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Autore: cartacciabianca    16/12/2010    8 recensioni
Il fallimento è una circostanza spietata. Più che il buon animo o l’indulgere dei tuoi nemici, è la sorte a stabilire se avrai o meno un’altra possibilità. Quando un veleno fatale scorre nelle vene rendendoti cieco verso la speranza, a quale altro Dio potresti appellarti se non a quello del destino?
Cinque uomini cambieranno il corso della storia: aprendo una cicatrice nel cuore della corruzione, spargeranno i semi di una nuova rinascita. Solo dopo che sarà caduta, infatti, Roma potrà risorgere dalle ceneri del male e indossare un nuovo vessillo. Ma ad intralciare il compimento della loro sì altruista missione, c’è un essere malvagio capace di fronteggiare a testa alta qualsiasi avversario. Cesare Borgia è lungi dal permettere che gli Assassini irrompano in casa sua e calpestino lo stemma di famiglia. Per impedirlo sfrutterà il mezzo tramandato per secoli accanto al suo nome.
Nella più profonda ciecità, cosa possono insegnare un gruppo di pescatori affamati, un giovane contadino analfabeta, una vedova e i suoi due figli? Da Monteriggioni a Roma, e da Roma a Trevignano: una fuga disperata per le campagne Romane. L'ultima.
Fan fiction ambientata in un periodo ipotetico 1502/1503.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Ezio Auditore, Nuovo personaggio
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Helleborus'
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Helleborus
Capitolo VI
Dies Irae

"Dio guarda agli uomini quando si smarriscono, non quando trionfano."

Emersero dalla pineta e si gettarono sul piazzale marmoreo del Belvedere.
Spartendo il peso del Gran Maestro con Davide, Vittorio imprecò. I decori geometrici e i pizzi floreali del pavimento si assomigliavano tutti. Il fato aveva giocato le sue carte con un cielo senza più né luna né stelle e gli abbai dei cani si facevano sempre più prossimi. Dovevano ritrovare la mattonella del passaggio segreto e addentrarvisi prima che fosse troppo tardi.
“Ho lasciato un traccia!” si ricordò Davide che, da bravo stratega, aveva quello e altri vizi. “Aiutami a cercare della stoffa nera”, disse adagiando il Gran Maestro contro la balaustra. Poi s’inginocchiò ad accarezzare la pietra del piazzale e Vittorio lo imitò.
Nel bel mezzo della ricerca li riscosse un ululato tra gli alberi. Ai due Assassini si mozzò il fiato in gola. Alzarono un istante lo sguardo sulla pineta, poi Davide tornò a graffiarsi le mani tastando il terreno con foga. “Dov’è quel tuo fottuto piccione quando serve?!” strillò con lacrime isteriche ad annebbiargli gli occhi.
Se anche il Falco Sacro fosse apparso magicamente sulla spalla del suo padrone, Vittorio dubitava che avrebbe potuto fare molto contro branchi di cani da caccia e dozzine di uomini corazzati.
Senza proferire parola, il mastro arciere rubò le ultime quattro frecce dalla faretra del suo compagno e ne incoccò una. Sollevandosi in piedi, si piazzò nel centro della terrazza e mirò tra gli alberi.
Balenò un lampo, e per un istante l’intera pineta fu invasa di luce. A quel punto Vittorio scoccò, trafiggendo la tempia di un soldato senz’elmo a quasi cento metri di distanza tra le fronde.
Davide aveva provato a non distrarsi, ma la maestria di quell’uomo lo aveva sempre affascinato. Si riscosse e tornò a lavoro, non senza aver gettato prima un’occhiata al Gran Maestro a riposo come un sacco di patate contro la balaustra. La testa coperta dal cappuccio a becco d’aquila gli ricadde di lato, sbilanciando il resto del corpo, che si distese al suolo nel frastuono dell’armatura. La mano del braccio destro, allungato in una posa innaturale, indicò casualmente a Davide della stoffa nera incastrata nel disegno del pavimento. Non sapendo chi o cosa ringraziare, lo stratega si gettò in quella direzione e scoperchiò il passaggio segreto.
“Vittorio!” chiamò il ragazzo calandosi nel tunnel.
Il mastro arciere consumò anche l’ultimo dardo che, per suo dispiacere, aveva indirizzato nelle carni di un bellissimo esemplare Epagneul rischiosamente vicino. Rinfoderò l’arco e voltò i tacchi. Aiutò Davide a calare senza strattoni il Gran Maestro nel cunicolo e in fine, mentre lo stratega trascinava via la carcassa di Ezio facendo posto, Vittorio saltò nella galleria e tirò a sé il “tappo”.
Quando giunsero i cani e i soldati, la geometria del piazzale sembrava non essere mai stata più pulita e perfetta.

