Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: whatashame    06/02/2011    0 recensioni
Due ragazzi alle prese con una grande avventura e con il viaggio della loro vita.
E'la trama di tante, troppe storie fantasy...ma nella realtà le cose non sono mai così semplici.
Qual'è il confine tra il bene e il male? E cosa rende un uomo un eroe?
Aggiungeteci un mondo sconosciuto, ma in fondo troppo simile al nostro, e una compagnia di ventura. Non sembrerebbe il posto ideale dove mettersi a cercare l'amore, ma quello, si sà, arriva quando meno te lo aspetti
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
cap 3 pium





Cap. 3



On the road again





Un piccolo carro a due ruote viaggiava a balzelloni lungo una strada di montagna. L'asino che lo trainava procedeva pigro, sotto la sferza di un vecchio contadino. L'incedere lento del carro, il rumore ritmico delle ruote che pestavano la terra e i violenti scossoni non rendevano il mezzo di trasporto confortevole. Affatto.

Eliza aveva già sperimentato il mal di mare, il mal d'auto e la chinetosi in varie forme; ora, per la prima volta, provava sulla pelle, o meglio, sullo stomaco, il mal da somaro. Che fortuna...


Il carrettiere non aveva pronunciato nemmeno una parola da quando erano partiti, limitandosi a qualche “aaah”, “eeeeh” e “oooh” rivolti all'animale. Scrutava il percorso da sotto le rughe che gli incorniciavano le palpebre e di tanto in tanto agitava lo scudiscio. Quella mattina aveva intascato i soldi di Van senza aprir bocca, ficcandoseli in una saccoccia che teneva appesa al collo. Aveva fissato sospettoso Uthar che salutava da lontano agitando la mano, e aveva continuato strenuamente ad ignorare i due giovani passeggeri, dopo che questi si erano accomodati alle sue spalle, sulle sconnesse assi di legno. Era evidente che non si fidasse di loro per averli visti in compagnia di un hobbit, ma i soldi, si sa, fan sempre comodo.

Lizzie era accoccolata sul bordo del carretto, coi piedi a penzoloni, e Van, al suo fianco, stava semisdraiato su pungenti sacchi di iuta. Si era chiuso in se stesso e aveva preso a fissarsi le scarpe intento, senza vederle realmente, perso in chissà quali elucubrazioni.



-Hey Van, dov'è che vai?- domandò la ragazza per interrompere l'assordante silenzio sceso fra loro.


-...Van?- chiese questi aggrottando le sopracciglia.


- Beh, è l’unica parte pronunciabile del tuo nome…- si giustificò Lizzie un po' imbarazzata.


Lui non si offese e scoppiò a ridere.


-Lo avranno pensato in molti, però tu sei la prima che me lo dice in faccia-.


-Beh... i tuoi devono essere parecchio spiritosi, comunque non mi hai risposto: dov’è che stai andando?-

Lui girò gli occhi e guardò l'orizzonte per qualche istante. Quando Eliza iniziò a temere che non le avrebbe detto nulla, il ragazzo si fece serio:


-Sai, faresti meglio a preoccuparti di dove stai andando tu...-


Quella era esattamente l’unica cosa che turbava realmente la ragazza, ed era anche l’unica a cui si rifiutava di pensare. Non sapeva fino a quando avrebbe potuto continuare a ignorare l'angoscia che sentiva dentro, ma avrebbe provato a pensare a tutt'altro fin quando fosse stato possibile. Meditarci troppo sopra non avrebbe portato a nulla e non aveva ancora bisogno di una crisi isterica: parlare del più e del meno, chiacchierare di qualcosa di futile, distrarsi, le avrebbe fatto bene.


Lei e Van dovevano assolutamente mettersi a fare un discorso banale, uno qualunque, anche uno stupido pur di smettere di ascoltare i respiri l'uno dell'altra, pur di riempirsi le orecchie e svuotare la mente.

Ma una conversazione bisogna iniziarla, ed è qui che stà il difficile.

Eliza ci aveva provato, goffamente, ma con coraggio: per questo gli aveva fatto quella domanda, la più innocente di tutte, la più logica e la prima che le fosse venuta sulla punta della lingua. Non le importava nemmeno la risposta, ma tutto quel silenzio interrotto solo dall' ipnotico scalpiccio degli zoccoli dell'asino, con la cornice del bosco tutt’attorno, si stava rivelando decisamente troppo adatto alle riflessioni, perfetto per sprofondare nel baratro dell'ansia.

