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Autore: miseichan    30/01/2011    18 recensioni
“E’ un pervertito, agente. Lo sbatta in galera, mi faccia questa cortesia.”
“Giovane, come ti chiami?”
“Matteo Fiori.”
“E lei signorina?”
“Veronica Cristina Sandra Merogliesi.”
“Sei un pervertito, giovane?”
“No, agente.”
“Tu sei un pervertito e lo sai benissimo.”
Genere: Comico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Tutto fuorché uno sbaglio'
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Bugie bianche

                                                                                                

     ≈  Come tutte le mattine ≈

 

 

 

“Bussano.”
Veronica si rigirò nel letto tirandosi il lenzuolo fin sopra il naso.
Gli occhi serrati, ancora in pieno dormiveglia, non prestò minimamente ascolto a quel mormorio incoerente; strusciò i piedi uno sopra l’altro, riprendendo pian piano il contatto con la realtà.
“Bussano.”
Di nuovo quel mormorio, indefinito. Stranamente vicino.
Veronica inarcò un sopracciglio, gli occhi ancora ben chiusi. Bussano?
Chi bussa? Dove? Perché?
“Cosa?” chiese allora, formulando a voce l’unica domanda che non si fosse già inutilmente e faticosamente posta.
“Bussano.” 
Veronica trattenne a stento uno sbuffo irritato: quella voce non la stava affatto aiutando a trovare le risposte che le servivano. Dannata voce. Voce. Voce? 
Fu a quel punto che le sinapsi tornarono, seppur lentamente, a funzionare: c’era una voce. Proprio lì, accanto a lei. Come di qualcuno sdraiato nel letto, accanto a lei. 
Voce, letto, lei. Veronica sgranò gli occhi e abbassò timorosamente il lenzuolo: giusto quel tanto per controllare la situazione. Oh, sì. Le sinapsi avevano funzionato. 
Chiuse gli occhi e cercò di rimuovere l’immagine che le si era appena impressa a fuoco nel cervello: il corpo di un ragazzo, a pochi centimetri da lei. Il lenzuolo gli copriva a malapena le gambe e Veronica si ritrovò basita a fissare quella schiena nuda. Non doveva guardargli il sedere, si impose.  Tossì, la saliva che rischiava di andarle di traverso.
Non poteva e non doveva guardargli il sedere, no. La faccia però era tutta un’altra storia, giusto? Così, tanto per assegnare un’identità al tizio; l’alcol e la sua immensa abilità di farti dimenticare con chi diavolo sei finito a letto. 
Poggiò una mano sul materasso e si sporse oltre la schiena di lui, avvicinandosi sempre più a quel viso che continuava ostinatamente a starsene nascosto fra i cuscini. Era quasi riuscita nell’impresa quando la mano le scivolò e finì, senza neanche sapere come, con il gomito nel fianco del ragazzo. Lui si rigirò con un gemito e spalancò gli occhi. 
 “Matteo!”
Squittì, realizzando troppe cose insieme: c’era Matteo a letto con lei, Matteo nudo, quel Matteo; e lei, oddio anche lei era nuda. Si coprì alla meglio col lenzuolo mentre flash della serata le esplodevano in testa: confusi, prepotenti e assolutamente non adatti ai minori. 
Una nuova scarica di colpi si abbatté sulla porta e Veronica ricordò cosa il ragazzo aveva mormorato fino a quel momento: bussano. 
Gemette, appoggiandosi alla testata del letto e sferrando un calcio in direzione di Matteo.
“Ehi!” si scansò lui “Ti sembra il caso?”
“Stavi dormendo.” soffiò Veronica, fulminandolo con lo sguardo. 
“Anche tu.”
“Non dovevi addormentarti! Non qui, non... così!”
“Nudo?”
Veronica alzò gli occhi al cielo e tirò un altro po’ il lenzuolo a sé, prontamente bloccata dalle mani di lui: “Ah, no. Non ti azzardare.”
Un rumore sordo risuonò nella stanza e entrambi si voltarono in direzione nella porta. 
“Era un calcio?” sussurrò Matteo con aria sconvolta “Stanno prendendo a calci la porta?”
Veronica fece per rispondere, ma un grido le tolse le parole di bocca:
“Vi decidete ad uscire?!”
Matteo perse la presa sul lenzuolo e scosse il capo senza capire: “Chi diavolo...?”
Veronica accennò un sorriso e si strinse nelle spalle. 
“Cinzia.” rispose con ovvietà nel momento stesso in cui la voce tornava a farsi sentire.
“Guardate che entro!”
Veronica sospirò e tirò a sé anche l’ultimo lembo del lenzuolo: se lo avvolse attorno a mo’ di mantello, quindi scese con un salto dal letto, incurante delle imprecazioni di Matteo. 
“E’ la mia camera!” ricominciò la voce, sempre più alta “Ve ne rendete conto?!”
Matteo assottigliò lo sguardo e mugugnando scese a sua volta dal letto; si rese conto di non avere più un lenzuolo con cui coprirsi e rischiò di inciampare nei suoi stessi piedi.
“Ragazzina.” ringhiò, sperando di ottenere un minimo di considerazione, ma lei continuò a vagare per la stanza alla ricerca di qualcosa.
“Miseriaccia nera!” sbottò allora, arrendendosi a coprirsi i genitali con un cuscino.  

