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Autore: Bellis    18/01/2011    1 recensioni
Una casuale uscita serale di Sherlock Holmes all'Old Vic, in compagnia del dottor Watson e della sua amata consorte, vede il dramma rappresentato trasformarsi in una terribile realtà: riuscirà l'investigatore a venire a capo dei misteriosi ed intricati eventi? Quali nuovi pericoli saranno risvegliati da una vicenda tanto oscura?
Genere: Introspettivo, Mistero, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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[Dai resoconti di John H. Watson, MD]

Capitolo I - Un Dramma

"Romeo! Oh, sei pallido! ... E chi altro?"
Frate Lorenzo (William Shakespeare, Romeo e Giulietta, Atto V, Scena III)


Gli strabilianti eventi che mi accingo a narrare accaddero numerosi anni fa; è presumibile che alcuni quotidiani ne abbiano pubblicato la notizia, forse in un breve trafiletto seminascosto nelle pagine della cronaca, oppure tra i necrologi. L'improvvisa morte dell'attore drammatico David Constance Ward non fu purtroppo un fatto strano in sè - troppi delitti accadono in quella che chiamiamo civiltà, per considerarne alcuni normali ed altri anormali; fu atipico invece il modo in cui la sua vita incontrò una terribile fine. Sherlock Holmes ed io fummo entrambi testimoni del suo spegnersi, e fu in una delle più rinomate music houses della nostra Capitale che le investigazioni del mio collega iniziarono. Riporterò questi accadimenti esattamente come si svolsero.

Debbo puntualizzare - giacchè all'epoca alcune malelingue insinuarono altrimenti - che egli era presente sul luogo per un puro caso, anzi, a causa mia. Fui io a richiedere la sua presenza presso l'Old Victoria Theatre. Per amor del vero dirò che non era stato affatto facile convincerlo ad accompagnare me e la mia dolce consorte a teatro. Io stesso ero stato restìo all'offerta. Sapevo bene quanto il mio amico disprezzasse ogni forma di mondanità, tanto da restarsene chiuso per mesi nell'appartamento che egli ormai abitava in solitudine, quando nessun caso da lui ritenuto interessante giungeva a stimolare il suo intelletto e a risollevarlo da quel cupo baratro di banalità che egli aborriva più di ogni altra cosa ed ormai automaticamente associava alla normalità del mondo.

Nei primi mesi del 1890, il mio impegno presso lo studio medico di Kensington Road si era alleggerito, grazie all'ausilio del mio collega, il dottor Anstruther, con il quale condividevo l'attività. Così, dietro suggerimento di Mary, le mie visite al 221b di Baker Street si erano fatte più frequenti; ciò nonostante, il celebre detective mi sembrava ogni giorno più cupo. Il suo appetito diveniva sempre più scarso, le ore di sonno diminuivano e la depressione avanzava facendosi strada nel suo acuto intelletto, che temeva la stagnazione mentale tanto quanto un delicato meccanismo avrebbe temuto la carenza del lubrificante, necessario al suo funzionamento, proprio come il lavoro era indispensabile per mantenere in attività quella macchina perfetta che era la mente del mio caro amico.

Ero preoccupato per la sua salute: paventavo il giorno in cui egli fosse ricaduto nel vecchio vizio che aveva minacciato la sua incolumità sin dai primi anni della nostra convivenza nel centro di Londra. Nelle settimane che precedettero quella nostra fatale visita al Vic, avevo controllato frequentemente la custodia di pelle che egli conservava nel cassetto della sua scrivania, trovandone, per fortuna, il contenuto inalterato. Avevo interrotto le mie ispezioni quando un giorno, richiudendo discretamente il vano dello scrittoio e sollevandone lo sguardo, avevo incontrato gli occhi grigi e scrutatori di Sherlock Holmes che mi fissavano con un brillìo divertito e stanco. Vagamente imbarazzato dalla situazione, decisi di desistere dal mantenere questo umiliante atteggiamento poco rispettoso della sua intimità.

