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Autore: Guardian1    08/10/2010    1 recensioni
[Completa, riveduta e corretta.]
Sono passati tredici anni dagli eventi di Final Fantasy IX, ed ecco che la vita di Eiko Carol viene stravolta di nuovo da un nemico creduto morto da tempo. Che cosa può fare una ragazza sola per cambiare le cose?
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Eiko Carol, Un po' tutti
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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capitolo dodici
come se potessimo morire



and how do you think I like it
when you tell me what to do
and your mouth opens
and you look straight through me?
do you think I mind
when the blank expression comes
and you set off alone
down the hall of collapsing columns?


e quanto credi che mi piaccia
quando mi dici cosa fare
e la tua bocca si apre
e mi guardi attraverso?
pensi che mi dispiaccia
quando arriva quell’espressione vuota
e tu ti addentri senza di me
nel corridoio di colonne cadenti?


- hugo williams



« Oggi? »

Era arrivata la stagione delle piogge. Stavamo spesso sdraiati fianco a fianco sotto le coperte lise, toccandoci solo con le ginocchia. Occasionalmente, allungava un lungo dito ossuto verso di me per sfiorarmi le fasciature. Altre volte torturava le ferite fino a riaprirle, io facevo una smorfia, e lui lasciava in pace la crescente fuoriuscita di sangue, e rimanevo immobile fino all’arrestarsi delle macchie mutevoli.

Parlavamo. Parlavamo tanto. A volte parlavamo di tutto e niente; a volte parlava più lui di me, un borbottio lieve e senza senso rivolto al soffitto, una nenia cantilenante che tanti anni prima doveva aver cantato a se stesso per non dimenticare la conversazione, quando ancora non aveva i maghi ed era un giovane adolescente. A volte bisbigliavamo calcoli matematici – santi numi, quant’era intelligente, penetrante come un ago – e tracciavamo i numeri in aria.

A fine giornata non avevo mai l’energia sufficiente per lanciare più di una sola magia per rigenerare la pelle prima di potermi buttare nel letto di Tango e sentirmi ricucire. Lui mi baciava sotto l’attaccatura dei capelli, cercando le fratture con la bocca come un neonato con un capezzolo, radicandosi sulla mia pelle con un sorriso sulle labbra. « Sai di verde, linden-bloom » sussurrava. « Sai di eucalipto. Sai del ronzare di cellule, e di primavera, e di tagli che si rimarginano. »

Il suo viso era sempre accanto al mio. Lo fissavo negli occhi, quel gioco cangiante di ambra al buio e viola alla luce, come il cielo di un mondo alieno, fino a quando non mi girava la testa. Era come uno di quei libri che inganna l’occhio, con i colori che si mischiano fino a provocare una leggera nausea. Li vedevo brillare anche senza candele. Mi piaceva di più quando era buio e non potevo vederlo ma solo baciarlo, e spostarmi su di lui a mordere senza gentilezza la carne che poteva essere tanto quella sopra l’osso dello zigomo quanto quella sopra la giuntura che gli legava il collo alla spalla.

« Io che sapore ho, Eiko? » Era al buio che sentivo la voce di Vivi, l’uomo che era il ragazzo, quel bellissimo tenore limpido ed etereo. Assorbivo quella voce dimenticando il volto: avrei potuto mettermi a sedere e chiederne dell’altra, implorante come un cane. Mi crogiolavo nell’occasionale balbuzie, sguazzavo in ogni frase su cui esitava perché stava pensando attentamente a quello che avrebbe detto. « Mi romperai la pelle. »

« Sai di peperoni morti. »

Quando rideva, potevo fingere. Era Vivi Orunitia, il ragazzo brillante che aveva vinto una borsa di studio all’Università di Lindblum, il riverito salvatore di Gaya al fianco del principe consorte Gidan, della regina Garnet di Alexandria, e della bella ma modesta Eiko, Principessa del suo regno, con la quale danzava ai balli nonostante nessuno dei due sapesse ballare. Steiner veniva a trovarlo ogni due domeniche, perché lui voleva bene ad Adalberto Steiner, che per lui era come un secondo padre. Vivi era amato e benvoluto da tutti. Studiava cosmologia; studiava magia. Mio padre lo trovava stupendo. All’università strisciavo continuamente in camera sua anche se facevo ancora l’apprendistato da mio padre e dagli ingegneri della Reggenza. Ed era buio, come adesso, e facevamo l’amore perché era giusto e nessuno si aspettava nulla di diverso a parte mia madre, e tanto ci saremmo sposati non appena avessi costruito la mia prima, grandiosa nave ammiraglia. A nessuno importava, a nessuno dava fastidio, ed era buio e lui mi baciava e rideva-

Certo che stavo impazzendo. Solo così potevo tenere duro. Ogni giorno lottavo contro una dozzina di Eidolon, usando forza di volontà, parole, e fin troppo spesso la bacchetta, e tornavo più che mezza morta ricoperta di sangue che ancora scorreva. Non andavo più nella mia vecchia stanza: la Signora dormiva nella camera del Signore. Il letto era stato tirato a lucido e avevano rimpiazzato l’imbottitura; non volevo dormirci con la paura di incappare nelle vecchie cose di Tango. Lì dentro piangevo già troppo spesso di mio senza pulci e pidocchi.

Lui ruppe l’incantesimo, come faceva sempre. Una delle sue unghie raschiò la ferita fresca sulla mia spalla, che si spezzò e gocciolò prima che l’incantesimo di rigenerazione potesse recuperarla. Era l’alba. Succedeva la stessa cosa ogni giorno.

« Oggi? »

« Oggi no. » Chiusi gli occhi, esausta, e pregai che il sole non si levasse. Non che si sarebbe alzato; le piogge cominciavano all’alba. Il cielo sarebbe stato coperto, le nuvole avrebbero vomitato pioggia, e tutti i maghetti si sarebbero affrettati a fare tutto il dovuto per tenere fuori l’acqua. Vivi si irrigidì come sabbia in una fornace; io ero sfiorita, ammalata, mi guardavo ingrigire negli specchi elaborati di Kuja. « Forse domani. »

« Il tempo si sta accorciando. » Malevolo solo per la schiettezza. « Ixion ti ha picchiato quasi a morte, linden-bloom, petalo di principessa. Avrebbe potuto arpionarti. »

Apprensione, da parte sua? No. La sua voce era leggera, metodica, stava già misurando il mio torace appeso al corno di quel cavallo di tuono. « Però ce l’ho fatta. »

« Oggi chi c’è? »