“Non trovo il mio vestito.” sussurrò Veronica.
Matteo scosse la testa e indicò la porta: “La camera di Cinzia?” 
Veronica annuì e si fermò di fronte a una scrivania: “Oh!” si piegò oltre la sedia “Trovato!”
“Camera di Cinzia.” ripeté Matteo, scandalizzato “Cazzo.” mugugnò, strofinandosi sconfortato la mano libera sul viso “Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo!”
Veronica si fermò un attimo per lanciargli un’occhiata di rimprovero.
“Non essere sboccato di prima mattina.” lo riprese, provocando un nuovo grido da fuori la porta.
“Prima mattina?” esplose la voce “Sono le nove, dannazione!”
Veronica sbuffò, girò attorno al letto e afferrò con nonchalance le mutandine che pendevano dal bordo del comò. 
“Cicì, calmati, stiamo uscendo.”
“Calmarmi?!” sbottò Cinzia, colpendo ancora una volta la porta “Vuoi che ti elenchi tutti i motivi per cui non posso assolutamente calmarmi?”
“Sentiamo.” mormorò Veronica, aprendo la porta e scoccando un sorriso tirato all’amica.
Cinzia si appoggiò allo stipite e incrociò le braccia al petto: lanciò un’occhiata al letto sfatto, a Veronica avvolta in un lenzuolo e a Matteo accasciato contro l’armadio con un cuscino a coprirlo alla meglio. 
“Punto primo,” cominciò “è la mia stanza. Stanza di cui voi due vi siete impossessati.” scoccò uno sguardo furente a entrambi e continuò “Presi dalla passione, però, non avete certo pensato di chiudere a chiave la porta.” 
“Errore nostro.” concesse Veronica.
“Mi avete sconvolto un paio di ospiti.”
“Oh.”
“Loro cercavano il bagno e hanno sbagliato stanza, voi che scusa avete?”
Cinzia inarcò un sopracciglio, aspettando una risposta che non arrivò.
Matteo alternò lo sguardo fra le due ragazze, conscio unicamente di essere nudo. Nudo, in una casa che non era la sua. Nudo, in una camera in cui non era solo. Di essere nudo, ecco. E basta.
Improvvisamente si ricordò dell’armadio che aveva alle spalle e un lampo di speranza lo attraversò: aprì la prima anta, pregando di trovare un accappatoio, una giacca, qualsiasi cosa. Ciò che vide, invece, riuscì soltanto a lasciarlo a bocca aperta. Fissò sconcertato le numerose fila di completi intimi, incapace di distogliere lo sguardo. Guardò incantato tutti i giochetti erotici, i frustini, le manette. Un arsenale in piena regola di armi di seduzione. Matteo chiuse la bocca, sconcertato. Si voltò, incredulo, squadrando con occhi nuovi l’intera stanza: le lenzuola di seta, il letto a due piazze, i tappeti eleganti. Tutto in sfumature di rosso.
Un singulto sorpreso gli risalì in gola, e entrambe le ragazze si girarono verso di lui. 
Cinzia strinse le labbra, incenerendolo con lo sguardo. Matteo balbettò qualcosa e richiuse maldestramente l’anta: “Scusa.” 
Non riuscì in alcun modo a frenare la domanda successiva, perfettamente conscio di quanto azzardata e inopportuna fosse: 
“Chi diavolo sei?”
“Una escort, deficiente.” sibilò Cinzia, entrando rapidamente nella camera e spingendolo via  dall’armadio “Ti faccio un disegnino o ci sei arrivato, finalmente?”
Matteo si limitò a sbattere le palpebre, arretrando spaurito.
“Che bel modo di cominciare la giornata.” esclamò una quarta voce, attirando a sé gli occhi dei presenti. Una figura piccola ed esile si stagliava sull’uscio: una tazza piena di latte e cereali in una mano e un cucchiaio nell’altra. La bocca piena, sorrise, esordendo con una nuova constatazione grondante giubilo:
“Meglio del cinema, vi assicuro.” ridacchiò il ragazzino, portando alla bocca un’altra cucchiaiata di cereali al cioccolato e annuendo in direzione dei tre. 
Cinzia alzò gli occhi al cielo e tornò a guardare Veronica, il tono improvvisamente dolce e controllato: “Ah, quasi me ne dimenticavo.” sorrise “Il regalo mi è piaciuto tantissimo! Credo che lo inaugurerò stasera stessa.”
Veronica ricambiò il sorriso e annuì contenta. 
“Cicì, hai per caso visto...?”
“Sulla lampada.” sospirò Cinzia. Veronica fissò con sconcerto la lampada affianco al letto e si chiese come diavolo avesse fatto il suo reggiseno a finire lassù.
“Che ha il tuo cuscino, amico?” chiese l’ultimo arrivato, rivolgendosi ad un Matteo sempre più a disagio. Tutti gli occhi si spostarono di nuovo, puntandosi questa volta sul guanciale con cui il ragazzo tentava di coprirsi.
La risposta di Matteo consistette in uno sguardo astioso, ma il ragazzino non se ne fece un problema e continuò tranquillo: “No, perché, sai…” gli sfuggì una risatina “è leggermente rigonfio.”
“E’ sempre così.” sibilò Matteo, lo sguardo puntato sul tappeto “E’ come tutte le mattine.” 
E la risatina dell’altro divenne una risata in piena regola. 
Matteo gemette esasperato e fissò quel diavolo di ragazzino: era esile, non molto alto, scuro di capelli, occhi e carnagione. Non dimostrava più di diciassette, diciotto anni. Ciò che però lasciava perplessi più di ogni altra cosa, era l’assurda somiglianza con un roditore: gli occhi grandi e le orecchie leggermente a sventola erano le prime cose che attiravano l’attenzione. Matteo lo squadrò con interesse e si chiese come fosse possibile che, nonostante ciò, avesse un aspetto sommariamente gradevole. Affascinante, quasi.
“Chi diavolo è il topo?” ringhiò senza rivolgersi a qualcuno in particolare.
Veronica lo rimproverò con lo sguardo.
“Non essere s…” cominciò, prontamente interrotta dal ragazzo.
“Non sono stato sboccato.” ribatté, sbuffando sonoramente. 
“Stavo per dire sgarbato.” sospirò lei, esasperata “Forse sarebbe stato meglio dire cafone.”
Matteo aprì la bocca per rispondere, ma il ragazzino si intromise nella conversazione, mugugnando a bocca piena: “Oh, ma io non mi offendo mica!”
Veronica scosse piano la testa, non sapendo più contro chi doveva combattere.
“Lui è Mickey.” fece le presentazioni, aspettandosi l’espressione irrisoria e beffarda che Matteo difatti subito assunse.
