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Autore: Niglia    28/11/2010    9 recensioni
{Vecchio titolo: The Wrong Man}
Giulia è una normale ragazza di 18 anni; va a scuola, esce con le amiche e, quando capita, con qualche ragazzo, ma non è certo alla ricerca del Principe Azzurro.
Sembra l'inizio di un'estate come le altre quando, all'improvviso, compare Enrico: l'erede di un impero criminale, bello e affascinante, che si invaghisce di lei e la obbliga, un po' con le buone e un po' con le cattive, a frequentarlo...
"I tuoi amici non sanno dove sei, però loro sono al sicuro." Mormorò, avvicinando le labbra al mio orecchio e facendomi rabbrividire con il suo caldo respiro. "Cerca di fare in modo che rimangano tali... Se mi disobbedisci in qualsiasi modo, farò loro del male, e ti assicuro che sembrerà un incidente."
Parlava come farebbe un amante nell'intimità di una camera da letto, con la stessa voce calda e rassicurante, leggermente roca: eppure le sue parole erano tutto fuorchè rassicuranti. La sua era una minaccia bella e buona...
[dal Capitolo 7]
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo XXIII

 

 

 


















 

Odiavo il mio cellulare che suonava all’ora di pranzo, soprattutto quando ero seduta a tavola circondata dai miei parenti – genitori, nonna e zii compresi. Insomma, la discrezione non era di certo il loro forte, specialmente quando si trattava di interessarsi della vita sentimentale della loro giovane figlia-barra-nipote che sembrava aver trovato, alla fin fine, un fidanzato. Un fidanzato vero, poi!

Contemplai l’idea di non rispondere, fingendo di non sentire la suoneria mentre masticavo indifferente un boccone di carne. Ma d’altra parte il telefono continuava a squillare – avevo senza dubbio scelto il giorno sbagliato per togliere la modalità silenziosa – e, dopo aver smesso, aveva ripreso due istanti dopo quasi con maggior insistenza.

“Giuly, non rispondi?” Fece mia zia, del tutto innocentemente. Potevo sentire gli sguardi degli altri prudermi addosso, così mi sgranchii la voce e mi alzai.

“Scusatemi un momento…” Mormorai imbarazzata, afferrando il telefono colpevole e uscendo dalla sala da pranzo. Andai invece nell’altro salone, quello dove avevo trovato rifugio anche il giorno del funerale, e finalmente premetti il tasto per accettare la chiamata. Non avevo bisogno di leggere il nome sul display per sapere chi fosse.

“Pronto?” Dissi, chiudendomi la porta alle spalle.

Dall’altra parte della cornetta provenne un sospiro di sollievo. “Oh, finalmente! Stavo iniziando a preoccuparmi”, esclamò la voce quasi esasperata di Enrico. Già, chi altri?

Contai mentalmente fino a dieci, per evitare rispostacce acide. “Stavo pranzando, Enrico, non potevo rispondere”, replicai sedendomi sul divano. Accidenti, mi stavo davvero giustificando con lui? Che diavolo, questa era proprio una di quelle cose che avrei voluto evitare, da fidanzata.

No, aspetta un momento. La mia mente aveva davvero formulato quella parola?

Le mie labbra si mossero da sole in una smorfia di disgusto, mentre ascoltavo la risposta di Enrico. Evidentemente era bastato un bacio al chiaro di luna per trasformarmi da vecchia zitella acida a giovane fidanzatina. Accidenti, di nuovo.

“Ma sono le tre del pomeriggio”, replicò sorpreso.

Sospirai per l’ennesima volta, cercando di ignorare il formicolio all’altezza dello stomaco che mi provocava il suono della sua voce. “Sì, beh, è uno di quei pranzi con i parenti nei quali si sa a che ora ti siedi a tavola ma non quando la tortura finirà”, risposi ironica, roteando gli occhi. “E comunque, adesso per colpa tua mi faranno il terzo grado. Non potevi mandarmi un messaggio?”

“Te l’ho mandato, tesoro, ma non mi hai risposto”.

Certo, a domanda scema…

No, un attimo. Come mi aveva chiamato?

