Capitolo XXIV
Scesi lentamente dalla macchina,
cercando di recuperare un paio di
minuti per riprendere il controllo e per capire che genere di
comportamento
avrei dovuto sfoggiare una volta sola con lui a cena. C’era
una fastidiosa
vocina, nella mia mente, che mi stava spingendo a mettere da parte ogni
traccia
di lucidità per poter saltare addosso ad Enrico senza alcuna
remora, ma grazie
al Cielo il mio autocontrollo poteva reggere ancora abbastanza a lungo
per
evitarmi una così misera figura. Dio,
il
suo bacio mi aveva destabilizzato sin troppo.
Approfittai del fatto che mi stava
dando le spalle per armeggiare
con la chiave nella serratura della porta d’ingresso per
farmi scivolare
discretamente la lingua sulle labbra alla ricerca del suo sapore, e mi
coprii
la bocca con la mano, sconvolta, quando compresi ciò che
stavo davvero facendo.
Mio Dio. Bastava così
poco per farmi
capitolare? Mi ero venduta per un bacio?
E – maledizione
– che cosa stavo
pensando? Mi aveva baciato, mi era piaciuto: punto. Non aveva senso
rimuginarci
ancora, in fondo un bacio non sanciva proprio niente, e il fatto che mi
fosse
piaciuto il sapore della sua lingua, della sua bocca, non voleva
significare
che mi sarebbe piaciuto baciarlo in eterno, fino a perdere la
sensibilità delle
mie labbra, fino a gemere e…
“Giulia? Non vuoi
entrare?”
La sua voce gentile e vagamente
maliziosa mi riscosse da
quell’odioso torpore nel quale sembravo cadere ogni volta che
Enrico mi era
troppo vicino. Ritornai bruscamente alla realtà, fissandolo
come se gli fosse
spuntata improvvisamente una seconda testa e arrossendo violentemente
nell’associarlo ai pensieri poco ortodossi che stavo avendo
su di lui. Dannazione a me e ai miei
maledetti ormoni
impazziti!
“Ah, ehm, sì,
certo”, balbettai confusa, raggiungendolo e
sforzandomi di non guardarlo direttamente negli occhi. Lo superai ed
entrai in
casa, facendo qualche passo in avanti al buio per non sentire il suo
bel
profumo troppo intorno a me. Non stavo bene, no, non stavo per niente
bene, e
la prospettiva di dover trascorrere l’intera serata, da sola,
con lui, non contribuiva minimamente
a
rendere stabile la mia già precaria sanità
mentale. Chissà, forse aveva ragione
Alessandra: se ci fossi andata a letto da subito, togliendomi il
pensiero, non
mi avrebbe fatto tutto quell’effetto il rimanere con lui
– sarebbe stato come
togliere un dente troppo fastidioso, no?… Oh diavolo,
Giulia, ritorna in te!
“C’è
qualcosa che non va?” Chiese Enrico con aria preoccupata,
raggiungendomi e passandomi un braccio intorno alle spalle.
“Ti vedo strana…”
Troppo
vicino, troppo
vicino, era decisamente troppo vicino…
Cercando di non sembrare maleducata mi
costrinsi a sorridere
condiscendente, sgusciando via con eleganza dalla sua stretta
improvvisa. “No,
tranquillo”, riuscii a rispondere, sembrando normale ma senza
riuscire a celare
l’imbarazzo. “Ecco, non vorrei che…
Stessimo correndo un po’ troppo, sai…”
“Uhm”. Si
portò pensieroso un dito sul mento, tamburellandolo con
finta perplessità senza mai smettere di fissarmi.
“Hai paura di desiderarmi
troppo, forse?”
