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Autore: YuXiaoLong    04/02/2011    1 recensioni
Capita di rado, ma le storie di due mondi possono intrecciarsi.
Yulannath dell'Accademia dei Due Draghi (salvo in casi formali, Yu) è un giovane bizzarro: sognatore, distante, distratto, irrilevante per i Terrestri, che lo conoscono con un altro nome. Ma egli è un Viaggiatore, capace di attraversare il Confine, la barriera che separa la Terra dall'Inframondo: il mondo gemello che alberga ogni sorta di creatura fantastica. Ma ben presto il suo destino lo porterà al di là di entrambi, fra rancori e ambizioni senza tempo.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ars Arcana, Capitolo VIII

Yudrazath

 

 

 

Eidrath balzò fuori dalla neve come se fosse stata acqua, ancora avvolto dall’alone bianco che aveva protetto lui e il nano dalla valanga.

Non appena la creatura atterrò sulle robuste zampe posteriori e lo liberò dalla sua stretta, Rangrin balzò via, la barba e i capelli tutti arruffati, il petto gonfio di indignazione e le guance rosse come carboni ardenti.

“Ma dico!” sbottò, spazzolandosi tutti i vestiti con aria disgustata. “La prossima volta, prima mi spieghi cosa vuoi fare, poi mi abbracci, e comunque, solo se io ti do il permesso, testa brinata!”

Scusa?” fece il drago, indignato. “Le valanghe non aspettano, per tua informazione. O preferivi finire come i tizi fuori dal castello?” scandì, impettito, alzandosi sulle zampe posteriori e puntando un artiglio al petto del nano con fare inquisitorio.

“Bah!” fece Rangrin, incrociando le braccia e alzando il mento. Però distolse lo sguardo.

Eidrath sospirò e si rimise su quattro zampe. “In ogni caso, sarà opportuno trovare un posto più riparato. Sulla neve sei fin troppo evidente, e di certo qualcuno verrà a controllare la zona: non serve certo il sesto senso di un drago, per capire che la cosa non è affatto normale” considerò. “Se non altro, con tutta questa neve sarà più facile scavalcare le mura” aggiunse, guardando l’Accademia.

La neve che era scesa dalla montagna si era accumulata tutto attorno alla fortezza, soprattutto sul lato a monte, creando una sorta di rampa naturale.

“Renderà le cose più facili anche agli Euxeliani” bofonchiò il nano, lisciandosi la barba. “Anche se suppongo che non ci siano alternative…” osservò, guardandosi attorno. Degli alberi, ormai, si vedevano solo le cime, di certo non sarebbe stato possibile nascondersi tra le piante. Inoltre, col buio le temperature sarebbero scese ancora, per non parlare del fatto che un’altra tormenta poteva scatenarsi da un momento all’altro. Scendere in paese, poi, era fuori discussione: già lui solo avrebbe attirato parecchio l’attenzione, figurarsi poi come avrebbe reagito la gente vedendolo andarsene a spasso con un drago. “Bah” bofonchiò infine, scacciando le preoccupazioni con una scrollata di spalle. “In ogni caso, là dentro sarà più comodo. Avremo cibo e di certo riposerai meglio; vogliamo che torni a volare il prima possibile, no? Io non sono un gran guaritore… ma alla fine, le tue ali sono un po’ come il mio pallone. Magari le posso ricucire un po’…” rifletté, prendendo un’ala del drago e studiandola con fare clinico.

Eidrath, in risposta, sgranò gli occhi e diede uno strattone per sottrarla alle manacce di quello svitato di un nano.

“Palloni? Cucire? Sono un drago, non una bambola di pezza!” esclamò, indignato, lisciandosi l’appendice lesa con una zampa. Quel piccoletto era fuori di testa!

“Come credi che si sistemino le ferite, senza magia?” lo rimproverò l’aviatore. “Sei o non sei un drago adulto? Per gli antenati, comportati da uomo! E’ solo un ago e un po’ di filo, non morirai. O ti aspetti di riuscire a trovare qualcuno che possieda incantesimi curativi in questa situazione?”

La creatura si ingobbì e si rabbuiò, abbassando le orecchie; ma, non avendo alcun valido argomento da opporre, si limito a mugugnare il suo consenso.

