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Autore: Dean Lucas    04/10/2010    7 recensioni
Ian riabbraccia Isabeau ma scopre il prezzo del perdono di Ponthieu: i ragazzi si vedono costretti a ritornare con Isabeau nel presente in cerca dell'unico manufatto che può convincere Guillaume. Nel passato, una donna mette alla luce una bambina, senza sapere che avrebbe scritto alcune delle pagine più importanti della storia di Francia. Il suo destino si intreccerà con quello di Ian, Daniel, Isabeau e Ty, tra guerre e assedi, sconfitte e vittorie e soprattutto un nuovo amore più forte di ogni cosa. E quando tutto sembrerà ormai perduto, e la vita della misteriosa ragazza e il segreto stesso di Hyperversum saranno in grave pericolo, una donna dovrà prendere la decisione forse più importante nella storia dell'umanità. Chi c'è dietro Hyperversum? I ragazzi forse l'hanno sempre saputo, ma quando arrriverà finalmente il momento di conoscere la risposta, questa li sorprenderà più ancora delle loro incredibili avventure.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chateau de Chatel-Argent , France. Ai giorni nostri.

 

Opzioni di politica del clima per le città a bassa emissione di carbonio: promesse, rischi e necessità di politiche a più livelli. Geeta Kakde decise che tra gli eventi secondari all’ordine del giorno, avrebbe scelto proprio quella conferenza.

Il meeting era alle 10:30, aveva quindi un paio d’ore per scattare tutte le foto che desiderava al castello e soprattutto per visitare il grande salone adibito a museo dei manufatti medievali, un periodo storico che fin dai tempi degli studi alla University of Cambridge l’aveva sempre affascinata, come l’Europa di quei secoli.

Volse le spalle all’ingresso del torrione, dove erano disposti i pannelli con le indicazioni relative agli eventi del giorno e si incamminò nella direzione opposta per alcuni passi. Quando si voltò nuovamente verso l’imponente torre centrale, il suo naso e la sua fedele Nikon Coolpix erano puntati all’insù.

Osservare Chatel-Argent da così vicino, con le enormi pietre spesse anche due o tre metri, di un argento ormai brunito dai secoli, faceva immaginare a Geeta un mondo misterioso fatto di battaglie e di assedi, avvenuti in quel luogo di sanguinose contese tra gli alleati di Francia e Inghilterra.

Con l’immaginazione poteva fantasticare di arcieri nascosti dietro le merlature sulla sommità delle torri, di camminamenti di ronda con feritoie e caditoie attraverso i quali soldati dall’armatura scintillante sorvegliavano i territori circostanti.

Piazzandosi diligentemente di spalle al sole, immortalò da ogni posizione le torri, adoperando lo zoom per inquadrare da vicino le antiche merlature.

Secoli fa, come Geeta si figurava, su ogni torre svettavano i vessilli del signore del castello. Adesso ondeggiavano al vento le bandiere con i colori delle Nazione Unite, le dodici stelle dorate in campo blu, in onore dell’evento mondiale sul clima che Chatel Argent ospitava in quei giorni. Lei era invitata a presiedere quel congresso annuale in qualità di sottosegretario al Ministero dell’Ambiente indiano.

Ciò che la incantava maggiormente era il mastio, o torrione, che svettava più alto di ogni cosa. Era il cuore della cittadella, la torre più solida e imponente, alta oltre sedici metri. Ospitava un tempo la grande sala del banchetto e dei ricevimenti, insieme alle stanze private del signore. La costruzione originaria, che risaliva intorno alla fine del XII secolo, era l’unica dell’intero castello ancora parzialmente intatta.

Spostò quindi il suo interesse dalla parte opposta, esaminando la cinta muraria più interna, ancora abbozzata, alla ricerca di una inquadratura suggestiva. Secoli addietro quelle mura avevano avuto il compito di proteggere il mastio insieme al nucleo abitato che comprendeva il palazzo del signore e la sua famiglia, le abitazioni dei domestici e dei soldati, la cappella, i magazzini e i servizi comuni.

Quasi tutti questi fabbricati erano stati ristrutturati nel corso dei secoli e riconvertiti di recente, cercando di salvaguardare la facciata esterna delle costruzioni, in lussuosi alloggi riservati agli ospiti del castello, oppure in ristoranti, in un parcheggio coperto e nell’immancabile spa.  

Più avanti ancora, oltre l’ampio cancello rinascimentale dove un tempo era collocato il barbacane, come se le inferriate del cancello fossero in realtà le ante di uno scrigno, si schiusero davanti a lei i maestosi giardini di Chatel-Argent.