Se non ero arrossita prima, ora ero
certa di aver assunto il
colore di un bel pomodoro maturo – volendo tralasciare la
spiacevole sensazione
di essere finita con le proverbiali spalle al muro. Comunque, non
potevo di
certo dirgli “No, sai, ho solo paura
di
frequentare una specie di mafioso, cosa vuoi che sia!”,
sarebbe stato poco
carino da parte mia e a dir poco fuori luogo. Senza contare che io non
ero
certa che Enrico fosse a conoscenza di tutto quello che io sapevo di
lui – Cielo, è piuttosto
complicato – voglio
dire, non credevo che sapesse che la sua vita privata e criminale non
mi era
per niente estranea, e di conseguenza avevo abbastanza paura di espormi
troppo.
Potevo anche affezionarmi al ragazzo, certo, ma chi diceva che potevo
anche
accettare l’Occhi Belli?
“Sarebbe meglio se adesso ci
occupassimo solo della cena”,
mormorai, senza rispondere alla sua domanda e distogliendo lo sguardo
da lui,
troppo pensierosa e preoccupata per poter stare al passo con le sue
allusioni
maliziose.
Lo sentii sospirare e poi
annuì, accendendo finalmente le luci del
corridoio e facendomi strada verso la cucina: benché ci
fossi già stata non mi
ricordavo minimamente dell’interno della casa, forse
perché l’ultima volta ero
troppo impegnata a far sì che Riccardo ed Enrico non si
uccidessero con me e la
mia migliore amica presenti. Ad ogni modo ora che potevo osservarla
meglio mi
accorsi che doveva essere piuttosto vecchia come casa, sia a giudicare
dagli
arredamenti che dal modo in cui erano disposte le varie stanze: beh
certo, non
potevo davvero credere che fosse proprio casa sua, sicuramente
apparteneva ai
genitori o ai nonni e lui la sfruttava durante l’estate con i
suoi amici o
quando voleva stare da solo. O, per stare
al racconto di Riccardo, per quando organizzava i suoi
‘incontri d’affari’…
Cercai di seppellire quegli spiacevoli
pensieri in un angolino
della mia mente, perché non contribuivano minimamente a
mettermi a mio agio e,
al contrario, non facevano che farmi venire ansia. Okay, non credevo
davvero
che Enrico mi avesse portato fin lì per violentarmi e poi
uccidermi, però il
fatto di essere a conoscenza di determinati fatti non mi
tranquillizzava per
niente. Gli avrei dovuto chiedere di
farmi vedere la pistola, forse?
Finalmente Enrico si fermò
davanti ad una porta e la aprì, accendendo
le luci prima di farmi cenno di entrare per prima, da vero gentiluomo.
Accennai
un sorriso e varcai la soglia, riconoscendo subito la cucina dove
avevamo fatto
colazione la mattina dopo il mio ‘famoso’
rapimento: il fatto di trovare
familiare quella stanza mi fece riprendere a respirare normalmente, e
ostentando una calma che non avevo posai la borsa sulla sedia e mi
guardai
intorno come per abituarmi all’ambiente.
“Sei silenziosa”,
ripeté Enrico, per la seconda volta nella stessa
sera. Mi voltai per vedere che si stava avvicinando ai fornelli per
preparare
la cena – non credevo che l’avesse fatto davvero,
chissà perché mi ero convinta
che avesse uno stuolo di cuochi e camerieri – e mi morsi
leggermente il labbro,
imbarazzata.
“Mi dispiace”,
ribattei sinceramente, avvicinandomi e sedendomi su
uno degli sgabelli che circondavano la penisola di quella che era una
cucina
estremamente moderna. “È solo che non so come
comportarmi…” Mormorai subito
dopo, decidendo di essere onesta fino in fondo.
Lo vidi voltarsi e inarcare perplesso
un sopracciglio, come se non
avesse capito a cosa mi stavo riferendo – e, se davvero
credeva che io fossi
all’oscuro dei suoi traffici criminali, allora non potevo
biasimarlo: forse
pensava che io non volessi frequentarlo solo per sentito dire,
perché il nome
della sua famiglia aveva una certa fama, e non che dietro la mia
ostinazione ci
fosse il racconto dettagliato di Riccardo. Così decisi una
volta per tutte di
smetterla di fingere che fosse un ragazzo normale
e di rivelargli davvero ciò che temevo, convinta
così di riuscire a spiegargli
le mie reticenze.
