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Autore: Onigiri    28/10/2010    2 recensioni
Ci sono mostri che non stanno sotto, ma sopra i letti, e i giochi pericolosi delle farfalle, e re piccolissimi, e stelle marine carnivore, e alberi che piangono, e maschere di carne, e bambole che si vedono solo ad occhi chiusi, e mongolfiere nell'acqua con pesci di carta, e donne che piangono con forza negli angoli più bui degli incubi peggiori.
E c'è una bambina. E favole da raccontare. E legami pericolosi.
Genere: Dark, Fantasy, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Legame
   Legame   
(Le pietre blu) 











Capitolo 6








 -Siamo venuti a prenderti,-  rispose il coniglio più grosso.

-A prendermi? ...Ma io non sono ancora morto!...

-Ancora no: ma ti restano pochi minuti di vita avendo tu ricusato di bevere la medicina, che ti avrebbe guarito la febbre!...

-O fata, o Fata mia,-  cominciò allora a strillare il burattino,  -datemi subito quel bicchiere. Spicciatevi, per carità, perché non voglio morire no... non voglio morire...

E preso il bicchiere con tutt'e due le mani, lo votò in un fiato.


"Le avventure di Pinocchio"- Carlo Collodi 















Da quel che Daniela riusciva a rammentare, sua zia Manuela aveva vissuto a casa loro per almeno nove anni, ed era morta quando lei ne aveva appena compiuti sedici. Erano molti i ricordi legati a lei, ma pochi che fossero particolarmente chiari: solo, a volte, la fila di perle rosa che portava sempre al collo, i suoi rimproveri a tavola se masticava a bocca aperta o non stava seduta composta, o le mani callose profumate di rosa che l’accarezzavano sulle guance e che avevano cercato di insegnarle a fare il ricamo.

O quando la pettinava, e nel passarle la spazzola sulla testa le diceva che da giovane aveva capelli proprio come i suoi: spiegava, con voce cupa, che nel paesino dove era nata a pochi piaceva quel loro colore, e molte vecchie di quando lei era bambina si stringevano subito tra loro al solo vederla da lontano, puntandole addosso certi occhi senza colore che le facevano venir voglia di correre a casa e chiudersi dentro l’armadio per piangere. Che poi lei e suo fratello si erano trasferiti in una città più grande, proprio accanto alla casa dove abitava lo zio Bernardo, e che era dei suoi capelli che lui si era subito innamorato quando si erano guardati da una finestra per la prima volta.

Zia Manuela raccontava spessissimo quella storia, e Daniela adorava ascoltarla e dallo specchio del bagno guardarne gli occhi ingrigirsi, allargarsi oppure brillare come due piccole stelle rotonde. Amava sedersi davanti alla finestra della sua camera e pettinarsi impaziente i capelli con le dita, e passare anche interi pomeriggi senza far altro che quello. Nel palazzo affianco al loro, e al loro stesso piano, abitava un uomo ciccione che le faceva paura e con lui un gatto dal muso schiacciato che qualche volta si affacciava alla finestra al posto del padrone: Daniela fantasticava spesso che da dietro quelle tende gialle, invece di Giogiò (così lei chiamava il gatto), spuntasse il volto di un uomo bello come un principe, e che ricambiasse il suo sguardo e s’innamorasse subito dei suoi capelli, e lo immaginava poggiarsi su un ginocchio e far roteare un cappello verso il pavimento e giurarle amore per tutta la vita.

  Di sua zia Manuela, poi, ricordava anche la signora Titti; in realtà non sapeva se fosse quello il suo vero nome o solamente un diminutivo, ma era così che tutti sembravano conoscerla, persino quei suoi amici che spesso proponevano di lanciare uova alla sua casa senza aver mai avuto il coraggio di farlo. La signora Titti, a differenza della zia Manuela, era alta e secca, con pelle bianchiccia che, nel guardarla penzolare sulle braccia o sotto il mento, le pareva quasi fatta di gomma. Veniva a trovarli tutte le sere, con il solito rosario legato al polso e sempre un poco di quel formaggio coi vermi che Daniela non aveva mai voluto nemmeno assaggiare. Lei, sua zia e suo padre si sedevano sul tavolo del salotto e giocavano a carte sgranocchiando fette di formaggio, e così curvi sulle loro sedie sotto la luce di una sola lampadina parevano tre avvoltoi stretti nel buio dei loro covi.

Daniela a volte restava a guardarli, per provare a capire dai loro gesti quali fossero le regole del gioco, o per studiare gli occhi rossi delle sigarette scivolare in cerchi di fumo e luce ad ogni movimento della loro mano: in quei momenti si sedeva su uno sgabello, mordicchiava una cannuccia sorseggiando acqua frizzante dalla bottiglia e osservava con attenzione tutto ciò che poteva ritenere interessante da guardare: a sinistra la fila di libri sulla mensola, davanti l’omino distintissimo del telegiornale –e il puntaspilli di cattivo gusto a forma di San Sebastiano sopra il televisore-, a destra il profilo della zia e la schiena robusta di suo padre.