Erano introdotti da un sontuoso viale di platani, ombreggiato e fresco, e mentre Geeta li immortalava con la Nikon, la sua fantasia li popolava di sfarzose carrozze, cavalieri in sella alle loro candide cavalcature, dame dall’abbigliamento eccentrico, scudieri, paggi e ancelle.

I giardini, suddivisi in due dall’asse del vialetto di platani, erano articolati su due temi diversi: alla sua sinistra, Geeta fotografò entusiasta il giardino labirinto composto da siepi dalle forme più inverosimili: a forma di fate, orchi, folletti, draghi e altri motivi presi a prestito della foresta incantata. Sulla destra, invece, si poteva ammirare la precisa geometria del giardino ornamentale di bossi topiati.

L'amore era il motivo dominante di quest’ultimo ambiente: sapientemente modellate nei bossi intagliati, ricorrevano le forme delle lame di pugnale che simboleggiano l'amore tragico, le corna e i rami d'albero che alludevano all'amore dissoluto e infine i cuori arrotondati che ricordavano l'amore eterno. Il funzionario del governo indiano si lasciò trasportare per molti minuti nei dedali verde cupo delle siepi di bosso, cercando di imprimere nella propria memoria e in quella digitale della Nikon, quella vista incantata.

Solo quando fu sicura di avere esaurito la prima memory card, la donna decise che era giunto il momento di esplorare gli interni. Ripercorse il vialetto alberato, oltrepassò il cancello e si diresse, scansando i cartelli con le indicazioni sulle conferenze, verso l’ampia scalinata che consentiva l’accesso al cuore del castello.

Impiegò qualche istante ad abituarsi alla tenue luce che illuminava l’ambiente, mentre una piacevole e frizzante sensazione di fresco l’intirizziva leggermente.

 Al piano si trovavano le stanze dove un tempo risiedevano i famigli, tutte dotate di grandi camini con la canna fumaria in comune, ora utilizzate invece dai domestici per vari scopi. All’interno della stanza centrale, l’unica di qualche interesse, Geeta fotografò le scale di accesso alle antiche carceri sottostanti ed un pozzo di acqua sorgiva.

Sotto il pavimento della stessa sala, così faceva sapere un apposito cartello, era situata la neviera. L’insegna spiegava che si trattava di un ambiente sotterraneo, interamente rivestito in legno, in modo da ottenere un discreto isolamento termico, dove in origine veniva immagazzinata la neve, raccolta negli inverni freddi e utilizzata per conservare le vivande e alcuni cibi al fresco. Geeta, delusa, di non vedere un accesso alla neviera, non si scoraggiò e fotografò il cartello.

Le varie sale dell’ala meridionale un tempo erano utilizzate come semplici magazzini, come l’immancabile pannello segnalava, ma adesso ciò che Geeta poteva vedere erano sale da svago e un caratteristico lounge bar, ricavato nella roccia, dalle numerose nicchie dove erano incassate finte lumiere ad olio, alimentate ora invece da faretti alogeni.

L’ultimo ambiente di quest’ala del castello era una grande cucina e tuttora ne conservava il forno. Un’ammiccante freccia illuminata invitava a scattare l’ennesima foto alla scalinata nascosta che emergeva dal buio: esisteva in questa stanza una scala segreta, che conduceva al piano superiore, quello nobiliare.

 Dalla cucina comunque si usciva nello splendido cortile interno: evidentemente conservato e vezzeggiato dalle stesse mani che provvedevano ai giardini, già intravvedeva un trionfo di colori.

Non appena fu all’aperto, i sensi furono storditi da un profumo intenso e inebriante: una varietà infinita di rose di ogni forma e colore adornava il cortile. I giardinieri avevano dipinto con le rose un angolo di Paradiso. 

Dopo che ebbe scrupolosamente passato in rassegna ogni angolo del cortile, Geeta fu costretta a controllare quanti scatti le restavano ancora sulla seconda memory card.

   Scoprì che la stanza attigua alla cucina, dove si trovava in precedenza, dava accesso alle cisterne olearie, grandi ambienti sotterranei che potevano contenere circa cinquemila quintali d’olio. Nonostante l’opportuno pannello che informava della loro capacità, Geeta ritenne di non dovere catturare un ricordo di quell’ambiente.

Ritornò invece nell’atrio da dove era possibile accedere, salendo le scale illuminate da sottili strisce di led bianchi incassate sotto ogni gradino, alla loggia, la cui copertura era impostata su una doppia fila di colonne, posta esattamente sulle cantine.

Oltre la rampa che un tempo portava agli appartamenti nobiliari, come ben sapeva, si trovavano ora alcune delle sale conferenza, attrezzate con la più moderna tecnologia informatica. Il tempo per controllare l’orologio e decise che aveva a disposizione un’altra ora abbondante.