Tesoro?” Ripetei, perplessa. “E quando ti avrei dato questa confidenza?”

Lo sentii ridere dolcemente, una di quelle risate tipicamente mascoline che sottintendono centinaia di significati imbarazzanti. “Credevo che, dopo ieri notte, fossi autorizzato a chiamarti come voglio…”

“Uhm.” Non sapevo davvero come replicare. Accidenti, ci avevo pensato tutta la notte e non ero sbarcata a nessuna conclusione… Il modo poco ortodosso che avevamo trovato per fare pace – o meglio, che avevo trovato io per scusarmi con lui, per una volta che avevo riconosciuto di avere sbagliato – aveva automaticamente innalzato il nostro rapporto di qualche gradino, e non ero certa che questo mi dispiacesse più di tanto. Insomma, se arrossivo e sentivo le guance andarmi in fiamme ogni volta che ripensavo a quel bacio, doveva pur esserci un motivo, no? Non credevo che la colpa fosse soltanto dei miei ormoni in subbuglio, quanto piuttosto di qualche ragione trascendentale che mi aveva portato tra le sue braccia senza che ancora io avessi deciso lucidamente. Potevamo considerarci insieme, adesso? Beh, probabilmente questo era quello che voleva lui sin dall’inizio o quasi, e se a me in fondo non dispiaceva… Chissà, magari una minuscola possibilità gliel’avrei anche potuta dare.

“Giulia? Giulia, ci sei ancora?” Il tono insistente con cui mi stava chiamando mi fece capire che era da un po’ che stava cercando di attirare la mia attenzione, ma io ero troppo assorta nei miei pensieri per farci caso. Arrossii, e ringraziai il Cielo che lui non potesse vedermi.

“Scusa, ero soprapensiero,” mormorai imbarazzata.

Avrei giurato che stesse sorridendo. “E a che cosa stavi pensando così intensamente?” Domandò, con voce incredibilmente dolce. Non avrei mai smesso di stupirmi dei cambiamenti improvvisi del suo tono, che da minaccioso poteva passare a sensuale e rassicurante nell’attimo di un battito di ciglia.

Dovevo rispondergli davvero?

Mi schiarii la voce, cercando di tergiversare. “Uhm, stavo solo cercando di capire se potevi esserti guadagnato davvero il diritto di chiamarmi tesoro…”

Rise ancora e io rabbrividii per l’ennesima volta, sentendo la pelle d’oca sulle braccia malgrado fossimo ancora alla fine di Agosto e la temperatura non fosse esattamente fredda. Di certo non potevo ignorare per sempre un ragazzo che mi procurava tali sensazioni, no? Non capivo perché il mio corpo continuasse a rispondere in quel modo alla sua voce e ai suoi sguardi, quasi che fossimo due atomi impegnati in una reazione chimica dalla quale era impossibile scindersi. Sì, credo che questa sia una metafora piuttosto azzeccata: Enrico l’avrei visto bene nella parte del mercurio, in effetti, visto l’effetto tossico che aveva su di me.

Dovetti sbattere più volte le palpebre per cercare di recuperare la lucidità necessaria a concentrarmi sulla sua voce e sulle sue parole. Era imbarazzante, non ero mai stata così distratta: ed era tutta colpa sua. Sua e del suo bacio, accidenti!

“Avanti, Giulia, seriamente,” esordì poi, cercando di sembrare ragionevole malgrado l’intonazione maliziosa che aveva assunto la sua voce. “Mi stai dicendo che in questo momento non mi vorresti lì, accanto a te, per approfondire quello che ieri abbiamo lasciato a metà?”

Arrossii inevitabilmente, e tardai a rispondere quel tanto necessario perché il mio silenzio desse ragione a lui. “Ecco, visto?” Sussurrò, dolcemente. “Penso proprio che ti chiamerò in tutti i modi che riterrò necessari, e non credo neppure che ti dispiacerà più di tanto…”

Fui costretta a deglutire più volte, visto che iniziavo a sentirmi la bocca incredibilmente secca. A quanto pareva avevo proprio passato il punto di non ritorno…

“Senti, Enrico… Devo tornare a pranzo. Puoi dirmi perché mi hai chiamato?” Mormorai a mia volta, per far sì che non avvertisse il tremito della mia voce.