Poi, a un punto mai preciso del gioco, la signora Titti iniziava a cercarla con lo sguardo, e quando la trovava si fermava a fissarla un poco, muovendo la bocca senza labbra come per masticare qualcosa. Daniela aveva paura di quegli occhi: tutti i bambini che la conoscevano ne avevano paura. “Oh, Manuè” diceva allora “e questa povera creatura la tenete ancora in piedi a quest’ora?”. Allora era sempre zia Manuela a poggiare le carte e a mettersi in piedi, a farle salutare tutti e ad aiutarla velocemente a lavarsi e a cambiarsi per la notte. Le legava i capelli, recitava con lei un Padre Nostro e un Ave Maria, e quando poi la metteva a letto si sedeva adagio in un angolo del materasso, e, fissando il nulla nella sua camera, iniziava sempre a raccontarle qualcosa. Storie semplici, come quella di Cappuccetto rosso o della lepre e la tartaruga. Parlava senza guardarla, a volte fermandosi per farsi venire in mente qualche pezzo dimenticato, a volte ricominciando dall’inizio e altre interrompendosi lasciando la storia raccontata solo a metà.

Da bambina Daniela odiava quei momenti. Vedeva, nelle favole mai richieste della zia Manuela, una sorta di costrizione, un goffo e irritante tentativo di cercare di conciliarle in fretta il sonno per poter tornare subito in salotto. Nemmeno capiva sempre quello che le veniva raccontato; non era come quando le parlava della sua casa in paese, di suo padre da bambino, dello zio Bernardo o del giorno del loro matrimonio: quelle notti il suo sguardo pareva come spegnersi, e le si rivolgeva con tono così lento e sempre più stanco da rendere noiosa qualunque parola sputata fuori dalla sua bocca. Quando poi Daniela, dando voce a tutto il suo spirito pratico, chiedeva perché i lupi non masticassero le nonne prima di ingoiarle o perché una casa di dolci in un bosco non fosse anche invasa dalle formiche, riceveva per risposta solo borbottii incomprensibili o silenziose occhiate di rimprovero.

Di fiabe e di favole, perciò, Daniela poteva dire di non intendersene, se non che sin da piccola le aveva sempre considerate solo sciocchezze: delle storie raccontate dagli adulti credeva solo nelle streghe che le notti di venerdì fanno magie parlando alla luna, e nei diavoli che infilzano i forconi sotto i piedi dei bambini cattivi quando vanno a dormire. Fantasticava di sposarsi con l’uomo più bello e più ricco del mondo, e nient’altro.  

Ma nonostante tutto questo, Mila era certa di non conoscere nessuno come sua madre che sapesse tanto bene tutte la storia delle avventure di Pinocchio. Se l’era sentita ripetere così spesso -anche se sempre a pezzi sparsi e pressoché cortissimi-  d’aver appreso quasi tutto il contenuto del libro senza mai averlo aperto neppure per guardarne le figure.
Daniela, in effetti, aveva sempre visto quella storia come un ottimo strumento educativo, da quando aveva letto il libro da ragazza e da adulta si era scoperta a tirarla spesso in ballo, soprattutto quando si trattava di sgridare la figlia -“Lo sai che se dici le bugie ti si allunga il naso? Lo sai che se non fai i compiti ti vengono le orecchie da somaro?”. Il fatto che Mila, al contrario di lei, adorasse le favole e l’ascoltasse sempre con interesse quando si trattava di grilli parlanti o burattini che camminano, non faceva che accrescere questa sua convinzione, e ad incitarla a continuare.

Lo usò anche in quel momento, quando l’ennesimo e muto No della figlia le fece socchiudere gli occhi in una brutta smorfia nel sentire che stava definitivamente per perdere la pazienza.

“…Tesoro”  mormorò, con un tono di voce così severo che Mila alzò subito gli occhi su di lei  “Vuoi che vengano anche da te i conigli neri per portarti via?”.  

Avrebbe voluto spaventarla con quell’avvertimento; quando lei aveva letto quella scena per la prima volta, era stata percorsa da una risata accompagnata a braccetto da un altrettanto leggero brivido di paura. Aveva socchiuso il libro (che la nonna le aveva comprato assieme a molti altri perché   è vergognoso che tu sia così ignorante in fatto di letteratura!”) e si era accomodata meglio sulla poltrona, studiando la copertina con lo sguardo e accarezzandola distrattamente con la punta del pollice: e nel sentire poi scattare la serratura della porta d’ingresso era fuggita in camera sua, per non dare alla nonna la soddisfazione di trovarla in salotto a leggere un libro come lei le aveva raccomandato prima di uscire. Si era domandata, sdraiandosi sul letto e nascondendo subito il libro dietro il cuscino, perché in punto di morte sarebbero dovuti arrivare proprio dei conigli, e non un angelo o un diavolo o un almeno un qualche altro animale più spaventoso. Nel chiedersi questo, aveva pensato a Mario: lei aveva diciotto anni, e fuori nevicava.

Daniela scacciò via quel ricordo come fosse una mosca fastidiosa. Vide Mila, in risposta alle sue parole, allargare le labbra e poi voltare subito lo sguardo verso la finestra con un’espressione ansiosa sul viso. Daniela, di riflesso, seguì quella direzione, facendo in tempo a notare una vespa (o un’ape?) ronzare davanti al vetro, sbatterci il muso in un flebile toctoc, e poi volare nella direzione opposta. Guardò il cielo, di un color celeste e cenere che le metteva quasi tristezza, tempestato di nuvole che parevano batuffoli di cotone  Cielo a pecorelle, pioggia a catinelle, recitò con un pensiero che considerò subito sciocco.