Lei lo aveva fatto per entrambi! Anche Van si stava perdendo fra gli irraggiungibili meandri della propria testa, e non erano riflessioni allegre: lo avrebbe capito anche un cieco... o una persona distratta quanto lei.

Ok, lo aveva fatto sopratutto per se stessa, era un’egoista, ma in questo caso, benchè per una mera coincidenza, ne avrebbe tratto qualche vantaggio anche M.C. van S. di Imblee.


Il ragazzo però non aveva apprezzato i suoi sforzi: non le aveva nemmeno risposto.

Alla sua domanda aveva fatto quell'inopportuna considerazione, e questa volta a non parlare era stata lei.



Lizzie tacque, un po' ferita da quel tono astioso. Non avrebbe insistito, non avrebbe costretto Van a parlare: non poteva, non voleva, farsi odiare dall'unica persona che conoscesse.

Il ragazzo lasciò cadere la sua affermazione nel vuoto e non insistè per avere una risposta: lei lo avrebbe detestato, e lui non voleva niente di simile.


La fanciulla prese a fissarsi i piedi. Ciondolavano dal carretto, avvolti in rudimentali calzature da hobbit. Mentre li osservava, vedeva la terra del sentiero e i ciottoli che il carro si lasciava indietro. Era scomodo stare accovacciati sul legno duro e irregolare del carro, con la schiena su un sacco bitorzoluto e che pungeva persino attraverso gli abiti, ma era sempre meglio che andare a piedi.

Si mise a pensare a suo nonno. Era quello della sua famiglia a cui pensare era più sicuro: le mancava sempre, da quando era morto, ma la nostalgia per un morto è ben diversa da quella per i vivi. Per questo, in quel momento era quasi confortevole, un'amica vecchia e conosciuta.

Suo nonno lo ricordava come un vecchietto severo e arzillo, con un velo di barba sulle guance. Si portava sempre appresso uno di quegli orologi di moda nel secolo precedente, quelli che si attaccavano sotto agli abiti e pendevano sulla camicia, a cui bisognava dare la carica ogni tanto o si fermavano. Il nonno li aveva lasciati quando lei era poco più di una bambina e ne conservava memorie piuttosto confuse. Le era tornato in mente pensando al sacco di iuta, e ne aveva ricordato l'odore di minestra e naftalina.

Nella lista delle qualità che credeva di possedere aggiunse la memoria olfattiva. Un’altra dote inutile, ma questa almeno le piaceva.

Poi suo nonno la prendeva sempre sulle spalle e la portava in campagna a giocare...



- Se non hai un posto dove andare puoi venire con me.-.


Eliza sbarrò gli occhi incredula.



Ma non ebbe il coraggio di guardare Van in faccia.



Ti prego Van, diventa la mia nuova casa...



Sentì gli occhi pizzicare e li strinse forte.



Grazie



Il ragazzo non la stava guardando, ma colse l'annuire della testa di Lizzie ai limiti del suo campo visivo. Piegò impercettibilmente gli angoli della bocca nell’ombra di un sorriso.



Lei alzò di scatto la testa, gli occhi a trapassare gli alberi che si lasciavano alle spalle.


Non aveva mai guardato il paesaggio che avano davanti da quando erano saliti su quel carro, non aveva mai cercato di scoprire quello che li aspettava, accontentandosi di riempirsi gli occhi con ciò che restava indietro.



- Qual è il tuo colore preferito?- trillò allegra.


A Van servì qualche minuto buono per processare quella domanda senza senso e un pò surreale in quel momento. Quando i neuroni si riattivarono quasi le urlò addosso:


- Che razza di domanda è??? E poi che c'entra adesso???-


- A me piace il blu. Anche il verde, però il mio preferito è il blu.- sembrava che Eliza non lo avesse nemmeno sentito.



-…Non ce l’ho un colore preferito- sospirò rassegnato. Non capiva dove lei volesse andare a parare, cosa cercava di ottenere con quell’assurdità?