“Cosa vuol dire che non sai
come comportarti?” Domandò, senza
smettere di trafficare con alcune pentole che stava tirando fuori da
uno
sportello. “È solo una cena, Giulia, non mi sembra
di averti chiesto chissà che
cosa…”
Con un sospiro trattenuto a stento mi
alzai e lo raggiunsi,
prendendogli una pentola dalle mani e, probabilmente, sorprendendolo
per la mia
spontanea decisione di avvicinarmi a lui; in realtà era un
modo come un altro
per prendere tempo e riflettere su quello che avrei dovuto dirgli senza
rischiare di farlo arrabbiare. “Dobbiamo fare la
pasta?” Chiesi, senza
guardarlo.
“Sì”,
disse soltanto, aspettando sicuramente che io dicessi
qualcosa di più interessante. Mi avvicinai al lavandino e
riempii la pentola
con l’acqua del rubinetto, dopodiché la misi sul
fornello e accesi il gas, il
tutto senza dire una sola parola ma continuando a sentire il suo
sguardo
bruciante sulla schiena. Non sapevo da dove iniziare, ma ero certa che
avrei
parlato di più senza osare guardarlo in faccia.
Così, continuando a fissare la
pentola come se il mio sguardo avesse potuto accelerare il processo di
ebollizione dell’acqua, lo dissi.
“So di che cosa ti occupi,
Enrico”, mormorai, stringendo le mani
al bordo di marmo della cucina. “Ed è per questo
che non ho la più pallida idea
di come comportarmi. È per questo che ho paura”.
Bene, il danno era fatto –
o, per essere più poetici, il dado
è stato tratto. Adesso che
quelle parole erano riuscite a prendere il volo – adesso che
sembravano
gravitare, pesanti come macigni, nell’aria intorno a noi
– mi sentivo
improvvisamente meglio, più leggera, come se da quel momento
in poi sarebbe
stato tutto più facile. Dovevo soltanto aspettare che la
bomba esplodesse – oh,
pardon, che Enrico dicesse qualcosa. Perché si presumeva che
qualcosa la
dovesse dire, no? Non poteva rimanere in silenzio, vero?
Il punto era che neppure io sapevo che
cosa volevo o non volevo
sentirmi dire.
“Da quanto tempo lo
sai?” Eccole le prime parole dopo il lancio
del missile, venute fuori con un tono all’apparenza piatto e
neutro. Mi stava
tendendo qualche trappola?
“Non avrei dovuto
saperlo?” Replicai invece con un’altra domanda,
cercando di mantenere un tono pacato.
“Rispondi, Giulia. Da quanto
tempo lo sai?” E quella fu
probabilmente l’inflessione che non avrei mai voluto sentire
da lui, perlomeno
non rivolta a me; un brivido mi corse lungo la schiena –
ansia? paura? – e
socchiusi gli occhi, cercando di ignorare quello che sembrava soltanto
un’intimazione velata dalla rabbia.
Sospirai, continuando a dargli le
spalle. “Da quando Riccardo è
venuto a prendermi qui, il giorno dopo che mi hai fatto…
beh, rapire.” Era
strano dirlo ad alta voce, sembrava quasi di parlare di un sogno
talmente
vecchio e strano da non poter far parte in nessun modo della vita reale.
Enrico comunque non rispose subito,
come se stesse soppesando la
mia ammissione. Avevo detto qualcosa di sbagliato? Adesso sarebbe
risalito a
Riccardo, avrebbe scoperto che è stato lui a raccontare ogni
cosa a me e ad
Alessandra, avrebbe cercato di fargliela pagare? O forse era solo la
mia
fantasia che galoppava più in fretta di quanto fosse
possibile starle al passo?
Quasi non mi accorsi che le dita delle mie mani erano diventate bianche
e
insensibili a furia di stringere il bordo di marmo.
Quando riprese la parola, la sua voce
mi fece sobbalzare dalla
sorpresa, per quanto il suo cambiamento fu drastico e improvviso.