“Un po’ di coraggio, su, ragazzo mio!” continuò il nano, apparentemente gratificato dall’edificante paternale che stava propinando al drago, stringendo un pugno con fare teatrale. “Un vero uomo… ehm…” si interruppe e lo studiò un attimo il suo interlocutore. “Uhm… be’, quello che sei. Un vero coso adulto come te affronta le cose a testa alta. Con onore, per gli Antenati!” esclamò, battendosi il pugno sul palmo dell’altra mano. “Considerala parte della tua prova, ragazzo”.

Eidrath lo ascoltò con scetticismo e una smorfia sul muso. La prospettiva di ricevere quelle cure così barbariche non lo allettava minimamente.

“E… guarirò più in fretta, se ti lascio fare questa cosa?” domandò, titubante. Non riusciva a credere di stare davvero prendendo in considerazione l’ipotesi fare come il pazzoide diceva.

“Orpo!” rispose quello. “Vuoi scherzare? Tornerai come nuovo in men che non si dica, parola di nano”.

Il drago sbuffò dalle narici e guardò da un’altra parte. “Va bene, va bene… adesso muoviamoci, però” borbottò, avviandosi verso la fortezza.

 

Anche con l’aiuto della neve, per Rangrin fu un’esperienza frustrante. Per qualche ragione a lui ignota, quel lucertolone ipertrofico non sprofondava minimamente nella coltre bianca, anzi, vi camminava sopra come se fosse senza peso… al contrario di lui, che si sentiva sprofondare nella gelida sostanza fino al ginocchio ad ogni passo. L’aria vagamente seccata con cui ogni volta Eidrath si voltava, sospirava e alzava gli occhi al cielo prima di aiutarlo gli faceva venir voglia di strangolarlo.

Le difficoltà non finirono quando, faticosamente, giunsero sotto le mura: il drago si accoccolò come un gatto e, con un potente balzo, si aggrappò ai merli del castello e, aiutandosi con qualche colpo d’ala, si issò oltre il bordo, indi si voltò con un’espressione curiosa che lo rendeva maledettamente simile ad un gatto per osservare i futili tentativi del nano di seguirlo.

Rangrin, non volendogli dare tanto presto la soddisfazione di chiedergli aiuto, si impegnò molto, e saltò tanto in alto quanto le sue corte gambe gli permettevano, ma finiva per sprofondare ogni volta che atterrava. Inoltre, la neve soffice smorzava il suo già scarso slancio.

Fortunatamente per lui, il drago si stancò presto di quel gioco, e con agilità felina si sporse oltre gli spalti, lasciò scivolare le zampe anteriori sulla pietra e si spinse in avanti con le posteriori. Poi si sollevò in stazione eretta e, appoggiandosi al muro per mantenere l’equilibrio, esortò il compagno: “Coraggio, arrampicati. Cerca solo di non farmi troppo male, va bene?”

Rangrin grugnì qualcosa che Eidrath interpretò come un ringraziamento e si inerpicò su per la scala improvvisata.

Finalmente sugli spalti, esaminò il cortile: era fondamentalmente come l’avevano lasciato, pieno di neve. Non c’erano impronte nuove, il che significava che nessun altro vi aveva messo piede.

Dove diavolo sei andato a finire, ragazzino?, pensò, rabbuiandosi.

“Allora…” fece il drago dopo un po’, riscuotendolo da quell’improvvisa malinconia che non si riusciva a spiegare. “Dove possiamo sistemarci?” domandò, guardandosi attorno con curiosità.

Il nano optò per la torre che aveva colpito col suo pallone: era abbastanza spaziosa, aveva una vaga idea di come fosse fatta… ed era il primo posto in cui Yu, se fosse tornato, l’avrebbe cercato.

Era assurdo che la sorte del piccolo Demone lo preoccupasse tanto:  Eidrath, una volta guarito, gli sarebbe stato molto più utile della fumosa promessa del mago; ma per qualche stupido motivo che non riusciva minimamente ad afferrare, gli importava della sua sorte.

Ma finché il ragazzo non si fosse fatto rivedere, la priorità andava al drago, senza dubbio. Almeno, con lui aveva un’idea, anche se un po’ vaga, del da farsi.