“Come Topolino?” chiese il ragazzo, trattenendo a stento una risata, quasi dimentico di essere ancora nudo in presenza di tre quasi sconosciuti.
“Sì.” sbuffò Veronica “Michele Geronimo. Prima lo chiamavamo Michi, ma poi qualche testa bacata l’ha ribattezzato Mickey.”
Matteo annuì, il volto ancora contratto dallo sforzo di non ridere. Lanciò un’occhiata al giovane topo e inarcò un sopracciglio, attendendo che dicesse qualcosa. Quello ricambiò lo sguardo senza sapere cosa dire o fare e alla fine, stringendosi nelle spalle, allungò la tazza in direzione di Matteo:
“Latte e cereali?”
Ignorando l’espressione incredula del ragazzo nudo e il suo secco rifiuto, Cinzia si avvicinò autorevole a Veronica e l’afferrò per un braccio, trascinandola fuori dalla stanza. 
“Dove andate?” domandò Matteo, sentendosi improvvisamente perso.
“Torniamo subito.” rispose Cinzia, spingendo Veronica oltre la porta “Rivestiti.” intimò poi al ragazzo che la guardava senza capire.
Le due percorsero i pochi metri verso la cucina senza parlare: Cinzia con dei vestiti puliti in mano e Veronica che ad ogni passo incespicava nel lenzuolo. Giunte alla meta, la brunetta si chiuse alle spalle la porta scorrevole e porse gli abiti all’amica, prendendo infine posto al tavolo.
“Non ti vesti?”
“Perché ti sei arrabbiata tanto, Cicì?” domandò Veronica, infilandosi un soffice maglione azzurro senza curarsi di indossarvi sotto anche un reggiseno. La domenica non si porta il reggiseno: è una regola non scritta.
“Perché non me lo aspettavo.”
Veronica si bloccò, i piedi sul lenzuolo e i jeans fermi alle ginocchia. 
“Cosa non ti aspettavi?” chiese, arrossendo senza volere “Ero ubriaca, Cicì.”
“Questo lo so. Tu però, non fai queste cose; neanche quando sei ubriaca. Te ne rendi conto, Vero? Capisci che questo tipo di cose tutti se le aspettano da me e mai da te?”
Veronica chiuse il bottone dei pantaloni, una mano a coprirsi gli occhi stranamente lucidi.
“Cosa ti è preso?” continuò Cinzia, il tono più dolce.
“Non lo so.”
Un sussurro: un alito sconsolato che era solo la punta dell’iceberg.
Cinzia accennò un sorriso che voleva essere di conforto e raccolse il lenzuolo da terra, piegandolo alla meglio. Un casino. Ecco in cosa erano finite: un diavolo di casino.
“Devo andare via.”
L’esclamazione decisa arrivò alle loro orecchie, seguita subito dai passi concitati che percorrevano il corridoio. Veronica aprì a metà la porta, sporgendo la testa e trovando il volto di Matteo a pochi centimetri dal suo. Arretrarono entrambi di scatto, balbettando scuse irrazionali.
“Devo andare via.” ripeté il ragazzo, indicando con un cenno del capo l’uscita.
“Non vuoi fare colazione?” chiese Michele “Abbiamo anche cornetti, merendine, succo d’arancia, limonata…”
Matteo scosse rapidamente il capo e continuò ad arretrare.
“No.”
Michele aveva già ricominciato ad elencare cibi, il tono serio e professionale di un cameriere, quando la voce di Cinzia coprì la sua.
“Non vai da nessuna parte, tu.”
Matteo spalancò gli occhi, non credendo alle proprie orecchie. Sorrise, confidando in uno scherzo:
“Come?”
“Credi di poter scappare così?” chiese Cinzia, annullando in lui quella fievole speranza “Non se ne parla proprio. Un idiota patentato, ma come hai fatto dico io?” continuò, dedicando l’ultima parte all’amica immobile al suo fianco.
“Siete tutti pazzi.” decretò Matteo, guardandoli incredulo.
“Devi ancora dirmi chi ti ha fatto quell’occhio nero.” intervenne Michele, puntando l’indice.
“Un muro, te l’ho già detto.” ringhiò Matteo.
Michele scosse la testa, l’aria saputa.
“Sai quante volte sbatto io contro i muri?” sorrise, poggiando la tazza ormai vuota sul tavolo “E ti assicuro che neanche una volta mi sono ridotto l’occhio in quelle condizioni.”
Matteo fissò il ragazzino, i baffi di latte che si era fatto e quella sua faccia da topolino. 
Il desiderio di fumare lo assalì perentorio: una sigaretta. Solo una.
A distoglierlo da quella voglia improvvisa fu un fischio. Uno strano fischio prolungato e penetrante che risuonò in tutta la casa. Si guardò attorno spaesato e con la coda dell’occhio notò lo sguardo d’intesa che si scambiarono gli altri tre.
“Vieni.” disse Cinzia, mentre Veronica e Michele già si incamminavano lungo il corridoio. Tentò di rifiutarsi, di spiegare ancora una volta quanto fosse necessario che uscisse da quella casa, ma capì dall’espressione della brunetta che sarebbe stato tutto inutile.
La seguì, passando per il salotto senza davvero vedere alcunché, entrando poi nell’ultima porta in fondo a destra: un altro bagno, più piccolo di quello in cui...  e improvvisamente, senza chiedere il permesso, i ricordi che fino a quel momento aveva tentato con tutte le sue forze di reprimere si imposero inamovibili. Immagini compromettenti. Di un letto, di una biondina e di occhi azzurri che non lasciavano i suoi. Baci irruenti. Respiri che diventavano un tutt’uno. Carezze... fermò il flusso, imponendosi di smettere di pensare. 
Una smorfia ad increspargli le labbra, indirizzò lo sguardo fuori dalla grande finestra aperta, imitando gli altri tre. Guardavano tutti verso il palazzo di fronte, assurdamente poco distante dal loro. Matteo aggrottò le sopracciglia, guardando con inattesa aspettativa la stanza di fronte: cosa diavolo stavano aspettando?
Veronica poggiò i gomiti sul bordo della finestra, sporgendosi divertita.
“Silvestro!” 
Passarono solo pochi istanti, poi, e un giovane si affacciò affannato alla finestra di fronte. Alto, scarmigliato: si accarezzava la testa pelata con una mano, un sorriso sul volto accaldato. La camicia sbottonata, il fisico atletico messo impassibilmente in mostra.
“Hai fischiato?” sorrise Veronica.
“Sì.” rispose, ancora leggermente a corto di fiato “Ho notizie fresche di giornata.”