“Quindi
sapevi ogni cosa ieri sera, quando ci siamo baciati per la prima
volta”,
decretò con un tono basso e suo malgrado sensuale, facendomi
arrossire.
Possibile che si finisse sempre a parlare della stessa cosa? Non gli
importava
che io fossi a conoscenza di tutti i suoi affari illegali?
Mi voltai per fronteggiarlo, decidendo
che, se aveva tirato fuori
quell’argomento, allora non avevo poi molto da temere.
“Che cosa significa
questo, adesso?” Sbottai, incrociando le braccia. Preferivo
volgere l’imbarazzo
in irritazione, era senza dubbio una reazione migliore.
Mi sorprese ancora di più
il fatto di vederlo sorridere in un modo
quasi compiaciuto e soddisfatto, come se avesse appena realizzato di
avermi in
pugno e ne fosse assolutamente contento. Non si avvicinò,
rimanendo nel suo
lato della cucina, ma questa mi sembrò improvvisamente troppo piccola.
“Significa che, se mi hai
baciato malgrado conoscessi questi… retroscena…
Vuol dire che ho ancora
qualche speranza, e che probabilmente ti piaccio almeno un
po’”, dichiarò con
quella voce provocante, incatenandomi con il suo sguardo intenso.
Mi ritrovai a schiarirmi la voce e a
scuotere il capo, cercando di
scacciare quell’odioso
senso di
imbarazzo – che diavolo, perché il mio corpo non
mi dava retta e si comportava
in modo più maturo? “È questa
l’unica cosa importante, per te?” Sbottai,
muovendo stizzita una mano per aria. “Il fatto che ti abbia
baciato – no,
aspetta, che tu mi abbia baciato?
Non
ti importa che io sia a conoscenza dei tuoi loschi traffici?”
Scrollò le spalle in un
modo che poteva significare tutto o
niente, sempre senza smettere di fissarmi. “Certo che mi
importa, ma avevo già
fatto i conti al riguardo. Avrei voluto essere io a dirtelo, in modo da
poterti
tranquillizzare, ma visto che già lo sai possiamo
direttamente passare oltre e
non perdere troppo tempo a rimuginarci su…”
Forse
stavamo parlando di
due cose diverse,
mi ritrovai a pensare, allibita. Come
faceva a stare così tranquillo? Si trattava di cose che
facevano parte della
sua quotidianità al punto da non ritenerle neppure
abbastanza importanti da
parlarne con me? Non so perché la cosa mi stava dando tutto
quel fastidio –
forse perché ritenevo di dover come minimo essere informata
di quello che
faceva, visto che voleva anche me nella sua vita – la cosa
certa, comunque, era
che volevo saperne di più in modo da poter dormire sonni
tranquilli. Non mi
sembrava di chiedere molto in fondo, no?
“Non ci stiamo capendo,
Enrico”, replicai infatti, aggrottando le
sopracciglia. “Okay, ci siamo baciati, ma questo non vuol
dire che io non sia
terrorizzata da quello che fai tu quando sei da solo o con i tuoi amici. Anzi. Ieri sera è stato
inevitabile e sono d’accordo, anche io lo volevo,
ma… Accidenti, non puoi
davvero pensare che un misero bacio mi possa far dimenticare con chi ho
a che
fare! In qualsiasi modo si evolverà questa storia, sappi che
io non posso stare
insieme ad un delinquente”, dissi infine, riuscendo a
chiamarlo con l’aggettivo
che gli competeva.
Il sorriso era finalmente scomparso
dal suo volto, e adesso mi
guardava con serietà e senza più molta voglia di
scherzare. Per un attimo
temetti di aver detto troppo, ma alla fine mi sentivo meglio per essere
riuscita a sfogarmi e dirgli ciò che pensavo, quindi
qualunque fosse la sua
reazione non avrei avuto nessun rammarico, se non altro. Magra
consolazione.