Sospirò, arrendendosi alla mia testardaggine. “Va bene. Sei libera stasera?”

“Uhm, credo di sì… Perché?” Chiesi, vagamente sospettosa. Okay, togliete pure il vagamente.

“Volevo invitarti a cena, così possiamo stare un po’… da soli.”

Avevo sentito il rumore della trappola che scattava o era solo una mia impressione?

“Da soli…?” Ripetei scioccamente, giocherellando con un cuscino. “Perché?”

Lo sentii sbuffare, a metà tra il divertito e l’irritato. “Oh, dai, Giulia! Farò il bravo! È soltanto una cenetta”, dichiarò, sperando che io abboccassi. Sì, come no.

Con te non è mai soltanto una cenetta, pensai, ma senza esprimere il concetto ad alta voce. Oh, basta, non ne avevo voglia. Tanto il ‘peggio’ era già successo, no? Cos’altro poteva capitare?

Così mi arresi, immaginando di sventolare una bandiera bianca. “Okay, va bene. Però devi riportarmi a casa entro un orario lecito, non posso sempre fingere di stare a dormire dalla mia amica…” In realtà era da molto che non usavo quella scusa per uscire con lui, visto che i miei genitori sembravano appoggiare quella specie di rapporto; genitori sconsiderati, a mio parere, anche se parecchie ragazze avrebbero pagato per avere una madre che spronava ad uscire con dei bei ragazzi. Beh, in quel caso a me sarebbe piaciuto avere una madre che mi chiudesse in camera mia e buttasse anche la chiave – mi sarei sentita indubbiamente al sicuro da lui. Ma non si può scappare per sempre, perciò…

“Okay, prometto che sarai a casa prima che si spezzi l’incantesimo”, replicò con una risatina. La sua voce poi si addolcì per l’ennesima volta, senza darmi il tempo di metabolizzare il cambiamento. “Adesso vai, su, ti ho tenuto a telefono fin troppo e i tuoi saranno preoccupati. Ci sentiamo più tardi, va bene? Ti mando un messaggio”.

Annuii, prima di ricordarmi che lui non poteva vedermi. “Okay, a più tardi”, risposi, esitando un momento di troppo. Come avrei dovuto salutarlo? “Ehm, allora… Ciao?” Conclusi, facendo sembrare il saluto più una domanda che un’affermazione. Dio, che idiota.

“Ciao”, ripeté anche lui, facendolo suonare più una carezza leggera.

Chiusi la chiamata e presi dei profondi respiri, in modo da non tornare in sala da pranzo con il cuore in gola e un’espressione che mi avrebbe tradito, benché tutti si stessero immaginando più o meno chi era lo sconosciuto che aveva interrotto il mio pranzo con tanta insistenza. Beh, di certo io non avrei confermato i loro sospetti.

Infilando il telefono in tasca aprii la porta, odiando sinceramente l’agitazione che quella semplice chiamata mi aveva messo in corpo. Dio santo. Una cenetta, l’aveva chiamata.

Da soli, aveva aggiunto.

Non c’era mai fine al peggio.

Ma stranamente, non ne fui dispiaciuta quanto temevo.

 

 

***

 

 

Iniziai a temere che in me ci fosse qualcosa che non andava quando aprii l’anta dell’armadio per prepararmi con tre ore d’anticipo. Non sapevo cosa mettere, d’accordo? Ecco, ed era proprio questo il problema. Quando mai me n’ero preoccupata?

Ad ogni modo, i vestitini erano esclusi per principio; stessa cosa dicasi di magliette con scollature succinte e gonne che sfioravano l’oscenità: non che ci fosse roba del genere nel mio guardaroba, comunque. Era solo per fare il punto della situazione. L’unico problema era che eravamo ancora in estate, dunque caldo e umido andavano a braccetto: non avrei potuto mettere le felpe a dolcevita che mi avrebbero protetta da sguardi indiscreti, né tantomeno canottiere che esibivano la merce come un banco del pesce. Dio, quanto odiavo dover decidere cosa mettermi.

