Un cielo mobile, di un cilestrino smorto, è tutto quel che
incontra lo sguardo se abbandona una piana monotona, priva di asperità com’è
tutta la Caledonia settentrionale.
C’è qualcosa di selvatico in questa natura brulla e ostile,
fatta di brughiere consumate dal vento, eriche profumatissime e grosse pecore
dal vello selvaggio, che somigliano a nubi migranti.
Axel Von Kessel socchiude le palpebre, mentre il paesaggio
sfila rapido oltre il finestrino. La confortevole felpa della prima classe
dell’Espresso magico settantasei, che collega il mistico cuore di Dùn Èideann –
l’Edinburgo babbana – alle regioni delle Highlands non tiene fede alle promesse:
malgrado la noia scoraggiante del viaggio non gli è mai riuscito di prendere
sonno. Florian, invece, dorme con la placidità soddisfatta dei cuccioli.
Axel Von Kessel è prossimo al mezzo secolo; fili d’argento
venano le chiome corvine, mentre il suo sguardo freddo – checché possa pensare
chi non lo conosce bene – si è addolcito. Nei riguardi dell’ultimogenito,
almeno, si presta talora a concessioni che paiono ben lontane dal suo
personaggio.
Chi è Axel Von Kessel? Un Mannstier o Manimagus, prima di
tutto, il che sta a dire pure ch’è il portatore di un sangue magico
antichissimo. Da Ninive a Babilonia, da Ilio a Delo, basta scavare nel passato
dei Babbani per scoprire come i loro primi dei avessero volto di leone, di
falco, di bue. Erano ibis, coccodrilli, serpenti. Erano Von Kessel – meglio:
erano un frammento del genoma magico che, nei secoli, ha poi dato vita ad alcune
nobili, selezionatissime famiglie.
Sono meno di un centinaio i Mannstiere del Mondo Magico, per
lo più residenti nelle Indie Orientali, dove politeismo e sacro rispetto per la
natura hanno concesso a quest’aristocrazia di vivere nell’ossequioso rispetto
dei Babbani. Nel cuore della vecchia Europa, al contrario, l’avversione per il
magico ha alimentato una caccia distruttiva: il clan Von Kessel è stato decimato
dai roghi; quel ch’è stato risparmiato, ha imparato a vivere nell’ombra.
I Von Kessel studiano dunque a Durmstrang, perché è il più
isolato dei collegi magici. Imparano a disprezzare i Babbani – non a temerli, ma
ad evitarli. Come tutti i Mannstiere, i Von Kessel sono corteggiatissimi in
tempo di guerra, perché abilità come le loro, su di un campo di battaglia,
equivalgono alla salvezza.
Axel Von Kessel, tuttavia – e prima ancora, Ludwig suo padre
– ha resistito al fascino di Voldemort.
Perché?
Perché è anche una fiera: dunque gli ha fiutato addosso la
morte e la paura.
I Von Kessel sono rimasti neutrali durante la Prima Guerra
Magica, riparati nell’alveo discreto di Lübeck; hanno approvato l’operato del
Wizengamot e la linea dura con cui la comunità magica anglosassone si è ripulita
della malerba di Riddle e dei suoi seguaci. Per queste stesse ragioni, dunque,
Axel Von Kessel approva assai meno l’amicizia che lega Florian – il suo figlio
più giovane e più fragile – all’unico erede di un noto Mangiamorte.
Quel che Axel Von Kessel ignora è che le ragioni per cui
Lucius Malfoy ha destinato a Durmstrang Draco – il ragazzino meno adatto in
assoluto a vivere un’esperienza tanto estrema – sono del tutto simili a quelle
che hanno mosso il suo istinto di padre. Se Voldemort tornerà, cioè, comincerà a
mietere là dov’è stato sconfitto, e Durmstrang risulta più periferica e sicura
di Hogwarts.
I figli, tuttavia, non ti appartengono mai abbastanza da
poter essere anticipati: non può farlo il fiuto bestiale di Axel Von Kessel, né
è concesso al fine intuito strategico di Lucius Malfoy.
***
È una megera stolida e inconcludente, la vecchia Bertha.
Codaliscia si lecca furtivo le labbra, mentre affondano nella
guazza sino ai polpacci. Dopo il tramonto, Tremisht tace. È un piccolo borgo
pittoresco, nel cuore di un grande parco naturale; di turisti se ne vedono pochi
– di maghi, poi, neppure a parlarne.
È il posto ideale per leccarsi le ferite in silenzio. È il
posto ideale per nutrire vendetta.