Le sembrò che Mila stesse cercando qualcosa, forse la punta tremolante di baffi argentati e di morbide e lunghissime orecchie color carbone, o un qualche occhio color fragola che ricambiasse il suo sguardo da oltre la finestra prima di sparire in un battito di palpebra. Avrebbe voluto spiegarle che non c’era niente di piacevole in quella parte della storia, e neppure nella presenza di un coniglio con una bara sorretta sulle spalle, ma decise subito di lasciar perdere.

Provò ad alzare il cucchiaio verso di lei, annusando un odore dolciastro, simile a quello di banana, ma anche amaro e tremendamente intenso che le fece mordere le labbra per non lasciar trapelare alcuna smorfia di fastidio. Osservò Mila indugiare, fissare con orrore lo sciroppo che aveva iniziato a dondolare nel cucchiaio come il tuorlo di un uovo, e poi, portandosi la coperta fino al mento, rivolgere a lei un’occhiata tremendamente supplicante, come se invece di una medicina la stesse costringendo a ingoiare veleno.

Daniela si trattenne dall’alzare gli occhi verso il soffitto, attenta a non distrarsi e a non rovesciare nulla che avrebbe potuto sporcare il letto. “Ti ricordi che anche Pinocchio poi ha fatto come gli diceva la fata turchina?”. Sollevò ancora di un poco la mano, e Mila, lasciandosi sfuggire un verso di disapprovazione da dentro la bocca serrata, si appiattì subito contro i cuscini e strinse le lenzuola con forza quasi sperando di poterci sparire dentro.

Se Daniela avesse avuto il suo sciroppo, quello per bambini che lei nascondeva nel ripiano alto della credenza e che sapeva di zucchero e ciliegia, Mila lo avrebbe preso subito e leccandosi le labbra ne avrebbe chiesto anche una seconda porzione; a nulla erano valsi i tentativi di convincerla che anche quello dello zio Amos era molto buono.
Prima di poterselo impedire, i suoi pensieri volarono velocemente verso il suo cognato.

Stringendo il labbro tra i denti, e iniziando a leccarselo nervosamente da dentro la bocca, Daniela abbassò lo sguardo verso il cucchiaio. Non riusciva a non ammettere che la sola presenza di Amos le facesse uno effetto strano: al di là del suo sorriso, del suo sguardo, del fatto che  -non poteva negarlo-  fosse un uomo affascinante, attraente. Come una raffica di brividi, di scosse elettriche sottopelle che mai riusciva a fermare e alle quali non riusciva a darsi un valido perché. Era quasi certa che la ragione fosse nella somiglianza che aveva con Oliver. L’altezza, il profilo, la linea delle spalle, la forma delle mani e i lineamenti del volto erano pressoché identici ai suoi, e quando se ne rendeva conto un nodo fastidioso le si stringeva sempre dentro la gola come se le fosse andato qualcosa di traverso.

Ma suo marito non l’avrebbe mai guardata, o toccata, nel modo in cui invece lo faceva Amos. La sera che Mila era sparita dalla loro camera e che lei, dopo averla messa a letto, era tornata nel salotto dove avevano cenato, Oliver non l’avrebbe fatta accomodare sul divano per parlare di Parigi, del cibo, dell’arte, del  Place de la Concorde e dell’architettura francese presso la corte di Luigi XV. Oliver avrebbe liberato il tavolo e fatta sdraiare sopra la tovaglia, le avrebbe afferrato i capelli, accarezzati, annusati, l’avrebbe baciata su tutto il volto e avrebbe mosso le spalle per lasciarsi togliere quello che aveva addosso, le avrebbe mordicchiato il collo e affondato le mani sotto la sua gonna e l’avrebbe abbracciata e baciata e…

Daniela tremò, e quasi le scappò un sussulto quando si accorse di non trovarsi su un tavolo sporco di briciole, ma seduta davanti alla figlia che la stava osservando dritta negli occhi da sopra l’orlo delle lenzuola. Quasi immaginando che Mila avesse appena potuto leggere tutti i suoi pensieri, sentì la faccia farsi bollente d’imbarazzo: in un moto di stizza avvicinò il cucchiaio alla sua bocca rischiando di far cadere lo sciroppo sul letto. “Basta ora” borbottò, con il tono di voce più duro che le riuscisse da usare “Basta capricci!”.

Ma Mila si strinse nelle spalle, come sperando di farsi piccola fino a scomparire tra le lenzuola, e scuotendo ancora il capo con forza non sembrò avere alcuna intenzione di obbedirle. Daniela la osservò gettare al cucchiaio uno sguardo colmo di ribrezzo, mentre il suo si accendeva di crescente impazienza “Mila, non azzardarti a farmi sporcare il letto con queste storie! Prima lo prendi prima ti togli il pensiero. ...apri la bocca, su… ecco... …bravissima.” Daniela poggiò il cucchiaio sporco dentro il vassoio sul comodino e con la mano libera tirò fuori un pacchetto di fazzoletti dalla tasca dei pantaloni. Gliene portò uno poco sotto il naso, premendo forte contro le labbra quando Mila piegò la testa in avanti minacciando di sputare fuori lo sciroppo. Le si avvicinò ancora e l’afferrò per una spalla, e non allontanò il fazzoletto dalla sua bocca fino a quando non fu certa che avesse ingoiato tutto. “…ecco. Hai visto che era meglio prenderlo subito?”.