Lo fece accomodare nella sala dove Yu aveva soccorso lui, e, dopo avergli raccomandato di non ficcanasare in giro e di non rompere niente, cominciò a frugare in giro per la torre, alla ricerca di qualunque cosa potesse tornargli utile per medicare il drago. Diverse volte gli parve di intravedere un gatto nero guardarlo con ostilità, ma l’animale non si mostrò aggressivo(Aver paura di un gatto? Ma come sono ridotto?), e il nano decise di ignorarlo.

Si imbatté in vari intrugli, erbe e polveri di cui non conosceva l’uso, e che preferì non sperimentare in quella sede; prese, invece, una bacinella, degli stracci, del sale, acqua e, dalla sua cassetta degli attrezzi, ago e filo per ricucire le ali al giovane drago.

Medicarlo si rivelò una vera impresa: non solo Eidrath, che, in quanto creatura del gelo non amava gli oggetti roventi, cercò di sgattaiolare fuori dalla torre quando vide Rangrin mettere a bollire l’acqua, ma svariate volte soffiò o scoprì i denti mentre gli puliva le ferite, sulle ali e non.

Quando poi il nano cominciò ad applicare i punti (la membrana alare gli ricordava davvero tanto il suo pallone), il drago gli mollò una zampata sul naso e balzò via, appallottolandosi un angolo della stanza, ostile.

“Che diamine!” sbottò Rangrin, massaggiandosi la parte lesa, gli occhi lacrimanti per il dolore. “Mi spieghi perché l’hai fatto?”

“Perché mi hai fatto male, zuccone!” replicò Eidrath, stizzito, tenendo le ali ben chiuse, e fuori dalla portata di quel macellaio. “Pensavo che volessi farmi star meglio!”

“Che… urgh!” grugnì il nano, tirandosi la barba per la frustrazione. “Come ti aspetti che metta i punti, con le buone intenzioni? Ho un mano un ago, è ovvio che punge. Ora, sopporta un po’ questo fastidio e ti prometto che poi starai meglio” lo rimproverò.

Il drago, imbronciato, si ritrasse ancora di più.

“Non farmi arrabbiare… vieni qui e fatti medicare, aquilone squamato” ringhiò l’aviatore. Il drago ringhiò sommessamente, e sbuffò dal naso, ma alla fine obbedì e si avvicinò, con passo strascicato e l’espressione di qualcuno che va incontro al boia. Nondimeno, dopo la lavata di capo sopportò le  cure con molto più contegno.

Finito il lavoro, Rangrin tirò un sospiro di sollievo e si sedette sul pavimento. Era stato più faticoso del previsto: le lesioni erano tante, e quelle più vicine alla schiena erano complicate da raggiungere.

Eidrath si guardò le ali con aria affranta.

“Via, via, non fare quella faccia. Adesso hanno un brutto aspetto, ma nel giro di qualche giorno vedrai che miglioramenti” lo incoraggiò il nano. Probabilmente i punti che aveva messo non erano della miglior specie, ma erano sempre meglio di niente. “Odio fare la bambinaia” aggiunse subito dopo, giusto perché il drago non si facesse strane idee.

Ma quello si limitò a sospirare e ad accoccolarsi sul pavimento.

“Credo che sia un buon segno” disse dopo un po’, con aria vagamente trasognata. “La valanga, intendo”.

“Be’, ci ha risparmiato qualche seccatura, sì. Ma potevo anche restarci secco, se non mi proteggevi” rispose il nano, armeggiando col caminetto.

La creatura annuì e borbottò qualcosa nel suo astruso linguaggio, e subito dopo crollò addormentata.

Rangrin gli rivolse un’occhiata vagamente perplessa, indi tornò a concentrarsi sul fuoco.

“Bambinone” borbottò.

 

Il pomeriggio scivolò via piatto, e il sole tramontò senza che Eidrath si svegliasse. Solo quando fu buio, un nuovo boato gli fece riaprire gli occhi. Sembrava quello che avevano udito prima della valanga, eppure vi era anche qualcosa di diverso: sembrava risuonare nell’aria, come se non venisse da alcun punto nello specifico… come se l’intera valle stesse tuonando.

Rangrin alzò lo sguardo al soffitto, circospetto: non voleva certo restare schiacciato da un crollo. Poi guardò Eidrath. Anche lui pareva stupito, ma non spaventato… e, in qualche strano modo, concentrato… anche se per il nano era assai difficile decifrare le sue espressioni da rettile.

“Che fracasso. Speriamo non ci crolli tutto addosso” buttò lì, per attirare l’attenzione del drago. Quello non lo guardò, ma gli rispose: “Il Drago della Valle dorme male, stanotte”.