Sospirai e, dopo il quarto paio di pantaloni presi e gettati sul letto, decisi di mettere i primi che avrei visto non appena avessi aperto gli occhi. Fui abbastanza fortunata: un paio di jeans chiari, stretti, con la vita non troppo bassa né troppo alta. Abbinare una maglietta non fu tanto difficile: dovendo escludere quelle con le scollature esagerate – che abbondavano, vista la stagione – ne infilai una nera che si legava dietro al collo e che, pertanto, copriva per bene il davanti. Beh, avevo la schiena scoperta, ma di quello non mi curai più di tanto perché indossai una giacca leggera sopra. Un paio di sandali dal tacco modesto e potei dire conclusa anche quell’ardua parte – e senza che me ne rendessi conto era già arrivata l’ora dell’appuntamento.

Apro una piccola parentesi. I miei genitori – beh, solo mia madre, in realtà, non aveva fatto una piega quando le avevo detto che Enrico mi aveva invitato ad uscire; mio padre era stato più scettico ma alla fine aveva fatto finta di niente, purché rientrassi ad un orario ragionevole – ossia prima delle tre del mattino. Quanto a Enrico, ci eravamo scambiati messaggi per tutto il pomeriggio parlando del più e del meno – con questo intendo che lui faceva domande e io mi limitavo a rispondere, per paura di sbilanciarmi troppo – e probabilmente questa fu una sorta di strategia per impedirmi di cambiare idea all’ultimo momento e rimandare, o annullare del tutto, l’appuntamento. Ma a quel punto rimandare l’inevitabile non sarebbe servito a niente.

E così, Enrico era venuto a casa mia a prendermi. Avevo chiesto a mia madre di fingere di non esserci, perché non volevo assistere a quelle imbarazzanti scene che si vedono nei film dove il fidanzatino della protagonista si presenta ai suoi genitori e chiede al padre, con una buona dose di coraggio, se può uscire con la sua bambina. Dio, che cose odiose. E comunque lui non era il mio fidanzato.

Con un sospiro, diedi un’occhiata veloce al mio riflesso allo specchio e afferrai la borsa, lasciando a casa, non senza remore, lo spray al peperoncino: avevo più paura di quello che sarebbe potuto accadere adesso che ci eravamo già baciati che non prima, però mi sembrava ridicolo equipaggiarmi come se stessi andando in guerra. In fondo il suo bacio non mi era dispiaciuto più di tanto… L’unica cosa che temevo era che potesse farsi un’idea sbagliata dell’evoluzione del nostro rapporto, sempre se così di poteva definire. Cercando disperatamente di convincermi che un misero bacio non avrebbe cambiato la situazione, raggiunsi Enrico in macchina, ringraziando il buio della notte che proteggeva il mio volto dal suo sguardo indiscreto. Se mi avesse visto arrossire non appena avevo aperto lo sportello si sarebbe già sentito con la vittoria in pugno. Non sapevo proprio come comportarmi, accidenti.

“Ciao, Giulia”, salutò dolcemente, non appena fui seduta accanto a lui. Non si sporse verso di me per cercare di baciarmi, come se avesse voluto rispettare i miei tempi: e di questo gliene fui sinceramente grata. Mi sentivo ancora parecchio a disagio, a volerla dire tutta.

“Ciao”, mormorai in risposta, mentre metteva in moto l’auto. Poi mi sentii in dovere di non far morire così la conversazione, anche perché magari la conversazione mi avrebbe tranquillizzato. “Tutto bene?”

Lo vidi sorridere nella penombra del veicolo, ma non distolse lo sguardo dalla strada. “Sì, grazie. Tu? Cos’hai combinato tutta la sera?”

Come se non lo sapesse, pensai, improvvisamente divertita. “A parte messaggiare con te, dici?”

“Uhm, touché.” Mi rivolse un’occhiata veloce con un mezzo sorriso, prima di dedicare nuovamente la sua attenzione alla guida. “Okay, sì, a parte messaggiare con me. Stai già studiando per il rientro a scuola?”