“Hai mai pensato di morire così?” ironizzò Davide, col respiro affannato, man a mano che avanzavano nell’oscurità.
Vittorio, ansimando, si limitò a scuotere la testa e mormorare: “Non moriremo.”
L’aria mancava. Passare quel cunicolo già una volta era stato un Inferno. Adesso dovevano pure spingerci attraverso il corpo del Maestro, con una fatica immensa, facendolo strisciare nella polvere. Contavano di ricongiungersi a Leone prima che le guardie e i cani raggiungessero loro.
Erano circa a metà del tunnel e restavano una trentina di metri quando sentirono rimbombare nella roccia l’abbaio dei cani. I segugi spagnoli avevano fiutato l’odore degli Assassini indicando il passaggio segreto alle guardie, che, senza esitazione, sguinzagliarono i cani nella galleria.
I due Apprendisti accelerarono il ritmo della marcia a gattoni. Non appena sentì le unghiette grattare la pietra pochi metri dietro di sé, Vittorio si voltò e portò una mano all’elsa della striscia, che però, dato il diametro del tunnel, gli tornò impossibile impugnare. Allora alzò le ginocchia e bloccò il segugio tra di esse giusto in tempo, prima che questi gli azzannasse la faccia. Il cane abbaiava e ringhiava. La bava e la rabbia si miscelavano tra i denti bianchi e acuminati, schizzando da tutte le parti e imbrattando i calzari grigio fumo dell’Assassino.
“Ammazzalo, ammazzalo!” strillava Davide, terrorizzato. Vittorio gli chiese una freccia, ma lo stratega rispose di avere la faretra vuota. Il mastro arciere, se avesse potuto, avrebbe calciato l’animale per respingerlo o quanto meno preferito per lui una morte veloce; ma poiché gli serrava la gola tra le ginocchia, Vittorio fu costretto a soffocare dolorosamente quella povera bestia. Vide la luce spegnersi nei suoi occhi gonfi e iniettati di sangue; sentì i muscoli dell’animale tendersi in un crescendo e poi rilassarsi all’improvviso tra le sue cosce, che dischiuse lentamente appena fu certo del decesso.

