Knives
Titolo: “Knives”
Autrice: mise_keith
Beta-reader: Thilwen.
Disclaimer:
Ironie a parte, i personaggi e i luoghi appartengono a J.K.Rowling
e a qualche altra inutile multinazionale.
Genere: Angst, Introspettivo.
Personaggi: Severus Snape, Lily Evans. Qualcun altro.
Rating: PG13.
Note: La fanfiction più essenziale che abbia mai scritto. Niente poesia, niente romanticismo. Qualche quadro descrittivo che tenta di fare capire, e di
comprendere. Non so neanch’io che cosa.
Nel qual caso violi le idee
di qualcuno che leggerà, non leggo niente dell’EFP da mesi, e questa stessa one-shot
è stata scritta già quasi tre mesi fa. Grazie per l’ascolto.
Ringraziamenti:
A Chiara, sempre, per essere l’unica
persona capace di starmi vicina perennemente, momenti di efferata
misantropia ed odio diffuso compresi.
A poggy, anche se
verosimilmente non la leggerà mai.
Grazie per l’ispirazione inconscia di queste poche parole.
***********************************************************************************
Asfodelo. Artemisia.
Radici di valeriana.
Contrasse la fronte. Un
rivolo di sudore si perse nel colletto della sua camicia.
La stanza era piena del
vapore bollente dei calderoni.
Fagiolo soporifero.
- Tagliare il fagiolo... –
smozzicò tra sé e sé, a labbra socchiuse, facendo scorrere il dito sotto la
riga che stava leggendo. Gli occhi fissi sulla pagina.
- Se
lo schiacci con la parte piatta di una lama d’argento, rilascia più succo. –
fece una voce accanto a lui, spuntata d’improvviso, dal nulla.
Due occhi verdi ed insistenti
fissi sul suo profilo spigoloso gli fecero alzare appena lo sguardo; nella lunga
stanza nebbiosa l’attenzione di ciascuno era interamente rivolta al proprio
calderone.
Non disse niente.
Lei si allontanò con un
impercettibile fruscio della gonna, senza un’altra parola, ma poté giurare di
avere ancora il suo sguardo sulla nuca.
Quando fu abbastanza lontana, afferrò il suo coltello
d’argento, schiacciò il fagiolo con la parte piana.
Si chinò ad appuntare
qualcosa sul libro.
- Ehi, Snivellus!
Attento a non scivolare! Di lì ci sei passato prima! Potrebbe esserci dell’unto, per terra!
La sagoma sporgente del suo
naso era acuminata quanto il suo sguardo. Non rispose, mantenendosi
impassibile. Ma si morse l’interno della guancia fino a
farla sanguinare. Strinse in tasca il pugno sinistro fino a sentirsi le unghie
sotto la pelle.
Non appena fu giunto al muro
vacante dei sotterranei, gli sembrò di sentire qualcosa alle sue spalle.
Qualcuno. Un debole sussurro di passi contro il pavimento di pietra.
Non si voltò.
Sarà stato il vento...
Alzò lo sguardo. Intricati disegni verdi contro la luce, che premeva per filtrare.
Si schermò gli occhi. Il silenzio gravido di calore della serra dava alla
testa.
Foglie di maggiorana striata.
Le trovò. Verdi macchiate di
rosso. A pochi passi da lui. Si chinò ad esaminarle.
Un rumore acuto e scomposto.
Terracotta infranta.
Sobbalzò appena, si voltò di
scatto.
- Scusa... io... – lei
abbozzò un sorriso incerto sopra la maschera tinteggiata di paura stupefatta.
Le guance erano di un rosso violento. Si confondevano con l’intenso scarlatto
dei capelli.
Lui abbassò il viso,
torturandosi un labbro coi denti. S’inginocchiò per
strappare qualche foglia.
Nel momento in cui si girò si
accorse che gli si era accostata. Era accovacciata anche lei, raccoglieva fra
le mani i cocci sparsi.
- Potresti tagliarti. – si
ritrovò a mormorare.
Ella finalmente alzò lo sguardo, e lui rabbrividì. Erano
tanto vicini che le loro ombre avrebbero potuto specchiarsi nella stessa
piastrella di vetro opaco della parete lì vicino. Le sue pupille divennero due
puntini neri tracciati nella profondità delle sue iridi smeraldo.
Rimasero a fissarsi.
- L’hai fatto di nuovo.
La superficie del lago era
liscia e sottile come la flebile luce del sole invernale. Si specchiava nelle
nuvole. O forse era il contrario.
Si abbandonò accanto a lui. I
suoi capelli erano scomposti, sfuggivano a ciocche dalla lunga treccia che
spezzava ed irrompeva con violenza nell’austerità della divisa. Gli occhi erano
venati di rosso.
Non aveva pianto.
- Mi hai chiamata mezzosangue davanti a tutti. – continuò.
Per un attimo, un alito di
brezza s’infiltrò fra le sue parole.
Egli sospirò.
- Bisogna essere coerenti
fino in fondo. – non poté impedire al suo cipiglio d’incupirsi.
Fece una pausa.
