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Autore: Gwen Chan    03/02/2011    2 recensioni
Nel '500, dopo la pubblicazione del dialogo "Prose della volgar lingua" di Pietro Bembo viene deciso che la lingua letteraria in Italia sarà il fiorentino trecentesco.
Ora tocca proprio a Bembo insegnare questa nuova lingua ai piccoli fratelli Vargas.
[chibi!Italia]
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nord Italia/Feliciano Vargas, Nuovo personaggio, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nuova lingua

“Bisogna che tu impari a scrivere Lovino!” esordisce Bembo, con le stesse parole che pochi mesi prima ha rivolto a Veneziano.
Il bambino lo fissa scettico.
L’uomo è vestito allo stesso modo di Vaticano e la cosa non offre di sicuro punti a suo favore. Proprio per niente.
Lovino prova una forte antipatia per lo stato che, per qualche strano motivo, forse un’ipocrita parvenza di affetto, si ostina a farsi chiamare zio, pur non essendolo. Lovino si è sempre rifiutato di farlo. Non è suo zio, non è nemmeno un parente, né lo sarà mai. Ai suoi limpidi occhi di bambino, capaci di vedere la verità dietro i numerosi veli della menzogna, dietro le parole vuote e i trattati di guerra e di pace degli adulti, Vaticano è solo un usurpatore, nient’altro. È un usurpatore che ha preso sotto la sua custodia tutto il centro Italia, la terra che dovrebbe appartenere a Lovino e a suo fratello. Ha usurpato la terra che era loro per diritto di nascita. Li ha divisi, se ne sta lì in mezzo e impedisce che la loro famiglia possa riunirsi, e Lovino non può perdonarlo per questo.
Il bambino incrocia le braccia sul petto, gonfiato per sembrare più grande, e fissa altero Bembo. Solo il pizzico di educazione e di buone maniere che i grandi sono riusciti a inculcargli con una pazienza infinita, impedisce al piccolo di prenderlo a male parole. Si limita a sbuffare.
E poi che cavolo vuol dire che deve imparare a scrivere? Sa già scrivere, miseriaccia! Dal ‘300, da quando a Castel del monte Federico 1si attorniava di poeti. Lovino si ricorda ancora le serate passate seduto su una sedia che era grande il doppio di lui, in un angolino, ad ascoltare le poesie di uomini 2 che sembravano avere un dono misterioso perché le loro parole, le emozioni che sapevano suscitare, avevano un che di magico.
Ha assistito in silenzio alle loro gare poetiche, agli elogi delle donne, ai commenti soddisfatti di Federico. Li ha ascoltati finché sentire non gli è più bastato, allora ha cominciato a seguirli, a tirare loro l’orlo dei vestiti, a importunarli, sempre con la sua infantile schiettezza, con il solo scopo di convincerli ad insegnare a scrivere anche a lui. Li ha sfiancati fino a farli cedere.
Breve sprazzo di gloria di quella terra, la sua terra, già dimenticata dal mondo.
Li ha visti morire uno dopo l’altro, i suoi amici, i suoi mentori, che a turno gli hanno mostrato il significato delle lettere e per lui hanno composto storie quando era troppo agitato per dormire.
Li ha visti andarsene e con loro, la potenza, la bellezza letteraria del Sud.
“Volevo dire che devi imparare bene il fiorentino, perché da ora in poi sarà la lingua della letteratura. Una sola lingua per tutti gli scrittori.”
Lingua unica un cavolo! Fiorentino un cavolo! Come se dalle sue parti non ci fossero tante belle lingue, tanti bei dialetti che meriterebbero di essere valorizzati. Come quello che parla Sicilia.
Sicilia, la sua bella Sicilia, dalla pelle ambrata, dai capelli scuri e dal profumo di arance rosse. Sicilia, che sa tenergli testa, con la sua voce secca e aspra, forte, ma allo stesso tempo dolcissima. Come si sentirà, come la prenderà, a sapere che le sue parole, la sua lingua presto non conteranno più nulla? La sua Sicilia per la quale ha composto tante poesie, tenere e infantili.
Fiorentino, sempre e solo fiorentino, solo perché Firenze, che già si atteggia a gran signora, ha avuto la fortuna di ospitare tre tizi i cui nomi passeranno alla storia: Dante, Petrarca e Boccaccio 3.
Lasciando stare il primo, sembra proprio che Bembo abbia scelto costoro come modelli da propinare a Lovino. E la cosa non gli piace per nulla. Magari Boccaccio, con le sue novelle divertenti, sarà anche passabile, ma Petrarca, quel piagnucolone, non riesce a digerirlo.
Non apprezza il fatto che i fiorentini abbiano il vizio di modificare secondo i loro canoni tutte le poesie che finiscono nelle loro mani; primi fra tutti i testi dei poeti della Scuola Siciliana. Lovino ha visto i sonetti che tanto lo hanno fatto emozionare, completamente stravolti, con le vocali tutte sbagliate. Le “I” sono “I” e le “U” sono “U”, caspita! Allora perché si ostinano a cambiarle in “E” e in “O”? Bembo tenta di convincerlo, parla di unità letteraria.
Non gliene frega niente dell’unità letteraria! Vuole l’unità dell’Italia, la vera unità, vuole poter ritrovare suo fratello, vivere con lui sotto lo stesso tetto, come una famiglia. E se proprio non si può, vuole almeno l’unità della lingua parlata perché ora come ora basta cambiare città perché capirsi risulti un’impresa. E in fondo la gente comune parla, non scrive. Solo i ricchi, quelli che hanno protettori e tempo da perdere, scrivono.
Lovino corruga la fronte, alla ricerca di un motivo per sedersi al tavolo e impugnare la penna, intingerla nel calamaio e passarla sulla pergamena. Pensa al modo di mandare via Bembo, ancora fermo e sorridente davanti a lui. Pensa a come farsi piacere la sua assurda proposta.
Riflette che con un’unica lingua scritta, forse, e dice forse, almeno le lettere che riceve dai signori del Nord saranno finalmente comprensibili. Potrà scrivere a suo fratello e ricevere una risposta coerente; scrivere del prezzo delle verdure e non ricevere commenti sullo spettacolo teatrale tal del tali 4.
Il suo senso pratico gli suggerisce che quello è l’unico motivo per il quale è disposto a sottostare agli insegnamenti di Bembo.
Prende la penna, inizia a scrivere, poi guarda il librone che in teoria dovrebbe copiare. E a quel punto, davanti a quella mole di carta, non riesce più a trattenersi. L’insulto gli sfugge birichino dalle labbra.
Bembo non si scompone. Dice solo che la sezione dedicata all’invettiva è a pagina 113.

1. Federico II di Svevia, imperatore del Sacro Romano Impero.
2. I poeti della scuola siciliana.
3. Le cosiddette “Tre Corone”
4. Ho un po’ esagerato, ma alla fine era davvero un’impresa comprendersi di regione in regione.

   
 
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