Il tempo era peggiorato, il cielo stellato scomparso e grossi nuvoloni si annunciavano con clamore e prepotenza sopra la sua testa. La tormenta stava passando, ma presto al vento si sarebbe sostituita la pioggia.
Leone, distratto da diversi pensieri, dava le spalle al traforo nelle mura con le braccia conserte. La testa di Davide emerse tra gambe divaricate di Golia, che non appena se ne accorse imprecò e saltò sul posto.
“Il Maestro è ferito, aiutaci, presto!” disse Davide snodandosi agilmente fuori dal cunicolo. Lui e Leone affondarono le mani nell’oscurità e pescarono il cappuccio e gli spallacci. Piantando le unghie nella stoffa e nel metallo, tirarono con tutta la loro forza e finalmente, dopo tante fatiche, le Mura Vaticane partorirono il Gran Maestro degli Assassini.
La figura di Vittorio emerse dal passaggio segreto accompagnata da un lampo. Le divise sua e di Davide erano sporche di sangue, terra e polvere, nonché rovinate da eventuali battaglie. Ma ciò che più allarmò Leone, fu notare il Maestro incosciente e quella grossa macchia purpurea sul candore delle vesti impolverate.
"Adriano?" chiese Leone, pallido. Ignorò l'immensa tristezza di Davide, ma non si sentì più sollevato incrociando gli occhi infinitamente rammaricati di Vittorio, che si sottrasse in fretta da quella muta e drammatica intesa.
Dopo quegli sguardi non ci fu modo di scambiarsi parole, perché le campane del Vaticano presero a suonare destando Roma dal sonno. Nello stesso istante, dalla galleria balzò fuori un mastino da caccia. Pronto di riflessi, Leone lo respinse con una mazzata in pieno muso e la bestia, guaendo, morì sul colpo.
Vittorio nascose la smorfia dietro al bavero mentre aiutava Davide a caricare il Gran Maestro sulla groppa del suo cavallo. Rovesciando i detriti sul prato, lo infagottarono con il lenzuolo che sarebbe servito a celare l’armatura splendente e la veste prestigiosa in un bianco candido e anonimo. I due arcieri erano già in sella, ma Leone tornò indietro e gettò una bomba fumogena nel passaggio segreto. Il petardo esplose in una nuvola di fumo tra guaiti di cani e imprecazioni di soldati, ormai prossimi. Montando in groppa con un balzo e raggiungendo i compagni, Leone sperò che quel diversivo bastasse a dar loro un po’ di vantaggio.

Spronarono quelle povere bestie a quattro zoccoli in una corsa folle per vicoli e stradine secondarie, attraversarono il distretto Vaticano nella disperata impresa di evitare luoghi pubblici e altre pattuglie. L’ombra dei cappucci sui volti, i baveri alzati. Davide era alla testa del gruppo. In mezzo c’era Vittorio che con un braccio assicurava il Gran Maestro alla groppa del cavallo e con l’altra teneva le redini. Leone, di coda, lanciava occhiate continue alle loro spalle.
Temporaneamente certi che niente o nessuno li inseguisse, si fermarono sotto ad un portico buio per fare il punto della situazione.
Davide, respirando affannosamente, valutava la prossima strada da prendere. Vittorio sistemò meglio il corpo del Gran Maestro sulla groppa della bestia affaticata. Di quel passo e con tante guardie appresso, le forze non sarebbero bastate a nessuno per condurli più lontano delle Mura Aureliane.
“Ci serve un piano. Un vero piano”, esordì Leone leggendo il disordine negli occhi dello stratega.
Davide scosse la testa e guardò a terra; tacque a lungo, non sapendo cosa dire.
Vittorio prese parola.
“La freccia che ha colpito Ezio era avvelenata.”
Leone arrossì di collera dietro al bavero. “Veleno… solo un codardo come Cesare potrebbe…” s’interruppe bruscamente, irrigidendosi.
“No”, lo precedette il mastro arciere. “Fortunatamente non ha leso parti vitali ed è solo svenuto, ma per quanto ne sappiamo, e di qualsiasi veleno si tratti, potrebbe aver già completato la sua opera. La priorità è tornare alla villa e…”
“Aspetta,”, lo interruppe Leone, “Carolina è più vicina, portiamolo da lei”, suggerì.
“Che buon momento per fare un salto al bordello di mia sorella!” ringhiò Davide tra le lacrime.
Leone gettò lo sguardo tutt’altra parte, ignorandolo.
Vittorio infierì rivolto ad entrambi: “Carolina saprebbe senza dubbio come curare il Maestro, ma vive in pieno centro e i fantocci di Cesare aspettano solo noi. Suggerisco di allontanarci dalle caserme Papali e trovare un dottore.”
“La fate tanto facile, voi…” lagnò Davide. “Io dico che moriremo tutti ancora prima di vedere l’alba.”
“Grattamose!” Leone alzò gli occhi al cielo.
Ci fu un nuovo lampo, seguito da un tuono poderoso che innervosì i cavalli.
Vittorio, nel gesto di far girare in tondo l’animale per calmarlo, notò un gruppo di guardie addentrarsi nella stradina e venire verso di loro. “Ma per adesso dobbiamo separarci”, disse preparandosi alla corsa.
Leone si era illuminato. “Ottima idea. Dobbiamo confonderli, servono dei diversivi…” rifletté.
Vittorio proseguì: “Io cercherò un medico a Trastevere. Davide, tu scenderai a sud-est, nella zona dei fori. Leone…”
“Io tornerò al Vaticano e farò credere che giriamo ancora da quelle parti”, annunciò il tipo con le calzamaglie a righe; alzandosi sulla sella in un galoppo da corsa, Leone lasciò l’oscurità del portico e attirò tutte le guardie dietro di sé. Il frastuono di zoccoli e voci si perse in lontananza nella notte.
“Vaticano?! Io bacerei per terra, ma Leone è un pazzo se pensa di uscirne vivo una seconda volta!” sbraitò Davide.
“Tutta Roma è in tempesta, perciò noi non lo siamo meno di lui”, mormorò Vittorio dopo aver misurato i battiti al polso del suo Maestro.