“Quello che faccio non ha
niente a che vedere con noi”, replicò
con calma a voce bassa, come se stesse tentando di convincermi.
“Oh sì,
invece!” Ribattei, interrompendolo. “Rischi
costantemente
la vita, credi che non lo sappia? Come potrei frequentarti sapendo che
domani
potresti essere in prigione o in cimitero?”
Forse la
stavo facendo
troppo drastica, ma se lui non capiva la gravità della
situazione allora
gliel’avrei mostrata io. Doveva esserci dentro da
molto – forse da più tempo di quanto aveva detto
Riccardo – se per lui tutto
ciò non rappresentava quel grosso problema.
Lo vidi inarcare un sopracciglio e per
un attimo le sue labbra si
piegarono nell’accenno di un sorriso. “Sei
preoccupata per me?” Chiese,
sicuramente con l’intento di provocarmi.
Per tutta risposta roteai gli occhi,
spazientita. “Mi sembra
evidente!” Replicai, sorprendendolo. Beh, era ovvio che mi
preoccupassi, in
quegli ultimi due mesi avevo trascorso più tempo con lui che
con la mia amica,
e anche se il nostro rapporto non fosse mai andato più oltre
di così – cosa di
cui ero fermamente convinta – io mi ero affezionata,
perlomeno come amico.
Scosse leggermente il capo e
sospirò, come se non sapesse bene che
cosa dire. “Senti, non hai nessun motivo di preoccuparti:
è la mia vita, ci
sono abituato, e so come gestire determinate situazioni”,
esordì, parlando con
un tono pacato e tranquillo. “Non devi temere per la mia
vita, né tantomeno per
la tua: ti terrò fuori da quello che di pericoloso
c’è nei miei… affari,
come li hai definiti, e noi
potremo continuare a frequentarci come due persone normali. Davvero,
non c’è
niente di cui aver paura.”
“Questo lo dici
tu”, ribattei a bassa voce, per niente convinta.
Poi sospirai, decidendo che era meglio se per il momento cambiavamo
argomento.
“Dov’è la pasta?”
Sembrò preso alla
sprovvista, ma durò solo un attimo. “Nello
sportello in alto a destra”, disse, indicando un punto della
cucina al mio
fianco. Mi voltai e lo aprii, iniziando a frugare: se mi dedicavo a
piccole
azioni normali come cucinare, forse sarei riuscita a gestire meglio
l’intera
serata. Dovevo incrociare le dita.
Presi un pacco di spaghetti e richiusi
lo sportello, mettendo il
sale nell’acqua che ormai bolliva e attendendo un altro
minuto prima di gettare
la pasta; dietro di me sentivo il rumore di un coltello che
tamburellava sul
tagliere, e osai voltarmi leggermente per vedere che cosa stesse
facendo.
Sembrava strano vederlo tagliare l’insalata, ma alla fine
dovetti ricordare
che, malgrado tutto, era pur sempre un essere umano come tutti gli
altri poveri
mortali, e non aveva senso metterlo in chissà quale
piedistallo solo perché io
ne ero spaventata e attratta allo stesso tempo in modo piuttosto folle.
Potevo accettare di desiderarlo
fisicamente, era una cosa alquanto
normale visto che sembrava emanare sensualità come una
lampadina emanava luce; ma
perché la mia parte razionale non prendeva a schiaffi
l’istinto, rimandandolo
nella tana da dove era uscito? Enrico era pericoloso, questo era un
dato di
fatto: e non perché avrebbe potuto farmi del male
– a quel punto questa era
un’eventualità che non prendevo neanche in
considerazione – ma perché se mi ci
fossi legata troppo, così come avrebbe voluto lui, avrei
rischiato di soffrire
immensamente. Non sarebbe stato un rapporto sano, ecco, e non ero certa
di
volerlo.
“Parlami, Giulia, non
chiuderti nei tuoi pensieri.” La sua voce mi
giunse da un punto indefinito accanto al mio collo, facendomi
sobbalzare, e
quando mi voltai mi accorsi che mi era alle spalle, decisamente
troppo vicino.