Rangrin non capì, ma dall’aria assorta del suo interlocutore dedusse che non sarebbero arrivate risposte più illuminanti, finché il frastuono non fosse cessato (d’altra parte, perfino lui sapeva che parlare per indovinelli era nella natura di ogni drago), perciò si avvicinò ad una finestra per guardare cosa accadeva fuori.

“Speriamo solo che rigirandosi non ci schiacci” brontolò verso il buio.

 

***

 

La parte più difficile fu riaprire gli occhi.

C’è del lavoro da fare.

Ma stava così bene, sdraiato!

Cose serie. Non c’è tempo per esser pigri.

Proprio no, era vero.

Ringhiò sommessamente per il disappunto, e uno alla volta, schiuse i suoi occhi color turchese.

Era buio. E freddo. Ma nessuna delle due cose lo spaventava: era buio, perché era notte, ed era freddo perché era inverno. Nulla di fuori dall’ordinario, a parte lui.

Inspirò profondamente, dopo tanti anni, lasciando che l’aria notturna gli riempisse i polmoni. Quel soffio fresco pervase il suo corpo robusto e al tempo stesso sinuoso, e bastò a spazzare via quasi tutto il sonno.

Un po’ goffamente, si alzò a sedere e si stiracchiò; sbadigliò, mostrando i denti affilati, poi si passò una mano nella folta criniera argentata.

Volse lo sguardo al cielo e sospirò. Eh, sì… era proprio ora di mettersi al lavoro, non c’erano scuse.

Ancora un po’ barcollante, si alzò in piedi. Una bella scampagnata per il cielo, ecco cosa ci voleva.

Sotto di lui, la valle brontolò.

“Sono sveglio, sono sveglio” assicurò Yudrazath. “Ho capito l’antifona. Avrò pur diritto ad un attimo per rimettermi in sesto?”

La terra mandò un secondo brontolio, ma più breve e sommesso.

“Bene” borbottò la creatura, guardandosi attorno. Le ci volle poco ad orientarsi.

Era piuttosto lontano dal suo obiettivo, ma in volo ci sarebbe arrivato in un batter d’occhio. C’era tutto il tempo per una passeggiata.

La sua lunga coda guizzò per l’emozione. Piegò le robuste gambe e chiamò a raccolta le forze. I suoi lunghi baffi ondeggiarono come privi di peso, catturando guizzi di luna.

Infine, spiccò un salto, e impose al suo corpo robusto la leggerezza del vento. Subito delle fiammelle verdi si accesero nell’aria e cominciarono a danzargli attorno.

Yudrazath le ignorò: ci era abituato, erano solo una manifestazione visibile del suo potere spirituale. E poi, dare un po’ di spettacolo non gli dispiaceva.

Senza bisogno di ali, volteggiò senza peso fino a raggiungere le nuvole, muovendosi quasi come se stesse nuotando, lasciando che l’estasi del volo, che non si concedeva da tanto tempo, si impadronisse di lui.

Per un po’, scivolò qua e là senza meta, lasciandosi guidare dal suo capriccio, tracciando eleganti curve nel firmamento.

Rise, pensando che ben poche creature erano maestose e sciolte quanto lui nel volo. Non gli sarebbe affatto dispiaciuto avere qualcuno con cui giocare, in quel momento… ma il cielo era vuoto, fatta eccezione per qualche sporadico rapace notturno o pipistrello.

La terra protestò di nuovo, e lui perse qualche metro di quota, di colpo.

“Va bene, va bene, ho capito. Vado, vado” brontolò, guardando in giù, imbronciato. Mai che potesse concedersi un po’ di divertimento. Era quasi sempre o lavoro, o dormire.

Nondimeno, si abbassò un po’, e lasciò che la terra lo guidasse, ma essa stessa era un po’ confusa. Il problema, sentì, era più complicato della sensazione immediata, ma porre rimedio alla questione più evidente era certamente il primo passo anche su più vasta scala.

Sbuffò. Odiava le questioni arzigogolate. O meglio, odiava doverci porre rimedio. A dire la verità, finché non lo concernevano, le trovava anche piuttosto stimolanti: solleticavano il suo intelletto. Non fosse stato ciò che era, e non ne fosse stato così maledettamente orgoglioso (d’altra parte, come non esserlo?), ci avrebbe sputo fare. Ma detestava trovarsi invischiato in questioni tanto meschine, e di solito preferiva il tipo di problema che si poteva risolvere applicando una buona dose di forza bruta.