Le pulì un rivolo giallognolo che le era scivolato fino al mento, ignorando la sua espressione nauseata e la mezza lingua che aveva tirato fuori assieme a uno stridulo verso di disgusto. Riempì il bicchiere di aranciata a metà, e dopo averglielo dato le fece alzare un braccio quel che bastava per prenderle il termometro da sotto l’ascella. La linea grigia di mercurio, come l’ultima e penultima volta che le aveva misurato la febbre in quei due giorni, continuava a segnare trentasette e nove. Daniela rigirò in silenzio il termometro caldo tra le dita, chiedendosi se le medicine non stessero facendo effetto o se doveva essere già tanto che la febbre non si fosse alzata.

Tolse il bicchiere vuoto dalle mani di Mila, osservandola passarsi la lingua sulle labbra con aria soddisfatta, ma ancora delusa per non essere riuscita a evitare di prendere lo sciroppo. Da quella notte passata a cercarla per tutta la casa erano passati tre giorni, ma per prendere l’influenza –mal di pancia, naso chiuso, labbra secche e occhi lucidi, e poi la febbre-  gliene erano bastati due; da uno, poi, Daniela aveva iniziato a trafficare nel cassetto delle medicine di Amos, e non aveva fatta più fatto alzare la figlia dal letto se non per andare in bagno. Ma a poco doveva essere valso, pensò Daniela gettando un’altra triste occhiata al termometro, che con quella linea color piombo sembrava le stesse rivolgendo un’antipatica linguaccia di scherno.  

Concedendosi un sospiro assonnato, avvicinò una mano al viso della figlia e le sfiorò le guance, rosa come caramelle, trovandole al tatto spiacevolmente calde. Non era tranquilla, Daniela. E non riusciva più a dormire: non con una figlia malata e che, per quanto lei credesse poco all’ipotesi del sonnambulismo, poteva alzarsi in piena notte e sparire di nuovo chissà dove. Sorrise a Mila.  “Va meglio la testa tesoro?”

 

 

Mila annuì  in silenzio e tastò la mano sul materasso alla ricerca di Kala Nag, tenendo lo sguardo basso. Fu tentata dal confessare che le faceva ancora male la gola, ma ebbe paura di dover prendere un’altra disgustosa cucchiaiata di medicina se glielo avesse rivelato. Afferrò il suo peluche per la coda di corda e lo strinse pigramente al petto, poggiando la proboscide alla spalla credendo che così sarebbe stato più comodo. Era quasi certa che il suo peluche fosse arrabbiato per l’essere costretto a stare tanto a lungo a letto con lei, e allora cercava di coccolarlo più del solito dandogli bacini sulla proboscide o grattandogli tutto il pelo ruvido della pancia.

La testa le girò appena e si sdraiò meglio contro i cuscini trovando sollievo al fresco delle federe da dietro il collo e le orecchie. Sentì le mani della mamma portarle i capelli all’indietro e si rilassò. Aveva voglia di alzarsi dal letto, di correre da qualche parte, di provare a scendere e risalire le scale con una gamba sola, o di andare in giardino a guardare ancora i fiori rossi del piccolo albero di ibisco. Ma Daniela non voleva, nemmeno quando lei non sentiva più male alla testa (e il corpo pesante, e la sete, e un tale spavento all’arrivo del mal di stomaco da chiamare forte sua madre e mettersi a piangere), e allora al malore, prontamente, si sostituiva la noia. Così in quei momenti alzava le coperte con le gambe e ci faceva camminare Kala Nag sopra, immaginando che ogni gobba azzurra fosse una minacciosa duna di sabbia e di roccia; giocava con Kala Nag fingendo che fosse un cucciolo sperduto, che la mamma gli fosse stata portata via e che lui dovesse trovarla, superare i burroni e le montagne delle loro terre selvagge per raggiungere il circo o lo zoo dove la tenevano rinchiusa. Nel fare quel gioco Mila, qualche volta, pensava a suo padre, e le veniva voglia di far arrivare subito Kala Nag dove si trovava la madre e farli tornare insieme a casa loro e da tutti gli amici che li stavano aspettando: ma poi ricordava di non avere un altro giocattolo a forma di elefante da usare, e allora tornava a farlo camminare sulle coperte a passo più mogio e annoiato di prima.

Pensò di giocarci ancora una volta, ma si accorse subito di non averne voglia, e allora chiuse gli occhi facendosi sfuggire un lamento piuttosto rumoroso. Sentì il materasso tremare, e le braccia di Daniela avvolgerla fino a farla scontrare contro il suo petto profumato. Si lasciò coccolare piagnucolando con forza sempre maggiore, sapendo che così sua madre l’avrebbe accarezzata e baciata ancora di più. Stringendo Kala Nag  sulla pancia la guardò allontanarsi appena, sfiorarle con le labbra la fronte e il naso e poi ricambiare lo sguardo. “Poverina” la sentì parlare con tono bonario, prima di baciarle una guancia. “Ti stai annoiando molto, tesoro?”  Mila annuì senza parlare. “Vuoi dormire un pochino? Ti leggo qualcosa?” annuì di nuovo, con più vigore e con un’espressione emozionata sul volto colorato di febbre.