Non lo so neanche più. « Tango, non preoccuparti di chi c’è. Non interferirò con le tue preziose equazioni. »

Lui rise, un suono secco e tenue, incurvando due dita tra i miei capelli, strattonandoli tanto da far sibilare leggermente il cuoio capelluto. « Rinfodera gli artigli da micetta, Carol. Ti sgolerai a furia di urlare contro il nulla. »

« Mi sto già sgolando a furia di urlare contro il nulla. Il grande Nulla. L’ultimo Nulla. »

Ignorò il rimbrotto vagamente lacrimoso della mia voce. Mi staccò un capello e se lo avvolse attorno alle dita, anche se più che vedere il movimento lo percepii. « Oggi chi c’è? »

Mortalmente stanca. Mortalmente stanca, mortalmente febbricitante, mortalmente patetica. Vo-v-vorresti accompagnarmi al Ballo d’Inverno, Eiko? Ho chiesto a tuo padre, non ha promesso la tua mano a nessun altro, a parte a Gidan perché ha detto che vuole bloccare il tuo carnet – – Come se andrei mai con qualcun altro, Vivi. Vestiti bene, io indosserò il vestito più bello che ho – « Come puoi fare l’amore con me ogni notte aspettando ogni giorno la mia caduta? »

Era accoccolato vicino alla mia spalla, profumava di cartilagine e sapone; il suo languido, svogliato calore si raffreddò notevolmente. Rimase a lungo in silenzio. Quando aprì la bocca aveva quella sua lucidità piuttosto sconcertante, dietro le sue parole non c’era la risata zampillante di Tango. « Linden-bloom, sapevi che quando i miei figli muoiono sento come una bruciatura? Ma non di fuoco. Di ghiaccio. Riesco a sentire che se ne vanno e mi viene sempre più freddo e freddo e freddo… »

Un brivido mi corse lungo la schiena.

« Freddo e freddo e freddo » ripeté. « Sarà un inverno freddo, Principessa. »

« Credi che non sappia che stanno morendo, pezzo di merda? » Sette piccoli maghi, senza nome ma amati, erano caduti nelle ultime settimane. In passato, arrivati a quel punto dell’anno doveva sfornarne altri, a giudicare dal modo in cui stavano andando a male i pani dagli occhi d’oro. « Non azzardarti a usare i maghi contro di me, Vivi, sai che è per loro che sto combattendo- »

« Un inverno freddo » sussurrò. C’era qualcosa di profondamente e untuosamente ripugnante nel suo tono. « Un inverno freddo d’estate. Cadrà tutta la pioggia. »

Scesi dal letto, incespicando, nuda, disgustata; andai a sbattere contro un tavolo quando mi buttai una camicia sul petto e legai un foulard sporco attorno ai fianchi. Agganciai solo qualche bottone della camicia prima di lasciar perdere per la fretta furiosa, cercando a tentoni la bacchetta dimenticata da qualche parte sul pavimento. La risata di Vivi si portò via la mia spossatezza e mi inacidì il sangue.

« Sei una stupida, Eiko » disse tranquillamente, la risata che si interrompeva tanto bruscamente come era iniziata. « Sei una stupida e a volte ti odio perché continui con questa farsa che ce la puoi fare. »

La bacchetta incuneata ai fianchi disseminava bianco ovunque mentre toglievo gli occhiali dal tavolo con cui mi ero fatta male alla spalla. « Quanto gli rimane? »

« Eiko, avresti dovuto dar retta al mio piano originale. Avrei potuto stringerti tra le braccia mentre tutto andava a fuoco. »

« Spero che i tuoi figli ti odino, schifoso bastardo, idiota insensibile, sei rivoltante e mostruoso e- e- »

Lui avvolse le braccia esili attorno alle mie spalle mentre io tremavo, ancora una volta in lacrime. Appoggiai la testa alla sua spalla in preda alla stanchezza e alla rabbia, e lo colpii impotente con i pugni chiusi. Dopo un po’ smisi, mi facevano male i polsi, e mi gettai semplicemente contro il suo corpo nudo, piangendo.

« Sei molto stanca, Carol. »

« Ti odio quando dubiti di me. »

« Io ti odio quando entri ogni giorno in quella stanza, linden-bloom. Odio il modo in cui chiudi gli occhi e ti contorci in un sonno agitato e poi ti risvegli ancora apatica, odio il modo in cui quelli ti feriscono fino a farti uscire gli organi tutti viscosi e viola e tu te li afferri con una mano e ti rimetti a posto la pelle- »

« Tango. » Mi riscossi dal pianto; non erano mai pianti veri, in quei giorni, solo semplici fitte che andavano e venivano, bagnate e burrascose. Sollevai lo sguardo ai suoi occhi, al buio, artigliandogli la pelle con le unghie. « Stai cercando di dirmi che sei preoccupato per me? »

Lui si allontanò, lanciandosi cadere senza grazia sul letto con le ali pesanti e uno humf prima di stiracchiarsi nel calore dei nostri corpi. « Tre giorni, Principessa. Forse quattro. La mia povera, piccola madre, perderà tutti i suoi bambini prima ancora di partorirli. »

Dovetti deglutire un paio di volte prima di poter parlare; quando ci riuscii e mi accovacciai sulla botola che mi avrebbe condotto fuori, la mia voce era di piombo. « Oggi combatto Terrato. »

« Non perdere, olmaria. »

« Non perderò. »



Non persi.

Una volta, a una festa, avevo mangiato serpente. Mio padre generalmente mangiava qualunque cosa, bastava che la si sbollentasse a dovere e la si adagiasse su un vassoio con un ciuffo di prezzemolo, scatenando il chiassoso disgusto di mamma, e nonostante i miei gusti non arrivassero esattamente a tanto era stato bello mangiare lumache raccapriccianti, pudding di muu, torte di ghoul e tutto quello che ci capitava di ingurgitare. Una volta mi aveva offerto del serpente; quando grosse fette di Terrato si accasciarono finalmente a terra, mi tornarono in mente le sale da ballo, le sottovesti di pizzo e i fermagli ornati di gemme. Le forme terrene degli Eidolon non duravano mai: qualunque cadavere mutilato piantassi nella sala spaziosa spariva al mattino dopo, lasciando solo il flebile odore di ossa bollite.