Fece un brusco avvitamento, stizzito, sprizzando scintille verdi tutto attorno, e accelerò, portandosi in prossimità del suo obiettivo. Fu con grande, grande disappunto che li trovò dispersi nel paese. Sulfuracque, o così si chiamava l’ultima volta che l’aveva visto. Chissà se aveva ancora lo stesso nome, dopo tanto tempo?

Li sentiva, gli stranieri, impuri, mescolati alla gente della valle, non immacolata, ma non certo così corrotta; erano nelle loro case, nelle loro stalle, nelle loro locande, dappertutto. Tanti. Troppi, si disse con fastidio.

Ma, d’altra parte, non erano loro ad essere il problema principale, né erano, in effetti, il suo principale bersaglio: quello che doveva allontanare era lo Straniero.

Non gli piaceva minimamente, e non piaceva alla valle; per dirla tutta, tutto il mondo lo schifava.

Non doveva starci, lì; non era il benvenuto. Anzi, se non ricordava male, quelli come lui erano stati cacciati via, da un bel po’.

Guizzò silenzioso fra i tetti, serpeggiò basso fra i comignoli. Lo sentiva, lo Straniero, avrebbe potuto stanarlo ad occhi chiusi, tanto stonava con il suo mondo, il suo bel mondo.

Si poggiò con delicatezza sopra l’edificio che emanava il suo sgradevole sentore. Il tetto scricchiolò appena sotto il suo peso, ma fu un rumore insignificante.

Non era solo, lo Straniero… ce n’erano altri, con lui, pesci piccoli, di bassa stregua. Sarebbe bastato fare un po’ di fracasso, in condizioni normali, perché se la squagliassero. Ma con lui, tutto cambiava: lui era forte, lui era temuto. E poi, là dentro c’erano anche uomini e donne della valle… e lui non poteva e non voleva distruggere ciò che apparteneva alla valle.

Si sedette sui talloni e piegò il capo di lato, riflettendo. Era una bella seccatura: poteva provare ad attirarlo allo scoperto, ma se si fossero scontrati lì, avrebbero potuto nuocere alle creature della valle. Ciò era proibito, e lo Straniero certamente lo sapeva, e avrebbe cercato di trarne il massimo vantaggio.

Scoprì i denti per la rabbia e strinse un pugno tanto che quasi si bucò la pelle con gli artigli.

Vorrei semplicemente sgretolare questo edificio e…

Inspirò profondamente e si impose di calmarsi. Troppe vibrazioni negative l’avrebbero tradito: lui sentiva bene lo Straniero, ma lo Straniero, nella sua ignoranza, non sentiva lui; non più di quanto non sentisse il freddo nell’aria o la terra sotto i piedi, almeno.

Sbuffò due fiammelle verdi dalle narici e si sdraiò supino sul tetto freddo, imbronciato. Gli sarebbe toccato tirarla per le lunghe… e doveva pure tirare in causa i Pezzi Grossi. Quella sì che era una scocciatura. D’altra parte, perché sorprendersi? Finiva puntualmente così, ogni volta: tutto lavoro e niente divertimento. Be’, forse non proprio ogni volta, ma spesso.

Lavoro del tipo noioso, oltretutto, pensò con una smorfia, torcendosi un baffo. Perché toccava sempre a lui muoversi per primo, poi? Era tutto tremendamente ingiusto.

Sospirò. Alla fine, si trattava di passare per il solito, collaudato iter. Mai una volta che potesse affrontare il problema direttamente, a modo suo. No, doveva fare da balia all’improbabile gruppo di salvatori di turno, andargli dietro, suggerirli sul da farsi, aiutarli quando erano in pericolo, eccetera, eccetera… quante seccature.

“Bah” borbottò, rialzandosi a sedere. “La solita storia. Se devo farlo, tanto vale che provi a divertirmi un po’…” considerò, guardando il cielo stellato.

Quello spettacolo così banale riuscì a strappargli un sorriso. Abbassò lo sguardo, e osservò la valle addormentata. Era bello… era dannatamente bello. Bello abbastanza da passare per il solito calvario ancora una volta, tutto sommato.