A Mila piaceva che fosse sua madre a raccontarle le fiabe: nel leggerle imitava sempre la voce delle principesse, dei re, dei lupi, delle fate, dei bambini e delle streghe, e se in una storia appariva un orco o un mostro allora ringhiava in modo buffo e le afferrava la pancia con una mano facendole il solletico fingendo di volerla mangiare. Pensò, alzando la testa dal cuscino, di chiederle di raccontarle la storia della ragazza che fu mandata dalla matrigna a cercare fragole in pieno inverno, e che trovò in mezzo alla neve la casa di tre nani coi quali divise il suo pranzo, e fu ricompensata con una moneta d’oro caduta fuori dalle labbra ad ogni parola pronunciata e un principe ricco e bellissimo che l’avrebbe presto chiesta in moglie. Ma appena aprì la bocca, la gola iniziò a pruderle e bruciarle come se avesse ingoiato del fumo bollente, e tacque, temendo subito di dover prendere altro sciroppo giallo se sua madre lo avesse scoperto. Senza dir nulla la guardò allungare il braccio verso il comodino, e poggiare sulle ginocchia il suo libro con l’ideogramma rosso sulla copertina. La vide sedersi sul materasso e sfogliare le pagine alla ricerca di un titolo interessante, e Mila allora si aggrappò ai suoi jeans strofinandoci contro il naso alla ricerca di un po’ del suo calore, sentendo il vento bussare ed entrare in spifferi dalla finestra. L’odore buono che proveniva da Daniela le fece venire ancor più voglia di addormentarsi.

“Ecco… Yama…”  la sentì leggere mentre le passava una mano tra i capelli  Yamata no Orochi. Ti piace questa?”.  Mila la guardò senza sapere come risponderle. Aveva già letto quella storia, ma non tanto spesso come tutte le altre del suo libro. Raccontava del mostro ad otto teste che chiedeva in sacrificio le fanciulle di un villaggio, e di Susanoo, il dio orientale delle tempeste, che si innamorò di una ragazza destinata a diventare la prossima vittima del drago. Sapeva che Susanoo, alla fine, avrebbe sconfitto Orochi e tagliato tutte le sue teste e le sue code, fino a trovare dentro l’ottava una spada meravigliosa, ma della storia non ricordava nient’altro.

Quando sentì Daniela iniziare a leggere, chiuse gli occhi, cullata dalla sua voce mentre le parlava di Kushinada, così gentile e graziosa che quel dio che la incontrò non poté fare a meno di innamorarsene subito e volerla come sposa. Man mano che la storia proseguiva, nella mente di Mila, da sotto le palpebre chiuse, iniziarono a disegnarsi case di fango, un cielo lucido e azzurro come un lago rovesciato, e una donna vestita di bianco di cui non riuscì a delinearne il volto, ma che sapeva bello come un raggio di luna. Ascoltò del terribile drago(che immaginò grande e nero, con lingue biforcute e scaglie di coccodrillo su tutto il corpo)  che scese dalle montagne per cercare Kushinada e portarsela via, e che davanti alla sua casa trovò otto barili colmi di sakè (cos’era un sache?) che sospettoso dapprima assaggiò, e poi bevve con sempre più gusto fino a che ogni testa non ne rimase completamente ubriacata.

E quando Susanoo, veloce, uscì fuori dal suo nascondiglio dichiarandogli battaglia, e il drago stordito dal troppo alcol sguainò le fauci e lanciò un ruggito agghiacciante prima di avventasi su di lui , si sentì qualcuno bussare piano alla porta.

Mila, non aspettandosi l’arrivo di quel rumore, sussultò trattenendo il fiato dentro la bocca. Sentì Daniela interrompere la lettura e irrigidirsi al suo fianco, forse osservando la persona che si trovava oltre lo spiraglio della porta lasciata socchiusa, ma non alzò lo sguardo per accertarsene: presa, anzi, dal timore che a bussare fosse stato lo zio Amos, strinse più forte Kala Nag alla pancia e strizzò gli occhi cercando di fingere di essersi addormentata. Da sotto il buio delle palpebre chiuse attese ancora qualche secondo di silenzio prima di poter sentire qualcosa.

“Buongiorno…”  A parlare non fu lo zio Amos, e nemmeno sua madre. Era una voce femminile che non le sembrò sconosciuta, ma alla quale non riuscì ad associare un volto. “chiedo scusa, ma il signore ha pensato che avrebbe gradito del caffè”.  

Le molle del materasso cigolarono sotto il suo orecchio quando Daniela si alzò dal letto. Sentì il libro chiudersi in un tonfo leggero e un rumore di ciabatte strofinarsi violentemente contro il pavimento. “Grazie, che gentile.”

Suono di passi, di tintinnii di cucchiai contro piattini di ceramica, di vassoio di legno poggiato da qualche parte   –forse su quel tavolino al centro della stanza con il vaso a forma di fungo.

Mila non si mosse, né dette segno di essere sveglia, limitandosi ad attendere aggrappandosi al cuscino con una mano sola. Quasi nello stesso momento in cui doveva averci pensato Daniela, le venne in mente che se a Monica -era quella la sua voce?-  era stato detto di portare del caffè, significava che lo zio Amos doveva aver già finito di fare la doccia.  “Scusa” sentì parlare sua madre a non molta distanza da lei “dov’è mio cognato?”    “Il signore stava parlando con Nat-… con l’altra domestica, ma mi ha detto di dirvi che verrà subito per vedere come sta la bambina.”   “Lo berrò con lui allora…”.

Silenzio. Spifferi di vento. Tacco e punta di scarpa in un passo appena accennato.   “…dorme?”