Quando evocavo, immaginavo sempre un lunghissimo corridoio buio fiancheggiato da freddi muri di roccia, una specie di caverna con recessi profondi. Garnet una volta mi aveva bisbigliato che, per evocare, lei doveva immergersi in uno specchio d’acqua profondo. Lo sciamano deve andare sempre più in profondità, dov’è più buio, dove c’è più melma, dove prova più claustrofobia e paura, deve accarezzare la superficie dura e irregolare per cercare a tastoni delle cavità mentre tenta di afferrare l’acqua alla cieca e il limo gli intasa il naso e poi bang-

Il contatto continuo e ripetuto con ciascuno degli spiriti ululanti quasi mi massacrava. Preferivo quando non parlavano.

dunque sei tu la sciamana – alla ricerca della catastrofe – hai avuto la meglio sugli altri – non l’avrai su di me – io sono lo zolom – non mi domerai – i nostri corpi sbarreranno la strada –

Più a fondo andavo, meno nelle sacche d’aria del mondo degli Eidolon mi imbattevo in spiriti crivellati come torte farcite di canditi particolarmente belle. Mi dimenavo come una forsennata, tentando di andare più giù, come quando nei sogni cerchi di vederti le mani – e mi ritrovavo a parlare con una montagna insanguinata o con qualcosa di altrettanto orrendo fatto di carne e occhi ma privo di testa, o con una vecchia strega ridacchiante con i gioielli che le sfavillavano sulla maschera mortuaria.

non distruggerai il mondo – il re oscuro non regnerà con la regina bianca – è vano, inutile –

Gli incantesimi venivano più facilmente, ormai. La magia sacra mi scivolava dalle dita con la semplicità e la naturalezza di quando la lingua si asciuga e si aspetta la saliva; non ero la maestra della magia elementale, a volte non cedevano immediatamente, ma velata del mio Reflex e senza neanche più rabbrividire quando artigli, denti e incantesimi si schiantavano attorno a me li colpivo, li colpivo e li colpivo fino a farli demordere. Non seguivo quasi mai grandi strategie; ci mettevo solo dosi oscene di pazienza e di resistenza. I Levita mi tenevano goffamente in piedi e mi venivano i crampi ai muscoli; di solito mi concentravo con tutte le mie forze sulla voglia che avevo di un massaggio alla schiena e di due coccole con i maghi neri. Poi ricominciavo, tornavo in quella caverna ostruita di polvere e tentavo, tentavo e tentavo di raggiungere un’oscurità che mi sfuggiva e una tensione che già conoscevo, nel profondo, dentro di me, e non riuscivo mai a entrare nel-

aarrRRGhghhHRHHGgggh

Pezzi fumanti e massicci di serpente, à la Carol. Servire per dieci.

urk

« Madre? »

Rain aveva sempre gli asciugamani pronti, dopo, oltre al borotalco da sparpagliare per la stanza per far rapprendere tutto il sangue. (Parecchio di solito era mio.) Me ne passava uno, poi buttava un po’ di borotalco e quindi si avvinghiava alla mia gamba come una piccola zecca. Con grande difficoltà me lo issai sulla schiena, e anche se per un istante esitò, rise del regalo.

« Non dovresti » protestò. « Sei ferita. »

« Ormai ci sono abituata, Rainy-Rain. »

« Credo che sia molto indecoroso. »

« Credo che tu abbia molto ragione. » Lo scaricai sul corridoio, lontano dal fetore del cadavere fresco dello spirito; stavo penetrando più in basso, sempre più giù. Riuscivo a riconoscere le linee della vita, ora. Le mie mani plasmavano il tempo, lo spazio, l’essere; chiamavo altre cose oltre ai mostri magici, che con voci scorbutiche rispondevano. Presto avrei completato il piano degli Eidolon; non avevo alcun desiderio di mettermi a dare strattoni al Bahamut di Daga, o alla regina Ashura di cui tanto si mormorava e che tanto si temeva, perciò avrei dovuto muovermi spiritualmente di soppiatto fino a toccare il fondo. Gli spiriti combattevano con maggiore tenacia a questa profondità; combattevano con maggiore tenacia o mi voltavano completamente le spalle, evento sempre sorprendente, per usare un eufemismo.

(« Non hai intenzione di combattere contro di me? » avevo chiesto a uno spirito che si occupava di guarigioni.

« Beh, no » era sbottato, spostando con un certo fastidio l’orlo delle vesti bianche ai suoi piedi dalla fanghiglia mista a sangue raggrumato lasciata da Shoat. « Ad essere brutalmente sincero, credo che tu ti sia già abbastanza fottuta di tuo, quindi prego, va’ pure avanti e pasticcia con quello stramaledetto apocalisse del piffero. Come se a me fregasse qualcosa. Tu sei la lagna di quest’anno e già mi sono stufato di te. Evocatori sanguinari, dagli un dito e ti si prendono tre braccia e due gambe. Non è mica tutto rose e fiori da queste parti, sai, uno prova a riposare in santa pace e spuntano come funghi matti danzanti, o invalide insolenti con le gambe gonfie, o gente che ti vuole imprigionare in una lampada maledetta, o… »)

Rain mi teneva la mano. La sua stretta non era più salda come una volta.

« Sai » disse, molto sovrappensiero. « Mi sarebbe piaciuto poter vedere un moguri. »

« Lo vedrai. Te ne farò vedere uno quando ti porterò a Lindblum. »

« No, non credo. » Non era amareggiato, e neanche rassegnato: stava solo affermando un fatto. « Tra tutte le cose che potevo volere, mi sarebbe piaciuto poter vedere un moguri. Non riesco a mettermi bene in testa come sono fatti solo dai tuoi racconti. »

Mi strofinai l’asciugamano sui capelli fino a farmeli rizzare tutti in testa; il sangue era una lozione che purtroppo faceva presa rapidamente. « Rain, tu – tu non- »

« Non ho paura » mi garantì cocciutamente, gli occhi come quelli di una tigre feroce al buio. « Non ho paura di morire. »

Tu non morirai.

Parole vuote.

Le nostre mani intrecciate come per poter fermare tutto, la mia mano e il suo guanto caldo come il fuoco, ci trascinammo zoppicanti lungo il corridoio. Era ancora presto ma sembrava fosse già tardi, con la luce del deserto dissimulata dalle finestre. Mentre camminavamo, un lento rimbombo esplose nei cieli, e le pesanti gocce d’acqua scesero come pallottole sul tetto. Già solo quel rumore avrebbe potuto svegliare l’intera Reggia, se solo ci fosse stato qualcuno a dormire oltre alle centinaia di maghetti neri nel cortile degli alberi sempre in crescita.

