A/N:
Scuse per il fortissimo ritardo, ho
promesso che non avrei mai abbandonato questa storia e non
l’ho fatto. E’ solo
che non ho avuto molto tempo per scrivere quest’anno e quando
ne ho avuto, la
mia musa è stata più generosa per le mie altre
storie. Ma eccoci qui. Non vi
posso promettere un capitolo la settimana, ma vi posso assicurare che
per il
prossimo non ci saranno tempi così lunghi… E
probabilmente dovrei darvi
un'indicazione sulla trama, per aiutarvi a decidere se vale l'attesa:
Questa sarà
una storia romantica tra Sinistra e Piton, ma con uno sguardo critico
al suo carattere. Il
suo personaggio è interamente
votato alla redenzione. A
questo punto, potreste ribattere
dicendo che ha pagato per i peccati della sua gioventù, ma
è ancora amaro,
crudele, emotivamente chiuso e terribile presuntuoso - qualcosa che
forse non è
del tutto colpa sua, ma non lo rende esattamente il candidato ideale
per essere
un marito premuroso. Quindi, riuscirà a cambiare da questo
punto di vista e
dove lo porterà un cambiamento del genere?
Ringrazio tutti quelli che la
stanno
ancora seguendo e in particolare chi mi ha spronato recensendo!
Buttandosi il
passato alle spalle
Il silenzio che regnava in quella
strada, completamente deserta e avvolta
dall’oscurità, fu infranto da un debole
schiocco. Se ci
fosse stato qualcuno lì intorno a
testimoniare l’evento, sarebbe rimasto decisamente turbato,
poiché con quello
schiocco, un uomo alto, dai lineamenti spigolosi, sembrò
comparire dal nulla.
Egli procedette verso l’ingresso di una casa con falcate
decise e con le lunghe
vesti nere, uscite da chissà quale film d’epoca,
che gli svolazzavano dietro.
I capelli neri gli
ricadevano retti sulle spalle,
incorniciando un volto scarno, che sarebbe stato sgradevole anche senza
l'espressione torva che vi era dipinta sopra.
Ma fortunatamente, non
c’erano molti
passanti in quella parte desolata della città. La
maggior parte delle proprietà sembrava abbandonata.
Erano modeste casette
Vittoriane a schiera, indistinguibili
l’una dall’altra se non per le porte verniciate di
colori diversi. Aleggiava
un'aria di trasandatezza su tutta la zona, aggravata dall'odore di
fogna intasata.
L'unico altro essere vivente nel raggio di miglia era una volpe
dall’aspetto
malaticcio, che fiutava speranzosa una confezione vuota di patatine
gettata nel
canale di scolo. La
presenza dello sconosciuto sembrò
impaurire la creatura, che abbandonò la
possibilità di cibarsi per trovare
rifugio in un cespuglio.
L'uomo dall’aria cupa
entrò in una
delle case, la cui porta non doveva essere stata chiusa,
poiché egli non si
premurò di fare uso delle chiavi. Dopo esservi sparito
all'interno, un debole
barlume tremolante comparve dietro le finestre.
La porta conduceva direttamente a
un
piccolo salotto, le cui pareti erano del tutto ricoperte da scaffali
pieni di
libri. La
luce fioca rivelò uno spesso strato
di polvere coprente ogni superficie e delle ripugnanti ragnatele appese
agli
angoli del soffitto. L'enigmatico
uomo era Severus Piton,
ultimo preside della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts e
– ancora egli
stesso ignaro – prossimo eroe del mondo magico britannico, un
mondo che egli aveva
appena abbandonato per sempre. Si mise davanti al camino, poggiando le
mani sul
frontale, con la testa incassata tra le spalle, a fissare le fiamme che
divoravano i grossi ceppi che vi erano accatastati dentro.
Odiava quel posto, anche se
tecnicamente
era casa sua. Era
piena di ricordi di un'infanzia
infelice, vissuta nella povertà e nell'emarginazione, a
guardare i suoi
genitori impegnati a rendersi la vita miserabile, e risentire in prima
persona del
fallimento del loro matrimonio. L'unico
motivo per il quale era andato lì, era che non aveva nessun
altro posto dove andare.