Leone se l’era cercate, ma era fiero di avere alle spalle tutti quei soldati incazzati.
Girava e rigirava gli stessi vicoletti del Rione del Borgo ingannando quattro truppe deficienti, ma non appena notò le otto Guardie Papali alle sue spalle, si disse che doveva smetterla di giocare col fuoco e trovarsi un nascondiglio. Ne provò diversi, tra pozzi otturati e covoni di fieno, ma le guardie agili erano sempre un passo troppo avanti e riuscivano a coglierlo sul fatto, vanificando i suoi sforzi. Dovette ammettere che le lezioni di mimetizzazione offerte da Davide all’inizio della loro carriera di Assassini – quand’ancora non si sputtanavano come megere – gli avrebbero fatto comodo ora come ora.

Vittorio smontò e tirò a sé il cavallo verso il medico, che in quel momento stava visitando la gola ad un uomo vestito di stracci. Amareggiato, l’assassino si frappose tra il cerusico e il mendicante, placando il dispetto a quest’ultimo con moneta sonante. Dopodiché sollevò dalla sella e distese il corpo di Ezio sul bancone, imponendosi come cliente e illustrando le dinamiche dei loro guai. Il cerusico, dopo ch’ebbe visitato celermente il Gran Maestro, disse di non avere rimedio per quella miscela impropria; ma diagnosticando un dardo da balestra, affidò a Vittorio un olio anestetico da spalmare sulla ferita che avrebbe alleviato il dolore e rallentato l’effetto del veleno. Disperato, l’apprendista arciere domandò quanto tempo restava, cosa si poteva fare o a chi ci si poteva rivolgere. Il medico scosse la testa con tutta la maschera.
A quel punto un messaggero borgiano a cavallo comparve nel vicolo, li vide e sguainò la spada. Mentre di sua spontanea volontà il mendicante correva ad intralciare la guardia, Vittorio si affrettò a caricare il Gran Maestro sulla groppa del cavallo; rimontò in sella, lanciò al cerusico tutto il denaro che gli restava e, galoppando tra i vicoli malati di Trastevere, mormorò una preghiera per quel povero uomo che ci aveva rimesso letteralmente la testa.

