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Autore: harinezumi    07/12/2010    6 recensioni
Arthur Kirkland è un impegnato banchiere a Londra, che sembra impiegare il proprio tempo solo ad accumulare denaro. ma un giorno eredita la villa dello zio in Francia, dove riscopre emozioni che aveva da tempo soppresso.. {una rivisitazione in chiave "hetaliana" del film omonimo del 2006; probabilmente lo ammazzerò a colpi d'ascia, siete avvertiti *-*}
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland, Un po' tutti
Note: AU, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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capitolo nove – in cui non c’è bisogno di altro tempo

 

 
Quando Arthur rientrò nell’ufficio di Ivan, l’aver preso la sua decisione riuscì persino a farlo sorridere, mentre si trovava al cospetto di quel suo capo dall’aspetto e dai modi terrificanti.

«Mi dica, lei lo vede mai?» domandò, una volta preso un grande respiro.

Ivan lo guardò perplesso, senza capire. «A cosa ti riferisci?» domandò.

«Il quadro vero che tiene nei sotterranei della sua villa… fa dei pellegrinaggi a notte fonda, quando esce di qui, per andarlo ad ammirare un po’?»

«Non capisco dove vuoi arrivare».

Arthur si sorprese moltissimo di sé stesso, ritrovandosi a sorridere ad Ivan con quell’aria spensierata, mentre riponeva la lettera che il suo capo gli aveva appena consegnato sulla scrivania. Senza dire una parola, gli voltò le spalle, aprendo la porta dell’ufficio.

Prima di richiuderla dietro di sé, lanciò un’ultima occhiata a Ivan. «Au revoir» lo salutò, allegramente, uscendo dall’ufficio e lasciando nella stanza un gelo profondo.

***

Quella sera era piena di lavoro al bistrot, come sempre. Ma il padrone del locale sembrava efficiente come al solito, anche se i suoi sorrisi erano certo più rari in quel periodo, e si adoperava a soddisfare ogni richiesta, come se non avesse mai avuto alcun altro problema al mondo.

Però Francis ne aveva di problemi, eccome. Non si pentiva di aver lasciato Arthur in quel modo, ma non poteva dire di esserne felice; anche se forse adesso una vita sarebbe riuscito a farsela, dato che per una volta aveva deciso di essere lui a spezzare un cuore. Eppure sentiva che nemmeno il suo era tutto intero al suo posto.

Quando stava lontano dal chiacchiericcio tranquillizzante di Antonio, il solo soffermarsi troppo a pensare ad Arthur gli faceva salire un nodo alla gola e le lacrime agli occhi. E quello non era normale, proprio per niente; innamorarsi così non era stato da lui.

«Bonjour» mormorò Francis distrattamente, sfilandosi la matita da dietro l’orecchio e fermandosi a prendere l’ennesima ordinazione.

Il cliente seduto sul tavolino davanti a lui abbassò il giornale che stava leggendo, rivelandosi essere Arthur. Il francese non fece una piega, ma la sua mascella si contrasse visibilmente, mentre insultava nella sua testa tutti i santi che conosceva.

«Vorrei ordinare» gli fece Arthur, serafico, ripiegando il giornale e fissandolo negli occhi con la sua solita aria di sfida e un’intensità che costrinse Francis ad abbassare lo sguardo, puntandolo sul blocchetto delle ordinazioni.

«È sicuro di non aver bisogno di più tempo?» domandò, maledicendosi interiormente per aver fatto tremare così tanto il tono della voce. Andiamo adesso, lui che arrossiva? Di fronte a quell’idiota inglese? Si costrinse a tornare a guardarlo.

«No, so… quello che voglio». Arthur continuava a fissarlo, con una sicurezza che di certo non gli era mai appartenuta; ma quelle parole erano vere, per quanto il suo cuore minacciasse di schizzargli fuori dal petto a momenti.

«Beh, allora… che cosa desidera?» chiese Francis, con un lieve colpo di tosse a dissimulare il tono roco che per un attimo aveva assunto. Però, stava indubbiamente stringendo un po’ troppo forte la matita e quasi stritolando il blocchetto; in più, sentiva che non sarebbe nemmeno riuscito a pronunciare qualcosa che non fosse una frase fatta. Arthur sembrava esitare in quel momento, ed era certo che anche lui si sentisse orribilmente in imbarazzo, ma stranamente parlò lo stesso.

«Avete la zuppa?»

Che domanda idiota. La tensione di Francis per un attimo si trasformò in rabbia, il che gli consentì di rispondere, per una volta da quando Arthur era comparso senza vacillare. «Finita».

«Uhm, io ho finito di lavorare giusto otto ore fa. Per sempre. E il pesce?»

«Non ne abbiamo più» sbuffò il francese, cominciando seriamente a pensare che Arthur fosse venuto lì solo per prenderlo in giro.