Ce l’aveva con
colei che l’aveva messo in quella situazione.
Perché non
l’aveva lasciato al suo destino? –Il destino di morire
sul campo di battaglia,
portando a compimento la sua ultima
missione, espiando i suoi peccati e allo stesso tempo ponendo fine alla
sua sventurata
vita? Perché
si era dovuta intromettere
nei suoi affari?
Amore… Non aveva veramente né
il tempo, né l'inclinazione, di avere
a che fare con la sconsiderata infatuazione di quella lì.
Era stato innamorato
soltanto una volta, e cosa ne aveva
ricavato? Soltanto dolore e umiliazione. Nel
corso degli anni, aveva imparato ad allontanare tali sentimenti e
apprezzava la
capacità di controllo che ciò gli aveva dato,
l’abilità di concentrarsi solo
sui suoi doveri e sui suoi interessi intellettuali. Sì, si era abbandonato
occasionalmente ai piaceri carnali,
ma questo certo non significava che avrebbe dovuto sopportare la
compagnia di
qualcuna dopo aver soddisfatto i suoi bisogni fisici, né mai
più si sarebbe
reso così vulnerabile.
Il suo stomaco brontolò,
ricordandogli gli altri inconvenienti dell’esser vivo.
Con uno sbuffo sprezzante,
si allontanò dal fuoco e sparì
attraverso una porticina incassata fra gli scaffali. La cucina era
ancora più
piccola e ancor meno invitante del salotto, poiché oltre
all’onnipresente
polvere e alle ragnatele c’erano pure sporcizia e odore di
muffa. Frugò
nelle dispense, i cui cardini cigolavano forte mentre apriva
e chiudeva le ante, ma trovò soltanto una pagnotta ammuffita
e un pacchetto di
biscotti che si sbriciolarono non appena li ebbe toccati. Per il
disgusto, il
suo volto si contorse in una smorfia. Avrebbe
potuto trasfigurare quella roba in qualcosa di più
appetitoso, ma di sicuro non
aveva così fame da ricorrere a misure così
disperate.
I suoi occhi ricaddero su una
polverosa
bottiglia di vetro verde lasciata fuori sul ripiano da lavoro davanti a
lui,
ancora piena per metà di liquido scuro. Quando
la stappò e ne fiutò l'apertura, il caldo e dolce
aroma di vino elfico sommerse
i suoi sensi. Dopo
un attimo d'esitazione, prese
un bicchiere da una delle credenze, scagliando un incantesimo pulente
prima di
riempirlo di vino vermiglio. Piton beveva
raramente. Nella
sua testa, era un’ignobile abitudine
che gli ricordava fin troppo suo padre. Ma
di certo, in quella situazione, sfuggito all’abbraccio della
morte per un
soffio, un bicchierino era giustificabile, o almeno così
pensava mentre lasciava
la cucina con la bevanda in mano.
Con un sospiro, si
lasciò sprofondare
sul misero, vecchio sofà davanti al camino. La
nube di polvere che si alzò dal tessuto liso sotto il suo
peso avrebbe indotto
quasi chiunque a starnutire ma, dopo essere stato esposto tutti quegli
anni ai
vapori delle pozioni, il suo naso era abituato anche a peggio.
Allungando le gambe, prese
un corposo sorso di vino, chiudendo
gli occhi mentre sentiva il liquido scivolare giù nella gola.
Sentì una
piacevole sensazione di calore irradiarsi dal suo
stomaco, che contribuì a scacciare il freddo mortale che gli
si era insinuato
nelle ossa.