Matteo si limitò a osservare, stentando a capire cosa stesse realmente succedendo. Girò la testa verso Michele nella speranza che questi gli desse una spiegazione.
“Chi è il tipo malmenato?”
Matteo tornò subito a guardare fuori dalla finestra.
Veronica ridacchiò, facendo sì di osservare al tempo stesso fuori e dentro il bagno.
“Lui è Matteo.” disse “Matteo, lui invece è Silvestro.”
Michele sogghignò, ammiccando in direzione del vicino:
“Sono stati a letto insieme, Bond!” gridò, divertito come mai.
“Davvero?” si stupì Silvestro senza riuscire a nascondere un sorriso.
“Sì,” continuò Michele, trattenendosi a stento dal saltellare “ubriachi persi.”
Una gomitata di Veronica gli bloccò momentaneamente le parole, ma non si lasciò scoraggiare: “E il tutto in camera di Cinzia!” aggiunse, al settimo cielo “Non ti dico le urla stamattina, Bond! Stavo per chiamarti ad assistere, ti giuro!”
Matteo era pietrificato: fissava truce il ragazzino, prendendo in considerazione l’idea di zittirlo a suon di pugni. Veronica era sbiancata, il capo che fiaccamente negava ogni cosa.
“Taci un po’, Mickey!” lo riprese a quel punto Cinzia, scuotendolo per una spalla.
Michele mise il broncio, un’ombra di colpevolezza che gli oscurava lo sguardo.
“Ho detto qualcosa che non dovevo dire?” chiese, innocentemente.
Silvestro scambiò un’occhiata complice con Michele ed entrambi scoppiarono a ridere incuranti di tutto e tutti. Veronica, rossa in faccia fino alla punta dei capelli, si appiattì contro il muro evitando a forza di incontrare gli occhi di Matteo.
Fu Cinzia, ancora una volta, a richiamare tutti all’ordine.
“Silvestro, hai qualcosa da dire sì o no?”
Il giovane, chiamato in causa, cercò rapidamente di calmarsi. 
“Certo.” balbettò “Hai ragione, scusate. Volevo dirvi che, secondo fonti sicure, l’alfiere oggi vuole venire a farvi visita.”
“Oggi?” chiesero in coro Cinzia e Veronica, guardandolo allarmate.
Silvestro annuì, ridacchiando per l’espressione basita di Matteo. Lo capiva, quel povero ragazzo. Compativa, anche. Del resto, non avrebbe augurato a nessuno di trovarsi catapultato così di botto nel mondo alquanto fuori dal comune di quei tre. Lui stesso aveva impiegato diversi mesi per entrare nell’ordine delle cose. Ora come ora, però, non riusciva a immaginare una vita senza di loro.
Matteo lo fissava senza parole. L’alfiere?
Sentì l’agitazione crescere attorno a lui e si sentì perso. L’alfiere? E Bond?
“Michele.” sbottò, attirando il più piccolo verso di sé “Perché il pelato lo chiamate Bond?” 
“Come James Bond, no?” rispose l’altro, stringendosi nelle spalle.
“Che c’entra 007, adesso?” s’intestardì Matteo, il tono di voce man mano più nervoso.
“E’ il nostro informatore.” spiegò Michele con fare cospiratorio “La nostra spia.”
Guardò Matteo, soffermandosi con espressione assorta sull’occhio malconcio, prima di domandargli: “Capito il nesso?”
Matteo annuì, accarezzandosi il mento soprappensiero.
“Siete davvero tutti pazzi.” concluse, senza esitazioni “E’ una gabbia di matti, te lo dico io!”
Un silenzio surreale seguì le parole del ragazzo.
“Silvi, amore, non vieni più?”
Un omone tutto muscoli con indosso solo i boxer, apparve inaspettatamente di fianco a Silvestro. Matteo sgranò gli occhi quando l’omone strinse la mano del dirimpettaio nella sua, facendo per tirarlo via con sé.
“Quanto tempo più o meno, Bond?” gli chiese rapidamente Veronica.
Silvestro si girò distratto verso di loro, l’espressione assente e un sorriso a illuminargli il volto.
“Come?” chiese, cercando di concentrarsi sulla conversazione.
“Quanto tempo abbiamo?” domandò di nuovo Cinzia in un sibilo spazientito.
“Trenta, quaranta minuti al massimo.” sussurrò concitato, salutandoli con un frettoloso cenno del capo. Veronica gemette: “E ora?”
Matteo continuava a guardare fuori dalla finestra, chiedendosi se per caso non fosse ancora sbronzo: “Chi era quello?” riuscì alla fine ad articolare, ottenendo in risposta solamente occhiate indifferenti.
“Chi diavolo era quello?!” esplose allora, alzando la voce senza nemmeno rendersene conto.
Le occhiate che ricevette questa volta erano sempre una volta indifferenti, a mala pena infastidite.
“Qual è il problema?” gli chiese Veronica, guardandolo storto.
“E’ uno degli amichetti di Bond.” gli spiegò Michele, pensieroso “Cavolo, non mi ricordo il nome.” sorrise, divertito da qualche ricordo “Sono troppi.”
“Amichetto?” balbettò Matteo, sbattendo ripetutamente le palpebre, incredulo.
“Dio.” sbottò Cinzia, fulminandolo “Anche omofobo, il deficiente.”
Veronica ridacchiò, stringendole l’avambraccio con solidarietà.
“Mi piace il suo nuovo soprannome.” approvò, guardando divertita un Matteo ancora sconvolto.
“Ragazze,” le richiamò Michele “non vi dimenticate dell’alfiere.”
Curioso, Matteo tornò in sé quel tanto che bastò a cogliere i successivi brandelli di conversazione.
“Voi che fate?” si affrettò a chiedere Veronica.
“Io ho una partita di calcetto.” rispose Michele, indicando con una mano i pantaloncini corti e la canottiera slargata che indossava.
“Io esco: ho un appuntamento.” continuò Cinzia, sorridente “Incontro preliminare.”
Veronica annuì appena, ipotizzando di andare all’università. Improvvisamente rabbrividì, ricordando che era domenica. Porcaccia. E lei? Lei che avrebbe fatto?
“E io?” domandò.  Chi altro le rimaneva?
“Teo!” rammentò di colpo, voltandosi verso Matteo che la fissò preoccupato.
“Come mi hai chiamato?”
“Vengo con te.” sorrise Veronica, gli occhi che brillavano “Dove andiamo?”
Matteo scosse la testa, osservandola con incredulità mentre usciva dal bagno, diretta in salotto. La raggiunse velocemente e assunse l’espressione più irremovibile che gli riusciva:   “Non usare il plurale.” borbottò mentre la ragazza afferrava una borsa abbandonata sul divano “Noi non andiamo da nessuna parte. Io vado via.”
“Certo.” approvò Veronica, mettendo la giacca “Tu vai via e io vengo con te.”