«Francis, io non so come scusarmi» mormorò però l’altro, con un tono così realmente dispiaciuto che prese Francis in contropiede, facendogli quasi mancare il terreno sotto i piedi. Rimasero a fissarsi, Arthur con un’espressione mortificata e impacciata, Francis che si mordeva la lingua quasi a sangue per trattenere le lacrime.

«N-non farmi perdere tempo» sbottò alla fine, abbassando velocemente lo sguardo, e andando a toccarsi la fronte con una mano, per poi passarla sulla bocca, come esausto. Cercava soltanto di controllare i muscoli del proprio viso, troppo inclini a scoppiare a piangere. Ma perché poi, dannazione? «Scegli qualcosa che abbiamo».

«Mi piacerebbe passare tutta la mia vita con te» mormorò Arthur. Quella dichiarazione lasciò entrambi spiazzati, ma l’inglese non si fermò, lo sguardo fisso sul tavolo. Si alzò in piedi, sorpassando lentamente il tavolo ed avvicinandosi, con le mani che gli tremavano nonostante la decisione che aveva preso. «Con te, una persona irrazionale e sospettosa… con il vizio di essere troppo gelosa e con l’abitudine di litigare per qualsiasi cosa. Assieme ad un luogo che sappia di te».

Francis era interdetto, perché quella era assieme la dichiarazione migliore e peggiore che avesse mai avuto. Perché Arthur stava dicendo tutte quelle cose meravigliose, sì, ma lo stava facendo come se stesse parlando di una mucca scuoiata. Tuttavia, non poté non sorridere lo stesso quando lo sentì bisbigliare durante quella pausa un chiaro: «Allo specchio non faceva così schifo…».

Poi, senza dargli alcun preavviso, ma soprattutto senza darlo a sé stesso, Arthur gli prese il volto tra le mani, baciandolo sulle labbra, nella sua euforia. Non fu un semplice bacio a stampo, se non all’inizio, ma l’inglese prendendo coraggio cercò la lingua dell’altro con la propria, mordendogli un paio di volte dolcemente le labbra quando le dischiuse. Un modo decisamente ottimale, pensò Francis, di dimostrargli la sua redenzione, anche se quando Arthur si staccò aveva assunto lo stesso colore dei pomodori maturi.

«Dunque?» domandò il francese, con un sorrisetto a fior di labbra, e cercando di non ridergli in faccia. L’altro stava cercando di mostrarsi imbronciato e sollevato da quella sua reazione non più ostile, allo stesso tempo, evidentemente nella confusione più totale.

«Pardonne mes lèvres, elles trouvent du plaisir dans les endroits les plus inattendus*» mormorò però Arthur, sorprendendolo di nuovo.

«Oh. Ti ricordi ancora le parole che ti ho detto quella volta in piscina, quando eravamo bambini…».

«Già, e anche tu…». Sembrava sorpreso. Certo, perché Francis non aveva mai dimostrato di ricordarsi di lui, prima di quel momento.

«Si, ma devo ammettere che prima d’ora non ti avevo riconosciuto, Arthur» rispose Francis, con un risolino, ma sorridendo luminoso. Sembrava che tutta la preoccupazione che l’aveva turbato un attimo prima, quando si era avvicinato al tavolo, fosse sparita; in quel momento, allungò le braccia a cingere la vita di Arthur, stringendolo a sé e nascondendo immediatamente il volto nella sua spalla.

«Per un po’ ho avuto paura che non tornassi…» mormorò, in un sussurro appena percettibile. Non voleva certo che l’inglese sentisse il tremolio nella sua voce.

«Perché sei troppo stupido per renderti conto dell’ovvio» ribatté Arthur, infilandogli una mano tra i capelli, accarezzandogli il capo. Poggiò la guancia sulla sua testa, chiudendo gli occhi.

Un po’ stupido si sentiva anche lui, a sorridere in quel modo.

***

Arthur si alzò “presto” quella mattina, verso mezzogiorno. Sentiva delle urla provenire dai dintorni dall’entrata, e considerando quanto distante si trovava la sua stanza dalle cucine, potevano solo essere di Alfred. Colui che gli stava rispondendo, ad altrettanti decibel di altezza, era probabilmente Lovino.

Rotolò fuori dal letto, notando di essere ancora una volta da solo in mezzo alle coperte disfatte, sbuffando annoiato e maledicendo il lavoro di Francis. Si rivestì in fretta, per andare a sedersi, dopo aver sceso barcollando le scale del primo piano e mezzo addormentato, sui gradini del portone della villa.

«Ah, sei qui!» esclamò Lovino, spuntando all’improvviso alle sue spalle, e parandoglisi poi davanti, infuriato. «Quell’idiota non capisce niente di vino!! Io mi faccio mettere i piedi in testa come quel bastardo di Antonio, vedi di dire a tuo cugino di darsi una calmata!»