Spesso si diceva che essere messo
davanti
alla propria mortalità facesse apprezzare maggiormente la
vita, ma Piton
sentiva solo un tedioso senso di vuoto. La
sua vita non era mai stata piacevole. Durante
la sua infanzia non aveva conosciuto altro che povertà e
umiliazione e poi, nella
sua gioventù, c’era stato un periodo in cui era
stato consumato dalla rabbia, dall’odio
e da una feroce ambizione, che l’avevano solo fatto
sprofondare in un abisso di
dolore, senso di colpa e disprezzo di se stesso, lasciandolo con un
debito che avrebbe
richiesto una vita per essere saldato. Ironicamente,
era stato proprio quel debito che per la maggior parte delle ultime due
decadi aveva
dato alla sua vita un senso, e ora che aveva adempiuto il suo ultimo
dovere, si
sentiva completamente perso. Nella sua vita non aveva niente per cui
valeva la
pena vivere. Non aveva mai provato felicità e dubitava che
sarebbe successo ora.
Il pensiero di poter
giungere alla veneranda età del suo
predecessore, Albus Silente, un’età per niente
inconsueta per un mago, accompagnato
unicamente dalla sua disillusione, bastava a tentarlo di puntarsi
contro la sua
stessa bacchetta. Ma sarebbe stato decisamente da codardi - e un
vigliacco era
l'ultima cosa che Piton aveva mai voluto essere.
Dopo aver bevuto il vino rimasto,
posò
il bicchiere sul traballante tavolino basso accanto a lui, dove rimase
in
equilibrio precario in cima a un’ altissima pila di libri.
Sebbene la bevanda avesse
di gran lunga contribuito ad alleviare i crampi del suo stomaco,
c’era ancora qualcosa
che lo infastidiva. Scorrendo le sue lunghe dita tra i capelli, li
trovò ancora
piuttosto appiccicosi e pregni dell’odore metallico del
sangue, a dispetto
dell’incantesimo pulente che aveva scagliato prima su di
sé. Era
uno dei suoi più grandi fastidi, che nessun incantesimo
inventato fino ad allora potesse fare concorrenza ad acqua e sapone
Babbano
quando si parlava d’igiene personale. Mentre
molti maghi e streghe godevano nel farsi lunghi bagni caldi tanto
quanto i
Babbani – e l’enorme quantità di ricette
per essenze da bagno magiche ne era la
prova - Piton avrebbe felicemente fatto a meno della
necessità di immergersi in
acqua una volta ogni tanto. Rassegnandosi
al fatto che, in quella situazione, sarebbe stato inevitabile, decise
quantomeno di togliersi il pensiero il prima possibile. E così, fu con crescente
terrore che si alzò dal sofà e salì
le scale verso il bagno.
La piccola stanza si presentava
triste
esattamente come la ricordava, con le sue sudice mattonelle rotte, la
vasca da bagno
arrugginita e l’infisso dell’unica finestra
presente del tutto marcio. L'unica cosa che si poteva prendere
era lo specchio sopra al
lavabo, che da tempo non rifletteva più e che dunque aveva
la decenza di non
ricordargli quanto la natura non fosse stata generosa con lui per
quanto
riguardava l'aspetto fisico.
Fece Evanescere quella che sembrava
una fila di escrementi di topo dal fondo della vasca e girò
le manopole
dell’acqua. Cigolarono
e gorgogliarono
miseramente, come se volessero protestare per esser state maneggiate in
quel
modo, ma non vi uscì comunque nulla. Poiché
Piton era un mago, tuttavia, mormorò appena un incantesimo
per risolvere il
problema.
Disfece i molti bottoni dei suoi
vestiti con dita pratiche, liberandosi strato dopo strato degli
indumenti,
prima di entrare cautamente nella vasca. La
sensazione dell'acqua calda non era del tutto sgradevole e, sebbene la
vasca fosse
troppo piccola per distendere completamente le lunghe gambe,
contribuì
notevolmente a ridargli le forze. L'obiettivo
principale di quel teatrino, tuttavia, era lavarsi i capelli.
Su un piccolo sgabello di
legno a fianco della vasca c’era una
tazza scheggiata, che era sempre stata utilizzata per quello scopo. La
prese e
cominciò a versarsi l'acqua sopra la testa finché
la massa nera dei suoi
capelli non fu del tutto zuppa. Dopodiché usò un
pezzo di sapone grigio e
dall’aspetto poco invitante, preso dallo stesso sgabello, per
fare un po’ di
schiuma. Il suo odore inconsistente e asettico era terribilmente
familiare, e
lo portò indietro a un tempo di cui non ricordava neppure di
avere memoria.