Continuando a salire, sulla destra, dopo aver attraversato un piccolo ambiente anonimo, si aveva accesso ad una anticamera, dotata di un grande e favoloso camino. Probabilmente restaurato nei secoli successivi, finemente istoriato con una variazione sul tema della caccia, meritò diverse fotografie come del resto le splendide decorazioni sulle porte e su ciò che rimaneva degli enormi affreschi che coprivano quasi interamente le pareti.

 Attraversò il corridoio in cui si affacciavano le sei ampie stanze da letto, ora adibite a sale conferenze per gli eventi secondari.

Dopo averlo percorso tutto, Geeta s’imbatté ancora nella scala segreta che metteva in comunicazione questo piano con quello inferiore esplorato in precedenza. Ripercorse queste stanze accedendo finalmente alla Gran Sala, detta sala a capriate – così informava un pannello –  per il particolare tipo di copertura con travi lignee lasciate a vista.

Le pareti della Gran Sala erano interamente attraversate e decorate con stucchi raffiguranti stemmi araldici probabilmente restaurati, visto lo stato impeccabile con cui si presentavano all’obbiettivo della Nikon di Geeta.

Ogni angolo tradiva la magnificenza del suo passato e attraverso i ritratti e gli affreschi era possibile ricostruire, attraverso i secoli, la storia del castello.

Questo salone, un tempo adibito a sontuosi ricevimenti e grandi riunioni che avevano deciso le sorti di popoli e regioni, ospitava adesso il main event della conferenza.

I consigli di amministrazione di alcune società europee avevano discusso i bilanci di fine anno in questa sala, celebrando tra fiumi di champagne, i risultati proiettati sull’immenso monitor con pannelli OLED di ultima generazione. All’occorrenza, per fortunate coppie dalle ingenti disponibilità economiche, poteva trasformarsi nella sala cinematografica privata più esclusiva. Gli sposini, che avevano scelto il castello come meta del loro viaggio di nozze, avrebbero rivisto le immagini e i video del loro matrimonio su quello stesso schermo, godendo della cornice probabilmente più suggestiva al mondo.

Quello che Geeta non poteva immaginare, era che in quella stessa stanza, su quello stesso schermo, un giorno sarebbe stato rivelato il più sconvolgente, forse il più importante, segreto dell’intera storia dell’uomo.

In ogni caso il funzionario indiano conosceva il salone già a memoria, dopo aver trascorso dentro sei ore in video conference il giorno prima, decise infine di oltrepassarlo e si trovò davanti un altro splendido e immenso stanzone, probabilmente ciò che era anticamente un soggiorno. Adesso era l’elegante ristorante principale.

Non era ancora riuscita a trovare la stanza di maggior interesse per lei e per la sua macchina digitale: il museo medievale.

 Raccolse quindi dalla borsa la brochure del United Nations Framework Convention on Climate Change. Una vivace piantina del castello evidenziava come raggiungere le camere da letto degli ospiti e la spa, le sette sale conferenza che aveva appena oltrepassato, i quattro ristoranti a tema, i due lounge bar…

“Eccolo finalmente!” l’ingresso del museo si trovava proprio lì, oltre quella scalinata alla sua destra.  Il suo abituale sorriso radioso si stemperò poco dopo in una smorfia di disappunto, quando sull’opuscolo lesse che ”in quest’area è severamente vietato fotografare i manufatti esposti”. Aveva acquistato all’aeroporto una memory card aggiuntiva, credendo di riempirla solo con le foto del celebre museo!

Bertrand LeClercq notò subito la donna in tailleur pantalone beige, dalla carnagione scura e dai bellissimi occhi neri, incerta sulla soglia dell’ingresso del salone. Credette fosse l’occasione giusta per sfoderare il suo fascino.

Bonjour Madame” esordì emergendo dall’ombra e accennando un lieve inchino di cortesia, nella convinzione che avrebbe impressionato favorevolmente le donne che approcciava a quel modo. “Vi prego, lasciate che mi presenti: sono il Curatore del Museé National du Moyen Âge di Cluny”, dichiarò offrendole un ricercato biglietto da visita, “se tutto ciò che vi interessa è racchiuso in questo oscuro salone, ma avete il legittimo timore ad entrarvi da sola, permettetevi di accompagnarvi nella visita e di annoiarvi con qualche erudito commento”, le sorrise porgendole il braccio.

Geeta, a metà tra la sorpresa e lo sconcerto, osservò l’uomo che sembrava apparso dal nulla: aveva un viso magro e affilato e i capelli neri lucidi erano raccolti all’indietro in una corta coda di cavallo. Era vestito con gusto straordinario: Geeta avrebbe scommesso che l’abito, su misura, era di una delle migliori sartorie italiane e le impeccabili calzature, invece, inglesi.