« Sono nato in questa stagione » rivelò Rain all’improvviso, inserendosi nel silenzio mentre la mia lingua cercava frasi e io tremavo al pensiero di quante altre volte avrei potuto dire no, e guardammo Sunny che trascinava un secchio enorme fino al centro del tappeto consumato ai piedi delle scalinate, preparandosi alle infiltrazioni. Grugniva, stava chiaramente bofonchiando; quando lo sistemò finalmente al posto giusto fu costretto ad appoggiarcisi contro molto stancamente, e a espirare e inspirare per un paio di interminabili minuti. « Ricordo che mi si bagnarono i vestiti. »

« Stavolta non bagnarteli. Gli Dei solo sanno come ti asciugheremmo, con questo tempo. Mi sembra di bere delle tazze di umidità ad ogni respiro! Va’ ad accendere un fuoco nella sala grande » gli proposi io, di colpo ispirata. « Di’ a tutti di venire a mangiare lì, non ce la faccio se voi state tutti a lavorare all’ora di pranzo. Forse quello stupido bastardo di tuo padre si unirà a noi se riesco a staccargli il naso dai libri. »

« Eiko, si arrabbierà- »

« Tu va’. Ormai so come prenderlo. » Se pure Tango Nero si fosse presentato con qualche corda allegata, non avrei mai saputo come prenderlo. « Magari riesco pure a convincerlo a lasciarti dormire nel nostro letto, stanotte, farà un freddo cane. Possiamo giocare a carte. Lui fa pena a carte. » (Come se a letto giocassimo mai a carte. Eravamo giovani.) « Tu assicurati che il fuoco sia bello caldo. »

Vivi era ingobbito sulla sua scrivania quando lo trovai; avrebbe potuto essere addormentato, avrebbe potuto essere privo di sensi, avrebbe potuto essere morto. Comunque fosse, sembrava malato ed esausto quanto me; eravamo creature molli, e crollavamo ogni giorno un minuto prima del precedente, senza che riuscissimo a concludere nulla. Non era neanche mezzogiorno ed eravamo già pronti a svenire. I numeri sotto i suoi guanti erano sbavati; passai un dito sulle sue equazioni, sulla curva a campana dei suoi diagrammi, sfiorai per un attimo il compasso bizzarro della sua mente e me ne andai. Vestiva troppi strati perché fosse necessaria una coperta.

(Io e lui, l’Università di Lindblum, lui distrutto per aver studiato tutta la notte, libri ovunque e una candela che tremolava al sicuro, all’ombra di lunghe maniche. Riusciremo a finire il filtro per il refrigerante, Vivi. Il motore funzionerà. Ora va’ a letto.)

« Stai diventando di nuovo sporco. Hai bisogno di un bagno. »

« No, Carol » brontolò, distintamente. « Ho bisogno di luce. »

Lo lasciai lì, lui e la sua luce; io e i maghi ci accalcammo nella sala grande, e ridemmo e chiacchierammo mangiando pane bianco, miele e mele mentre io sonnecchiavo vicino a una colonna e Shiny si infervorava in una discussione molto particolareggiata con tutti gli altri su cosa fosse meglio tra la torta e il pasticcio. Rimasi mezza addormentata durante il dibattito sulle crostate di pesche, con troppi di loro in grembo e accanto alle spalle che dormicchiavano il sonno calmo e grato degli invalidi; vederli così mi mise ansia e mi svegliai completamente, contando ogni testa, osservando ogni respiro, aspettando che qualcuno si Fermasse. Non arrivava mai con grazia per nessuno, nemmeno per i più fragili; feci un mezzo sogno sui moguri, e alla fine mi risvegliai in una sala quasi vuota con Cloud che rastrellava le braci e River che sparecchiava.

Meritavano tutti dei moguri, delle crostate di pesche e una vita in cui non avrebbero dovuto fare i domestici in una catapecchia dimenticata da Dio gremita di mostri. Non riuscivo a togliermeli dalla testa; tornai alla mia putrida sala da ballo strascicando i piedi per terra. Torte di mele col gelato; pan di marmo, petali di rosa canditi, Mogu accovacciata nella mia pancia. Tango che infilava una mano nella faccia di Rain per sradicargli l’anima. Torta di bacche capovolta. I tuoni e la monotonia gravosa dell’acqua che scrosciava sul deserto…

Non ero dell’umore ideale per l’evocazione. Dovetti fare tre tentativi prima di ottenere un cerchio funzionante; quando, con l’occhio della mente, toccai finalmente il muro scosceso, lo sentii spugnoso e atroce sotto le dita dalle unghie mangiucchiate.

Ne ho abbastanza. Ne ho abbastanza di mostri magici arrabbiati e di doverli uccidere; ne ho abbastanza di perdere tempo. Ne ho abbastanza di bambini che muoiono. Ne ho abbastanza di aeronavi. Ne ho abbastanza di tutto. Ne ho fin sopra i capelli.

La roccia sporca di muschio si sbriciolò sotto i miei piedi quando la forzai, raspando, picchiando i pugni a terra, rompendomi la pelle sulle nocche senza curarmene. Ero stanca; ero stanca e qualcosa stava cedendo, ma non sapevo se ero io o il telaio dell’universo.

Sono stanca di essere stanca.

La mia bacchetta aveva troppe schegge; mi si conficcavano nella pelle e venivano espulse durante la rigenerazione della mezzanotte, saltando fuori come bruchi dalla corteccia.

Sono stanca di fare tutto da sola. Sono stanca del giusto e sbagliato. Sono stanca di essere rapita.

Se chiudevo bene gli occhi potevo sentire il battito del mondo, chiuso a chiave e protetto anche solo dal mio tocco, inesorabile e irrequieto, la pulsazione massima. I miei piedi sprofondarono; mi rannicchiai, agitando le mani alla cieca, aspettando il formicolio elettrico alla mascella che mi avrebbe indicato la presenza di un’energia arenata inequivocabilmente sulla mia strada; avevo sgomberato i campi di neve e mi stavo immergendo sempre più giù. Scendere stava diventando sempre più difficile centimetro dopo centimetro, come se stessi nuotando in melasse che andavano indurendosi velocemente, per progredire anche solo a stento ero costretta a contorcermi e a spingermi con violenza verso il basso come una bambina in procinto di nascere e