“Severus!
Guardati, sei
tutto sporco! Veloce! Entra nella vasca! Tuo padre
sarà a casa da un momento
all’altro…”
Il ragazzino dai capelli scuri
voleva protestare. Aveva fame
e avrebbe preferito cenare prima, ma uno sguardo a sua madre gli disse
che
qualsiasi forma di resistenza sarebbe stata inutile.
E così
la seguì fino al bagno e la guardò mentre
riempiva la
vasca.
“Che cosa stai
aspettando? Togliti i
vestiti e salta dentro!”
Mentre obbediva, la
guardò pulire i
suoi vestiti appena levati con la sua bacchetta, domandandosi
perché non poteva
fare lo stesso con lui, se lo stava facendo solo per punirlo e se
sapeva che
era stato ancora giù al fiume, dove gli era proibito giocare.
Odiava farsi il
bagno, soprattutto farsi lavare i capelli, specialmente
perché sua madre era sempre di fretta, e non stava attenta a
non fargli andare
il sapone negli occhi né faceva sforzo alcuno per essere
delicata.
Mentre era seduto nella vasca,
sopportando stoicamente quell’ardua prova con gli occhi
serrati, la porta venne
improvvisamente spalancata e sua madre, che stava sfregando
vigorosamente la
sua testa, gelò sul posto. Severus
aprì un po’ gli occhi, malgrado il pericolo che
sapone li facesse bruciare.
Suo padre era
davanti alla porta e
aveva uno sguardo indefinibile, strano. Emanava lo stesso odore
disgustoso che diceva
sempre a Severus di tenersi alla larga da lui. Ma ora era intrappolato
nella
vasca. E vedeva che sua madre era spaventata.
“Eccoti qui, puttana, a
nasconderti
da me,” farfugliò
suo padre.
“Per favore, Tobias, non
ora, il
bambino… “lo supplicò.
Ma suo padre non sembrava averla
sentita
affatto. Le afferrò il braccio e la strattonò per
farla alzare da dov’era inginocchiata
accanto alla vasca, spingendola fuori dal bagno. La donna rivolse al
figlio un
ultimo sguardo carico di panico da sopra la spalla.
“Severus, finisci di
lavarti, va
bene?”
La sua voce tremava e stonava
proprio con quello che aveva appena detto. Un momento dopo,
sentì sbattere la
porta della stanza attigua, la camera da letto dei suoi genitori,
quindi un
tonfo, un grido represso, uno schiaffo e un altro ancora. Poi sembrava
che sua
madre stesse gemendo e sentì degli strani rumori, come se
qualcuno stesse
ansimando. Si ficcò le dita nelle orecchie, non voleva
sentire. Aveva paura. Non
sapeva esattamente di cosa aveva paura, ma capiva che c’era
qualcosa che non
andava. La schiuma gli stava colando giù sulla faccia e
dovette strizzare gli
occhi perché questa non li facesse bruciare. Rimase
lì seduto, circondato
dall’oscurità e dal suono del suo stesso sangue
che gli rombava nelle orecchie,
sentendo solo l'odore tagliente del sapone e l'acqua che diventava
sempre più
fredda. Cominciò a tremare, sperando che sua madre
ritornasse per farlo uscire
dalla vasca, ma lei non venne.
Alla fine si rese conto che avrebbe
dovuto passare la notte nell'acqua fredda, se non si fosse riscosso e
si fosse
preso cura da solo di se stesso. Piegandosi, provò a
immergere la testa sotto
l'acqua, sfregando le mani sul viso e sui capelli per lavare via il
sapone. Finalmente
poté aprire di nuovo gli occhi. Uscì dalla vasca
con i denti che battevano e si
asciugò con il vecchio asciugamano ruvido di famiglia, prima
di scivolare nuovamente
dentro i suoi vestiti che si trovavano ancora a terra accanto alla
vasca,
adesso freschi di bucato.