Fu Mary a consigliarmi di invitare Holmes a teatro insieme a noi. Conosceva l'apprezzamento del mio amico per il dramma Shakespeariano, anche se, come le feci notare, Romeo e Giulietta non costituiva certo l'opera alla cui rappresentazione egli avrebbe preferito assistere. Tuttavia, si trattava dell'unico dramma previsto per l'intero mese all'Old Victoria, e stabilii che non mi sarei lasciato sfuggire l'occasione di fornire al mio amico una sana distrazione dall'umor nero che andava devastando il suo spirito.

Impiegai tutta la mia autorità in campo letterario per tessere le lodi del dramma italiano - anche se usai molta cautela su questo punto, giacchè conoscevo bene l'opinione dell'investigatore in materia di sentimentalismi. Illustrai brevemente la trama mettendone in risalto gli aspetti più cupi ed oscuri. Fu necessaria una buona misura di riflessioni sul ruolo istruttivo delle tragedie del noto autore britannico; utilizzai altrettante casuali affermazioni, disposte ad arte, sul fatto che mia moglie probabilmente avrebbe considerato un suo rifiuto come un'offesa, ed anche io sarei stato molto dispiaciuto se non avesse accettato.
Il mio amico ascoltò, impassibile e seduto in poltrona, il monologo, posando su di me uno sguardo al quale non sarei mai riuscito a nascondere nulla, cosa della quale mi accorsi con un certo disagio quando mi interruppi.

Holmes sorrise impercettibilmente, "Mio caro Watson," esordì, "Lei non dovrebbe preoccuparsi così tanto per la mia salute."

Malcelai un sospiro, interdetto. Non potei fare a meno di ricambiare quell'espressione vaga e ben poco lieta. "Vecchio mio, lei non esce di casa da parecchie settimane. Quale suo medico - nonchè suo amico - vorrei implorarla di prendere in considerazione l'idea di allontanare la sua mente dai pensieri cupi."

Il detective si alzò dalla poltrona, camminando lentamente verso la mensola del caminetto; con occhio critico passò in rassegna la rastrelliera delle pipe, e, non trovandone alcuna di suo gradimento, nervosamente si avvicinò alla finestra.
"E' un controsenso, non trova?" sibilò, "Quale ristoro può esservi nella finzione per una mente come la mia, la cui missione è la ricerca della realtà, in ogni dettaglio che una meticolosa e puntigliosa analisi dei fatti può mettergli innanzi?"

Presi posto sul divano, serio. Il malumore nel quale Holmes era sprofondato era tale da spingerlo a porre interrogativi ai quali sapeva esattamente come io avrei controbattuto, per puro amore della discussione.
"Ebbene, la letteratura è lo specchio di un'anima molto vasta ed importante: quella del Tempo. Nei drammi di William Shakespeare potrà ritrovare almeno una parte di verità - vista attraverso gli occhi dell'autore, certo - ma pur sempre realtà."

"Questa è psicologia, dottore." mi apostrofò lui, tirando una delle tende con una mano ossuta a celare la vista dell'esterno, "Si tratta del suo campo di studi più che del mio."

"Lo studio della mente umana è rilevante sia nel mio mestiere che nel suo, Holmes." ribattei, piuttosto ovviamente, avvertendo come i miei baffi, involontariamente, si fossero incurvati verso l'alto.

Le spalle di Holmes si sollevarono leggermente per poi riabbassarsi; l'uomo sedette di fronte a me, immerso in cupe meditazioni.

"Oh, suvvia, mio buon amico. Acconsenta. Male non le farà." esclamai, incapace di rimanere in silenzio più a lungo, assistendo impotente alla completa disfatta di ogni gioia che potesse ancora permanere in lui.

Risollevò di scatto il mento, riscuotendosi e rivolgendosi a me, come se si rammentasse solo in quell'istante della mia presenza. Mi osservò a lungo, conscio del fatto di lasciar di proposito il mio animo sospeso come quello di un ragazzino che domandasse il permesso di partecipare ad una desiderata e tanto attesa festa.
"Bene, bene, Watson. Vi accompagnerò. Se facessi altrimenti, rischierei di contrariare la sua signora, e questo è certamente un effetto che non voglio ottenere." aggiunse, con una punta d'ironia nel tono freddo e stridente.