« Chiamo il Nome della Cosa finale- »

bang

Il manto che si stava ispessendo franò immediatamente sotto il peso delle mie mani, come l’involucro di un dolce. Caddi a peso morto nel nulla, in un’oscurità rovente, incapace di arrampicarmi di nuovo sulla superficie dove avevo le gambe incrociate ed ero seduta in una putrida sala da ballo rotta con un lampadario dozzinale alla Reggia del Deserto, su Gaya, nel mondo in cui ero nata. Feci una capriola su me stessa, reperendo l’equilibrio, ritrovandomi semplicemente a fronteggiare qualcosa che per pochi attimi il mio cuore scambiò per Lui. Le mani di quel qualcosa, coperte di bende, tentavano invano di divincolarsi, incrociate davanti al petto incatenato, mentre la creatura urlava come un animale, un grido spezzato, le tenebre erano la nostra anticamera e io non riuscivo a far altro che fissarlo e fissarlo e fissarlo e gli occhi mi uscirono quasi dalle orbite mentre la testa orribile oscillava a destra e sinistra.

avverti il mio dolore

Mi dimenai inutilmente, cercando punti di appoggio senza trovarne, perdendo ogni speranza di luce mentre venivo risucchiata dalla risacca.

bang

Sfiorai una sostanza viscida e acuminata come la pelle di un sahagin. Solo la fosforescenza emessa dall’imponente massa di carne tremolante mi forniva un po’ di luce, illuminando una cosa deforme che ricordava un vaso d’argilla accartocciato su se stesso e ruotato di centottanta gradi, con pezzi di pelle rosa, lividi viola e occhi sparpagliati a casaccio. Era un monumento isterico alla pessima ingegneria, ma mi gelò dentro, rese ghiaccio il mio sangue liquido, fino a quando non gridai cataclisma e mi raggomitolai, cadendo.

bang

Mi inabissai, superando uomini e donne nudi; i corpi ammassati nascosero il buio, ma poi provai a spostarmi tra gli arti freddi e rigidi, nuotando in mezzo ai cadaveri, tra la carne attaccata e incollata insieme in certi punti, e alla fine rimasi bloccata in una bolla di persone morte e potevo vedermi attraverso le mani e la mia pelle era trasparente e

oh

Non sentivo che farfugli incessanti, e poi mi resi conto che erano i miei-

NO. BASTA.

Esplosi come una stella, fuori controllo, e vorticai verso una morte certa sul pavimento duro.

Quando rinvenni, il soffitto della sala da ballo era saltato, e ogni centimetro quadrato rimasto era rivestito di pezzi; Tango era sospeso in aria, al centro, una rapsodia di organi, e avevo tutte e due le gambe rotte. Ero uno spettro pallido e tremulo tra le sue braccia quando mi riportò alla torre, in camera sua, e mi distese sul letto, dove mi guardò balbettare incantesimi con le labbra tremanti. La mia pelle fu catturata da una rete verde, sottile e fine come i capelli di un bambino. Fissai il vuoto e piansi, le labbra bianche come la neve, zuppa fino al midollo di pioggia, sangue, e del succo pancreatico di chissà chi. Mi rigirai e vomitai copiosamente su un cumulo di, per fortuna, stracci – Vivi risolse il problema gettando prontamente quel pasticcio acre fuori dalla finestra.

« Linden-bloom » disse, e la sua voce era profondamente compassionevole, « non puoi continuare così. »

Io non risposi; i denti mi battevano. Lui mi rimise a posto le ossa delle gambe con molta calma, suscitandomi due strilli attutiti dalla più completa e totale spossatezza, e accese le candele della stanza con un gesto languido del guanto. Il letto scricchiolò quando ci si sedette, accanto a me, che tenevo gli occhi sbarrati solo per la paura di dover rivedere di nuovo il buio. Il vento fuori soffiava forte, sbatacchiando furiosamente le persiane; per una volta, gli antoleon non offrirono musica ambient di sottofondo.

« H-ho provato » tartagliai, « Ho provato a c-chiamarlo. »

« Hai fatto entrare le cose oscure, Principessa. Non la Cosa oscura ma le cose oscure, tutte svolazzanti di qua e di là, ma quando tutto il resto fallisce usa il fuoco, non credi? Tanto non mi è mai piaciuta quella sala da ballo. Sono contento che non ci sia più. »

« Vivi- »

Lui si sdraiò vicino a me e si tolse il cappello, e tutti i suoi capelli chiari e morbidi come piume di uccello si riversarono sul cuscino; mi scrutò con i grandi occhi d’oro spalancati. « Lascia che ti dica una vera verità, Eiko. Il fuoco non è una morte poi così brutta. E neanche il ghiaccio, o il tuono. Se verrà fatto abbastanza in fretta sentiranno solo il calore, una folata di vento e un gelo rapido e tagliente, e poi sarà finita per tutti, come andare a dormire, o come quando guardi il sole in una calda giornata d’estate e te lo senti penetrare la testa. Non ci sarà dolore nella nostra battaglia finale. Tesoro, Alexandria e Lindblum non sono come morte per te, ora che te ne stai qui da sola alla Reggia del Deserto? Il ricordo che hai di loro va sbiadendosi. Dopo l’incendio si cristallizzerà per l’eternità. La tua Garnet, la tua Elia. »

Mossa sbagliata. « Io non permetterò mai che accada qualcosa a Cornelia. »

Le sue dita tracciarono i contorni della mia mano, delicatamente; mi baciò con grande tenerezza il lobo dell’orecchio, solo per assaggiarlo, per assimilare con la lingua il sapore della mia pelle che si ricuciva. Quando parlò, la sua voce era falsamente leggera. « Mentre non eri con noi qualcuno si è Fermato. »

Non Rain, Mogu, ti prego non Rain. Oh, diamine, nessuno di loro, i miei piccolini. « Chi? »

« Credo che tu l’avessi chiamato Sun. Carol, lo sai quanto in fretta succedono, queste cose. »

Sunny era morto, lontano da me, mentre io ero nel buio dell’evocazione. Tango prese la mia mano scossa dai brividi; la sua voce era odiosamente pacata mentre tastava dolcemente le unghie frastagliate. « Ci ha dato il suo amore. Sono tutti dei bambini buonissimi, no? Mai una parola severa, mai attacchi di rabbia, mai impazienza. Accolgono la morte con grazia. Come sempre. Piccoli passerotti-albero, piccole creaturine magiche e silenziose acconciate da capo a piedi di nero. Lavorano e muoiono, come i calabroni. »

E allora piansi senza lacrime; le mie spalle tremavano ma gli occhi erano asciutti, e singhiozzai e m’infuriai finché le sue dita ora spoglie non mi richiusero le palpebre. Era buio; ero sfinita, nauseata, e le mie viscere sembravano pesanti come i dolci che vendevano alle bancarelle delle fiere di Toleno. Ero stata prosciugata di ogni cosa. Non ero Eiko Hildegarde Carol, non ero Eiko Fabool, non ero Ragazzina o Mia Figlia o Sua Altezza o Mocciosa. Non ero nemmeno Linden-bloom o Mamma. Ero spina dorsale, qualche rimasuglio di carne e ghiandole lacrimali, la mia intera geografia consisteva nella Reggia e in tutta la sabbia che potevo ingerire, e non potevo fare altro che nascondere il viso nella spessa giacca di cuoio di Vivi e aspettare che la fine del mondo terminasse prima ancora di iniziare.