Un po’ meno scocciato, si alzò in piedi e riprese il volo, accompagnato dai suoi fuochi fatui, puntando verso una delle montagne, seguendo la voce della terra.

Ovviamente, il suggerimento era quasi superfluo: sapeva bene che all’interno del Santuario il suo potere era maggiore… e anche lui avvertiva quella fastidiosa cappa, come se gli fosse stato messo un coperchio sopra la testa, grande come tutto il cielo. Era già successo un’altra volta, lo sapeva, ma lui era giovane, e se lo ricordava solo vagamente… anche se, doveva ammettere, stavolta la sensazione era molto più chiara.

Che sia più grave dell’altra volta?, si chiese, scendendo tracciando piccole spirali attraverso il pozzo che dava luce al Santuario. No, non c’era motivo di pensarlo: la terra non era più allarmata di quella volta. Né aveva visto o sentito lui grosse cose che potessero farglielo pensare. La differenza stava in qualcos’altro, che al momento aveva poca importanza.

Si posò sull’altare e notò che una delle gemme mancava. La cosa non lo sorprese: era la prassi, come la sua presenza lì in quel momento.

“Ah, le tradizioni…” sospirò, falsamente nostalgico, scrocchiandosi le dita mentre faceva mentalmente il punto della questione.

Il primo passo era diradare un po’ quell’odiosa cortina che si era stesa sulla sua valle: non gli piaceva, e sapeva che non poteva venirne niente di buono. Inoltre, così facendo avrebbe anche mandato un promemoria ai Pezzi Grossi, che era un’altra delle cose da fare; e per il resto, avrebbe dovuto stare a vedere cosa sarebbe capitato ai poveretti che avevano intenzione di proteggere quella terra… e aiutarli come poteva, ovviamente. La terra ne conosceva già qualcuno… e uno di loro era un imbranato: come al solito, la fortuna era dalla sua.

Scrollò il capo e scacciò quei pensieri negativi: meglio non perdere la concentrazione.

 

Luce

 

Si librò pochi centimetri sopra la pietra, richiamando una delle fiammelle nel palmo della sua mano. Se la accosto alla bocca e le sussurrò le parole dell’incantesimo, indi vi soffiò sopra e la proiettò nell’aria, piroettando fluidamente su se stesso.

La luce crebbe di intensità, e si mosse armonicamente attorno a lui, tracciando un’ampia spirale nell’aria.

La terrà mandò un rombo profondo, e la grotta fu scossa da una leggera vibrazione; un’intensa luce verde illuminò l’abisso attorno al grande pilastro centrale.

Yudrazath rimase imperturbabile e mantenne la concentrazione sulla fiamma che aveva invocato, proseguendo la sua danza aerea, facendola muovere in cerchi sempre più ampi attorno a sé. Lentamente, la fiamma cambiò aspetto, e prese una forma serpentina, inizialmente priva di tratti distintivi, che poi si fece sempre più grande e definita, fino ad assumere l’aspetto di un drago celeste, dal corpo maestoso e sinuoso, tutto composto di luminose fiamme verdi, che percorse serpeggiando tutto il perimetro del Santuario, scendendo verso la base del pilastro, per poi risalire in un’elegante spirale ascendente.

 

Purificazione Fulgente

 

Yudrazath tornò a toccare terra, e nello stesso istante il drago emerse dal pozzo, tracciò un ultimo, stretto anello con il suo corpo allungato attorno a lui, e con un possente colpo di coda guizzò verso il cielo stellato, lontano, per sparire fra gli astri.

Per alcuni secondi non accadde nulla. Poi la creatura alzò lo sguardo al cielo e allargò le braccia, e una colonna di luce smeraldina scese dal firmamento e inondò il Santuario col suo splendore.

Yudrazath rovesciò la testa all’indietro e chiuse gli occhi, concedendosi qualche istante per godersi il benevolo tepore della presenza del Capo.

E’ quasi come… come cosa?

Un pensiero ramingo si affacciò ai margini della sua coscienza, ma guizzò via subito, e la creatura ne perse il filo. Probabilmente nulla di rilevante, si disse.

Tuttavia, la distrazione fu sufficiente a riscuoterlo dal suo torpore e fargli percepire la stanchezza: l’invocazione l’aveva provato parecchio, e doveva riposarsi, se intendeva aiutare ancora gli improbabili difensori della valle.