Risposi all'accenno del suo sorriso con un'espressione distesa e lieta, felice che la mia ambasciata non fosse stata vana.
"La ringrazio, Holmes. Mary sarà contenta, ed entrambi saremo felici di passare a prenderla domani sera alle otto."

Mantenemmo infatti la nostra promessa, e puntualmente ci presentammo, insieme ad una carrozza, per compiere il seppur breve tragitto che ci avrebbe portati ai casolari di Lambeth e Southwark. L'aria di Febbraio spazzava, pungente e tersa, le strade polverose di Londra, disperdendo gran parte della nube di giallastro smog che le fabbriche producevano ininterrottamente. L'idea di una passeggiata non poteva certo essere considerata salubre, nella trafficata City. Perciò, la prima occasione che avemmo di gettare uno sguardo sul Victoria fu attraverso un vetro, nella relativa e tiepida sicurezza di un veicolo a quattro ruote.

Si trattava di un casolare dalla forma squadrata e spigolosa, situato a poche decine di metri da Waterloo Station; la facciata, bianca e nitida, era sovrastata da uno stemma. Le fiancate, per la maggior parte, prive di finestre o vetri, presenti solo per rischiarare l'atmosfera del foyer durante i ricevimenti mattutini. Gli ornamenti erano sobri, quasi una formalità. La dignitosa Royal Victorian Music Hall era un edificio costruito più per la colta solennità tipica dell'elite teatrale dell'epoca, che per un'apparenza di splendore che non aveva motivo d'essere. Strano a dirsi per un teatro: in quel luogo sembrava che la sostanza prevalesse sulla forma.
Il Victoria, che aveva aperto nell'aprile del 1818 col nome di Royal Coburg Theatre, era ancora, nel 1890, inspiegabilmente poco frequentato, nonostante la critica ritenesse tecnicamente impeccabili le rappresentazioni che esso presentava dei drammi seicenteschi - fatto determinante, nella mente del mio amico Holmes, per la sua decisione di accettare il nostro invito.

Riuscimmo senza problemi a trovare alcuni posti in platea, dove sedemmo. Non erano molte le occasioni di svago che la mia Mary si concedeva, e fui intimamente lieto di vederla, tutta compresa di modesta agitazione, con un raro colorito purpureo, celar il viso dietro il ventaglio ed attendere impaziente l'inizio della rappresentazione.

Come prevedevo, Holmes non mostrò particolare interesse per lo svolgimento del dramma, ma piuttosto si dedicò ad osservare con discrezione gli altri spettatori, tuttavia premurandosi di riportare di tanto in tanto educatamente la sua attenzione sul palcoscenico (attirato senza dubbio da ciò che v'era d'intrigante nella macchinazione di Frate Lorenzo) e non perdendo mai la compostezza dignitosa e distaccata che era dovuta ad un gentiluomo.

Io stesso, in qualche occasione, seguii lo sguardo del mio camerata verso le file antistanti, o lo sollevai verso la galleria. Si trattava di una rara opportunità di osservare il naturale comportamento di soggetti completamente ignari: da diligente allievo del celebre investigatore, quale io mi consideravo e tuttora ho l'onore di definirmi, fissai per parecchi minuti una coppia di ragazzi dall'aria innocente e dagli occhi lucidi rivolti al palcoscenico: inizialmente, li ritenni due giovani sposi; tuttavia, la presenza di un terzo individuo, molto più anziano, dai tratti somatici vagamente rassomiglianti a quelli della fanciulla, interposto, per lo più, tra i due giovinetti, mi spinse a credere che i due fossero solamente fidanzati. La mia catena di considerazioni e deduzioni fu bruscamente interrotta, poi, quando il suddetto uomo, accortosi dei miei modi scrutatori, mi rivolse un'occhiata tale da scoraggiare qualsiasi ulteriore impertinenza da parte mia.
Così, decisi di concentrarmi sulla struggente vicenda di Romeo e Giulietta.