E mi arresi. Non avrei evocato Trivia. Tango Nero avrebbe finalmente indossato le vesti rifinite e tagliate con gusto del suo predecessore: l’Angelo della Morte.

Mi sentii molle e dolorante quando lui mi prese, immobile, schiudendo solo le mie labbra per le sue; rimanemmo entrambi in silenzio, la mia mente e le mie mani erano lontane, e non ricordo neanche che finì prima di addormentarmi piccola e apatica tra le braccia dell’assassino. Il mondo puoi salvarlo una volta sola. Non puoi più tornare indietro.



Nei giorni seguenti dormii fino a tardi e vagai per le stanze come un fantasma; durante i miei sonnellini, tenevo la bacchetta scheggiata rinfoderata al sicuro nella cintura di qualunque cosa avessi addosso, mentre quella spruzzava tristemente e inutilmente delle scintille. Lo stress si era insinuato fin dentro le ossa. I maghi venivano a trovarmi quando finivano di pulire le cantine, le stanze, le scale principali, i corridoi, e mangiavamo insieme, e diminuivano davanti ai miei occhi.

Ero stata fin troppo indaffarata con le mie cose per guardarli morire, per vedere il loro passo che rallentava, per notare il respiro affannoso, per vederli ammalare. Ora io e gli ultimi rimasti mangiavamo insieme e i più deboli si sedevano vicino a me perché li aiutassi a mangiare, e ascoltavamo tutti insieme le tempeste estive. Non riuscivo nemmeno a piangere; avevo gli occhi aridi come una roccia, ed ero vivace, radiosa, ridevo, raccontavo loro le vecchie storie di mio nonno, e dicevo Cavoli! ogni cinque minuti mentre tutti cercavamo di parlarci uno sopra l’altro.

La vita è transitoria, pensai. La vita è transitoria e tutto è fugace, e qui c’è una doppia dozzina di bambini che non ha mai avuto l’opportunità di sbucciarsi le ginocchia o di mettere uno scaraburi nello stufato o di festeggiare il compleanno con mamma e papà squadrando cinicamente le scarpe in cui dovrebbero “crescere,” o di andare a scuola, o di innamorarsi, o di chiedere il permesso di avere un topo come animale domestico, e tutto questo quanto vale? La vita di chi vale di più?

« Carol » mi chiamò una voce – troppo gentile, lui non era mai così gentile se non quando- « Ora sta dormendo, presto se ne andrà. » E quello fu il primo di loro a Fermarsi.

Quelli senza nome; quelli con nome; era uno di quelli acciambellato sul mio grembo, che aveva avuto un ruolo di rilievo nella crociata “il pasticcio è meglio della torta,” che era leggero come una piuma. Non mi ero accorta che sulla stanza era calato il silenzio. Gli misi le mani sotto le ascelle e lo sollevai come se avesse due o tre anni; Tango si chinò a baciarlo, e gli prese l’anima e il cappello mentre il resto si dissipava nell’etere buio di cui era composto. Una fiamma che viene soffocata, la vasca che si svuota. Rimanemmo tutti zitti.

« Fratelli, madre » iniziò uno dei maghi, « è sbagliato avere – paura? »

« Se abbiamo paura, lui non sarà orgoglioso di noi. »

« Va benissimo avere paura. Ma non troppo. È sbagliato combatterla, secondo me. »

« Combatterla troppo, almeno. Non vorrei stancarmi troppo. Voglio sembrare carino quando verrò appeso a un albero. » Risata.

« Come se tu fossi carino. »

« Ehi! »

« Non litigate, non ora. »

« Non stiamo litigando, non esattamente- »

« Farà male, madre? »

« Ci piacerà? »

« Saremo felici, se siamo stati bravi? »

« Sarà meraviglioso » risposi. « Perché qualunque cosa accada, mie amate stelline, io e Tango Nero vi rivedremo molto presto, quindi stringetevi forte e non p-preoccupatevi, siate coraggiosi come tutti gli altri. Voi siete tutto. Voi siete il mondo, voi sete le stelle, voi siete il cielo. Voi siete meglio dei biscotti, dell’estate, e dei giri in aeronave. »

Ci fu un singhiozzo trattenuto; ed era Vivi, che era in piedi con le mani vuote ai confini creati dai nostri corpi, mentre io ero al centro come una madre chioccia circondata da tanti pulcini assonnati col cappello. Quelli che potevano incespicarono tra i propri piedi e si radunarono intorno a lui; lui toccò ciascuno di loro e mi guardò, e i suoi occhi furono come una spada che scivolò come nel burro nel mio cuore privo di difese, spegnendomi per sempre.

« Saliva e un pizzico di magia » mormorò. « E siete comunque meglio di qualunque altra cosa che questo miserabile mondo ammantato di nero abbia mai avuto da offrire, che mi abbia mai dato, che mi abbia mai dovuto dare. Miei semi, miei fiori, miei piccoli frutti. Siamo finalmente qui, e io sono orgoglioso di voi. Reciterò i vostri nomi e bisbiglierò i vostri numeri mentre distruggerò il mondo per la vostra pira funeraria, perché possiate rinascere, come fenici. Voi non marcirete. Voi non verrete dimenticati. Voi esistete solo per essere liberi. »

Ci fu un sospiro collettivo; e molti di loro si lasciarono andare in quel preciso istante, i meccanismi della loro magia che stridevano fino alla sosta finale, arrendendosi all’ultima delle luci mentre si Fermavano. I più forti – il che non voleva dire praticamente niente – caddero a terra come manichini che si siedono, bambole e anche meno. Sentii qualcuno tirarmi i capelli troppo lunghi, e guardando vidi il mio spudorato preferito che mi sorrideva. Lo raccolsi tra le braccia.