Arthur annuì, lentamente, senza nemmeno guardarlo. Il sonno lo attanagliava ancora, nonostante l’ora, e sentiva di non avere forze per ascoltare le costanti lamentele di Lovino sul dispotismo di Alfred.

Come se non bastasse, proprio l’americano uscì dalla villa in quel momento. Il ragazzino italiano fece uno strillo isterico che somigliava a “chigi”, correndo via non appena lo vide, e Alfred rimase in piedi accanto ad Arthur, con uno sbuffo.

«È fuori di testa!» sbottò, abbassando gli occhi sul cugino, che si limitò ad annuire stancamente di nuovo. «Oh, Arthur!» esclamò all’improvviso Alfred, dopo un attimo di meraviglioso silenzio. «Ti ho preso dell’inchiostro verde, è sopra alla tua scrivania».

Arthur, senza volerlo, arrossì spalancando gli occhi, mentre a quelle parole sentiva un tuffo al cuore. Era stato così imprudente che persino Alfred aveva scoperto che aveva scritto quella lettera? Ma forse non aveva importanza. In fondo avrebbe comunque potuto prendersi la villa di Henry in qualsiasi momento, dal momento che non vi erano dubbi sul fatto che quella testa vuota fosse figlio del vecchio.

«Grazie» borbottò, stando bene attendo a non incrociare lo sguardo del cugino.

«Perché, chissà, magari ti viene voglia di scrivere una lettera» continuò Alfred, con una risatina, prima di correre dietro a Lovino, probabilmente per sottolineargli le sue richieste assurde come un vino che sapesse lo stesso sapore degli hamburger.

Arthur sospirò di sollievo, finalmente solo, passandosi una mano sugli occhi stanchi. Era tutta colpa di Francis, come sempre; così neanche quella notte aveva dormito un momento, eccetto quando l’altro si era finalmente volatilizzato per andare al lavoro. Il che era accaduto alle sette del mattino, quindi poteva dire di aver appena battuto il suo record di notti in bianco consecutive, che ammontavano a sei; e sì che all’università ne aveva fatta di festa.

«Mon Arthùr, cos’è quella faccia?» disse all’improvviso la sua voce, proveniente dal viale.

L’altro alzò gli occhi, puntandoli sul francese, appena arrivato alla Siroque ovviamente in bicicletta, pur di non dover usare in prestito la stupida lavatrice che l’aveva investito. Francis gli sorrise, scendendo dalla bici con un saltello, assolutamente allegro e senza sembrare stanco nemmeno un po’.

«Io ti detesto» grugnì Arthur, suscitando sorpresa nel francese, che scoppiò a ridere, lasciando la bici appoggiata accanto al muro della villa, e andando a sedersi accanto a lui sul gradino.

«Non è vero» gli rispose, con un sorrisetto, prima di passargli un braccio attorno al collo e appoggiarselo contro.

Arthur, suo malgrado, era talmente stanco che si lasciò scivolare prima sulla spalla di Francis, e subito dopo sul suo grembo, su cui appoggiò la testa, chiudendo gli occhi. «È tutta colpa tua… sono stanco».

«Che ti importa» mormorò Francis, chinandosi su di lui per baciargli una guancia, dolcemente. «Ora sei in vacanza, e ci resterai per sempre».

«Se continua così, torno a lavorare» sbuffò Arthur. «Non ti sopporto più, mi sfinisci».

Per tutta risposta, Francis rise di nuovo, andando a cercargli la mano e stringendogliela. L’altro ricambiò la stretta, nonostante le sue parole, e continuò a rimanere immobile sulle sue ginocchia, mentre il suo respiro si faceva più pensante.

«È ora di pranzo, Arthùr, non addormentarti adesso» gli sussurrò all’orecchio dopo un po’, con tono di voce comunque tranquillo, come se le sue intenzioni non fossero affatto quelle di svegliarlo, ma di peggiorare la situazione. «Sento un profumino venire dalla cucina… di pomodoro in verità… Antonio vizia troppo Lovino».

«Ho capito, adesso mi alzo» mormorò Arthur, senza minimamente eseguire.

«E mi piacerebbe darti ancora lezioni di francese dopo pranzo…» continuò Francis, con quel tono fastidiosamente suadente.

«Io dopo pranzo andrò a letto» sospirò Arthur, sollevandosi lentamente di nuovo a sedere, e cercando di mantenere gli occhi aperti, anche se le sue palpebre rimasero a mezz’asta.

«Mh, e che differenza c’è da quello che ho detto io?» gli domandò Francis con una risatina, per poi andare senza esitazione ad infilargli la lingua in un orecchio, facendolo rabbrividire.