La casa era scura e silenziosa
mentre scendeva le scale in punta di piedi verso la cucina.
Il suo stomaco era
ora così vuoto da quasi dolere.
Alla tavola della
cucina c’era
seduta sua madre, con la testa tra le mani. Sembrava triste, ma non riusciva a
capire se stesse piangendo.
Quando lo
sentì avvicinare, sollevò
lo sguardo e sorrise, un sorriso che non sembrava felice come invece
avrebbe
dovuto. Severus voleva chiederle se andava
tutto bene, ma non sapeva come prendere l’argomento.
“Severus, è
ora di cena,” gli disse
cinguettando, come se niente fosse accaduto, continuando ad aprire e
chiudere
gli sportelli della credenza, recuperando un piatto e un po’
di pane, mentre
lui si sedeva.
Quando infine gli mise davanti al
suo pasto, Severus era quasi eccitato. Era
meglio del solito, poiché il consueto pane raffermo era
accompagnato da un
pezzo di formaggio e c’era persino una mela. Sua madre lo
guardò mentre trangugiava affamato
il cibo. Si domandò se questo trattamento fosse un segno di
amore, ma lo sguardo
di sua madre era triste e non ne poteva essere tanto sicuro.
“Adesso fila
a letto, tu,” disse non appena ebbe finito.
Voleva darle
l’abbraccio della buonanotte, ma gli sembrava così
distante, e non sapeva se fosse
una buona idea. Così invece, salì riluttante le
scale senza dire una parola,
strisciò nel suo letto e si tirò le coperte fin
sopra
le orecchie.
La luce fioca dell'alba stava
già
filtrando attraverso il vetro sporco dell’unica finestra
presente quando
Severus Piton riemerse dal quel cupo ricordo. Erano anni che non
pensava a sua
madre. Non sapeva bene cosa provasse per lei. Certo, pensava che fosse
sua, in
gran parte, la colpa dell’infelicità che aveva
provato quand’era bambino - sua
e di quell’ubriacone di marito che si era
scelta - ma allo stesso tempo lei stessa era stata una vittima e
innamorarsi
dell’uomo sbagliato sembrava essere un tipico errore della
maggior parte delle
donne. Ricordandosi
l’ultimo esempio di una
tale stupidità con il viso corrucciato, uscì
dalla vasca e si scagliò addosso
un incantesimo asciugante.
Mentre si vestiva, si rese conto di
avere un piccolo oggetto arrotondato nel taschino dei suoi abiti.
Lo prese e quando vide cosa
era, il suo ghigno diventò
ancora più cupo. Felix Felicis - o fortuna liquida, come veniva
chiamata, era una pozione che
Piton si divertiva a fabbricare per la sfida che essa rappresentava, ma
non si
sarebbe mai sognato di usarla, tranne forse in circostanze disperate.
Non aveva mai contato sulla
fortuna ed era una buona cosa,
perché non ne aveva mai avuto. Solo gli
stupidi credevano nella fortuna. Lui,
invece, aveva realizzato tutto nella vita contando sulla propria
abilità, intelligenza
e duro lavoro. A
partire dalle circostanze più
sfavorevoli, era riuscito persino a ricoprire la carica di Preside di
Hogwarts,
una posizione di cui andava più fiero di quanto volesse
ammettere. Il
suo ritratto avrebbe raggiunto quelli dei più grandi
nell'ufficio del Preside, in cui sarebbe stato per sempre ricordato e
rispettato, se non fosse stato per quella sciocca malata d'amore alla
quale doveva
la piccola bottiglia in suo possesso.
Si voltò bruscamente,
estraendo la bacchetta
per far sparire l'acqua dalla vasca insieme alla pozione. Ma quello che vide lo
gelò sul posto. Era possibile che ci fosse stato
ancora così tanto sangue
nei suoi capelli? L'acqua
era rossa.
L'acqua era rossa.