Mila aprì un momento gli occhi e poi li richiuse di scatto. Spostò il mento verso il petto, cercando di nascondere il più possibile il viso sotto le coperte, riuscendoci fino alla punta del naso. “Tesoro?”  Sentì la mano della mamma accarezzarle il braccio, ma si sforzò di non rispondere, temendo in un rimprovero se avessero scoperto che in realtà stava facendo finta di dormire. Dopo un primo, flebile contatto con la sua spalla, Daniela non sembrò voler insistere. “Ha ancora la febbre” la sentì spiegare con voce impastata di stanchezza. Le sembrò, ascoltandola, che stesse cercando di trattenere uno sbadiglio, e quasi poté vederla coprirsi la bocca con entrambe le mani come faceva di solito. “Deve aver preso freddo. Era tutta bagnata...”  “In questi giorni non ha fatto molto caldo” sentì rispondere la domestica “Ma se le ha dato le medicine di certo guarirà presto.”  Sua madre sembrò trattenere un sospiro. “Ti ringrazio…”.
 Sentendo che stavano parlando di lei, Mila mosse la testa in avanti alla ricerca di una posizione più comoda, non volendo perdersi una sola parola del loro discorso. Piegò piano il braccio spostandolo fino a ritrovarselo vicino alla guancia, e il rumore ritmico del suo orologio da polso iniziò a picchiettare fastidiosamente dentro l’orecchio: non un vero e proprio ticchettio, ma qualcosa di un poco diverso, come una sorta di sciak, sciok  che trovò strano quanto buffo.
 

“Non ci siamo mai incontrate, vero?”.  

Sciak,

Mila percepì il materasso abbassarsi di nuovo sotto il peso della madre, le lenzuola stridere contro le unghie appuntite di una sua mano “Sei stata assunta da poco?”

Sciok,

“No signora. …ho preso qualche giorno di ferie per rivedere i miei genitori… credo sia per questo che lei non mi ha mai visto.”

Sciak,

“Ho capito.”  Sua madre si mosse sul letto -molle. Vento. Silenzio.

Sciok,

“…ma tu e Marica  –no, era Monica, vero?-  siete molto giovani. Tu quanti anni hai?” 

Sciak,

“Io ventuno.”  Mila corrugò un sopraciglio. Erano tanti? Si andava già alle scuole medie a ventuno anni?  

Sciok

“…in realtà siamo in tre. Quando io sono andata via Natalie ha avuto un’emergenza famigliare e ha dovuto lasciare Monica sola. Siamo tornate tutte e due oggi.”

Sciak,

“Ah…e il tuo nome qual è?”

Sciok,

“Sofia Brown, signora.”



A Mila iniziò a prudere il naso, e dovette spostare di nuovo la mano di un poco per riuscire a grattarselo senza far rumore. Il suono strascicato dell’orologio si fece di colpo più leggero, il colore brillantissimo delle lancette meno fastidioso per gli occhi, cedendo un po’ di tregua al mal di testa che era già tornato a martellarle fastidiosamente le tempie. Se ne lamentò silenziosamente con Kala Nag, lanciando ai suoi occhi tondi uno sguardo che era lucido di pianto. Il peluche le rispose con quel suo solito sorriso che la irritò tantissimo, e allora lo strinse forte al petto per non doverlo guardare ancora senza fargli capire di essersi arrabbiata con lui. Affondò metà faccia nel cuscino morbidissimo,e il contatto fresco contro la pelle le fece venir voglia di dormire davvero. Imitò uno sbadiglio, si leccò il labbro, e poi chiuse gli occhi. Li riaprì subito, un pensiero improvviso acceso nella testa come una lampadina.

A farle capire di aver già conosciuto quella persona appena entrata non fu il suo nome, ma il ricordo di dove aveva già sentito quella voce prima di allora. La gola le bruciò con violenza al solo pensiero di alzarsi, guardare quella ragazza e accertarsi di non star sbagliando, e afferrare il braccio di sua madre per urlarle ‘Mamma, mamma, lo sai chi è lei? Lo vuoi sapere? È la figlia dei draghi bianchi!’.   

 

 

 “...Brown?” Daniela ripeté il nome con una punta di incertezza nella voce. “Sei americana?”
Sofia scosse il capo “No”  borbottò, rosa in volto, abbassando subito lo sguardo verso un punto impreciso del pavimento.  Daniela la osservò, inclinando appena la testa in un lato, cercando di darsi un perché a quella reazione. Strana ragazza, considerò. Era entrata in camera con quel passo così sicuro, la testa alta e la presa ferma sul manici del vassoio, quando invece le era bastato porgerle qualche domanda in più per vederla arrossire ed abbassare lo sguardo come se l’avesse accusata di qualcosa.

Le venne da pensare, corrugando un sopraciglio, che forse non avrebbe dovuto. Forse, anche se non le sembrava, si stava impicciando troppo negli affari di un’estranea, e stava approfittando senza volerlo della sua posizione di cognata del padrone di casa; forse la voglia, dopo giorni, di conversare con qualcuno che non fosse Amos, sua figlia o una piagnucolosa Vincenza dall’altra parte del telefono, l’aveva fatta parlare troppo. E fu così presa da domande di questo tipo che quando Sofia tornò a parlare quasi si spaventò.