Niente da fare. Dovunque andasse, qualsiasi direzione prendesse, scendere più a sud Castel Sant’Angelo fu impossibile. La guardia cittadina si era sparpagliata lungo il fiume, i ponti affollati da elmetti. Per sopravvivere ed evitare luoghi oltremodo visitati dall’acciaio di armi e armature, lo stratega voltò e rivoltò il cavallo nei vicoli, senza mai interrompere il galoppo, fin quando l’animale non lo ebbe condotto nella zona meno guarnita della città.
Riconobbe Vittorio che, spronando il cavallo, si gettava in una povera stradina di Trastevere assieme al corpo del Maestro. Alle spalle dell’arciere, il messaggero borgiano impugnava le redini in una mano roteando la milanese nell’altra. La distanza che divideva i due cavalli si dimezzava velocemente.
Davide diede di talloni sui fianchi dell’animale e andò incontro alla pattuglia. Come in una giostra tra cavalieri, lui e Vittorio s’incrociarono a metà percorso, ma senza ferirsi. Il destino più cruento toccò al soldato dei Borgia. Quando fu abbastanza vicino, infatti, Davide gli scagliò la scure leggera in piena faccia. Il soldato schizzò via dalla sella; il suo cavallo s’impennò e scappò terrorizzato.
Davide e Vittorio si ritrovarono scambiandosi un sorriso fiero e un assenso. Ma ancor prima che potessero parlarsi, due Guardie Papali su palafreni da guerra, comparse nella piazza, li rimisero in viaggio.
E che viaggio.
Sorpresero Leone alla Porta Aureliana, presidio militare, e dopo di quello non ci sarebbero stati altri incontri piacevoli, perché ormai avevano addosso una dozzina di soldati a cavallo tra capitani e Guardie Papali. Queste, con l’ordine diretto di Cesare, non avrebbero demorso finché non avessero consegnato al loro signore la ciccia degli Apprendisti e il cuore del Gran Maestro su un unico grande piatto d’argento.
Il piano era ufficialmente saltato.
Tornare alla villa o cercare riparo dentro la città erano i modi più veloci per farsi ammazzare. L’unica strada ancora sicura li conduceva fuori dalle mura, nelle campagne settentrionali, tra boschi, sentieri e campi incolti. Riuscirono a farsi largo sulla Via Cassia, desolata e silenziosa in quell’ora della notte, per poi svoltare, oltrepassare la Porta Romana ed imboccare la Clodia. Per un breve tratto seguirono l’Acquedotto Traiano e galopparono a perdifiato per chilometri e chilometri di terreno campestre, viaggiando costantemente in compagnia di lampi, tuoni e Guardie Papali. Il frastuono degli zoccoli sul selciato distruggeva la quiete notturna dei boschi e non diede loro tregua per ore ed ore di sfrenato inseguimento.
Le luci di Roma si persero lontane tra i colli e il Tevere divenne quel serpente, ostile e malvagio, che li scacciava sibilando. La Città Eterna vomitava i suoi patrioti salvatori. Schifando la pace, diceva chiaramente di preferire, per sé, un destino empio e corrotto, lasciando ai suoi marrani un dolce regalo d’addio: manipoli di guardie alle costole.