La recitazione fu eccellente; qualcuno ha detto che è il classico a misurare l'abilità del moderno: e quale attore non si troverebbe in difficoltà, nel cimentarsi in una delle più note ed apprezzate opere teatrali della storia? Nonostante l'austerità del cimento, gli artisti svolsero un ottimo lavoro - seppure la veemenza di Giulietta mi sembrasse troppo algida rispetto alla mia concezione del personaggio - e ci diedero la rara opportunità di sbirciare tra le italiche mura di Verona, partecipando alle toccanti peripezie dei due giovani innamorati.

Quel che di straordinario avvenne - tanto fuori dal normale da coinvolgere il famoso detective Sherlock Holmes - iniziai a notarlo quando, passata la metà del quinto atto, la vicenda era ormai conclusa, e mi fu annunziato dallo scricchiolìo subitaneo della sedia sulla quale il mio amico si era bruscamente raddrizzato.

Confesserò che, dopo parecchie ore di visione, sebbene vi fosse stato un appropriato intervallo per permettere ai gentiluomini ed alle loro consorti di ristorarsi, la mia vivacità ed il mio godimento dello spettacolo si erano notevolmente affievoliti: più che il romanticismo, bramavo il sonno. La mia graziosa moglie, invece, era completamente avvinta all'azione, che proseguiva a pochi metri da noi. Anch'ella dovette notare qualcosa di anomalo, perchè appoggiò una mano sul mio braccio e mi chiamò, a bassa voce.

"John!..."

Mi sporsi in avanti, allarmato, domandando spiegazioni: ma non appena il mio sguardo incontrò la figura del Romeo che, lasciata cadere la fiala palpitante di amaro veleno, varca le nere soglie della Morte nella speranza di riunirsi a Giulietta, compresi immediatamente quale fosse il problema.

Quell'uomo stava veramente morendo.
Per quanto talento la sua recitazione potesse vantare, il pallore innaturalmente cinereo del suo volto era senza dubbio dovuto ad un violento shock, il tremore dei suoi arti, che sottintendeva straziante panico, era troppo pronunciato per essere frutto di finzione, e la scompostezza del suo eloquio era sintomo di una terribile agonìa e cupo presagio, nella mente di un medico, di una prossima perdita di conoscenza. Se qualcosa era contenuto in quella fiala che egli aveva vuotata, di certo si trattava di una mistura realmente letale.

"Buon Dio!" esclamai, facendo per alzarmi. Il detective, come me, balzò in piedi, la scintilla chiara nei suoi occhi freddi d'improvviso ravvivata. Un borbottìo proveniente dalle file posteriori ci rammentò che non eravamo soli, in quel salone.
Tuttavia, non eravamo stati gli unici ad aver fatto breccia nell'etichetta rompendo il religioso silenzio dovuto al maestro Shakespeare ed ostruendo la visuale agli esigenti critici dell'arte. Altri, in platea ed in galleria, avevano notato ciò che noi stessi avevamo potuto constatare, e stavano bisbigliando atterriti ai loro vicini di posto.

La bianca Giulietta, invece d'attendere l'arrivo del padre confessore, si levò a sedere, pallidissima; vedemmo che a passo lento, come in sogno, si avvicinava al giovane caduto, scuotendo il capo e facendo ricadere sulle spalle i capelli corvini prima raccolti in un voluminoso crocchio.
"David! Oh - no, David!" balbettò, e l'eco penetrante e commovente di quell'affranto ed accorato grido ancora talvolta appare come un fantasma irrequieto nei miei incubi più foschi; ancora crollò il capo, il viso bianco come un panno lavato: pareva che la vista di quel corpo dovesse ucciderla. Mary cercò la mia mano, premendosi un fazzoletto sulle labbra, attonita, mentre un vociare indistinto si sollevava dal pubblico.

Gli attori presenti dietro le quinte si fecero innanzi senza indugio; notai che un redivivo Mercuzio si chinava sulla forma accasciata al suolo ed, atterrito, mormorava: "Mio Dio, è svenuto - presto, portiamolo via. Portiamolo via, per l'amor del Cielo!"