Era sangue,
c’era sangue dappertutto, strisciato sulle
mattonelle, gocciolato sul pavimento. Un
momento prima, cercava sua madre per le stanze silenziose di casa sua,
desideroso di comunicarle i risultati dei suoi MAGO.
Sette MAGO, tutti
Eccezionale, tranne che per un’O in Antiche
Rune, avrebbero veramente reso lei e la sua Casa fiere.
Ma la persona che
stava cercando era dentro la vasca, senza
vita, con la testa reclinata e i capelli che ricadevano come una
cascata nera sul
pavimento.
No. Non
un altro viaggio nei suoi ricordi. Ricacciò indietro quelle
immagini sgradite,
ma si sentì male quasi fisicamente ed era veramente felice
che il suo stomaco fosse
vuoto. Doveva
andarsene. Non
sopportava di stare in quella casa un momento di più.
Scese velocemente le scale per
l’ultima volta. La porta principale si richiuse dietro di lui
con un tonfo
mentre si allontanava in la strada con lunghe falcate. All'esterno, era
sopraggiunto il nuovo giorno, l'aria era fredda e tonificante e il sole
faceva
capolino all’orizzonte al di sopra della fabbrica
abbandonata. Era una mattina
gloriosa, ma Piton non aveva lo spirito per godersela. Era arrabbiato. La
sua intera vita era stata un macello e tutto era cominciato da
lì - nato in
povertà, trascurato e maltrattato dai suoi stessi genitori,
evitato dai suoi arroganti
parenti maghi, preso costantemente in giro e umiliato dai suoi compagni
di
Hogwarts, ignorato dal suo Capocasa e dagli insegnanti malgrado i suoi
ottimi
voti – doveva sorprendere che fosse stato attirato dalle
uniche persone che riconoscevano
i suoi meriti? Le
uniche da cui si sarebbe dovuto
tenere alla larga? Anche
dopo aver voltato le spalle al
lato Oscuro, era stato soltanto usato e manipolato stato dai suoi
cosiddetti
alleati, non ricevendo altro se non disprezzo e ingratitudine da quelli
per la
cui protezione aveva rischiato la vita. Aveva
sempre saputo che la vita non era giusta, ma era come se l'intero mondo
avesse
cospirato contro di lui ed era stanco, stanco di pescare sempre il
bastoncino
più corto*. Lasciò che la sua rabbia prendesse il
sopravvento, sommergendo
tutti i suoi sensi, concentrandosi e amplificandosi attraverso il suo
braccio
teso verso la sua bacchetta. Quando la rilasciò, ci fu
un’esplosione vigorosa
che fece tremare la terra sotto i suoi piedi. I mattoni e gli altri
materiali
usati per fabbricare casa sua non potevano reggere una tale forza
magica, un
così rabbioso potere. Vennero distrutti, scagliati in aria
da un'esplosione che
poteva essere sentita anche a miglia di distanza.
Mentre la polvere si depositava,
Piton rimase fermo, immobile, a fissare le rovine della sua casa
d'infanzia con
un’improvvisa sensazione di calma. Questa
volta, tutto sarebbe stato diverso. Aveva
ancora un asso nella manica. E che fosse proprio lui il produttore
della
pozione non lo rendeva forse l'architetto della sua stessa fortuna?
Quel pensiero, da solo,
sembrava rendere il suo impiego più accettabile.
All’orizzonte,
sentiva le sirene dei vigili del fuoco
Babbani in avvicinamento. Stavano
venendo a causa dell’esplosione, e non voleva dar loro
l'occasione d’interrogarlo.
Con una rinnovata
risoluzione, stappò la boccetta a sua
portata, ne deglutì il contenuto, e sparì nel
nulla con un debole schiocco.
A/N: Ancora interessati?
Ritagliatevi un momento per
recensire e farmi sapere che ne pensare, per favore!
Potrebbe pure servire per farmi scrivere più veloce!
*Si
allude
a un tipo di conta. Si mettono dei bastoncini (o fili di paglia) in
mano, e chi
pesca il più corto, perde. Qui è usato come
metafora per la sfortuna.