Lunghe ed estenuanti ore di viaggio avevano provato la resistenza di tutti, destrieri e cavalieri. L’aria secca, nella frenesia della corsa che aveva scatenato il sudore, avrebbe attaccato i polmoni nel giro di una settimana. Quindi, se fossero riusciti a sfuggire alle Guardie di Cesare, il loro, come il destino del Gran Maestro, era comunque segnato.
I tre Apprendisti, più l’incosciente figlio di Giovanni, abbandonarono la strada battuta per darsi in pasto alla foresta; così facendo contavano di seminare, o almeno stanziare, gli inseguitori tra la boscaglia.
Quando neppure la vegetazione ebbe più forma e tutto venne improvvisamente inghiottito da un piatto orizzonte nero, sul loro cammino si distese una spiaggia paludosa. I cavalli rallentarono ad un trotto scomposto: il fango depositato sotto agli zoccoli affaticava oltremodo i muscoli surriscaldati, impedendo di proseguire altrimenti; ma gli Apprendisti furono costretti a frenare i palafreni ugualmente, prima che essi, accecati dalla stanchezza, affondassero nella melma fino ai fianchi.
Davide si lasciò cadere sul collo dell’animale, sfinito, aggrappandosi alla criniera umida. Lagnò una preghiera con un filo di voce.
Pater Noster qui es in cælis / sanctificétur Nomen Tuum… …
Leone guardò Vittorio, che a sua volta guardava alle loro spalle respirando forte.
Niente poteva dire se le Guardie Papali fossero vicine o lontane: braccati e bracconieri vagavano entrambi al buio. Il contatto tra gli uni e gli altri si era spezzato nella foresta, come gli Assassini avevano sperato, ma adesso? Ancora qualche ora e i mastini di Cesare si sarebbero sparpagliati a pattugliare la foresta, e se non fosse stato sufficiente, avrebbero battuto l’intera penisola in una sola notte, se necessario. L’ardore e la determinazione militare delle Guardie Papali le avevano sempre distinte dai comuni convogli borgiani, Roma e tutta la sua corruzione facevano affidamento su quei tori corazzati. A ragion di logica, perciò, non se ne parlava di tornare indietro e combattere: la stanchezza e l’inferiorità numerica avrebbero giocato a loro svantaggio. I cavalli stremati e la mancata conoscenza del territorio – perché c’era da ammetterlo: nessuno degli Apprendisti aveva idea né quanto e né verso dove avessero viaggiato – stavano soffiando sull’ardore della loro resistenza. Dovevano inventarsi qualcosa e alla svelta, o sarebbero morti lì, nel fango, come vermi qualunque.
Advéniat Regnum Tuum / fiat volúntas Tua / sicut in cælo et in terra…
Cercando disperatamente un aiuto della natura attorno a sé, solo allora Vittorio notò un qualcosa che attirò la sua attenzione, nascosto nel canneto poco più avanti. Smontò dalla sella affondando nella melma fino alle ginocchia, ignorò il freddo e corse in quella direzione tirando il suo e il cavallo di Ezio con sé. Sotto lo sguardo sperduto di Davide e quello critico di Leone, Vittorio sfoderò la striscia e potò la vegetazione circostante, rivelando così che nessuna, neppure la più flebile speranza era stata vana.
Arenato sulla spiaggia paludosa, c’era un gozzo a vela latina protetto da un panno.
Quand’ebbe capito le intenzioni del compagno, Leone smontò da cavallo e arrancò con l’acqua alle ginocchia per raggiungerlo. Dimenticandosi del gelo che portava addosso, aiutò Vittorio a liberare l’imbarcazione di legno dal telo. A quel punto i due Apprendisti scoprirono con immensa gioia che la barca era in buone condizioni e grande abbastanza da ospitarli tutti quanti.
“Vuoi metterti a vela prima della tempesta?” domandò Leone al mastro arciere dopo un attimo di esitazione.
Vittorio guardò il compagno negli occhi come per chiedergli se avessero altra scelta, e quella risposta bastò.
Panem nostrum / cotidianum da nobis hódie…
Vi adagiarono per primo il Gran Maestro, e poi le bisacce con le munizioni che tolsero dalle selle.
Riconobbero la vela attorcigliata attorno al boma, ma decisero di non issarla. Piuttosto ringraziarono Dio per aver concesso loro almeno due remi, perché nessuno sarebbe stato capace di manovrare la barca altrimenti.