L’Oscuro Signore gli ha promesso la luogotenenza dei
Mangiamorte: verrà un giorno in cui il suo regno coprirà la terra e oscurerà
persino il sole.
Quel giorno Minus sarà finalmente Maior.
Quel giorno smetterà di sognare l’umiliazione di sette anni.
Peter non ha qualità – mai nome, dunque, suonerebbe più
opportuno di quello che già porta – ma possiede la pazienza del ragno. Per sette
anni è rimasto a sbirciare la gloria dalla quinta di una trama secondaria; per
sette anni ha visto James Potter mietere successi e Sirius Black infrangere
cuori.
Si è accostato loro come un buon parassita: quando non c’è
più sangue da succhiare, però, anche la zecca più ostinata si sceglie una preda
che abbia il calibro giusto per i suoi appetiti.
Voldemort è alla mercé della sua pietà, eppure lo domina.
C’è, nella ferocia dei suoi accenti, un’oltraggiosa sicurezza che molto dice del
potere carismatico con cui ha perduto un’intera generazione.
Se vuoi perderti, però, quella che porti al corruttore è la
gratitudine del complice.
“Ma sei davvero sicuro, Peter, che per questa via sia
possibile…”
La vecchia megera bofonchia qualcosa, mentre il cielo ulula e
piange di un acquazzone come solo l’estate sa regalare.
“… E sta piovendo, per di più. Potrei capire il fascino di un
sentiero illuminato dalla luna, ma alluvionato…”
Peter digrigna i denti. Il suo sensibile udito è offeso da
questa sequela d’inutili lagne.
Cosa pensa di ottenere? Il suo destino è segnato, perché ha
incontrato un fantasma.
Se vedi quel che non avresti dovuto vedere, o ti cavi gli
occhi o li chiudi per sempre.
Voleva solo concedersi una cena decorosa, il povero Minus;
voleva inghiottire qualcosa che non somigliasse alla minutaglia putrida di cui
si ciba un topo, e cosa accade? Dal passato ecco che spunta Lingua Lunga Jorkins,
una povera idiota che nemmeno arriva a stupirsi della sua resurrezione.
La foresta in cui Voldemort riposa è una macchia nera
nell’impenetrabilità bituminosa di questa notte senza stelle. È una minaccia e
una promessa insieme.
“Dove mi stai portando, Peter?” piagnucola querula.
Minus arresta i propri passi: è un sibilo imprevisto, poi uno
schiocco secco.
La fattucchiera è pietrificata dall’orrore di quegli occhi
che brillano nel nulla come polle di sangue rappreso.
“Abbiamo ospiti, Codaliscia?”
Il Signore Oscuro ha appena aggiunto un nuovo sinonimo alla
voce sacrificio.
***
Agosto è agli sgoccioli, ma l’aria è ancora calda. Te la
senti addosso, come una carezza vischiosa, mentre precipiti a rotta di collo
lungo clivi scoscesi e brughiere cauterizzate dal sole.
Draco stringe le cosce ai fianchi del sauro. Alle sue spalle,
Florian è un puntolino che s’indovina appena.
Socchiude le palpebre, Draco, mentre punta la bacchetta.
“Frango,” pensa, ma la terra non si apre.
Florian guadagna terreno. I suoi lunghi capelli neri
oscillano come un drappo funebre. Se fosse un nemico, potrebbe già colpirlo.
“Frango.”
Karkaroff li ha introdotti agli incantesimi muti, ma la sua
percentuale di riuscita resta molto bassa. I fratelli di Florian sono in grado
d’incendiare una foresta con la semplice imposizione dello sguardo, pare. Il
Prescelto – il famoso bambino sopravvissuto – ha già avuto ragione di un
basilisco.
“Frango,” sibila a denti stretti.
La sua volontà è troppo debole. È insicuro e inefficace.
Chiude gli occhi. Deglutisce.
“Diffindo,” sussurra una voce alle sue spalle; i
finimenti del sauro gli si polverizzano tra le dita.
“Devi concentrarti meglio,” osserva Florian, prima di
scendere da cavallo. “Potevo colpirti con una Cruciatus.”
Draco sospira. “Ti avevo in pugno.”
Von Kessel accarezza il muso della sua cavalcatura. “Cosa
pensavi di fare?”
“Volevo aprire una faglia.”
“Molto ingegnoso.”
È passato un mese dal giorno in cui Florian è arrivato,
accettando il suo invito per le vacanze estive: un mese di giochi violenti, al
confine del lecito. Un mese di vita comune e di sogni allucinati e feroci. Un
mese da fratelli complici amici. Un mese sonnolento, di quelli che lasciano
presagire impreviste deflagrazioni.