Ed era anche decisamente
troppo bello. Anzi, era decisamente
troppo tutto, e io continuavo a non capire perché
si fosse fissato così
tanto su di me; ma quello, a quanto pareva, era destinato a rimanere un
mistero, e visto che risolverlo non avrebbe cambiato la situazione
attuale,
decisi di sorvolare.
“Dovresti avvisare prima di
spuntarmi all’improvviso da dietro le
spalle”, replicai senza rispondergli, sgusciando via da
quella posizione e
raggiungendo il frigorifero. “Dov’è il
sugo?” Chiesi, controllando tra gli
scaffali del frigo: c’era davvero parecchia roba, sicuramente
lui e i suoi
amici ci trascorrevano più tempo di quanto avessi immaginato
in quella casa…
Ah, già, dimenticavo: doveva essere il loro quartier
generale.
“Non cambiare
discorso”, ribatté lui, incrociando le braccia e
poggiandosi alla credenza.
Scrollai le spalle con disinteresse.
“Credevo che il discorso
fosse finito”, risposi, prendendo il vasetto del
ragù e richiudendo il
frigorifero.
“Il discorso sarà
finito quando non ci sarà più nulla da dire, e
non mi sembra sia questo il caso”, replicò deciso,
seguendo i miei movimenti
con lo sguardo senza distrarsi nemmeno per un istante.
Sospirai, aprendo un altro sportello a
caso e trovando un
recipiente per la pasta. Iniziai a preparare il condimento senza
rispondergli –
visto che comunque non sapevo cos’altro dirgli – ma
dato che lui sembrava non
voler cedere alla fine decisi di accontentarlo. “Senti, non
roviniamo la
serata, va bene? Facciamo finta di niente, non abbiamo detto nulla,
tutto come
prima. Okay?” Provai, continuando a non guardarlo malgrado la
sua presenza
accanto a me non fosse per niente facile da ignorare.
“Voglio solo sapere che cosa
stai pensando.”
Oh, mio
caro, mettiti in
fila. Lo voglio sapere io per prima…
“Non sto pensando
niente”, replicai decisa, sperando che quel
discorso finisse lì. “Apparecchiamo?”
In silenzio, tirò fuori da
un cassetto una tovaglia e me la porse,
continuando a fissarmi con quegli occhi verdi e terribilmente
penetranti.
Gliela presi dalle mani e andai verso il tavolo, sistemandola per bene
e
cercando di perdere del tempo per sistemarla con precisione negli
angoli e ai
bordi: lui continuava a guardarmi senza dire una parola, e non sapevo
se questo
era un buon segno o no.
“I piatti?”
Chiesi, raggiungendolo nuovamente.
“Lascia, faccio
io”, disse con un tono leggermente rassegnato,
voltandosi e prendendoli dallo sportello sopra al lavandino. Forse ero riuscita a scamparla.
“Però non finisce
qui.”
Forse no.
“Cosa vuoi dire? Non
c’è nient’altro da
aggiungere…” Replicai,
avvicinandomi e prendendo i piatti dalle sue mani ostentando
indifferenza. Li sistemai
sulla tavola e mi voltai per prendere i bicchieri, ritrovandomi invece
Enrico
ad un passo da me che me li porgeva con uno strano sguardo sul viso.
“Cosa ti
ho detto sull’apparire così
all’improvviso?” Borbottai, incrociando le braccia.
“Hai un talento magistrale
nel riuscire a cambiare discorso, ma
con me non attacca.” Ribatté prontamente,
avanzando e costringendo me ad
indietreggiare fino a farmi incontrare il bordo del tavolo e bloccarmi
contro
di esso. Le sue mani si allungarono per posare i bicchieri sul tavolo
alle mie
spalle e le lasciò poi ai lati del mio corpo,
intrappolandomi e aderendo troppo
con le sue gambe alle mie.
“Devo… Devo
scolare la pasta”, tentai, cercando di non guardarlo
troppo a lungo.