« Addio, mamma » disse. « Addio, Eiko. »

« Sono stata una pessima amica e una madre ancora peggiore, Rain. »

« Non sapevo che avrei potuto desiderare qualcosa così tanto finché lui non ti ha portato qui. Oh, mamma, sono tanto stanco. »

« Va tutto bene. Hai resistito tantissimo. Qualcuno dovrebbe darti una medaglia e una parata, con, con i festoni, e le bandiere, e una banda di ottoni – Rain, ti voglio bene. Ti voglio tanto, tanto bene. Non avrei mai potuto avere un figlio migliore. Ci rincontreremo, lo giuro. »

Stavo sprecando aria. Rain mi era morto tra le braccia, chiaramente senza un briciolo di sollievo, e guardai di nuovo Tango e lui mi guardò e l’ombra-velo si disperse con un tremolio. Il mare di cappelli, di giacche doppie e delle innumerevoli paia di guanti che si accasciavano rapidamente al suolo era riflesso nei suoi occhi, un bagliore rapido e penetrante, e gli porsi una mano che tremava in modo spasmodico.

Vivi si inginocchiò. Ciò che era rimasto di Rain si afflosciò, scivolandomi delicatamente dalle braccia fino a toccare terra come bucato; suo padre mi baciò le dita, poi mi baciò il polso, e mi baciò fino all’interno del gomito. La sua bocca era fredda e il suo corpo era scosso dai brividi. Con le labbra mi sfiorò il collo, la bocca, la punta della lingua e il fianco del naso, poi le guance, la fronte, le parti bianche degli occhi e il fianco del corno da sciamana.

« Siamo giunti alla fine di tutte le cose » esordì. Le sue mani presero le mie; il mio anulare gli scivolò in bocca, rapito, sentii la lingua liscia sull’unghia quando lui affondò i denti con ferocia alla base del dito. Iniziai a perdere sangue dal cerchio frastagliato formato dal segno dei denti. « Tu sei mia moglie, linden-bloom. Da oggi siamo sposati. Io sono il tuo nome e tu sei il mio. Siamo sempre stati Tango Nero, e benediremo il letto coniugale distruggendo ogni cosa, con fuoco e fiamme, e ghiaccio e gelo. Abbiamo salvato il mondo. Ora lo pugnaleremo. »

Cadde a terra in una pozzanghera di cuoio, e io gli finì mezza seduta in grembo; non avevo linfa, sangue, forza di volontà, dentro di me non avevo nulla, eccetto un vortice intenso che cresceva e turbinava come le bacche che si trasformano in crema. Ero bianca, vuota, avvizzita, e lui premette la mia schiena contro il suo petto, seppellì il volto tra i miei capelli. « Ultimamente profumi di follia, Carol. Lo stesso odore che avevo io un tempo. Profumi di pazzia e di quelle cose che non si possono vedere. Di ali che spuntano sulla schiena. Di antoleon. Siamo avvelenati, tutti e due, mio dolce amore, la mia rosa di macchia e la mia regina d’erica. »

Lo baciai. Il vortice girò più in fretta; ci immersi un dito, ne sentii il sapore, ne misurai le linee, ruotai gli angoli e avviai il motore. La bacchetta si era fatta strada nella mia mano, e la stavo imbevendo di sangue con la ferita al dito che scorreva liberamente. La sua bocca era la carica, io ero la batteria. Una macchina. « Vivi Orunitia » sussurrai, persa nelle sue labbra, come la metà di una nave che affonda, ogni muscolo del mio corpo svanito. « Vivi, io chiamo il Nome della Cosa Finale. Io evoco Trivia. Io evoco l’Oscurità Eterna. »

bang

La puzza di morte era sulla mia lingua, nei miei occhi, nelle mani che lui stringeva. Sentii il vortice ruggire e poi sentii Gaya urlare, sentii Madein ululare, sconfitta, sentii la pelle rabbrividire e scricchiolare. La Fine era ovunque, e teneva in piedi il mondo; avevo sbagliato i calcoli, ero andata nella direzione sbagliata: non importava quanto a fondo andassi, non avrei mai trovato la Morte. La Morte aleggiava nell’aria, nella mia saliva, negli occhi di Vivi. La Morte era nella sterilità totale del mio corpo, nella magia che di recente aveva diminuito il mio ciclo, la Morte era nel pavimento cosparso di vestiti, nei residui di bambini piccoli che si erano disfatti alla rinfusa dei propri soprabiti. Il bacio di Tango rischiò di incrinarmi i denti quando la terra prese a rombare; il mondo si mosse, leggermente, solo una volta, e il giorno divenne notte.

Notte profonda; la notte più buia dell’anno più buio dell’angolo più buio dell’oceano, piovevano ombre e fioriva carbone. Io e lui venimmo lasciati soli, senza fiato. Le finestre erano come chiazze di petrolio, e il mondo era spaventosamente muto, e il laccio che teneva legati il mio cuore e la mia testa finalmente si smembrò e si staccò, scagliandomi via.

« Arriva la Morte » disse lui. « Una volta ci siamo incontrati. Tutti i miei figli conoscono il suo bacio; io l’ho a stento sfiorata. Io non mi sono mai Fermato, Eiko. Ho desiderato a lungo questo momento. »

« Beh, eccotelo qui, impacchettato in una bella scatola solo per te. »

Lui si alzò, con me ancora tra le braccia, e frustai l’aria con le gambe, e poi tremai sul pavimento, cercando a tentoni la giacca di Rain nel freddo improvviso. Me la misi sugli splendidi abiti sciupati che aveva lasciato Kuja; le maniche mi arrivavano solo fino agli avambracci, ma mi sfiorò le cosce col suo peso confortante, e aveva l’odore di sapone, di rammendi e di mio figlio, e Vivi sfoderò un coltello dalla tasca per fargli due incisioni sulla schiena.

« Ecco. Ora sembri un vero mago. E-Eiko- »

« Ero quasi pronta a far saltare in aria Alexandria » bisbigliai alla notte, al suo viso, a ogni cosa. Non in tono inorridito, ma meravigliato. « Ero quasi pronta a far saltare in aria tutto. Volevo far saltare in aria tutto. Vivi, come siamo arrivati a questo punto? »

« L’amore » spiegò semplicemente. « L’amore. Io sono impazzito per amore; ho bevuto amore, ed era veleno che mi ha ucciso, e l’ho divorato e mi ha sostentato, mi ha donato le ali e mi ha strappato il viso. L’amore, e il desiderio struggente di una conoscenza che non potevo fare mia. La vita e la morte sono stati dei lasciti tremendamente amari. Io esistevo solo per uccidere. Esisto solo per uccidere. »

Sentii un fruscio; lui doveva aver teso la mano, perché dozzine di sfere si sollevarono a mezz’aria, con sotto gli abiti spiegazzati a fare da tristi ombre. Il loro splendore illuminò l’aria e mi bruciò gli occhi; ci proiettarono addosso un blu spettrale, dovevamo sembrare due ghoul.