- Io leggo un sacco. Qualsiasi cosa. Anche la lista della spesa, o le pubblicità. Da piccola una volta ho messo fuoco alle lenzuola con la lampada, sai... per leggere di notte. E poi leggo in bagno…mi piace leggere in bagno, e mi piace anche disegnare. E dipingere. Non in bagno però…-.


Ok...Quella pazza stava facendo un monologo e non si curava nemmeno della sua faccia perplessa o del fatto che lui non stava partecipando alla conversazione. Non gli era parsa molto loquace prima, e adesso parlava a mitraglietta, per giunta da sola! Sembrava quasi non prendere fiato tra una parola e l’altra, troppo intenta a ciarlare.


All'improvviso capì. E quando lei si interruppe un attimo per respirar,e fu lui finalmente a riempire il vuoto e la quiete:


-Io odio disegnare!!! Mia mamma da piccolo mi costringeva sempre. E poi non ne sono capace. Mi obbligava anche a leggere per ore, e a suonare… Io però scappavo appena si distraeva e andavo ad allenarmi.-


La ragazza sghignazzò all'immagine del piccolo monello che van era stato


-Con la spada - aggiunse a beneficio della sua interlocutrice. - Oppure andavo a dare fastidio a mio padre o a Wolfang. E Wolfang si batteva sempre con me…-

Questi ultimi pensieri lo stavano intristendo, e lei riprese a confessare:


- A me non piace la carne alla brace. Beh la carne in generale non mi piace tantissimo…e nemmeno il pesce. Però la carne di coniglio la mangio, e anche il pollo. Dolci poco. Ah, non mi piace la cioccolata, preferisco il miele.-.


- Come non ti piace!?!?-saltò sù lui scandalizzato.


-No, non mi piace per niente, e quando lo dico tutti mi guardano come se fossi scema, esattamente come stai facendo tu- lo accusò ridendo.


- Per forza: sei scema se non ti piace!-


-Maleducato!!!-


Continuarono così a lungo.








***









Lentamente le ore erano passate, alcune chiacchierando, altre ancora tenendosi compagnia in silenzio. Uthar non aveva potuto offrire loro un letto e la notte trascorsa sulle panche dell'hobbit li aveva lasciati con la schiena a pezzi e le membra indolenzite. Ancora piuttosto stanchi si erano appisolati più volte, senza però riuscire mai a rilassarsi completamente.

Lo stagionato cocchiere aveva continuato a confinare le parole alle vocali e ad ostinarsi in un silenzio di superiorità e sospetto. Pian piano il sentiero era divenuto una mulattiera, mentre il paesaggio mutava ed i boschi lasciavano posto ai prati e a siepi basse. Non più alberi alti e fitti, ma radi arbusti e frutice. Niente più marrone, giallo, ocra, senape e rosso, ma rosa, azzurro, violetto a verde. Tanto verde. Gli uccelli che si rincorrevano nel sole erano scomparsi, in compenso tante pecore e qualche capra brucavano fra i cespugli bassi e rugiadosi belando forte. Era cambiato anche il clima: prima sembrava di essere agli inizi di un caldo autunno, adesso, a distanza di qualche chilometro, tutto gridava forte “primavera”. Lo dicevano gli agnellini, le farfalle ed anche i fiori. Non avevano visto né Titiro nè Melibeo: non c’era nessuno a badare alle greggi e non avevano incrociato esseri umani da quando avevano lasciato il villaggio degli hobbit, alle prime luci dell'alba.

Alla fine era calata la sera con il suo mantello di astri e di oscurità a celare lo spettacolo della natura intorno a loro.

.


Eliza contemplava il cielo stellato, uguale e diverso da quello cui era abituata, mentre si beava del profumo dei fiori e dell’erba fresca.

Sentiva che quel ciuco e quel villico maleducato la trascinavano lontano, verso l’ignoto.

In un’altra situazione non avrebbe mai permesso a qualcuno di portarla via, senza sapere dove esattamente la stesse conducendo. Ora non solo si era affidata interamente a Van, ma non si sentiva nemmeno agitata e non si preoccupava troppo di sapere dove stesse andando; del resto chiedere la meta di quel viaggio sarebbe comunque stato inutile: un nome altrettanto sconosciuto non l’avrebbe fatta certo sentire meglio.