 

 

*

 

 

“Com’è che hai detto?”
Matteo uscì dall’ascensore, la faccia scura, ignorando apertamente la voce che lo seguiva.
“Se ho detto no è no.” gli fece il verso Veronica, stringendosi nella giacca con una risatina di scherno. Uscirono dal palazzo, subito investiti da una ventata di fresco e penetrante vento mattutino. Il sole faticava ad attraversare quelle nuvole che chiudevano la città in una cappa plumbea, regalando una giornata tipicamente invernale. 
Veronica rabbrividì, gli occhi resi lucidi dal freddo pungente. Reclinò appena la testa, puntando gli occhi sul balcone del loro appartamento e soffermandosi sui punti in cui a breve avrebbe sistemato le lucine di natale. Era dicembre, dopotutto: doveva anche darsi una mossa.
“Due minuti e andiamo.”
Sentì quella voce ovattata, subito seguita dallo scatto deciso di un accendino.
“E no!” sbottò, ancorando immediatamente lo sguardo in quello di Matteo. Lui non si curò di reagire: il fondoschiena poggiato contro la moto, una sigaretta accesa fra le labbra. Aspirò piano, con calma, assaporando ogni istante. Sorrise, rilasciando il fumo verso l’alto con soddisfazione.
“Fuma?”
Veronica sospirò, trovandosi di fianco l’espressione sorpresa di Michele.
“Sì.” rispose sconsolata “Troppo.”
Matteo fece spallucce e sorrise ad entrambi, prima di fissare con venerazione la sigaretta.
“Non potevo resistere.” mormorò serio.
Michele annuì con fare comprensivo.
“E’ un desiderio insopprimibile.” concordò con un sorriso strano “Ti brucia dentro.”
Matteo inarcò un sopracciglio, la sigaretta a pochi centimetri dalle labbra, immobile.
“Non temere,” continuò Michele, le labbra che si piegavano in un sogghigno “smettere è facilissimo: lo so perché l’ho fatto almeno un migliaio di volte.” si avvicinò e con un gesto rapido gli sfilò il filtro dalle dita. Un cenno del capo e si allontanò, il borsone a tracolla che gli urtava la gamba e la sigaretta di Matteo in bocca. 
Veronica ridacchiò, aspettando la reazione di Matteo.
“Cos’è successo?” chiese lui, guardando incredulo la propria mano ancora a mezz’aria.
“Mickey.” 
“Lui…”
“Ti ha fregato la sigaretta.” concluse al suo posto Veronica “Colpa tua che l’hai provocato: non ne fumava una da quasi due settimane.”
Matteo lanciò un’ultima occhiata alla figura che andava facendosi sempre più piccola: i contorni che sfocavano in un sottile strato di nebbia, un arabesco di fumo a segnarne il passaggio.
“Sicura che quella casa riesca a contenere la pazzia di tutti e tre?” chiese caustico.
“Stanotte ha sopportato anche la tua, figurati.” rispose a tono Veronica. Lui scosse la testa, la forza di continuare il battibecco che scemava lentamente.
“Mettilo.” disse, porgendole il casco.
Lei inarcò un sopracciglio: “E tu?” 
Matteo si strinse nelle spalle, l’espressione serafica. Salì a cavalcioni della moto, iniziando a togliere il cavalletto e girandosi poi indolente verso la ragazza ancora immobile.
“Ti decidi o facciamo notte?”
“Sicuro?”
Matteo ghignò, facendole segno con il dito di avvicinarsi e prendendole il casco dalle mani. Con poca delicatezza glielo mise in testa, schiacciando quella massa ribelle di lucenti riccioli dorati. Si piegò verso di lei, chiudendole la cinghia ben stretta sotto il mento.
“Soddisfatto?” domandò Veronica, spazientita.
“Quasi.” mormorò, il respiro che le solleticava la guancia, una mano che correva ad afferrare quella fredda di lei. La strinse, il pollice che si muoveva carezzandola inconsapevolmente.
Veronica sussultò: “Cosa...?”
Uno strattone del braccio di lui e si ritrovò seduta sulla moto, malferma, il respiro che faticava ad uscire dai polmoni. Si sporse appena, cercando furiosa di incontrare gli occhi del ragazzo.
“Tieniti.” soffiò Matteo, accendendo il motore con un gesto repentino.
Veronica annuì ubbidiente, ma non fece in tempo a realizzare davvero le sue parole che la moto era scattata in avanti sorprendendola e mozzandole il fiato. Destabilizzata cinse la vita di Matteo con un braccio, il corpo che aderiva alla schiena del ragazzo. Pochi attimi e anche l’altro braccio si era stretto ai fianchi di lui.
Lasciò andare il respiro e cercò di rilassarsi; poggiò la testa sulla spalla di Matteo,  così da ripararsi il più possibile dal vento. E senza neanche rendersene conto cominciò a godersi la corsa, davvero. La velocità, il silenzio, il senso di vuoto... no, non di vuoto. C’era Matteo, solido e caldo; e c’era il senso di pace che la riempiva man mano che si stringeva a lui. 
Non si rese conto dello scorrere del tempo, persa in un groviglio di sentimenti su cui non voleva soffermarsi. Si era distratta al punto tale da accorgersi di non essere più in movimento con diversi minuti di ritardo. Si allontanò con uno scatto da Matteo e arretrò sul sedile quel tanto che bastava a far muovere anche lui. 
Sorridente, Veronica si voltò verso Matteo in cerca del suo sguardo, di una qualche sua spiegazione. Si accorse con sgomento del fatto che era già sceso dalla moto, l’espressione seria e fin troppo tesa.
“Che succede?” gli chiese, guardando attentamente lui e la lunga fila di locali anonimi che avevano davanti.
“Niente.” rispose il ragazzo, le mani spinte a fondo nelle tasche dei jeans “Devo fare una cosa.”
“Cosa?” 
Veronica cercò inutilmente di orientarsi: possibile che non conoscesse per niente quella zona della città?
“Non sono affari tuoi.” sibilò Matteo, lapidario come al solito.
Le diede le spalle, avviandosi verso l’entrata del locale più lontano, rigorosamente senza insegna. Veronica sospirò, posando con cura il casco vicino al marciapiede.
“Resta lì.” aggiunse Matteo, perentorio, prima di sparire oltre la porta in legno scuro.
Veronica strinse gli occhi, innervosita dalla situazione: non le era mai piaciuto essere messa in disparte, figurarsi essere lasciata a far da guardia ad una moto quando sembrava di essere in Siberia. Avesse almeno potuto fare un pupazzo di neve poteva anche andare, ma così no.
Riuscì a mantenersi buona per qualcosa come una manciata di secondi, poi con un salto deciso scese dalla moto, incamminandosi verso quell’anonima porta. Aveva un aspetto trascurato: il legno era molto rovinato, graffiato in alcuni punti, deformato in altri. Nonostante tutto però, aveva un fascino inaspettato.