Non appena Davide fu a bordo, chinato sul Gran Maestro nella premura di controllarne il battito e il respiro, Leone ebbe l’ordine da Vittorio di radunare e poi disperdere i cavalli nella foresta. L’uomo con i calzettoni a righe annuì, rimontò sul suo destriero e sparì nel bosco tirandosi dietro gli altri. Così facendo, si disse Vittorio mentre Davide preparava disordinatamente i remi incastrandogli negli scalmi, avrebbero portato le Guardie Papali fuori strada e guadagnato tempo prezioso per allontanarsi dalla costa.
Et dimítte nobis débita nostra / sicut et nos / dimíttimus debitóribus nostris…
Leone riemerse di corsa dalla foresta e si precipitò ad aiutare Vittorio nelle fatiche di spingere il gozzo, con Davide e il Maestro a bordo, lontano dalla spiaggetta. Non appena lo scafo fu in acqua, i due Assassini continuarono a incalzare la barca fin quando non persero il contatto degli stivali con il fondo ciottoloso. A quel punto diedero un ultimo spintone e si arrampicarono sui bastimenti facendo attenzione a non cappottare l’imbarcazione. In fine, entrambi completamente zuppi e gocciolanti, presero posto in modo tale da bilanciare il peso.
Vittorio al timone di poppa, Davide ai remi sui banchi centrali, Leone alla vedetta di prua come una polena.
Per lunghi minuti regnò un silenzio innaturale.
Il gozzo scivolava cheto lontano dalla costa senza che ancora nessun remo fosse stato calato, la corrente e la spinta iniziale lo accompagnavano a largo con delicata premura.
Uscirono dalla palude e abbandonarono la baia che li aveva protetti dal vento, ora più prepotente. L’oscurità inghiottiva il paesaggio in un orizzonte infinito. Il cielo e le montagne, dopo una schiera di colline e picchi rocciosi, si confondevano l’uno con le altre dando l’illusione di una profondità ostile. L’acqua che li circondava era nera come l’inchiostro e pareva proprio che qualcuno ne avesse rovesciati interi barili.
Davide, in precario equilibrio e teso come un chiodo, cominciò a remare. Nervosamente, mancò l’acqua diverse volte palettando l’aria e riuscì a far rivoltare la barca di centottanta gradi. Lo stratega aveva gli occhi sgranati e tremava come se nell’acqua gelida per spingere il gozzo ci si fosse gettato lui. Era sconvolto, in guerra costante con la realtà e la malvagia sorte che stava piombando loro addosso dal Divino. Davide. Religiosissimo. È in momenti come questi che si dubita su cosa si ha creduto fino ad ora.
Leone, non sapendo se ridere o sbuffare, si allungò verso di lui con un’espressione eloquente e una mano tesa. Lo stratega s’irrigidì d’un tratto e fissò il compagno apprendista come fa il topo al cospetto del grosso micio buono. Ma in fine capì, acconsentì, si alzò barcollando e fece cambio di posto con l’altro. Leone sedé sul banco di mezzo e scaldò le braccia facendole roteare. Davide si accucciò sull’estrema prua e si strinse le ginocchia al petto. Osservò a lungo la naturalezza e la facilità con la quale Leone muoveva i remi in sincronia, prima di rimettersi a pregare a bassa voce.
Vittorio distolse lo sguardo dal panorama e lo puntò a terra, tra i suoi piedi. Proprio là giaceva il Gran Maestro degli Assassini, rannicchiato in posa fetale con il famoso lenzuolo attorcigliato tra le gambe e sul busto. Della semplice stoffa non sarebbe mai bastata per tenerlo caldo, soprattutto sconcia e rovinata come erano le vesti degli altri. Con amarezza, Vittorio si ritrovò a pensare che c’era andato vicino, la sera precedente, quando aveva immaginato l’utilizzo improprio di quel telo…
Una maliziosa goccia di pioggia gli scivolò sulla guancia come una lacrima; l’apprendista scacciò quegli orribili pensieri, ma era inutile cercare di concentrarsi su altro. Vedere il Gran Maestro in quello stato pietoso aveva mescolato molti sentimenti sui volti dei suoi Apprendisti. Un fragoroso pentimento dovuto all’abbandono incondizionato di Adriano, un malsano sconforto che offuscava oltremodo il loro futuro certo e incerto, ma sicuramente un qualcosa che si stava preparando a far vomitare via anche l’ultima stilla di umana speranza. I loro cuori stavano vacillando, cedendo alla tentazione di abbracciare la resa e tutti i benefici che essa poteva offrire: la pace e la serenità che questa vita terrena strappava agli uomini liberi.
E fu con un ultimo boato nel cielo nero che scese la pioggia.