“Dove siamo?”
L’erba punge contro la schiena madida. Il cielo corre ed è di
un azzurro irreale. Una nuvola somiglia a una lepre. Un’altra a un drago. Vuole
essere un drago anche Draco. Vuole una ragione per il nome che porta.
“Vicino a Muir of Ord. È un piccolo
villaggio babbano. Quasi tutti contadini che lavorano la nostra terra.”
Florian si stira. “È bello, qui. C’è un sacco di spazio.”
“Se è vero quello che ci ha detto il Preside, presto ne
avremo molto di più.”
Von Kessel strappa qualche ciuffo d’erba, che il vento
trascina via. “Tu ci credi davvero?”
“A cosa?”
“Al fatto che il Signore Oscuro tornerà e conquisterà il
mondo.”
“Cos’è? Hai paura e ci hai ripensato?”
Florian ride; poi, prima che riesca a realizzarlo, la punta
della sua bacchetta gli sfiora il cuore. “Cosa accadrebbe se lo dicessi?”
Draco deglutisce.
“Sai che non lo farò,” mormora tuttavia l’altro, prima di
ritrarre il braccio. “Ma devi essere più rapido a disarmarmi.”
Draco riprende a respirare. “Noi stiamo dalla stessa parte,
no?”
Florian accarezza tra le dita il sottile stelo di
biancospino. “È che… C’è davvero una parte sola?”
Draco sbuffa e si rialza con un deciso colpo di reni. “Tu
pensi troppo. È ora che ci diamo da fare, invece. Io ho voglia di darmi
da fare.”
Tende la mano a Von Kessel, che la stringe con una presa
ferma.
“Forse hai ragione tu.”
Draco socchiude le palpebre. Florian libera uno gnaulio acuto
e sorpreso. “Hai usato una fattura sagitta!” impreca. Dal palmo aperto, il
sangue erutta più rosso e denso che mai.
“Allora? Chi è che si fa cogliere di sorpresa?”
***
Astoria Greengrass ha dodici anni, folti boccoli castani e
gli occhi azzurri.
Se il ritratto le rende giustizia – e Lucius non ha ragione
di dubitarne – forse ha trovato chi potrà un giorno sostituirsi alla sua lady.
Narcissa, lo sguardo perso oltre le bifore che affacciano sul
parco della tenuta, non sembra tuttavia voler cedere alla lusinga della
curiosità.
Draco ha compiuto da poco quattordici anni; non è più un
bambino, ma agli occhi di una madre – è evidente – i possessivi pesano più del
tempo che inesorabile scorre.
Aveva quindici anni, Narcissa, quando gli è stata promessa in
sposa: sembrano trascorsi secoli, e invece è un battito di ciglia.
“Forse è presto per parlare di fidanzamento, ma credo che
potremmo dare un piccolo ricevimento e permettere loro almeno di conoscersi.
Greengrass è un nostro vicino, in fin dei conti.”
Narcissa si riscuote appena, fissandolo con uno sguardo vuoto
che racconta molto più della sua espressione disorientata. Lucius trae un breve
sospiro, abbandonando la poltrona di velluto su cui se n’è stato accomodato nel
pomeriggio. Oltre la cornice, la giovane Astoria s’inchina con grazia.
“Come ti dicevo, credo che sia arrivato il momento
d’introdurre Draco in società. In occasione dell’ultima riunione della Camera
dei Pari, Greengrass mi ha parlato delle figlie. La minore è molto graziosa, non
ti pare?”
Narcissa stira le labbra, ma non sorride davvero. I suoi
occhi, piuttosto, hanno qualcosa di cupo e desolato che lo ferisce.
“Cosa c’è?”
È una domanda retorica, perché hanno già affrontato
l’argomento – non in modo diretto, ovviamente: l’eleganza e la retorica di casta
impongono almeno qualche perifrasi elusiva.
Draco è cambiato e sua madre se n’è accorta. È stato un
mutamento impercettibile, dapprima – qualche centimetro guadagnato in altezza,
la nuova riservatezza dell’età.
Alla vigilia del suo quarto anno a Durmstrang, però, è un
estraneo che si prepara a lasciarli.
Lucius si dice ch’è proprio quel che voleva ottenere: un
erede freddo, solido e capace; un lord, anziché un cocco di casa. C’è qualcosa,
tuttavia, nei silenzi di suo figlio che lo spaventa.
“Guarda.”
La voce di Narcissa non ha colore.