“I miei nonni sono inglesi. Anche se la mia famiglia è greca”

“Ah, davvero?”
“Sì. Vivevo ad Atene...”
“Atene?!”
Daniela strinse le mani e le avvicinò al petto senza nemmeno rendersene conto. Una raffica di ricordi più o meno nitidi le sfilò immediatamente davanti agli occhi, immagini di una coppa di gelato sul tavolo di un bar, una signora profumata di nonna che la sgridava perché non voleva mettere il giubbotto, i resti immobili di una colonna caduta di un tempio, quello di Zeus.
Nell’accorgersi di aver alzato troppo la voce e di essere osservata con stupore, arrossì subito. Fu il suo turno di abbassare lo sguardo. “Ci sono stata da bambina.” Spiegò, come per giustificarsi da qualcosa. Una nuvola coprì il sole e la stanza si fece più buia, come avvolta da un sottile velo grigio. “Per tutta una settimana. Avevo anche pensato di andare a Salonicco per la luna di miele, però non abbiamo potuto…”
Sofia ridacchiò, alzando di più lo sguardo verso di lei, e Daniela si concesse di osservarla con più attenzione. Notò che era graziosa (non bella, ma graziosa), con le guance rotonde e un corpo sottile che sembrava navigare dentro quel vestito largo che aveva addosso. I capelli erano di un colore chiaro, quasi bianco, che non le piacque affatto, ma apprezzò molto i riccioli lunghissimi in cui erano modellati. Si sfiorò la sua coda bassa portando distrattamente una mano dietro il collo, cercando di ricordare l’ultima volta che aveva pensato di cambiare taglio di capelli.

 “Credo sia più romantica come città” spiegò Sofia stringendo le mani dietro la gonna “Non ci sono stata molte volte, ma vale la pena visitarla.”

“Potrei portarci Mila...”.
Daniela, pensierosa, tornò ad accarezzare la manica rosa del pigiama della figlia, tastando da sopra la stoffa la pelle morbida e accaldata del suo piccolo braccio disteso sul cuscino. Era quasi certa che Mila stesse solo fingendo di dormire, ma non fece né disse nulla per accertarsene.  
Notò Sofia, con la coda nell’occhio, avvicinarsi al letto di qualche passo, forse cercando di scorgere il suo volto nascosto da quel piccolo rifugio di coperte e lenzuola.
“E’ una brava bambina”
“Lo è di certo” concordò Daniela, con un’espressione dolce sul viso. Sfiorò i suoi capelli, pettinandone qualche ciuffo con le dita, fino a quando non decise di ritrarre la mano sul grembo.  Il vento sbatté con più forza contro la finestra, e nella camera, nello stesso momento, tornò di nuovo la luce. La sua fede nuziale scintillò dall’anulare in fastidiosi luccichii dorati, e si affrettò a coprirla con l’altra mano prima di distogliere lo sguardo “Da quando il padre è morto, a volte sa essere fin troppo brava” . Sorrise. Si dette subito della stupida per l’aver menzionato Oliver davanti a un’estranea. E si odiò per non essere riuscita a pronunciare quelle parole con voce meno tremante.
“In Grecia...”

Daniela tornò a guardare Sofia, e lei, per riflesso, abbassò di nuovo il capo, nascondendosi sotto i ciuffi più lunghi della sua frangia bionda. La vide spostare le mani da dietro la schiena e  –immaginò-  iniziare a torturarsele distrattamente con le dita, e stringere le labbra tra loro fino a renderle rosse come brace.

Quando riprese a parlare lo fece con quella voce sicura che aveva usato prima di entrare nella camera. Quello sguardo mise subito a Daniela un groppo alla gola: conigli neri, pensò subito, senza nemmeno capire il perché.

“…io ero molto più grande, ma quando è morta mia sorella, in Grecia…  ho fatto parecchio disperare i miei genitori.”

 

 

Arrivò il sonno. In un modo improvviso, come travolta da un’onda impetuosa, che per un momento lasciò Mila stordita. Dopo un attimo che voleva alzarsi dal letto e guardare se c’era davvero la Figlia dei draghi, e chiedere a sua madre cosa voleva dire Sallocco, e dire che non stava dormendo, che era una finta, che era sveglia, le era venuto sonno. Quel gemito di stupore che provò a pronunciare divenne subito un piccolo sbadiglio. Si aggrappò a Kala Nag e lo guardò dall’alto, con la pianta morbida delle zampe schiacciata contro la sua pancia. Guardò il baldacchino quadrato. Guardò il rosso sbiadire, e cospargersi di stelle nere come l’inchiostro: chiuse gli occhi.

Morta.

La parola le sfiorò l’orecchio senza che lei capisse il perché.

“…Oh.”  La voce di Daniela era flebile, quasi lontana, ma non troppo. Ed era strana. Era come imbottita di…

“Mi spiace molto… quanti anni aveva?”  “Quasi tre.” 

Morta.

…acqua.

Era un po’ come il sogno che aveva fatto. In realtà non lo ricordava bene: era al mare, forse. Ed era buio, e se si portava le mani davanti agli occhi per provare a spingersi in alto, non riusciva a vedere neanche i contorni delle dita. C’erano anche i pesci, e delle cose colorate di cui non riusciva a ricordare la forma. E c’era l’acqua, e la sentiva entrare nella gola, nelle orecchie, nel naso, e anche se voleva urlare dalla bocca sentiva uscire solo il rumore viscido delle bolle.

Con gli occhi chiusi, e una mano stretta nella coda di Kala Nag, Mila boccheggiò appena contro il cuscino. Sentì l‘aria farsi pesante, troppo densa da respirare, di un sapore quasi aspro che ricordava il fango. Provò una fitta alla testa e al naso, e aprì la bocca per chiamare sua madre. La gola le bruciò.

Morta?