Quelle parole riecheggiarono nell'ampio atrio dall'ottima acustica come il roco richiamo d'una serpe velenosa. Più di una nobildonna si poggiò le mani guantate sul petto. Alcune esclamazioni di disappunto si innalzarono dai loro accompagnatori. Giulietta, con un ultimo singhiozzo, perse i sensi, e sobbalzai nel vedere come, prima che chiunque potesse intervenire, il suo capo finisse a battere duramente contro il piedistallo che poco prima l'aveva sorretta nella finzione.
Madonna Capuleti comparve sulla scena insieme a Frate Lorenzo ed al suggeritore, fuoriuscito dalla sua buca. Fu quest'ultimo, dimostrando accortezza e prontezza di spirito, ad ordinare che fosse calato il sipario, precipitandosi quindi a calmare la folla che si era radunata nel corridoio centrale.

"Ha visto, Holmes? Bontà divina..."

Il mio pensiero, espresso in un impeto di sconcerto, si affievolì e lasciò posto nella mia mente ad un inquietante vuoto, quando, guardandomi intorno, non trovai più il mio amico, che sino a pochi brevi secondi prima era rimasto in piedi al mio fianco. Il locale era piuttosto affollato, e in una inutile frenesia scrutai l'ambiente cercando, senza risultato, di individuare la sua figura alta e magra.

"Dove sarà mai andato?" bisbigliò mia moglie, chiaramente sconvolta. La riaccompagnai presso una poltroncina dove ella potesse accomodarsi.

"Non lo so, mia cara; un momento fa era qui."

"Guarda, John. Stanno chiudendo il teatro." mi informò lei, indicando l'adito. Alcuni inservienti erano impegnati a porgere le più profonde scuse al gentile pubblico per la brusca interruzione della rappresentazione ed a pregare i signori spettatori che si avviassero all'uscita.

"Se vorrai attendermi, Mary, cercherò Holmes per avvisarlo. Ce ne andremo subito."

Ella graziosamente chinò il capo, con un sorriso stanco. Strinsi per un attimo la sua mano orlata di pizzo per rassicurarla, quindi mi diressi zoppicando verso l'ingresso delle gallerie, unico posto dove egli poteva essersi recato senza dar nell'occhio e scomparendo alla vista di chi si trovasse in platea. Dietro le cortine che racchiudevano completamente il palco, udivo voci concitate, alcune sommesse ed altre lamentose: ma presto quei suoni si allontanarono.

Trasalii quando un tocco deciso si posò sulla mia spalla, ed una voce stridente e cinica si fece udire all'improvviso dietro di me.
"Stia tranquillo, Watson. Sono qui."

Mi voltai a fissare il mio amico, con un commento un po' piccato che mi saliva spontaneamente in gola, quando una porticciola che conduceva direttamente agli alloggi degli artisti si dischiuse, ed un ometto basso dai piccoli baffi alla francese e dal pizzo grigio, che riconobbi subito nella persona del suggeritore, quasi si avventò su uno dei servitori dalla lunga livrea bordata d'oro.

"Come! Mandate via tutti? Incoscienti, fermateli! Cercate un medico! Serve un medico!"

Non vi fu bisogno d'altro: fui subito al fianco del poveretto, presentandomi e cercando di mettere insieme qualche parola che potesse calmare la sua futile, seppur comprensibile, irrequietezza. Chiesi di essere condotto presso il malato, e, mentre rapidamente m'incamminavo lungo lo stretto corridoio che costeggiava i camerini e le sale adibite alla conservazione dei costumi, sentii i passi scattanti e lunghi del mio amico che speditamente mi seguivano.


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Informazioni di carattere medico a cura del dottor Bell (non è un gioco di parole).
Qualsiasi inesattezza da questo punto di vista, invece, è da reputarsi opera esclusivamente mia.
Per ora, non oso ancora domandar teorie al Lettore. I fatti sono ancora troppo caotici.
A presto.



   
 
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