“Oddio, no. Non ne ho voglia! L’estate non è fatta per studiare”, replicai, inarcando le sopracciglia. Subito dopo mi accorsi di quanto fosse strana quella situazione: stavo parlando con Enrico di argomenti così banali e comuni? Insomma, era alquanto bizzarro; punto primo, non pensavo che potesse davvero interessarsi a cose simili, e punto secondo, non lo facevo il tipo da conversazioni convenzionali. Mi voltai per osservarlo, mordendomi le labbra al ricordo di come quelle labbra si erano mosse sulle mie… Dio! Ma perché dovevo mettermi nei guai da sola?

Mi schiarii la voce, sperando che non si accorgesse del mio imbarazzo. “Tu, invece? Cos’hai fatto di interessante?”

Non mi guardò mentre rispondeva, a bassa voce. “La cosa più interessante che ho fatto è stata sentire te”.

Arrossire fu inevitabile. “Enrico…” Lo ammonii, piano.

Lui finse di non comprendere il tono della mia voce. “Sì, che c’è?” Chiese, con finta indifferenza.

“C’è che non puoi dirmi cose del genere, ecco cosa c’è”, lo rimproverai debolmente, trovando persino giusto il mio ragionamento.

“Ma è la verità”, ribatté, voltandosi e osando guardarmi con un’espressione quasi innocente.

Emisi un suono a metà tra uno sbuffo e un sospiro. “Senti, non voglio litigare…”, iniziai.

Tuttavia Enrico mi interruppe, impedendomi di portare a termine il discorso. “Ti dirò, se poi facciamo pace come ieri allora non mi dispiace neppure litigare un po’”, disse con un sorriso malizioso.

Roteai gli occhi, spazientita. “La serata è appena iniziata e tu stai già partendo male”, sbottai, incrociando le braccia – cosa alquanto difficile con la cintura di sicurezza in mezzo.

“Okay, come ho già detto farò il bravo”, ripeté, lanciandomi un’occhiata divertita. “Però tu dovresti cercare di rilassarti e divertirti, altrimenti non potrò parlare per paura di dire qualcosa che potrebbe essere facilmente fraintesa”.

Evitai di specificare che era colpa delle sue frasi ambigue se io fraintendevo, e quello fu già un grande passo avanti. Annuii, tornando a guardare la strada che scorreva fuori dal finestrino, e accorgendomi così che stavamo facendo un tragitto che non mi ricordavo. “Dove stiamo andando?” Domandai, cercando di non far trapelare l’agitazione dalla mia voce.

“A casa mia. Non ti ricordi? Ci sei già venuta…” Ed eccolo di nuovo, il tono provocante che non sapevo ancora se considerare irritante o sensuale. Forse era a metà strada tra i due.

Certo che mi ricordavo. E come dimenticarlo? Quella volta mi aveva costretta a rimanere a dormire da lui, dopo avermi praticamente rapita. Mi sembravano trascorsi secoli da allora, e invece era successo poco più di un mese prima. Quante cose erano successe, nel frattempo…

Non gli risposi – dopotutto, non sapevo neppure cosa dire. Ad essere sincera non ero tanto spaventata da Enrico, quanto piuttosto dal faccia a faccia che avrei dovuto sopportare di lì a poco: avrebbe voluto senza dubbio approfondire ciò che era successo la notte prima, perché se il bacio aveva lasciato confusa e senza parole me, sicuramente doveva aver riempito di speranze lui.

“Oggi sei più silenziosa del solito…”

La sua voce mi fece sobbalzare – di nuovo. Dio, odiavo avere i nervi così a fior di pelle. Gli lanciai un’occhiata veloce per controllare l’espressione del suo viso, e, vedendola stranamente seria, mi preoccupai che potesse prendersela davvero come il giorno prima. Così sospirai e scossi la testa, ritornando a fissare la strada. “No, no, è solo che…” Mi bloccai, incerta: cos’avrei dovuto dirgli? “È strano, ecco.”

Brava, Giulia. Complimenti. Strano. Hai vinto l’oscar per la Migliore Parafrasi.