- O
perlomeno, bisogna far sembrare di esserlo. – disse ancora, a voce più bassa.
Lei non rispose, ma strinse
le labbra. Divennero una sottile linea bianca nel volto pallido.
Posò il suo sguardo sul volto di lui, accarezzò con gli occhi i suoi zigomi, le sue
labbra.
- Parlami, Severus. – gli prese una mano – I tuoi silenzi sono così taglienti.
Camminava assorto per il
corridoio affollato. Lezione
d’Incantesimi, quarto piano. Lasciò che le sue labbra formulassero il suo
pensiero in un bisbiglio soffocato. Fece per svoltare verso una rampa di scale.
Inciampò in qualcosa.
- Snivellus!
Oh, ma scusami... C’era troppo buio, e non presto mai
attenzione alle cose che sgusciano...
- Fottiti, Black. – un sibilo acuminato, lampeggiare di occhi.
Un sorriso, bianco nella
semioscurità.
- Rissa, Snivellus?
Strinse i denti, facendo un
passo avanti.
Sentì urtare contro la sua
schiena. Una scia rossa lo oltrepassò. Riconobbe il suo tocco. Osservò un
capello ramato sfuggire dalle sue spalle per planare lentamente per terra, su
un suo libro ancora abbandonato sul pavimento.
- Allora?
Non ascoltò. Raccolse le sue
cose. Andò via senza degnare l’altro di uno sguardo.
In classe, facendo per
prendere il libro di testo, qualcosa scivolò dalla borsa. Aprì il biglietto di
pergamena ripiegata.
Niente ferisce più della parola.
- Severus...
- Lasciami! – urlò, tentando
di divincolarsi dalla sua presa. La voce risuonò diffondendosi per il corridoio
deserto.
- Severus... – c’era un che
d’implorante nella piega della sua bocca.
- Lasciami in pace! – ripeté,
il viso stravolto dalla furia, facendo ruotare nervosamente lo sguardo a destra
e a manca, verso le porte delle classi, la tromba delle scale.
- Severus...! – una nota
acuta ed urgente riempì le sue parole. Egli sentì una fitta al petto.
Si voltò a guardarla. Gli
occhi color smeraldo erano spalancati, asciutti dal
terrore, lo stesso che traspariva da ogni suo gesto, ogni suo tentativo di
avvicinarsi ed avvicinarlo. Prendevano una tonalità tetra ed innaturale alla
lontana luce della luna.
- Lo sai! Lo sai anche tu!
Non siamo niente! Non saremo mai niente! Nulla! Tu non
esisti davvero! Non esisto io, né noi! Non potremmo, Lily! Evans.
– aggiunse, mordendosi un labbro – Ti odio, capisci?
Ti odio!
Le ultime due parole vennero pronunciate più forti, rimasero ferme nell’aria come
disegnate, scandite da ogni suo respiro ansante che rimbombava nel vuoto come
l’eco di grida trattenute.
- Severus... – gemette.
Rimase ferma lì, in mezzo al corridoio. Sentiva le gambe cedergli. Ma tutta la sua volontà era impegnata nel tentare di
trattenere le lacrime.
Il volto di
lui si contrasse.
- Lily... – biascicò. Coprì
di nuovo la distanza che li separava, la sostenne con le braccia. Le mani di lei si aggrapparono dietro al suo collo. Le sue andarono
fra il fiume rosso che le scendeva per le spalle. Le baciò i
capelli, si portò un lungo ciuffo alle narici.
Odorava di vento.
Aria della sera.
- Non possiamo,
non possiamo. – riprese, la bocca contro la sua fronte. – Lo sai, Lily. Cos’altro puoi volere da me?
Sentì le sue dita affondare
pesantemente nel tessuto della camicia che gli copriva la schiena.
- Tutto ciò che ti è rimasto.
Vociare e
sole. È da questo che si riconosce
l’estate. Cieli limpidi e vuoti. Azzurro sbiadito, da acquerello. E il dolore ed il sollievo che anche questo non sarà che un
ricordo.
I bordi delle fotografie possono
essere affilati, gli rimembra la sua coscienza. E si trattiene
dall’imprecare.
Il vapore grigio corre a
raggiungere le nuvole, aggiungendo calore all’afa, evaporando in fretta come
effimera contentezza.
Lei è poco lontana. Vede la
macchia sanguigna confondersi nell’aria vaga, le sue labbra mischiarsi a quelle
di qualcun altro.
No, non proprio,
aggiunge mentalmente distogliendo lo sguardo da lei e Potter, avvinghiati sulla
banchina accanto ai binari.
Si fa strada per salire
sull’espresso, l’ultimo che prenderà, cerca volontariamente uno scompartimento
vuoto. Si lascia cadere su un sedile, sfiancato. Guarda fuori
dal finestrino, e loro sono ancora lì.
A perenne memoria.
Scopre
l’avambraccio sinistro, si accarezza
lentamente il teschio lì tatuato. Ha una lingua di serpente. Perché
le parole feriscono.
Peccato non aver avuto nient’altro.
Si prende il viso tra le mani
e piange.