Dopo essersi presentata accettò l’invito e il braccio dell’uomo e insieme entrarono nello stanzone. L’ambiente era quasi in penombra, la moltitudine di faretti illuminava soltanto gli oggetti esposti dietro le vetrate. Geeta rabbrividì sia per il fresco che per il senso di inquietudine che quel luogo trasmetteva. Si soffermò sulle armature, esposte subito ai lati dell’ingresso: proprio sulla destra dietro una vetrina erano in bella mostra una cotta di maglia e la sua successiva evoluzione, l’usbergo.

L’osservò con curiosità, confrontando ciò che si era sempre figurata leggendo romanzi sull’amor cortese, con la realtà: sembrava davvero una lunga cappa fatta da anelli di ferro intrecciati a maglia. Non doveva essere agevole indossarne una, soprattutto doveva essere veramente pesante.

“I cavalieri lo indossavano sopra una tunica imbottita e proteggeva efficacemente dai colpi fendenti di un’arma da taglio, non altrettanto dai colpi di punta” spiegò LeClercq “e questo qui sopra”, aggiunse indicando un flessibile copricapo dalla vaga somiglianza a un cappuccio composto di maglia di ferro, “è invece il camaglio. Costruito con la stessa tecnica dell’usbergo, proteggeva il capo e la gola dei cavalieri durante le battaglie”.

Poco più avanti, dietro il vetro, i faretti illuminavano una scintillante armatura a piastre, mantenuta in perfetto stato.

“Che splendore, non sembra affatto costruita così tanti secoli fa!” esclamò Geeta entusiasta.

“Sei secoli per la precisione, Madame” confermò l’uomo.

Geeta esaminava ammirata i particolari della corazza. Era montata sopra un manichino, coperto quasi interamente da piastre di metallo lucente, tranne le giunture dei gomiti e dei ginocchi, dove era visibile la foderatura in raso bordeaux che rivestiva il modello di plastica. Incuteva timore anche così.

La corazza ricurva che proteggeva il petto era decorata in rilievo con un disegno che ricordava i contorni di un falco con le ali spiegate.

Anche l’elmo calato sul volto riprendeva la stessa effige. Ai fianchi una spessa cintura cingeva l’armatura e reggeva, sulla destra, un pesante spadone con la guardia, l’elsa e il pomolo preziosamente istoriate. Sotto al bordo della corazza, una cotta di maglia arrivava fin dove iniziavano le piastre che avvolgevano le gambe, decorate anch’esse sopra e sotto il ginocchio da alcuni rilievi che raffiguravano le ali aperte stilizzate di un falco. Gli stivali d’acciaio terminavano con un puntone che a Geeta rammentò sorridendo le scarpe décolleté a punta, dai tacchi vertiginosi, che le donne europee sfoggiavano con disinvoltura la sera. Era indecisa su quale calzatura tra le due dovesse infine essere la più scomoda.

Il suo accompagnatore intanto stava osservando: “come avrete notato, alle maglie di metallo del basso medioevo, furono gradualmente aggiunte piastre o dischi nel tentativo di proteggere le parti del corpo più esposte e vulnerabili… La cosa vedo che vi fa sorridere, Madame.”

Geeta sorpresa nelle sue considerazioni a occhi aperti, non poté non sorridere ancora, come del resto ogni volta che quel gentiluomo la chiamava signora in francese.

LeClercq scambiò la sua espressione con l’invito lusingato ad andare avanti nelle sue dotte spiegazioni. “Fu già nel XIII secolo che le ginocchia furono coperte con acciaio e due dischi circolari furono applicati alle giunture delle braccia per fornire protezione in assetto da guerra. Il camaglio a protezione del capo si evolse in un grosso elmo: la parte posteriore fu infatti allungata per coprire il retro del collo e i lati della testa. Ulteriori piastre di acciaio furono poi sviluppate per proteggere stinchi, piedi, gola e il torace. Intorno al 1400 molte parti della maglia furono coperte da queste piastre protettive. E’ tutto così affascinante, non trovate?

“Oh sì, il 1400… i tornei, l’amor cortese, i cavalieri… E voi siete un connaisseur straordinario e appassionato, sbaglio forse?”

“Per me, la storia è più di una passione accademica, Madame. E’ la mia vita, la mia sposa, la mia amante…”

Un fanatico di storia medievale, tradusse mentalmente Geeta.

 “Ebbene, oggi dev’essere il vostro giorno fortunato!” affermava intanto l’uomo con enfasi. “Qualche mese fa il museo di cui sono il curatore ha concesso a Chatel-Argent per il periodo di un anno, l’onore di ospitare uno dei manufatti medievali più preziosi mai rinvenuto: il manoscritto miniato originale su cui è incisa la storia del casato di questo castello, dal basso medioevo fino al XVIII secolo. Solo una persona al mondo avrebbe potuto mostrarvelo e perdonatemi l’orgoglio, Madame, quella persona è proprio qui dinanzi a voi!” 