“Cosa è strano?” Domandò lui infatti, con un tono volutamente neutro e vacuo. Sembrava che si stesse sforzando di comprendere il mio modo astruso di vedere le cose, il che non richiedeva certo poca fatica; oh, andiamo – adesso mi critico da sola? E che cosa avrei dovuto rispondergli? Che trovavo strano il fatto che non mi avesse assalito non appena ero entrata in macchina, limitandosi a parlarmi del più e del meno come un perfetto gentiluomo? Insomma, dovevo ammettere di essere delusa perché non si era comportato come i miei canoni avevano previsto? Iniziavo ad odiarmi da sola.

Comunque, di fatto non potevo dirgli nulla di tutto questo.

Grazie al Cielo fu lui a venirmi in aiuto – o a peggiorare il mio imbarazzo, a seconda dei punti di vista – impedendomi di rispondere e tirando da solo le fila del discorso.

“È strano che non ti abbia ancora baciato?” Chiese infatti, con il tono leggero di uno che parla delle previsioni meteorologiche. La sua voce ebbe però una leggera incrinatura quando aggiunse, lentamente: “Credimi, sto usando ogni goccia di autocontrollo per non fermare la macchina e salutarti come si deve…”

Mi voltai sorpresa verso di lui, sforzandomi di ignorare il rossore alle guance e ringraziando Dio e tutti i santi per l’oscurità della macchina che celavano tale afflusso indesiderato di sangue. “Io non… Non intendevo questo…” Mormorai, sperando che non fermasse davvero l’auto.

“Ah, no?” I suoi occhi mi fissarono per un attimo, poi ripresero il controllo della strada. “Mi stai dicendo che non te lo stai chiedendo da quando siamo partiti? Che, dopo ieri, l’hai trovato normale?”

Chinai il capo, giocherellando nervosamente con le cinghie della mia borsa. “Ieri è stata colpa mia, lo ammetto…” Confessai alla fine, trovando un coraggio che non credevo di avere davvero. Dopotutto chi era stato a saltare addosso all’altro, luna o non luna?

Enrico tuttavia sbuffò, leggermente innervosito. “Devi smetterla con questa storia delle colpe. Non è stata proprio colpa di nessuno. Lo volevamo entrambi, ed è successo… Finalmente, oserei aggiungere”. Si accorse che avrei voluto ribattere qualcosa, ma non me lo permise. “No, fammi finire. Non ha senso che continui a fingere di trovarmi indifferente, perché ormai non funziona più… Hai capito di provare qualcosa per me, ed è già un passo avanti”.

Ecco, appunto – a proposito di false speranze. Solo che adesso il dubbio era più forte di quanto non fosse mai stato in precedenza… Quanto le potevo definire false, le sue aspettative? Il mio desiderio di mettere le mani avanti e lasciarmi libera una ‘via di fuga’ era molto tenace, così mi preparai ad obiettare.

“C’è differenza tra attrazione e sentimento, credo”, replicai, cercando di suonare ragionevole.

Sfortunatamente neppure lui sembrava carente di ostinazione. “E io credo che l’uno non possa esistere senza l’altro. No?” Ribatté sicuro, guardandomi.

“Okay, e con ciò? Dove vuoi arrivare?” Sbottai, infastidita per essere stata sconfitta con la mia stessa moneta. Lui non rispose subito.

Ormai la macchina si era fermata, visto che eravamo praticamente arrivati. Spense il motore, facendoci precipitare nell’oscurità più completa non fosse stato per un’unica luce proveniente da sotto al portico della sua casa di campagna, che a malapena illuminava l’uscio. Ciò nonostante vidi i suoi movimenti – la mano che slacciava la cintura di sicurezza, il torace che si volgeva verso di me, il braccio destro che si posava sul poggiatesta del mio sedile – ed ebbi il modo di studiarli con precisione come se la scena si stesse svolgendo al rallentatore. Lo vidi chinarsi su di me, con l’altro braccio che, chissà come, era arrivato a posarsi accanto alla mia gamba dalla parte dello sportello, intrappolandomi senza alcuna via di scampo.

E maledetta la cintura che mi impediva qualsiasi movimento.

