stesso rettangolo luminescente, il gioco
mostrò le utenze che
era possibile attivare in quel momento: Ian, Donna e Isabeau.
Lo stesso Ian
osservava sconcertato,
chiedendosi come fosse possibile quel prodigio.
Daniel
cercò con una rapida occhiata l’amico
e il ragazzo annuì, era tempo di fare il tentativo. Ian
posò quindi lo sguardo
su Isabeau. Lei lo stava fissando con occhi grandi e acquosi.
Non era mai
stata più bella di
allora.
Come in ogni
altro momento in cui
avesse temuto di perderla.
“Ti
fidi di me?” le chiese
semplicemente.
“Mi
fido di te”.
Lei chiuse gli
occhi. “Fa’ ciò che
devi”.
Ian la condusse
per mano davanti alla
mela fosforescente. Cercò con lo sguardo ancora una volta
Daniel per ottenere
l’ultimo cenno di approvazione. Quindi prese delicatamente il
polso della
ragazza e lo avvicinò all’icona. Ancora pochi
centimetri e il pugno chiuso
della ragazza avrebbe toccato l’icona luminosa del gioco. Col
cuore che batteva
all’impazzata, mentre Isabeau teneva ancora gli occhi
risolutamente chiusi, mosse
il braccio quel tanto che bastava per farle sfiorare
l’immagine della mela
sospesa.
In quello stesso
istante, Isabeau strizzò
le palpebre chiuse che si contrassero come in un sogno agitato.
Attraverso le
dita che la stringevano, Ian sentì il braccio di lei
vibrare: per un secondo
tutto il suo corpo parve scosso da una scarica, poi tutto
tornò normale e
silenzioso.
“Amore?”
“Isabeau?”
chiamò Daniel.
“Isabeau?”
la cercò Donna.
Ian strinse
più forte il polso della
ragazza. “Stai bene? per l’amor di Dio, parlami!
Dì qualcosa!”
Le palpebre
tremolarono ancora sugli
occhi chiusi e poi anche la sua bocca sembrò sussultare,
come se volesse
parlare.
“Si…
sono lì” mormorò finalmente,
incespicando sulle parole.
“Grazie
al cielo non ti è successo
niente, Signore ti ringrazio!” esclamò Ian appena
rassicurato, “vedi qualcosa,
senti qualcosa?”
“Posso
udire le voci…” bisbigliò
appena più sicura di prima, “mi sento strana, come
se i miei sensi fossero
sdoppiati… Jean, tienimi ti prego!” aggiunse poi
con una nota della voce più acuta
e angosciata.
“Cosa…
non ti ho lasciata un attimo,
ti sto ancora tenendo la mano, amore!”
“Non
può sentire il contatto con te,
calmati Ian.. è di là adesso”
spiegò Daniel.
“Parlano
in inglese…. Non conosco
tutte le parole, alcune non hanno… senso… ma, un
momento, che strano… eppure mi
sembra di ricordarle, le capisco….”
“Hyperversum
non si fa mancare
niente, nemmeno l’aggiornamento del vocabolario, ricordi
Ian?”
“Riesci
a capire se sei veramente a
Chatel Argent?”
“La
scalinata sembra la stessa… credo
proprio di non essermi mossa da qui…. Soltanto le voci sono
diverse”
“Isabeau
mi senti? Concentrati solo
sulle parole che senti di là, riesci a ripeterle?”
volle sapere Donna, “non
importa se per te hanno un senso oppure no.”
“Ci
provo… c’è una voce femminile
adesso… sta dicendo che qualcosa che lei rappresenta e che
chiama india, non appoggerà
incondizionatamente le
politiche sul cambiamento climatico a meno che anche… la
cina… non farà lo
stesso…”
“Mio
Dio! Mio Dio! Ce l’abbiamo fatta,
Daniel!”
“Ce
l’abbiamo fatta” confermò il
ragazzo.
***
In quello stesso
istante, ma circa
otto secoli più avanti, Geeta Kakde aveva appena finito di
ripetere al
segretario delle Nazioni Unite che moderava la conferenza, quelle
stesse esatte
parole.