Sempre sottobraccio, la trascinò letteralmente verso la vetrina principale.

LeClercq si schiarì la voce: “Eccolo” esclamò con ostentata fierezza mentre disinseriva l’allarme collegato alle forze di pubblica sicurezza, digitando un codice sul tastierino numerico che sembrava apparso dal nulla. Geeta, intuì la straordinaria importanza storica di quel manufatto, probabilmente unico nel suo genere, ma più di questo era affascinata dalle storie che doveva contenere: le vite, le gesta eroiche, le guerre, gli amori di quei nobili che avevano vissuto da protagonisti quell’epoca così seducente. 

Sempre apparentemente dal nulla, l’uomo porse alla ragazza un paio di guanti di lattice, “Se volete toccarlo usate questi”. Senza sollevarlo dal piedistallo dov’era collocato, l’uomo stava decantando le qualità dell’antico codice miniato: “le pagine sono di una pergamena particolare, pelle di vitellino da latte, calcinata, depilata ed essiccata sotto tensione, una chicca anche per l’epoca” ammiccò LeClercq.

“Posso aprirlo? Vi prego, solo una pagina, a caso… sono così curiosa di sapere quali vite, quali battaglie, quali amori potrà rivelare la pagina che sceglierò!” lo supplicò Geeta, “voi la tradurrete per me, non è vero? Non metto in dubbio che un uomo della vostra cultura sappia leggere il latino non meno agevolmente della propria lingua madre…” cinguettò lei. 

“E va bene, Madame, chi sono io per dir di no alla curiosità di una donna del vostro fascino?”

 Subito dopo, indossando i sottili guanti di lattice, Geeta aprì il gigantesco manoscritto, scegliendo una pagina a caso. Vi scorse splendide e preziose miniature dipinte a mano da mani infinitamente abili e pazienti. Alcune raffiguravano i volti giovanissimi di un uomo e di una donna.

Geeta esibì uno dei suoi sorrisi più accattivanti, mettendo in risalto i denti bianchissimi e nello stesso istante in cui si ravviò i lunghi e setosi capelli neri, chiese implorante:

“Che ne dite di una foto? Un’unica foto che mi ricordi di voi… magari a fianco di questo codice antico?”

Madame, ciò che mi chiedete è proibito...”

“Proibito, dite? Esclamò con finto stupore. “Oh, ma che volete farci, questo non fa che accrescere il desiderio di questa foto!” civettò la ragazza.

Quando LeClercq si atteggiò in posa per farsi immortalare accanto al manoscritto, Geeta puntò l’obiettivo nella sua direzione, preoccupandosi però di zoomare sul libro finché sul display la figura dell’uomo non scomparve del tutto, lasciando la scena alle sole pagine aperte del codice. Solo allora scattò due foto in rapida successione.

“Sono presentabile?” volle subito sapere lui, mentre Geeta controllava il risultato sul display digitale.

“Certamente, ma… cosa fate ancora lì impalato!? Leggetemi cosa c’è scritto! Vi prego, muoio dalla voglia di saperlo!”

LeClercq si accigliò un poco e iniziò a tradurre la prima delle due pagine aperte.

“In queste righe narreremo per sommi capi la vita e le indimenticate gesta di Thierry conte di Ponthieu, figlio di Francois e Caroline, ai tempi della grande guerra che durò….”

“Oh cielo!” sospirò all’improvviso Geeta guardando l’orologio, “sono quasi le dieci e trenta, devo scappare! Farò tardi alla mia conferenza!”

           

 

 

***

 

 

 

Ty era ancora una volta in ritardo mentre salutava alla reception la biondina assorta nella lettura di Vanity Fair e si infilava direttamente negli spogliatoi, mentre ancora in corsa si era levato il giubbino e stava già facendo scivolare la felpa da sopra le spalle.

Frequentava quella palestra da quasi sei mesi, all’inizio per pura curiosità, poi questa si era trasformata in una vera passione. Gettò sulla panca il borsone blu dove campeggiava in bianco la scritta Ottawa Medieval Fightclub. Sotto, più in piccolo la spiegazione di quel nome altisonante: Sword Training & Medieval Sword Techniques.

Se un corso di Orienteering l’aveva salvato nel bosco vicino a Morges, dalla trappola ordita dal barone di Gant, non era sicuro a cosa sarebbe mai servito un corso di scherma e di tecniche di spada medievale, ma tanto bastava per ricordagli i brividi dell’ultima incredibile avventura nel XIII secolo.