E Veronica doveva aprirla. Lei doveva entrare. 
Dannatissima curiosità.
Fu questione di attimi. Un pensiero all’avvertimento di Matteo, un’occhiata alla moto nera e la porta che veniva aperta da una pallida manina. Veronica socchiuse gli occhi, cercando di abituarsi a quel nuovo ambiente, a quella luce soffusa: scuro, ecco come appariva il tutto. Scuro e fumoso.
Perfetto per Matteo, si disse, muovendo i primi passi all’interno del locale.
Lo spazio era poco, impregnato dall’odore di alcol e tabacco. Girò su se stessa, osservando il lungo bancone sulla sinistra: chiaro, lucidissimo, proprio come quelli che si vedevano in televisione. Il resto del locale era occupato da una serie di tavoli sparsi in un ordine confuso, apparentemente casuale.
“Ragazzina.”
Veronica le sentì nello stesso momento: la voce che le sibilava nell’orecchio e la mano che le stringeva saldamente il polso. Non trasalì questa volta, riconoscendo da subito Matteo. Si voltò a guardarlo raggiante, il sorriso per niente scalfito dall’espressione furiosa di lui. 
“Mi piace.” sussurrò sincera “Mi piace da morire.”
“Ti avevo detto di restare fuori.” ringhiò Matteo, spazientito ogni attimo di più.
“Avevi anche detto che non mi avresti portato con te.” gli ricordò candidamente lei.
Matteo indurì lo sguardo, contrariato.
“Se ti avessi detto di entrare saresti rimasta fuori, non è vero?”
Veronica si strinse nelle spalle, agitando appena il polso come a rammentargli di starlo ancora stringendo. Matteo non la degnò più di uno sguardo, esasperato; senza lasciarla andare s’incamminò verso l’uscita, attraversando il bar semi deserto.
“Non c’è quasi nessuno.” mormorò lei, seguendolo con noncuranza.
“Sono le dieci di mattina, ragazzina.”
Veronica fece per ribattere ma le parole le si bloccarono in gola, spente sul nascere dal paio di occhi che le si era improvvisamente puntato addosso. Matteo si era fermato, schiarendosi la voce per attirare l’attenzione dell’uomo dietro il bancone. Quello in risposta sollevò il volto prima concentrato su un bicchiere scheggiato, mostrando due occhi piccoli, quasi completamente neri. Erano nascosti tetramente da folte sopracciglia, a loro volta oscurate da una frangia di lunghi capelli scuri.
“Pietro.”
“Matteo.” 
Veronica arretrò di un passo, prendendo in considerazione l’idea di nascondersi dietro Matteo. Non che quell’uomo non la ispirasse, certo, solo aveva più l’aria da evaso di galera che da professore di religione. Lo guardò, seriamente convinta che fosse l’uomo più peloso che avesse mai visto. 
“Problemi?” chiese l’uomo, poggiando le mani aperte sul bancone.
Peli sulle nocche, notò Veronica.
“Stasera non posso venire.” rispose Matteo, coinciso.
“Ancora?” s’imbronciò l’uomo, arricciando le labbra con disappunto.
Peli sulle labbra. Un paio di baffi decisamente invidiabile.
“Un impegno che non posso rimandare.”
“Quando recuperi?” domandò l’altro, carezzandosi pensoso il mento prominente.
Peli sul mento. Una barba da far invidia a Babbo Natale.
“Venerdì sera.”
“Andata.” accordò infine l’uomo, riprendendo a lucidare il bicchiere: movimenti rigidi, semplici. Di chi non fa altro dalla mattina alla sera.
Matteo annuì appena, facendo per avviarsi verso l’uscita, un sospiro di sollievo che già gli premeva contro le labbra. Sospiro che venne dispettosamente bloccato sul nascere. 
Colpa di un cigolio, colpa della porta che venne aperta dal fondo del locale. Soprattutto, colpa del ragazzo che ne uscì, chiudendosi la patta.
“Matteo!” lo chiamò subito questi “Quale onore.”
Veronica rallentò il passo, aspettandosi che Matteo facesse lo stesso. Lui, invece, sembrò deciso a fare il contrario. Veronica si guardò un secondo alle spalle, incrociando il ghigno del giovane.
“Ma come, non saluti nemmeno?” continuò quello, ridacchiando “Lei è la tua nuova ragazza?”
Matteo non reagì, la mano già sulla maniglia. 
“Cos’è, fai collezione adesso?” domandò imperterrito il ragazzo, la voce sempre più roca “Niente male davvero, ti faccio i miei complimenti. Hai ottimo gusto.”
La maniglia venne abbassato con uno scatto deciso, quasi brutale.
Veronica non fiatò, confusa da quel susseguirsi di frasi mirate a colpire duramente Matteo. Per provocarlo, per farlo reagire. Cosa che non successe.
Pochi secondi e furono all’esterno, all’aria aperta: lontani dalle parole di quel ragazzo, dal suo tono cattivo, da quella voce roca e maligna. 
“Non è un posto per te.”
Veronica si riscosse, incrociando lo sguardo turbato di Matteo.
Fece per rispondere, punta sul vivo. Si zittì, però, intimorita dall’espressione del ragazzo.
“Hai capito, ragazzina?” continuò Matteo, grave “Non ci devi più mettere piede.”
Veronica si massaggiò le braccia, pensando che non era il caso di mettersi a discutere. Accennò un sorriso e cambiò argomento: “Lavori anche qui?”
“Sì.”
“E sono tre.” mormorò Veronica, contando sulle dita “Grandi Magazzini, Mystic e questo...” si guardò alle spalle, quasi sperando che comparisse un’insegna dal nulla “… Anonimo, mh?”
Matteo si avviò in direzione della moto.
“Non sono affari tuoi.” sibilò in risposta.
“Diventi ripetitivo, Teo.”
Il ragazzo si bloccò, le chiavi a pochi centimetri dal pannello di accensione.
“Come mi hai chiamato?” domandò, la voce piatta.
“Teo.” rispose Veronica, sorridendo angelicamente “Non ti piace?”
Matteo si girò, le sopracciglia aggrottate e le labbra piegate in modo strano. Come se stesse ancora decidendo fra il riso e il ringhio. Fece tintinnare le chiavi fra le dita e scosse la testa, deciso.
“No.” categorico, lapidario.
“Ma come?” rise Veronica, prendendo il casco che lui le porgeva “A me piace tanto, invece.”
Il ragazzo montò in sella, un gomito sul manubrio e una luce maliziosa negli occhi.
“Va bene, quindi, se io ti chiamo Ronnie?” le chiese, strafottente.
“Ronnie?” s’adombro lei, chiudendo la cinghia del casco “Ronnie… facciamo Teo per Ronnie?”
Matteo si sporse, tirandola a sé. Abbassò la visiera scura con due dita e inarcò un sopracciglio.
“Teo per Ronnie?” domandò, completamente perso.
“Sì.” concordò lei, salendogli dietro “Tu accetti che io ti chiami Teo e io mi lascio chiamare Ronnie.”
Matteo sbuffò, chiudendo gli occhi esasperato.
“Li fai la notte questi ragionamenti, ragazzina?”