 E fece così male che le venne quasi da piangere da dietro gli occhi chiusi. Avrebbe voluto liberarsi dalle coperte e rotolare sul letto per cercare la mano di Daniela, ma non lo fece. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie, nel sentire qualcosa ronzarle attorno come una cantilena fastidiosa, ma non lasciò mai la presa da Kala Nag.

Mortamortamortamoooortaaa!. 

E poi le sembrò che tutto stesse cominciando a girare come una trottola, che il buio dei suoi occhi chiusi la stesse inghiottendo tutta intera, di precipitare sempre più a fondo e sempre più piano. Si fece sfuggire un lamento rumoroso mentre agitava i piedi come per calpestare qualcosa. Si spaventò, nel rilassamento surreale in cui improvvisamente si sentì star galleggiando. Era come inciampare. Come piangere. Come dormire.

 

Morta.
E’ Morta!
Che bello! Che peccato!
Le guardiamo la pelle squagliarsi sopra la carne?
Le togliamo gli occhi e li usiamo come cappelli?
Le mordiamo il corpo fino a quando non diventa poltiglia?

Giochiamo?

Giochiamo?

Giochiamo?

A cosa giochiamo?




L’erba, chissà perché, profumava di cioccolata.


















 


 




Onigiri






note autrice:





*La fiaba che Mila voleva farsi raccontare è una dei fratelli Grimm: I tre omini nel bosco

*La storia di Susanoo e del drago Orochi fa parte della mitologia shintoista giapponese. Per chi volesse conoscere meglio la storia può cliccare qui: Yamata no Orochi.

*Parlando di Grecia, Daniela fa riferimento al tempio di zeus, del quale una colonna venne colpita da un fulmine ed è tuttora lasciata stare caduta. Per maggiori informazioni, cliccate  QUI.



°-° *appare da dietro un angolino inginocchiata sui ceci crudi*
 Chiedo scusa -ebbene sì, di nuovo-  per il ritardo! Non è solo per gli
esami universitari, ma è il capitolo in sè ad avermi fatto tanto indugiare a pubblicarlo >.> .  Voglio dire... fa schifo! (L'avrete già notato tutti leggendolo  -.-"): per quanto abbia provato ad aggiustarlo, tagliando e ricucendo a tutto spiano, alla fine... diciamo che mi sono arresa e ho deciso di lasciarlo così >>. scusateme  ç-ç . Tra l'altro, non è neanche tutto il capitolo: nella precedente versione di questa storia c'era da aggiungere un grosso pezzo in più, ma alla fine ho deciso di tagliare i capitoli. Perciò, l'azione che doveva esserci nel secondo pezzo del capitolo, non c'è, sostituito da un'altra lettura noiosa come questa -scusatemeeee ToT.

Piuttosto... che succederà nel prossimo capitolo? *-* (perlomeno spero di avervi un pochino incuriositi xD). Mi auguro di aggiornare prima la prossima volta, nonostante l'università mi tenga davvero impegnata *piange*.


E detto questo e pianto quest'altro.. passiamo ai ringraziamenti u_u:


Lion of darkness : Ovvio che mi è piaciuta =) come non poteva? Eh eh, ehm, in effetti lo scorso capitolo mi è uscito forse troppo lungo °_°£, e conto di tagliuzzarlo un poco appena avrò l'occasione di revisionarlo. Mi spiace che in questo capitolo non ci sia azione: prometto che quella arriverà tutta dal prossimo in poi. E farò il possibile per farvi reggere forte =P .


 darllenwr  : Grazie grazie grazie!! ç//ç posso dire di adorare le tue recensioni! Sapere che, leggendo, presti tanta attenzione a ciò che c'è nel capitolo mi rende davvero felicissima! Eh eh eh... Amos ha molte cose da nascondere, e tra queste, sì, posso dire che c'entra anche Oliver, ma non solo: nulla che non svelerò, ma non voglio dare anticipazioni =P. Spero che la storia continui a piacere, e di migliorare a scrivere. ti ringrazio tanto ancora, i tuoi incoraggiamenti mi sono davvero di grandissimo aiuto. Grazie ancora ^_^ 


Jherome :  ...Oddende, hai ragione sulle note! °-° voglio dire, di solito le metto nei capitoli, ma non l'ho fatto col prologo. Chiedo scusa: comunque ho rimediato >>, sperando ti faccia piacere dare un'occhiata alle storie, perché sono proprio belline =)! Per quel che riguarda il tuo commento... che dire? Grazie infinite! Io non ho mai letto Guerra e Pace, ma quando l'hai menzionato ho fatto ua faccia del genere oOo ! xD non so quanto sarà unga la storia, anche se ne prevedo quattro "parti" e non ho idea se vivrò abbastanza per completarle :o , però sì, sono ispirata per raccontarla e sapere che qualcuno la sta seguendo non può che rendermi felice ed incitarmi a continuarla ^^. Sulle mie descrizioni ti do pienamente ragione... è un mio difetto che sto cercando di correggere -.-" , anche se a volte ho la sensazione di correre troppo con lo svolgimento dei fatti quando lo faccio, nonostante però le descrizioni non piacciano molto al lettore, come dici tu XD. Comunque sia, ti ringrazio davvero tantissimo: sei stata gentilissima. Grazie mille ^//^!




E ovviamente, ultimi ma mai e poi mai ultimi, ringrazio tanto chi ha deciso di leggere questa mia storia. Grazie ancora a tutti!
E, anche se un pochino in anticipo, Buon Halloween! #*___*#

*onigiri. ;)





   
 
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