«Francis…» si lamentò Arthur, cercando di piegare di lato il collo per liberarsi da quel supplizio.

Ma l’altro eseguì da solo, senza risparmiarsi però un’occhiata divertita. «Vado ad aiutare Antonio a preparare la tavola. Possiamo mangiare fuori, oggi è una bella giornata… tu intanto dormi e riprendi le forze, mi raccomando. Servono per il sesso pomeridiano».

«Vai a farti fottere» grugnì Arthur, poggiandosi al portone aperto e richiudendo gli occhi. Si maledisse da solo, perché le sue parole rappresentavano esattamente quello che Francis aveva intenzione di fare, e di certo lui non le avrebbe mai prese in altro modo.

Sentì le labbra del francese posarsi sulle sue, ma sorprendentemente si fermarono lì. Con un fruscio, Francis entrò nella villa andando in cucina, lasciandolo solo.

Non gli ci volle molto per cadere nel dormiveglia, cullato dal suono del vento tra gli alberi del viale della Siroque; in quel luogo Alfred aveva preteso che tornasse, e del resto era una proprietà talmente grande che si incontravano di rado e i loro litigi erano ridotti a zero. Chi vi si era praticamente stabilito senza permesso era Francis, sempre intorno ad Arthur come se non potesse più farne a meno. E ad Arthur, alla fine, dispiaceva poco.

L’essersi reso conto di amare Francis era decisamente la cosa migliore che gli era capitata da quando aveva conosciuto Henry. Non aveva importanza quante poche volte fosse in grado di dirlo ad alta voce, in fondo era stato lui a volere la loro relazione, e a Francis questo sembrava bastare.

Si ritrovò a sorridere nel sonno, interrotto un attimo dopo da un lieve bacio sulle labbra. Francis poi gli prese una mano, cercando di tirarlo leggermente in piedi.

«Vieni, è pronto» gli disse, con un sorriso, quando Arthur aprì gli occhi e si ritrovò a fissarlo con aria nuovamente buia.

«Mi ha chiamato Matthew ieri sera. Ha venduto il mio appartamento a Londra… spero tu sia contento» mormorò, con un sospiro.

«Sì. Perché hai capito che la Francia è centomila volte meglio dell’Inghilterra» rispose Francis, sorridendo divertito.

«Questo è da vedere. In giro ci sono un sacco di tipi poco raccomandabili».

Francis scoppiò a ridere, tirandolo in piedi con decisione, ma senza premurarsi di rispondergli. Era evidente a chi si riferisse quel commento. Arthur si alzò controvoglia, condotto letteralmente dall’altro fino al tavolo preparato accanto al parco. Antonio non era ancora nei paraggi, perciò Francis ne approfittò per sedersi e tirarsi in braccio anche l’altro, che emise solo un lieve gemito di protesta, tanto era stanco.

Gli occhi di Francis poi erano dannatamente intensi, mentre lo fissavano con quell’espressione assorta, come se fosse stato convinto di guardare la cosa più bella del mondo. Arthur non poté fare a meno di pensare che era un idiota a pensarla così, mentre il francese stringeva di più le proprie braccia attorno alla sua vita, per far sì che il suo viso si avvicinasse al proprio.

Il bacio che gli diede allora non aveva nulla a che vedere con quelli casti e teneri di un attimo prima, però Arthur si ritrovò a preferirlo a tutto ciò che Francis avrebbe potuto fargli o dirgli in quel momento. Si rese conto improvvisamente che così il sonno era svanito; di quei baci, non avrebbe mai potuto essere stanco.

E nemmeno di quella vita, quando guardava gli occhi blu di Francis, così assorti a fissarlo che pensò che avrebbe fatto meglio a tenerselo stretto per sempre.

«Arthùr… mi… stai facendo male…».

«Stà zitto e muori, rana» grugnì Arthur, stringendogli più forte le braccia al collo e serrando gli occhi, deciso. Come aveva detto, per sempre.
 
 

* “perdona le mie labbra, trovano il piacere nei posti più inaspettati”





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che dire, questo era l'ultimo capitolo ^^ e così è finita la prima storia che io abbia mai scritto su Hetalia. mi scuso tanto se alcune scene sono sembrate OOC, ma ora sono migliorata e scriverò meglio in futuro!! (sì sì, continua a ripetertelo)

ringrazio tantissimo tutti quelli che hanno letto e seguito la storia, vi amo tanto ç-ç e ovviamente amo alla follia coloro che mi hanno dato i loro pareri con tanta gentilezza, grazie mille! mi dispiace di non avere tempo di rispondervi uno per uno, ma sono davvero commossa per chi ha recensito questa storia senza abbandonarla ç-ç è per voi che l'ho conclusa.

alla prossima, se non fuggirete!!! :D

harinezumi

  
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