Emise uno sbuffo tra
l’esasperato e il divertito che mi fece
alzare gli occhi su di lui, perplessa. “Può
aspettare, l’hai messa solo cinque
minuti fa”, disse, chinando il capo verso di me e sussurrando
a pochi
centimetri dal mio viso. Oh, santo Cielo.
“Beh, però devo
finire di apparecchiare”, continuai imperterrita,
vedendolo roteare impaziente gli occhi.
“Non ammetterai mai di
provare qualcosa per me, vero? Neanche se lo
vedessi per iscritto.”
Stranamente riuscii ad emettere una
risata abbastanza sarcastica,
scuotendo la testa. “Questo perché non provo niente, per te”, mentii
spudoratamente, puntandogli un dito sul
petto e allontanandolo da me.
“Certo”, sorrise
lui, seguendo il mio dito e indietreggiando. “E
che mi dici del tuo bacio?”
Mi sforzai di non arrossire ma, senza
uno specchio davanti, non
potevo dire di esserci riuscita. “Punto primo, sei stato tu a
baciarmi, e punto
secondo… Di questi tempi un bacio non ha grandi
significati.”
“Perché non ci
credo?” Chiese retorico, permettendomi di muovermi.
Scrollai le spalle e lo superai, raggiungendo nuovamente i fornelli e
controllando la pasta.
“Non è un mio
problema”, decretai decisa. Che
cosa voleva, che ammettessi di essere attratta da lui? Ma neanche
morta!
Lo sentii ridere e fu solo con un
enorme sforzo di volontà che non
mi voltai per guardarlo. “Oh, questo è davvero
tutto da vedere!” Esclamò, e a
giudicare dal rumore dei suoi passi doveva essersi avvicinato. Come al
solito
sobbalzai nel sentire il suo respiro sul collo, ma mi sforzai di
ignorarlo.
“Uhm, che buon
profumo…” Sussurrò a un centimetro
dalla mia pelle.
“Non l’ho fatto io
il sugo, non è merito mio”, risposi, mescolando
la pasta.
La sua debole risatina mi fece venire
i brividi. “Ma io non
parlavo del sugo…”
Il mestolo cadde sui fornelli accanto
alla pentola e nella furia
di riprenderlo mi scottai con il metallo di quest’ultima.
“Accidenti!” Sibilai,
maledicendo lui, il mestolo e di nuovo lui. Si allontanò da
me proprio quando
mi voltai con l’intenzione di incenerirlo con lo sguardo,
malgrado il rossore
che doveva imporporarmi le guance non fosse proprio quel che si dice
spaventoso.
“Stammi lontano mentre cucino!”
Continuando a ridere sotto i baffi
Enrico sollevò le mani in segno
di resa, prima di finire di apparecchiare con quel sorrisetto idiota e
beffardo
sulle labbra. Dio, quelle labbra.
Sbuffai,
aggiungendo anche me stessa alla lista di cose da maledire.
Non avrei mai e poi mai dovuto
accettare di venire a casa sua per
cena.
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AA - Angolo Autrice:
Ed eccomi ritornata per pubblicare l'ultimo capitolo del 2010! Spero che apprezziate il gesto, è il mio modo per concludere quest'anno in bellezza, per augurarvi in ritardo Buon Natale e in anticipo un Felice Anno Nuovo - insomma, per catturare parecchi piccioni con una fava xD
Ringrazio come sempre tutte coloro che mi seguono, sia silenziosamente, sia su facebook, sia recensendo pazientemente i vari capitoli! Siete dei tesori ragazze mie, non c'è che dire :) Dal prossimo capitolo (cioè, da questo) voglio inaugurare la nuova 'applicazione' di Efp che permette di rispondere direttamente alle recensioni, così vi ringrazierò in tempo reale *__*
Di nuovo, un bacio, un abbraccio e un Felice Anno Nuovo dalla vostra Giulia! :D Divertitevi e bevete responsabilmente, mi raccomando ;)
Ci sentiamo alla prossima! :* Vostra,
GiulyRedRose.