Et ne nos indúcas in tentatiónem / sed líbera nos a malo. / Amen.








.: Angolo d’Autrice :.
Precisamente oggi, Assassin’s Creed Brotherhood compie un mese.
Ma ve li ricordate quei giorni infiniti che sembravano non passare mai? Quando ci domandavamo come avremmo vissuto, in che modo sarebbe cambiato il nostro tenore di vita dopo di lui. Contemporaneamente ci guardavamo avanti e indietro: prima chiedendoci come avessimo fatto a resistere per tutto quel tempo passato, e dopo immaginandoci in un futuro nebuloso e incerto, ancora tutto da scrivere.
E finalmente, eccoci. Perdonate l’assenza e lo spropositato ritardo, ma noi fans ci capiamo, vero?
Vorrei chiedervi a che punto della storia siete, prima di spoilerare quanto e cosa potrà combaciare tra la mia fan fiction e il gioco. Premetto solo che, poiché concepii Helleborus all’albore dei tempi, cercherò di attenermi fedelmente a quella che era la struttura vergine della fan fiction. I riferimenti al gioco, per tanto, saranno pochi, e quei pochi saranno unicamente casuali o storici, per intenderci.
Commento personale al capitolo:
Ho deciso di staccare questo e il successivo in due post differenti, causa motivi d’intreccio e di revisione. Sto aggiungendo e togliendo roba a non finire, niente va mai come vorresti, diceva qualcuno. Sei sempre lì a ritoccare, a puntualizzare dettagli inutili che, bhé, almeno secondo me, sono importanti. Poi non so… sarà questa mia influenza da regista che mi è presa ultimamente.
In tre parole: la grande fuga.
Prospettive per il futuro? Tanti capitoli da rileggere e aggiornare ogni qual volta la mia arte schizofrenica ne sentirà il bisogno. Prossimo aggiornamento previsto durante o dopo le vacanze di Natale.
Con schifoso anticipo,
Auguri di buone feste :)

*Le risposte ai recensori le pubblicherò attraverso il nuovo sistema introdotto da Erika*
Detto ciò, giriamo pagina e continuiamo le nostre vite come nulla fosse :)

EDIT 22/1/2011
Facendo affidamento sui consigli di micho, edito il capitolo VI inglobandovi il VII, revisionato e precedentemente a sé col nome de Interstitium.

.: Angolo d’Autrice :. (2)
Brevemente:
1. L’interstizio è la fessura (stretta o meno, a seconda della raffinatezza dell’opera) tra una tessera e l’altra di un mosaico :) Chi frequenta un qualsiasi anno di Liceo Artistico può confermarlo annuendo :D
2. A parte questo, wow, credo di non avere altro da aggiungere…
Se volete ulteriori spiegazioni o avete notato incoerenze, incomprensioni e quant’altro, segnalatemelo nei commenti. Provvederò rispondendo singolarmente e/o editando queste note per i prossimi lettori :)
Forse alcuni di voi avranno già sbirciato attraverso il collegamento tra il mio accaunt di EFP con quello di DeviantArt, ma eccovi in sede ufficiale alcuni bozzetti di mia mano, finalmente e dopo tanto tempo a marcire nella mia galleria aspettando di arrivare a postare questo capitolo, cui sono tratti :)

Davide
Leone
Vittorio
Ezio

E in più, una chicca per chi non resiste agli spoiler: una sbirciatina ai miei personaggi originali e un ulteriore rafforzamento della trama nel commento :D

Helleborus

Mi dileguo. A presto :)

   
 
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