Il Maestro d’arme, attendeva il suo miglior allievo da solo nell’ampio salone riservato all’addestramento, con lo sguardo cupo: “Thierry, la puntualità non è davvero il tuo forte!” lo rimproverò con le consuete parole, “se tu fossi stato al servizio di un vero cavaliere, avresti imparato a suon di frustate cosa significa rispettare gli orari!”

Se solo il maestro sapesse la verità! Sogghignò mentalmente Ty, se solo il maestro sapesse che lui aveva visto un vero cavaliere, e che cavaliere! Lui conosceva il Falco d’Argento. Lui, discendeva in qualche modo direttamente da lui.

Aveva già indossato le protezioni obbligatorie per ogni allenamento di scherma del suo livello. In sei mesi, frequentando assiduamente la palestra e esibendo un naturale talento per la scherma aveva appreso oltre quaranta tecniche di fendenti diversi dei cinquantadue conosciuti e tutte le tecniche di guardia.

Si avvicinò alla rastrelliera di legno per scegliere l’arma. Una di fianco all’altra facevano bella mostra di sé le riproduzioni perfette delle spade utilizzate dal basso all’alto medioevo. Dopo averle provate tutte, Ty aveva scelto di affinare maggiormente la scherma con la spada lunga o a una mano e mezza, detta bastarda, la spada maggiormente in uso nel medio-alto medioevo.

La sfilò dalla sua sede e soppesò il ferro: l’impugnatura allungata permetteva la presa piena di una mano costantemente sull'elsa e quella parziale della seconda mano per stabilizzare, indirizzare e controllare il ferro.

L’elsa terminava con un pomolo finemente istoriato di forma trapezoidale, che in certi frangenti poteva essere usato anch’esso, come il maestro gli aveva spiegato, come arma di offesa.

La guardia della spada, che aveva il compito di offrire una qualche protezione alle mani che stringevano l’elsa dai colpi che potevano scivolare sulla lama, era una sezione di metallo orizzontale e formava una croce con la spada, delimitando l’impugnatura dalla lama.

La lama, come Ty aveva imparato nelle prime lezioni, era a doppio filo ed era divisa in tre sezioni, dalla punta all’elsa: il debole, il medio e il forte. Il debole era l’unico segmento che poteva provocare danni letali all’avversario e doveva avere sia  il filo diritto che il filo rovescio sempre affilatissimi, anche se durante le sue lezioni il doppio filo era stato accuratamente smussato. Il compito del medio consisteva nelle prese di ferro, ovvero il complesso di tecniche atte a imprigionare l’arma nemica e ridurre l’avversario all’impotenza, oltre ad essere di vitale importanza nelle tecniche di gioco stretto. Il forte, il segmento più largo a contatto con la guardia, era usato invece per parare i colpi vibrati dal nemico.

Fece per avvicinarsi al maestro, valutando la posta iniziale da assumere nel duello, quando – imprecando tra sé – si rese conto che aveva scordato ancora una volta di stabilire la misura.

Come il maestro gli aveva ripetuto decine di volte, prima di dare inizio allo scontro, era fondamentale misurare la distanza dall’avversario: tecnica e misura erano variabili strettamente dipendenti e inscindibili.  

Avrebbe adoperato le tecniche di misura del gioco largo per gli scontri sulla media distanza, oppure tecniche di misura a gioco stretto per il corpo a corpo. Chiese dunque diligentemente al maestro quale tipo di allenamento avrebbero approfondito oggi.

Sapeva che doveva migliorare nelle tecniche portate a distanza ravvicinata e infatti il maestro acconsentì all’addestramento a gioco stretto.

Scelse la posizione di guardia che preferiva, la posta iniziale più sfacciata e provocatoria. Ben piantato sulle gambe appena divaricate, portò la mano sinistra aperta sul petto e alzò il braccio destro che stringeva l’arma fin sopra il capo, col gomito piegato ad angolo retto, in modo che la lama si trovasse quasi orizzontale sopra la sua testa, con la punta rivolta contro l’avversario esattamente come l’aculeo letale di uno scorpione.

Il Maestro, con un ghigno feroce e soddisfatto, replicò la stessa postura del giovane allievo, e poco dopo, urlando selvaggiamente, entrambi si lanciarono all’attacco, in un cozzare di metallo contro metallo.

 

 

 

***

 

 

Ian era incredulo e sconcertato. Donna guardava ora l’uno ora l’altro mentre parlavano e bisticciavano, comprendendo la metà di tutto e quindi senza riuscire a capire realmente nulla. Isabeau, non osava ancora intervenire in quella discussione dove tutti parlavano di lei come se non fosse nemmeno presente, ma il cipiglio cupo della sua espressione faceva ben intendere il suo stato d’animo.