Veronica sorrise, abbracciandogli la vita e incontrando il suo sguardo nello specchietto retrovisore.
“Stanotte veramente ho fatto altro.” mormorò, la voce che scendeva di tono.
Non sorrideva più, il respiro controllato e lo sguardo attento.
“Veronica.” iniziò Matteo, un colorito decisamente pallido, la voce tremante “Ronnie…” continuò, prendendo palesemente tempo. Accese il motore, togliendo il cavalletto, gli occhi che cercavano di sfuggire a quelli della ragazza. Non vi riuscirono.
“Ti porto a casa?” domandò alla fine, smettendo anche solo di provare a intavolare il discorso.
Veronica si tirò un po’ in dietro, delusa.
“No.” borbottò, mettendo il muso “Ora devi farti perdonare.”
“Come?” chiese Matteo, fingendosi basito “Perdonare per cosa, poi?”
Veronica incrociò i suoi occhi solo per un secondo. Bastò.
“Cosa vuoi?” domandò Matteo, il corpo teso come una corda di violino.
“Mi fai guidare?”
Ci furono parecchi attimi di silenzio, il vento unico rumore che rimbombava nelle orecchie. “Non se ne parla.” decise alla fine il ragazzo, facendo rombare il motore.
Scosse la testa, un chiaro e perentorio diniego. Non se ne parlava.
“Tieniti.”
E ancora una volta Veronica non se lo aspettava. Le dita che si aggrappavano d’istinto alla giacca di Matteo, gli occhi spalancati, il fiato che si mozzava in petto. Non se ne parlava.
“Matteo.” mormorò, sul punto di fermarlo, di chiedergli di riportarla al suo appartamento.
E tutto si fermò.
Di botto, così come era cominciato.
Il vento nelle orecchie, la sensazione assurda di star levitando. Sparirono, semplicemente, riportandola con forza alla realtà. Uno strappo deciso, una frenata improvvisa.
Veronica spalancò gli occhi, il cuore in gola per la paura. Fissò sconvolta la strada e i piedi di Matteo che reggevano in parte la moto, ancorati sull’asfalto.
“Sei impazzito?” sbottò, rifilandogli un piccolo pugno sulla spalla “Prima parti senza avvisare e poi freni neanche il moto Gp!”
Scosse la testa, ignorando il sorriso divertito di lui.
“E che cavolo…” borbottò, irritata e ancora scossa “Non si fa così. Se vuoi farmi fuori basta dirlo, ci sono modi più facili per ammazzarmi, ti assicuro.”
Matteo inarcò un sopracciglio, un fischio basso che gli usciva dalle labbra.
“Se lo avessi saputo prima.” mormorò, sarcastico, scendendo dalla moto e spostandosi dietro di lei.
Veronica lo guardò, confusa, non riuscendo minimamente a seguirlo. Sentì la moto che si inclinava, priva sia del cavalletto che della presa salda del ragazzo. Sussultò, preparandosi già all’impatto con il terreno. Impatto che non arrivò.
“Non ti sposti?”
Riaprì gli occhi che non si era nemmeno accorta di aver chiuso. Voltò la testa, incrociando gli occhi scuri e maliziosi di Matteo: teneva la moto, reggendola con una mano sul retro del sedile.
“Che stai facendo?” chiese scrutandolo, sempre più convinta che stesse dando di matto.
“Ti faccio spazio.” rispose lui, alzando gli occhi al cielo, l’espressione scocciata e cortese al tempo stesso. Una combinazione a dir poco inverosimile.
“Perché?” non poté fare a meno di domandare Veronica, incredula.
“Non volevi guidare?” chiese a sua volta Matteo, un sorrisetto sotto i baffi.
Veronica spalancò gli occhi, basita: quello proprio non se lo aspettava. Non reagì quando Matteo iniziò a ridacchiare, divertito come mai. Non mosse un muscolo quando lui, sempre ridendo, le poggiò una mano sulla schiena, sospingendola in avanti, verso il manubrio. Restò immobile mentre il ragazzo si sedeva dietro di lei, le mani che prendevano le sue, guidandole.
“Non mi dirai che hai paura.” sussurrò, il fiato che le carezzava il collo.
Veronica si riprese, un sospiro seccato che aveva il sopravvento.
“Certo che no.” sentenziò decisa “Solo non me lo aspettavo.”
“Cosa?”
“Che cedessi così facilmente.”
Matteo non rispose, poggiando il mento sulla spalla della ragazza. 
E lei non disse più niente.
Serrò le labbra, concentrandosi unicamente sul vano tentativo di controllare il respiro sempre più affannoso. Non era colpa sua. Che ci poteva fare, lei? Sbagliava lui. 
Lui che se ne stava così vicino. Troppo, decisamente troppo vicino.
“Mai guidata una moto?” chiese Matteo, annullando ogni distanza fra i loro corpi.
“Un motorino.” balbettò Veronica, le gambe strette fra quelle del ragazzo “Al liceo.” concluse, non riuscendo più a far conciliare i pensieri. Si mosse appena, scontrandosi con il petto di Matteo.
“Non cambia molto.” la rassicurò lui, stringendo maggiormente la presa sulle sue mani e sfiorandone con leggerezza le dita “Con queste freni,” spiegò, facendo sì che gli indici si soffermassero su due leve in particolare “e girando questa acceleri.” continuò, poggiando la testa sull’altra spalla.
“Sei sicuro che…” lo interruppe Veronica, la voce che tremava “E se combino un casino?”
Rabbrividì, immaginando già la moto che si sfasciava contro un muro.
“E io che ci sto a fare, qui?”
Un sorriso sornione nello specchietto, una risatina nervosa.
Una chiave che girava, un motore che partiva. E il resto fu vento.
Veronica sorrise, non riuscì a smettere neanche un secondo. Aveva l’impressione di non vedeva la strada: riusciva solo a sentire. Sentiva la velocità, la libertà e tante altre sensazioni nuove, mai sperimentate. Sentiva il sole, il vento. Non li avvertiva davvero: non scaldavano, non colpivano. Ma c’erano, sulla sua pelle, contro il suo viso. Negli occhi, a dare un senso di verità al tutto. A rendere ogni cosa reale.
Sentiva la presenza di Matteo, dietro di lei. Stretto alla sua vita, una mano a pochi centimetri dalla sua, le gambe che sfioravano le sue. E c’era quella stupida, malsana convinzione che, fintanto che c’era lui, non sarebbe successo niente di male.
“Sto andando bene?” chiese a un certo punto, le dita che inconsapevolmente allentavano la presa. Matteo la avvolse con le braccia, raddrizzando il manubrio, un tenue sorriso ad incurvargli le labbra.
“Molto.” le sussurrò all’orecchio, nascondendo poi il viso vicino al suo collo, riparandosi dal vento. Veronica rabbrividì, il naso di lui che la solleticava con un movimento lento e lineare.
“Matteo.” sfiatò, poggiando appena la testa contro quella del ragazzo “Stiamo vibrando.”
“E’ un’analogia per dire cosa, ragazzina?” chiese lui, ridacchiando pacatamente.