Non nego che, forse, avrei potuto anche trovare un modo per impedirglielo. Potevo voltare il viso dall’altra parte, o intimargli di allontanarsi, o offenderlo con qualche frecciatina crudele che l’avrebbe spinto a lasciar perdere – come in genere succedeva. Ma purtroppo, mentre il suo volto si avvicinava implacabile al mio, l’unica cosa che la mia mente riusciva a focalizzare era il ricordo del suo bacio, e il fatto che adesso stavo per riassaggiare la dolce morbidezza delle sue labbra. Dio, sarebbe potuto essere il diavolo in persona, ma nulla mi avrebbe tolto dalla testa la convinzione che la sua fosse la bocca più buona che avevo avuto l’opportunità di assaggiare.

Così mi limitai a socchiudere gli occhi e sospirare, tremante, nell’attimo che ci separava dal baciarci una seconda volta. Sentii il suo respiro all’angolo della mia bocca, mentre annullava ogni distanza rimasta e faceva combaciare le nostre labbra come pezzi di un puzzle, strappandomi un gemito involontario che non sarei stata capace di trattenere neanche sotto tortura. Sembrava sempre essere eccezionalmente allenato nel baciare in quel modo, come se avesse alle spalle una lunga pratica, e il pensiero mi fece aggrottare le sopracciglia nel rendermi conto di quanto l’idea potesse infastidirmi; mi avrebbe di certo dato molto fastidio scoprire che avrebbe baciato qualcun'altra dopo di me, e non ero neanche del tutto certa che avrei potuto lasciar correre tanto facilmente. Decisi comunque di non pensarci, non era il caso; così, istintivamente, portai una mano libera a sfiorargli la guancia, prima di farla scivolare più in basso a posarla sulla sua spalla, alla quale mi aggrappai quasi ferocemente.

Purtroppo baciare era come mangiare ciliegie: una volta iniziato, non si sarebbe più voluto smettere. Ma era anche vero che tra una ciliegia e l’altra si prendeva un profondo respiro, e  così dovemmo fare anche noi tra un bacio e l’altro, seppure trovassi l’idea molto meno allettante – anche perché avrei dovuto affrontarlo nuovamente, e non ero mai stata particolarmente brava ad accettare e ammettere la sconfitta. Perciò, quando si allontanò dalle mie labbra leggermente indolenzite per la furia che ci aveva messo, il suo sorriso mi fece perdere qualche battito, facendomi sentire improvvisamente caldo – e no, di questo non potevo incolpare la stagione. Le sue dita mi accarezzarono i capelli e poi la guancia, con un tocco estremamente delicato e tenero, che trovai addirittura più intimo del bacio stesso: poi le sue labbra si posarono un’ultima volta sulle mie, come una sorta di ciliegina sulla torta, e quando parlò lo fece con una voce appena roca che mi fece rabbrividire.

“Era a questo che volevo arrivare”, sussurrò.

E compresi che la serata era appena all’inizio.

 

 


























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AA - Angolo Autrice:
Oh! *sospiro di sollievo* Ce l'ho fatta entro questa settimana, come promesso :D Non è un granchè, lo so, ma è un piccolo passo per l'uomo e un grande passo per l'umanità... nel senso che fra un po' questo strazio sarà finito, state tranquille xD Ancora un po' di pazienza e potrete farmi ciao ciao con la manina. Dunque! Passo subito a ringraziare coloro che hanno recensito (un bacione grande grande a Eky_87, samantha, savy85, lalalaXD94, Liandra Thundery, nicoletta93, Aly in Wonderland, Miyu, Alebluerose91 e Carocimi), che hanno aggiunto la storia alle Preferite (130! *stappa lo spumante*), alle Seguite (215) e alle Ricordate (15). Insomma, gente, vi adoro <3
Grazie alle nuove "reclute", grazie alle "vecchie" che mi seguono dall'inizio, grazie a tutte... Davvero, senza il vostro sostegno non so se sarei arrivata fin qui :*
Uhm oggi sono particolarmente emotiva, perciò passo e chiudo prima di farmi scendere la lacrimuccia commossa ;D
Vi lascio ricordandovi che potete trovarmi anche su Facebook! ^^
Un bacio e un abbraccio, al prossimo capitolo :*
Vostra,
Giuly.

 

 

   
 
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