“Ti dico che non c’è nessun pericolo a fare la prova con Isabeau! Proviamo almeno, cosa ti costa?”

“Dannazione è di mia moglie che stiamo parlando, Daniel! E se la tua geniale intuizione…”, Ian sottolineò le ultime parole disegnando con due dita di ogni mano un paio virgolette sospese nell’aria, “si rivelasse invece completamente sbagliata?”

“Se mi sono immaginato un film che non esiste, non succederà nulla! Ma finché non facciamo un tentativo, come accidenti posso saperlo?”

“Di grazia, chi mi spiega almeno cos’è un film, Messieurs?” alzò la voce Isabeau all’improvviso, “Ho capito che devo fare qualcosa se vogliamo essere certi che l’idea di Monsieur Daniel funzioni… Bien, sebbene nessuno di voi abbia avuto la cortesia di chiedermelo, la mia risposta è , io accetto”, annunciò risoluta la ragazza.

Ian e Daniel la guardarono stupiti e incerti per qualche secondo. Poi entrambi ripresero a parlare, sovrapponendo esattamente come prima le loro voci, ognuno fermo nelle proprie posizioni.

“CELA SUFFIT!” scoppiò alla fine Isabeau. “Ho detto che farò la prova, adesso!”

Tutti cessarono di parlare e Ian la guardò sconcertato, mentre Daniel e soprattutto Donna cercavano di trattenersi dal ridacchiare. Non aveva mai visto la sua angelica moglie prendere posizione in quel modo in una discussione.

“Oh sì, non guardarmi così, Jean!” chiarì subito la giovane “Madame Donna mi ha spiegato molto bene come devono comportarsi le donne nel vostro mondo per farsi rispettare, quindi non fare quella faccia stupita, adesso!”.

Ian la esaminò ancora più sconvolto da quella rivelazione. “Cosa credi, da quando tu e Guillaume avete deciso che dovrò andare nel tuo mondo… mi sto allenando in segreto nelle vostre abitudini!” Dopo qualche istante di teatrale silenzio, Isabeau si sciolse in una risata argentina e contagiosa.

“Ad ogni modo è inutile stare qui a parlarne all’infinito”, proseguì infine facendosi seria, “se una prova dev’essere fatta, ebbene, facciamola! N’est pas, Messieurs?”

Ian alla fine si vide sconfitto e a malincuore dovette accettare di fare il tentativo di cui parlava Daniel. Ma Isabeau non aveva finito di stupirlo quel giorno poiché aggiunse con genuina naturalezza:

“E adesso, Monsieur Daniel, ditemi finalmente cos’è un film”. Mentre scandiva l’ultima parola, sollevò le braccia e muovendo rapidamente due dita di ogni mano, disegnò nell’aria un paio di virgolette. Tutti scoppiarono in una nuova risata che stemperò definitivamente la tensione per i pericoli che dovevano ancora affrontare.

 

 

 

***

 

 

 

Daniel spiegò agli altri ragazzi l’ultimo fondamentale dettaglio del suo piano: prima di raggiungere Ian aveva controllato che nello stesso giorno, al castello di Chatel Argent nel presente, era in corso la Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici.

 Dalle parole che Isabeau avrebbe udito di là, non appena le avessero fatto sfiorare la mela rossa del menù del gioco lasciandola in sospeso tra il presente e il passato, avrebbero avuto la conferma sulla destinazione della ragazza quando avrebbero chiuso la partita nel XIII secolo.

Li informò anche della parziale ristrutturazione del castello e che adesso le camere da letto nobiliari del torrione erano state convertite in altrettante sale conferenza. “Stanze per riunioni”, chiarì frettolosamente a Isabeau che lo guardava con un’espressione interrogativa.

Secondo Daniel, Isabeau sarebbe apparsa nel presente esattamente nello stesso luogo da cui fosse partita, pertanto dovevano trovare un posto dove nessuno avrebbe potuto vederla apparire dal nulla.

“La scalinata segreta del torrione” affermarono contemporaneamente Ian e la ragazza, “lì Isabeau potrà ascoltare la vicina sala conferenza senza essere vista” aggiunse Ian.

La giovane francese non perse tempo, uscì dalla stanza da letto e raggiunse in fondo al corridoio la scala segreta che metteva in comunicazione il loro piano con quello inferiore.

Ici nous sommes, enfin…” sospirò con un filo di voce. “Adesso mostratemi cosa devo fare…”

“Help!” al comando vocale di Daniel apparve istantaneamente la mela rossa fosforescente, l’icona di Hyperversum, che fluttuava pigramente a mezz’aria in attesa di ulteriori comandi.