Si era quindi affidata completamente a Van, ed era davvero strano mettere in mano a qualcun altro il proprio destino con così cieca fiducia, sopratutto se l'altro era uno sconosciuto. Non le era mai successo prima, lei non sopportava nemmeno le sorprese e non aveva mai autorizzato nessuno a fargliene: preferiva tenere tutto sempre sotto controllo. Aveva sempre esagerato nel voler gestire tutto e adesso eccedeva in senso opposto, ma si sentiva bene, non aveva paura, non abbastanza almeno da farsi sopraffare.



Van a due centimetri dal suo braccio era meno tranquillo: non si era mai spinto così distante e rimuginava sulle parole di Uthar, borbottando qualcosa di inintelligibile.



Con il buio, sebbene si vedesse pochissimo, si erano accorti che l'ambiente era cambiato ancora una volta. L’erba si era fatta pian piano meno fitta ed il paesaggio più brullo. Gli alberi ed i cespugli erano divenuti un’eccezione e non erano più rigogliosi, ma secchi, nodosi e scuri.

Era diventato molto più difficile guardare le stelle e la volta celeste si era fatta inspiegabilmente chiara.


Solo allora, finalmente, Lizzie e Van avevano smesso di guardare indietro per girarsi verso ciò che li aspettava.

Dietro il profilo di una collina che si stagliava netto contro il cielo notturno, mentre alle narici arrivava una sgradevole zaffata di fuliggine e benzina, si era aperta una vallata enorme, illuminata quasi a giorno. Palazzi scuri, alti e squadrati la riempivano tutta, ciminiere in lontananza gettavano vampate di fumo scuro e denso verso la notte. Luci, tante, tantissime luci, luci nelle strade e nelle case, luci a terra e luci sospese nell’aria, la incendiavano di fuoco vivo. Talmente tante luci da rischiarare la notte e da impedire alle stelle di fare capolino nel cielo.

Non erano più nel luogo ameno del villaggio degli hobbit, non era affatto bella la città che stava loro di fronte, ma in qualche modo, agli occhi di Lizzie, era comunque uno spettacolo.

Anche lei viveva in una grande metropoli e nemmeno da lì riusciva a vedere le stelle nel firmamento, in compenso al suolo sembravano esserne cadute a milioni. Quelle nel cielo erano sempre state bellissime, e qualcuno diceva che le accendevano i grandi eroi del passato per guidare i piccoli uomini del presente, per questo erano così belle.

Ma le stelle sulla terra le accendono i vivi, col sudore della fronte, e lo fanno sempre per qualcuno, pensò la ragazza.


Da quella città non proveniva nemmeno un suono. Era una perfetta città industriale, come ne aveva viste a tante: questa però era immersa in un silenzio di tomba.

Nemmeno un rumore giungeva alle sue orecchie…nemmeno più quello del carro che dopo l’ultimo “oooh” del vecchio si era arrestato.


I due ragazzi avevano capito che quello era il momento di scendere e, preso ciascuno il proprio bagaglio, avevano salutato il burbero conducente. Quello aveva risposto con un’occhiata neutra, si era girato ed aveva frustato l'asino, sparendo col suo corredo si vocali al seguito, sempre più flebili con la distanza, ma chiare nella calma sepolcrale ed inquietante che circondava la vallata.


Van ed Eliza non si erano detti una parola e, rispettosi dell'urlo silenzioso di quel faro abbagliante, si erano messi a camminare verso il centro della conca quieti e veloci.

La strada era morbida e liscia sotto i loro piedi: sembrava assorbire i passi, e le scarpe vi affondavano leggermente, come fosse fatta di gomma sciolta. Eppure l’attrito era minimo e scendere non risultava faticoso.

Alla base della collina Van guardò negli occhi quella minuta ragazza che lo seguiva dal giorno precedente e mormorò :-Hindàstria…-.





***






note

  • Il nome Hindàstria l’ho preso dal cartone Conan, anche se non era scritto così…

  • Il pezzo sulle stelle è liberamente ispirato ad un aiku giapponese di cui non ho potuto trovare una traduzione.

  • Il titolo del cap. è una canzone di Willie Nelson, ma anche una canzone di Bob Dylan, una canzone di Canned Heat,... scegliete pure quella che preferite.




   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: whatashame