I ragazzi si preparano a rientrare dalla loro cavalcata
pomeridiana. Le voci sono ancora acute e salgono, ilari, sino al cielo. Sono
coperti di polvere e fango – e questo non lo sorprende. Florian ha la mano
destra bendata. La camicia di Draco è arrossata all’altezza della terza costola.
“Sono ragazzi. È normale esagerare un po’.”
Lo dice, ma non ne è del tutto convinto. Quella tra Draco e
il figlio di Von Kessel è un’amicizia viscerale, eppure pericolosa. È quasi,
insieme, si divertissero a spostare sempre un poco più avanti la linea del
lecito.
La guerra, almeno, non è un gioco, se la giochi sulla tua
pelle.
“Ma… Si feriscono,” mormora Narcissa.
Una piccola folla di elfi domestici si affretta a prendere in
consegna le cavalcature. Draco aspetta di averne uno a tiro, per sferrargli un
calcio mirato; l’infelice creatura disegna in cielo una parabola nettissima,
prima di schiantarsi su di una mangiatoia. È un’esplosione improvvisa di sterpi
e paglia, che strappa a suo figlio una risata stridula.
Rovescia il capo e ride di gusto, Draco: come farebbe un
bambino.
“Non dare troppo peso a simili inezie. Durmstrang non è
Hogwarts e gli sta facendo bene.”
Narcissa si morde le labbra, senza replicare.
I ragazzi ridono del panico disorganizzato degli elfi, mentre
il sole morente tinge il cielo di un tramonto sanguinolento. L’estate è agli
sgoccioli, come l’infanzia di Draco.
A differenza di un padre troppo ambizioso, però, il nuovo Lord
Malfoy potrà crescere ancora prima di corrompersi.
Crede.
****
“Secondo te… Harry è carino?”
Hermione Granger sbadiglia un poco. Nel silenzio della notte,
il sussurro di Ginny suona deflagrante.
“Cosa?”
“Parlavo di Harry… Secondo me, è un ragazzo molto carino.”
Hermione libera un leggero colpo di tosse. Ha quasi quindici
anni, pudori e imbarazzi tutti da domare. È carino, Harry? Forse sì – anzi no:
lo è senz’altro – ma l’ammirazione che prova nei suoi riguardi è troppo forte
perché somigli a una cotta.
Harry è il suo eroe e il suo migliore amico. Quando collochi
qualcuno così in alto nella tua scala del desiderio non è mai per farne un
compagno.
“Sì, penso di sì,” replica vaga.
In occasione delle vacanze estive ha incontrato Judith Miller,
la biondina lentigginosa che ha salutato in lacrime un bel mattino per
sprofondare poi in un altro mondo.
Sono state compagne di banco per sei anni, loro due:
all’improvviso si ritrovano estranee senza un denominatore comune.
“So che frequenti una scuola per studenti speciali!” le ha
detto Judith. “Sei sempre stata un po’… Diversa?”
Non c’era malizia, né crudeltà nelle parole di Judith, eppure
quella sorda allusione l’ha ferita.
La verità è che la sua è una ferita sempre aperta, perché a
volte si cerca con lo sguardo dell’Hermione di ieri e non sa da che parte stare.
Judith esce con Michael Anderson, il figlio del
commercialista che vive a meno di un isolato dai suoi genitori; ha quindici
anni, un ragazzo, una vita.
Hermione Granger ha una bacchetta e potrebbe liberarsi da sola
dell’incomodo dei suoi dentoni. Forse ha ragione Judith: è diversa.
“Chissà se gli piaccio un po’,” sospira Ginny, che
l’eccitazione per l’imminente partenza non fa dormire – in compenso la notte le
scioglie la lingua, rendendola incline a confessioni imbarazzanti. “E a te? A
Hogwarts non c’è un ragazzo che ti piace? Ah… E non dirmi Diggory, perché quello
piace a tutte!”
Hermione soffoca una risatina. “No, non credo… No, penso di
no. E poi un Tassorosso non sarebbe il mio tipo.”
Ginny mormora un Lumos flebile flebile. Il chiarore
che si diffonde dalla bacchetta fa del suo viso una luna picchiettata di
efelidi. “Se Ron non fosse stupido, stareste bene insieme!”
Hermione deglutisce con difficoltà, poi nega.
Se Ron non fosse stupido…
Se non fosse stupido, se non fosse cieco, se non l’invitasse
a guardare una partita, anziché a perdersi nei suoi occhi blu…
Se…
La vita di una donna è un domino di se. Poi arriva
anche il punto fermo da cui tutto comincia.