 

***

 

Turm si svegliò di soprassalto, interrompendo sogni irrequieti che non riuscì a rammentare.

Dove si trovava? E come ci era arrivato? La testa faceva così male… l’ultima cosa che ricordava era un boato... come quello che l’aveva appena svegliato? Simile, sicuramente. E poi, in quel momento era buio, ed era sicuro che fosse giorno, quando aveva perso conoscenza.

“Fuori dal castello… un terremoto…” mormorò, chiudendo gli occhi scuri, per poi riaprirli di scatto.

Una valanga! I suoi uomini erano stati travolti da una valanga!

Spostò le coperte che aveva addosso e si alzò a sedere sul bordo del letto, guardandosi attorno. La stanza spaziosa e arredata in modo essenziale: qualche mensola, un tavolo rettangolare addossato ad una parete, una cassettiera e una cassapanca sul lato opposto, un paio di sgabelli. Sul tavolo bruciava una candela, unica fonte di luce nell’ambiente.

Vi era qualcosa di fuori posto, in quel quadro apparentemente banale, tuttavia, e a causa della confusione gli ci vollero alcuni secondi per realizzare di che si trattasse: in primo luogo, la luce che entrava dalla finestra aveva un che di innaturale; non era l’alone fievole degli astri notturni, né il bagliore bluastro delle notti di luna piena, ma un’innaturale luminescenza smeraldina e vibrante.

Inoltre, in piedi accanto alla finestra, pensieroso, c’era uno di loro.

Turm non sapeva bene come definirli, sapeva solo che erano maledettamente diversi e maledettamente sinistri. Emissari, li chiamava il Comando, diplomatici, rappresentanti di un’altra nazione… degli alleati di Euxelia.

Ambasciatori di un altro mondo.

Quello davanti a lui aveva l’aria giovane, il che non era straordinario, posto che nessuno di quelli che lui aveva visto (e nemmeno nessuno di quelli che si fossero presentati alla Corte, se era per quello) aveva l’aria particolarmente matura: viso liscio, appuntito, non un minimo accenno di barba; il naso ben proporzionato e tondeggiante, le sopracciglia sottili e una bocca aggraziata, dall’espressione sempre vagamente sorridente. I suoi occhi, grandi, di un impossibile color indaco, brillavano di una luce tanto magnetica quanto maliziosa e penetrante. I capelli, lunghi e lisci, solo in parte trattenuti in una coda alta, erano di un innaturale color grigio… ma non il grigio degli anziani e dei venerandi, bensì un colore metallico, bizzarro. I vestiti, poi, erano di una foggia stravagante che non aveva mai visto: scarpe nere (non avrebbe saputo dare un nome più preciso a quel tipo di calzatura) e lucide, pantaloni del medesimo colore, così come la giacca, bizzarra, che con quell’allacciatura strana sembrava sempre allacciata solo in parte, lasciando vedere una camicia sottile, bianchissima… e una strana striscia di stoffa annodata attorno al collo per scendere verticalmente sul petto.

“Sei sveglio” constatò l’Emissario, in tono piatto, senza degnarlo di uno sguardo.

Turm batté le palpebre, perplesso.

“Perdonatemi ma… che ci fate voi qui? In questa zona è in corso un’operazione militare, non è sicuro per un inviato come voi…” cominciò.

“Il Comando mi ha mandato ad assistervi” lo interruppe subito il giovane. “Ho fatto loro notare come le conoscenze magiche della mia gente siano di gran lunga superiore a quelle a vostra disposizione… e in una terra di maghi, questo tipo di conoscenza può sempre tornare utile. Quanto è accaduto e sta accadendo lo dimostra” illustrò con freddezza, senza staccare gli occhi dal cielo verde.

“Cosa è successo, di preciso?” domandò l’ufficiale con una smorfia, sentendo il dolore alla testa intensificarsi.

L’altro sospirò. Odiava dover dare spiegazioni a quel bruto; dubitava che avrebbe compreso. Lo guardò con un’aria di vaga sufficienza, accuratamente celata dal tono distaccato con cui parlava, e rispose: “Credo che si stia formando una resistenza alla vostra occupazione del territorio. Questa luce bizzarra è prodotta da dei sovversivi che intendono boicottare i progetti della Corte di Euxelia. La mia presenza qui, comandante, è volta a cogliere la sorgente del problema e assistervi nella sua necessaria eliminazione”.