« Prendi gli occhiali, Carol » ordinò, e il suo sorriso era allo stesso tempo gioioso e pieno di disperazione. « Andiamo a distruggere la Morte. »



Ci dividemmo. Io corsi. La notte era piombata su tutto il mondo; mi feci luce con la bacchetta, e cercai a tentoni i gradini, salendoli rovinosamente, e per poco non mi picchiai il mento con le ginocchia sulle scale che portavano alla mia vecchia camera da letto. Il vortice dentro di me si era stabilizzato su una nota continua, uniforme, il rimbombo delle tubature stremate e del battito del cuore di un’aeronave, la peggiore musica del mondo. Mi ficcai gli occhiali sul naso.

Eiko, Eiko, cos’hai fatto?

Madein. « L’ho fatto, Mogu. E adesso vado a distruggere la Morte. Adesso, prima che i miei figli diventino più freddi di quanto già non siano. Non lascerò che marciscano nelle loro tombe tutto fuorché caldi. »

Combattere Trivia? Nelle tue condizioni?

Mi legai tutti i foulard di seta di Kuja attorno alla vita per far riacquistare il senso del tatto ai miei fianchi gelati. Trivia bruciava, bruciava, mi bruciava nella pelle, pronto a rivestire Gaya di ghiaccio per renderla un asteroide senza vita su cui avrebbe regnato per sempre l’inverno. Un’altra maglia sotto la giacca; fantastico, veniva l’Apocalisse e io facevo la figura della barbona. Infilai dei delicati guanti di pizzo senza le dita – e per fortuna, perché tanto i miei polpastrelli erano già gonfi da morire. « Nulla che un’Energiga non possa risistemare. »

Non fare la finta tonta. Oh, mia Eiko, hai condannato il mondo e tutto quello che vi dimora. Non c’è più speranza.

« Speranza per chi? Speranza per il mondo? Speranza per i Maghi Neri? »

Le catene di Trivia sono infrante. Divorerà l’universo se ce la farà. Come hai potuto essere così cieca da perpetrare un atto di tale malvagità? Non lo senti che è lassù? Non senti il brivido dell’anima stessa del pianeta, non lo senti il grido del monte Gulgu?

« Di certo sento te che rompi le palle come una vecchia megera. »

Eiko, la tua testa non ragiona. Stai impazzendo. Ti stai ritirando dentro te stessa come una chiocciola. Lo sai anche tu.

« Tu non hai mai perso un figlio- »

Invece . La sto perdendo adesso. Per l’amore che il tuo cuore prova ancora da dentro il rivestimento del lutto, Eiko, ti imploro di fare questo: porta questa calamità lontano dal pianeta. Ormai non puoi più bandirlo. Non puoi conferire con lui.

Ragazze dai capelli verdi e Meteosisma mi affollavano la mente ed era difficile pensare. « Sai una cosa? È stato adorabile il fatto che ogni notte che me ne stavo sdraiata sul letto io ero lì ad aspettare qualcuno, una voce, da qualche parte, e ricevevo soltanto il silenzio. Non una sola parola, non un solo tocco. Soltanto lui. Porca troia, Madein, non ci provare nemmeno. Non azzardarti a tirare fuori la presunzione di potermi fare una ramanzina adesso. Non qui. Non mentre tutto sta finendo. Non quando tutti i miei bambini sono morti per sempre al piano di sotto mentre cercavano di finire il cazzo di pranzo prima che si raffreddasse- »

Portalo lontano da Gaya, Eiko.

« -e non sono riuscita ad evitare che si Fermasse, non ci sono riuscita, il mio Rain- »

Portalo lontano da Gaya e forse ti sarà concesso di stringere il tuo infante mai nato nell’aldilà.

Mi bloccai; trasalii; chiusi gli occhi e respirai unicamente dal naso. « Questo è un colpo basso, Madein. Così basso che più basso non si può. Non farmi questo. Ti amo, ti amavo. »

La verità.

« E se credi che lascerò che questa possibilità cancelli gli oltre cinquanta bambini morti che hanno potuto vivere solamente un anno, allora credi anche che io sia una marmocchia egoista di sei anni. » Vissuti, morti, concentrati in una sola, sacra benedizione. Ormai il mio cervello era una poltiglia maciullata. « Allora credi che io odi tutto. Allora credi che io sia stupida. »

Eiko-

Aprii la finestra; non trassi alcun sollievo dal nero pece delle tenebre usurpatrici, ma quello che poco prima era solo silenzio stava cambiando: in lontananza sentivo un lento urlo agghiacciante, un gemito disperato, le grida dei dannati. Il mondo risuonava, dissonante. Non c’erano stelle. Non c’era luna. Tutto si era spento. Garnet doveva essere alla propria finestra con in mano una candela, mentre gli strilli di una città sconvolta e confusa si univano al lamento straziante dell’Oscurità Eterna.

La Trance mi cinse come tè caldo in quel freddo fuori dal comune. Non c’era pioggia, non c’erano antoleon, non c’era luce. Mentre spiegavo le ali capii mestamente perché Vivi aveva fatto i due buchi, e cominciai a ridere. Al momento non riuscivo a pensare, non riuscivo a respirare, ma un dizionario nella mia testa conosceva il significato della parola isteria e mi misi a correre come una pazza, a volare come una pazza, non più Eiko, perché Eiko era stata completamente risucchiata in un qualcosa di indefinito di cui ora costituiva una parte.

« Addio, a tutto » dissi, e scivolai fuori dalla finestra. Le ali sbattevano forti per tenermi in aria e i capelli mi finirono negli occhi, e rimasi smarrita in un mare di melma nera fino a quando Tango non accese il cielo con una vampata di fuoco. Anche le sue mani erano in fiamme. Mi avvicinai tanto da bruciacchiarmi quasi le piume, e con una risatina ancora più insensata mi resi conto che in fondo non mi servivano gli occhiali: con la Trance la mia vista era perfetta. Me li tolsi e li uccisi, li buttai verso la terra troppo distante per essere visibile e feci una giravolta, libera.

« Sei pronta, linden-love? » Lui era in estasi. Eravamo matti tutti e due. « Sei pronta? »

« Sì. Sì. Sono pronta, sono pronta, sono pronta. »

« Questo è il giorno della nostra giustizia. » Catturammo il vento, poi precipitammo; mi si inumidirono gli occhi e volammo, ci rotolammo e immergemmo e sprofondammo di colpo nel buio come passeri o efemotteri o angeli vendicatori. « Non ci tradiremo. »

bang.
   
 
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