Isabeau e persino Donna, come per un riflesso condizionato, indietreggiarono di un passo non appena l’icona luminosa prese forma dal nulla.

Isabeau l’aveva vista un paio di volte, sempre in occasioni tragiche ed era ancora terrorizzata da quel prodigio per lei inspiegabile.

Ian si avvicinò alla ragazza e le prese la mano, serrandola nella sua, nel tentativo di infonderle coraggio.

Daniel stava già pronunciando le parole per poter attivare l’utenza della ragazza. All’improvviso, sotto l’icona della mela, apparve il rettangolo luminoso con le scritte:

 

 

CONTROLLO PARTITA

Nome utente: daniel.freeland

Codice utente: _

 

 

La linea orizzontale del cursore lampeggiava proprio al termine dell’ultima riga. Daniel confermò la password e all’interno dello stesso rettangolo luminescente, il gioco mostrò le utenze che era possibile attivare in quel momento: Ian, Donna e Isabeau.

Lo stesso Ian osservava sconcertato, chiedendosi come fosse possibile quel prodigio.

Daniel cercò con una rapida occhiata l’amico e il ragazzo annuì, era tempo di fare il tentativo. Ian posò quindi lo sguardo su Isabeau. Lei lo stava fissando con occhi grandi e acquosi.

Non era mai stata più bella di allora.

Come in ogni altro momento in cui avesse temuto di perderla.

“Ti fidi di me?” le chiese semplicemente.

“Mi fido di te”.

Lei chiuse gli occhi. “Fa’ ciò che devi”.

Ian la condusse per mano davanti alla mela fosforescente. Cercò con lo sguardo ancora una volta Daniel per ottenere l’ultimo cenno di approvazione. Quindi prese delicatamente il polso della ragazza e lo avvicinò all’icona. Ancora pochi centimetri e il pugno chiuso della ragazza avrebbe toccato l’icona luminosa del gioco. Col cuore che batteva all’impazzata, mentre Isabeau teneva ancora gli occhi risolutamente chiusi, mosse il braccio quel tanto che bastava per farle sfiorare l’immagine della mela sospesa.

In quello stesso istante, Isabeau strizzò le palpebre chiuse che si contrassero come in un sogno agitato. Attraverso le dita che la stringevano, Ian sentì il braccio di lei vibrare: per un secondo tutto il suo corpo parve scosso da una scarica, poi tutto tornò normale e silenzioso.

“Amore?”

“Isabeau?” chiamò Daniel.

“Isabeau?” la cercò Donna.

Ian strinse più forte il polso della ragazza. “Stai bene? per l’amor di Dio, parlami! Dì qualcosa!”

Le palpebre tremolarono ancora sugli occhi chiusi e poi anche la sua bocca sembrò sussultare, come se volesse parlare.

“Si… sono lì” mormorò finalmente, incespicando sulle parole.

“Grazie al cielo non ti è successo niente, Signore ti ringrazio!” esclamò Ian appena rassicurato, “vedi qualcosa, senti qualcosa?”

“Posso udire le voci…” bisbigliò appena più sicura di prima, “mi sento strana, come se i miei sensi fossero sdoppiati… Jean, tienimi ti prego!” aggiunse poi con una nota della voce più acuta e angosciata.

“Cosa… non ti ho lasciata un attimo, ti sto ancora tenendo la mano, amore!”

“Non può sentire il contatto con te, calmati Ian.. è di là adesso” spiegò Daniel.

“Parlano in inglese…. Non conosco tutte le parole, alcune non hanno… senso… ma, un momento, che strano… eppure mi sembra di ricordarle, le capisco….”

“Hyperversum non si fa mancare niente, nemmeno l’aggiornamento del vocabolario, ricordi Ian?”

“Riesci a capire se sei veramente a Chatel Argent?”

“La scalinata sembra la stessa… credo proprio di non essermi mossa da qui…. Soltanto le voci sono diverse”

“Isabeau mi senti? Concentrati solo sulle parole che senti di là, riesci a ripeterle?” volle sapere Donna, “non importa se per te hanno un senso oppure no.”

“Ci provo… c’è una voce femminile adesso… sta dicendo che qualcosa che lei rappresenta e che chiama india, non appoggerà incondizionatamente le politiche sul cambiamento climatico a meno che anche… la cina… non farà lo stesso…”

“Mio Dio! Mio Dio! Ce l’abbiamo fatta, Daniel!”

“Ce l’abbiamo fatta” confermò il ragazzo.

 

 

***

 

 

In quello stesso istante, ma circa otto secoli più avanti, Geeta Kakde aveva appena finito di ripetere al segretario delle Nazioni Unite che moderava la conferenza, quelle stesse esatte parole.

 

 

  
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