Gli occhi vagamente a mandorla di Turm persero espressività, ma non luce.

Il Noxinal sapeva benissimo cosa significava: il soldatino voleva nascondere quello che pensava di ciò che aveva appena sentito; era ovvio che non gli piacesse: gli aveva appena comunicato di essere lì per dargli ordini. Non c’era certo bisogno della magia per indovinare cosa lo stolto stesse pensando.

“Il Comando ha dato disposizioni in merito?” domandò l’uomo, in tono perfettamente calmo.

L’Emissario, Zendramax, gli sorrise, un sorriso ostile, predatorio. “Naturalmente. La lettera è sul tavolo, ma ti consiglio, per stanotte, di riposarti. Avrai tutto il tempo domani, per leggerla” replicò, soave.

Turm gettò un’occhiata furtiva al tavolo, e, in effetti, notò una busta appoggiata poco distante dalla candela. Ma tornò subito a volgere gli occhi all’interlocutore: non gli piaceva distrarsi troppo, quello aveva qualcosa, nello sguardo, di tremendamente sbagliato.

Come se questo per lui fosse un gioco…

“Come sono scampato alla valanga?” chiese, dopo un momento di silenzio, esercitando il massimo controllo sul tono della voce.

“Fortuna ha voluto che giungessi appena in tempo per trarvi in salvo” fu la risposta serafica dell’altro.

Il Maresciallo esitò, prima di porre l’unico altro quesito logico.

“E… i miei uomini?”

Zendramax sospirò e tornò a guardare fuori.

“Troppi, e troppo distanti fra loro. Mi rincresce, ma i miei poteri non erano sufficienti a trarli in salvo. Sono stato costretto a scegliere… e voi, per il Comando, siete più importante dei semplici soldati” spiegò, senza traccia di rammarico nella voce limpida. Fece una pausa, indi, di nuovo con quel sorriso di tetra intelligenza, aggiunse: “E’ giusto che tu sappia che non si è trattato di una fatalità: la valanga non è semplicemente arrivata, è stata scatenata da qualcuno che desidera opporsi a voi. I tuoi uomini non sono solo morti, sono stati trucidati, schiacciati con una forza immane, rispetto a loro. Un potere soprannaturale considerevole…”

Si concesse qualche istante per studiare le reazioni dell’uomo, studiandolo con la coda dell’occhio. Lo vide abbassare lo sguardo al suolo, stordito, aprire la bocca per articolare qualcosa, poi scrollare il capo perché non trovava le parole.

Per ottenere il massimo della persuasione, doveva lasciarlo in quell’istante, di modo che si interrogasse tutta la notte, e che, il giorno dopo, pendesse dalle sue labbra.

L’animo dell’ufficiale era come un libro aperto, per lui: sapeva di non piacergli minimamente, e la cosa non gli importava… ma sapeva anche che il sempliciotto non si fidava di lui, e questo doveva cambiare. Ma, trattandosi di una cosa semplice come un essere umano, manipolarla sarebbe stato un gioco da ragazzi; con tutta probabilità, non sarebbe nemmeno servita la magia.

Senza smettere di sorridere, si alzò e si avviò verso la porta. Come previsto, l’umano tentò di trattenerlo.

“Dove andate?” domandò, senza riuscire a nascondere l’ansia nella sua voce.

Il Noxinal si arrestò, ma non si voltò. “E’ opportuno che ti riposi, adesso. Domani faremo il punto della situazione. Domani, Turm” disse, serafico, subito prima di imboccare l’uscita.

 


Angolo dell’autore: ci ho messo un po’ di più a mettere giù questo capitolo, e in questi giorni, essendo un po’ giù, mi sento decisamente più autocritico… spero che vi piaccia e vi intrattenga. :) Anche questa volta, abbiamo alcune novità con l’introduzione di Yudrazath e Zendramax.

E… hm… il fatto è che non mi sento particolarmente loquace, al momento. o.o”

 

Be’, comunque, come al solito, grazie a tutti quelli che si sono presi il tempo di leggere questo mio delirio. E, sempre come al solito, rinnovo il mio invito a recensire: sentire pareri può essere costruttivo (anche nel caso di recensioni negative) e certamente motivante. Al prossimo capitolo! ;)

   
 
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