“Che vibriamo.” rispose Veronica, sorridendo di riflesso.
Matteo sussultò, avvertendo solo in quel momento lo squillo del cellulare. Si mosse sconnessamente, cercando a tentoni il telefonino. Qualche imprecazione soffocata e l’aggeggio apparve finalmente fra le sue mani: fissò lo schermo, irritato perché aveva appena smesso di suonare. Scuotendo la testa, borbottò:
“Cambio di rotta.”
Avvolse di nuovo Veronica fra le braccia, coprendo le mani della ragazza con le sue.
“Che stai facendo?” chiese lei, non riuscendo più a controllare la moto.
“Guido.” rispose Matteo, compiendo una rapida inversione e cominciando drasticamente ad accelerare. La velocità tenuta fino a quel momento era ormai solo un pallido ricordo.
“Ma stavo guidando io!” 
“Lo so.”
Veronica si zittì, aspettando che continuasse. 
“Devo andare a casa.” esalò alla fine lui, lo sguardo fisso sulla strada.
“Hai una casa?” 
“No, vivo sotto i ponti.” sbuffò caustico Matteo, imboccando una stradina laterale e allontanandosi sempre più dal centro cittadino. 
“Non fare l’idiota.”
“Mi adeguo alle tue domande.” sibilò il ragazzo, scoccandole una rapida occhiata.
“Chi era al telefono?” continuò Veronica, cercando di piegare un pochino le leve del freno.
“Il mio coinquilino.” rispose lui, bloccandole le dita.
“Hai anche un coinquilino?” si meravigliò la ragazza, spalancando gli occhi.
“Oh, sì.” mormorò Matteo, frenando gradatamente “E lo conosci anche.”
Veronica dischiuse le labbra, fissando il posto in cui si erano fermati.
“Lo conosco?” domandò esterrefatta, gli occhi che scorrevano la strada “E dov’è che abiti, poi?” sbottò, cercando inutilmente un qualche palazzo o anche solo una casetta. 
Scrutò le serrande sgangherate e arrugginite che si susseguivano, la campagna che si apriva a pochi metri di distanza e fu con la coda dell’occhio che notò le altalene semi distrutte un po’ più in là. 
“Proprio di fronte a te.” rispose Matteo, scendendo agilmente dalla moto.
Sistemò il cavalletto, togliendo subito dopo il casco a Veronica e porgendole una mano.
“Scendi?”
Lei ignorò la mano del ragazzo, scendendo dal lato opposto al suo. 
Socchiuse gli occhi, fissando la serranda metallizzata che aveva davanti. 
“E’ un garage.” sillabò, come se ci fosse il bisogno di spiegarlo.
“E’ casa mia.” ribatté Matteo. Batté tre volte il pugno contro la serranda, una mano che correva automaticamente alla tasca dei jeans: ci voleva una sigaretta.
Non ebbe il tempo di prenderla che la serranda si sollevò rumorosamente, lasciando uscire una testa rossa e senza fiato. Veronica s’inumidì le labbra, sforzandosi di ricordare dove lo avesse visto.
“Matteo!” sbottò il ragazzo, rifilandogli una pacca non esattamente leggera sulla spalla “Dove diavolo eri finito, si può sapere?! E’ da stamattina che ti chiamo. Non una volta che tu ti sia degnato di rispondere, porco cane!” si fermò un secondo, tentando di calmarsi.
“Simone.” mormorò Matteo in risposta, preoccupato per quella ramanzina inusuale: non succedeva mai, proprio mai, che Simone alzasse la voce.
“Non mi dire Simone! E…” tentennò un secondo, mordendosi l’interno guancia “E si può sapere cosa diamine hai fatto all’occhio, questa volta?”
Veronica ghignò, riconoscendo in quel tipetto dai capelli rossi il commesso dei Grandi Magazzini. Si schiarì la voce, cercando di attirare l’attenzione dei due ragazzi ma non vi riuscì. Matteo alzò gli occhi al cielo, sbuffando sonoramente, l’espressione altamente contrariata.
“Non è il momento!” s’inalberò, fulminandolo con gli occhi “E’ successo qualcosa piuttosto, o chiamavi solo perché ti andava di sentirmi?”
Simone ricominciò a mordersi l’interno guancia, strusciando il piede con fare pensieroso.
“Abbiamo un problema.” mugugnò alla fine senza incontrare lo sguardo di Matteo.
“Che tipo di problema?” chiese l’altro, oscurandosi sempre più in volto.
“Del tipo…” iniziò Simone, tentennando indeciso  “… del tipo che ci hanno sfrattato.”
Matteo sgranò gli occhi, arretrando confuso di un passo. Scosse la testa, cercando disperatamente di leggere sul volto del ragazzo un qualsivoglia indizio che stesse scherzando. Non lo trovò.
“Non è possibile.” sibilò, rifiutando di accettare la cosa.
“Non abbiamo pagato gli ultimi due mesi, Matt.” guaì il rosso, spalancando le braccia “Il ragioniere è passato stamattina e ci ha buttati fuori.”
Matteo crollò a sedere sulla moto, scuotendo la testa quasi per inerzia.
“Io… posso chiedere un prestito.” provò, il viso pallido e scosso.
“Ha detto che non ci vuole più vedere.” disse piano Simone, abbassando il capo e fissandosi la punta delle scarpe “Non vuole saperne più niente: tempo due giorni dobbiamo liberare il posto.”
Matteo gemette, prendendo una sigaretta con dita tremanti. L’accese, aspirando come se fosse l’unico modo per sfuggire a quello che stava succedendo.
“Cazzo.” mormorò espirando “Cazzo, cazzo, cazzo!” tirò un calcio, colpendo un sassolino solitario che fece qualche metro saltellando indisturbato.
“Come cazzo facciamo adesso, me lo dici?” esalò, la sigaretta che gli pendeva dalle labbra serrate.
“Matt.” lo richiamò l’altro, cercando di calmarlo.
“Ci siamo fottuti la casa!” sbottò Matteo, dimentico di ogni cosa.
Veronica si strinse nella giacca, abbracciandosi da sola. Alternava lo sguardo fra i due ragazzi, sentendo sulla pelle la disperazione e la frustrazione che aleggiavano nell’aria. Ora per davvero sarebbe finito a vivere sotto un ponte, pensò, chiudendo gli occhi.
“Da noi c’è posto.”
Matteo e Simone si girarono in contemporanea. Uno ricordando solo in quel momento la presenza della ragazza, l’altro venendone finalmente a conoscenza. 
La fissarono, gli sguardi vacui.
“C’è posto.” ripeté Veronica, stringendosi nelle spalle “Per entrambi.”
Matteo ridacchiò, ignorando la piccola speranza che aveva colorato il volto del suo coinquilino. Rise, di una risata isterica. Scosse la testa una sola volta e salì a cavalcioni della moto. Un’ultima tirata dalla sigaretta e accese il motore.
“No.”
Pochi secondi di silenzio seguirono quel monosillabo.
Poi, un rombo più forte dei precedenti e una sgommata che echeggiò a lungo nell’aria.
Matteo era sparito.

 

 

 

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