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Autore: Onigiri    01/05/2011    1 recensioni
Ci sono mostri che non stanno sotto, ma sopra i letti, e i giochi pericolosi delle farfalle, e re piccolissimi, e stelle marine carnivore, e alberi che piangono, e maschere di carne, e bambole che si vedono solo ad occhi chiusi, e mongolfiere nell'acqua con pesci di carta, e donne che piangono con forza negli angoli più bui degli incubi peggiori.
E c'è una bambina. E favole da raccontare. E legami pericolosi.
Genere: Dark, Fantasy, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Legame
   Legame   
(Le pietre blu) 











Capitolo 9









Siamo figli delle stelle e pronipoti del denaro.

Franco Battiato





 

 

 

 

 

 

 

Le sue labbra erano tinte di azzurro, come quelle delle sue amiche, come quelle di tutte le donne che aveva incontrato da quando aveva messo piede in quel posto.
Era solo una ragazzina, o forse una bambina vestita da adulta, con i capelli sciolti sulla schiena e la pelle scura che alla luce delle candele sembrava quasi splendere d’oro: persino i suoi modi di ridere, di stringergli la mano tra le sue e trascinarlo con sé in corridoi che lui non conosceva, avevano qualcosa di tremendamente infantile anche per l’età che dimostrava.
Parlava continuamente, gli indicava le stanze e gli spiegava la loro funzione, e quando lui la interrompeva per ringraziarla della spiegazione la sua bocca celeste si apriva in un sorriso felice disegnandole una  piccola fossetta sulla guancia sinistra.
Si chiamava Rhema, i suoi capelli erano rosa e il dentino che le mancava rendeva fischi le sue parole in un modo che aveva del buffo e del tenero.

Le altre due ragazzine, invece, rimasero in composto silenzio per la maggior parte del tempo, limitandosi a guardarlo dal basso e a ridacchiare fra loro senza spiegarne il motivo, azzardandosi solo ogni tanto a fargli qualche domanda improvvisa  -Le piace questo posto signore? Quanti anni ha signore? Si è già risposato, è fidanzato, ma è proprio vero che lei è benedetto signore?

Lui rispondeva appena, limitandosi a qualche cenno del capo quando non era costretto a usare la bocca, e cercando al contempo di seguire i discorsi di Rhema con finta attenzione e interesse forzato.
Spesso si distraeva, non ascoltava più, si perdeva nei suoi pensieri guardando un punto impreciso del pavimento: i colori dei tappeti scivolavano sotto i suoi sandali come acqua, e se si fosse fermato a studiarli vi avrebbe letto la storia dell’antica e sanguinaria divinità del fuoco, degli uomini e le donne che pregarono su una duna per dieci notte intere, dell’azzurro del cielo che si sciolse in pioggia di sabbia spegnendo per sempre quel malvagio regno infuocato.
E poi c’era il loro dio, la moglie Mahali, e se avesse continuato a guardare i disegni di quei tappeti avrebbe rivisto anche l’intera dinastia dei loro re, la stirpe di dei mortali dai capelli azzurri che da ragazzino lo aveva tanto affascinato e che ora, in un modo che gli risuonava quasi inquietante, era diventata parte anche della sua storia.

A volte, calpestando quelle figure ricamate che lo guardavano dal pavimento, Dhovir sentiva la paura afferrargli le dita dei piedi e risalire sulle gambe fino a fargli tremare le ginocchia, gelargli la carne del petto e scuotergli le spalle e tener ferma la testa bagnandogli la fronte di sudore ghiacciato: allora alzava lo sguardo e tratteneva i brividi a stento, e si chiedeva se fosse meglio voltarsi e scappare lontano finché era ancora in tempo per farlo.
A un certo punto, poi, si era persino dovuto fermare, perché si era accorto che le sue gambe si muovevano da sole e che non era più sicuro di sapere se stesse andando avanti o invece tornando indietro; alla ragazzina che gli aveva chiesto cosa stesse succedendo, aveva lanciato un’occhiata incerta come per domandarle la stessa cosa.


Dhovir si era quasi vergognato sotto gli sguardi di tre bambine che sembravano voler fare una colpa quel suo momento di distrazione  -e di paura, no, di vero e proprio terrore che lo stava ancora spremendo come un limone, ma questo loro non sembravano nemmeno immaginarlo- , e riprendendo a camminare cercò di stare più attento a dove stesse andando, se avanti o se invece indietro.
Quando temeva di ricominciare a perdersi troppo nei suoi pensieri provava a concentrarsi su qualcos’altro, sulla fila di candele appese sul soffitto, sulle pareti di vetro bianco simile a marmo lucido, sulle camere che Rhema gli indicava ogni dodici passi, quegli stessi dodici passi che doveva contare per arrivare da una finestra dall’altra  (finestre, non porte: loro le porte non sapevano neppure cosa fossero).

“Questa è una stanza per le preghiere,” lo fermò per indicarli una finestra che sembrava più imponente delle altre “però è solo per gli otto grandi sacerdoti, per il Dio e il patriarca. Noi non possiamo entrare o veniamo cacciate subito via”

“Ci sono tantissime stanze per le preghiere, qui.”

“In una stanza non possono entrare più di dieci persone. Per questo sono tante. Noi non possiamo neanche fermarci troppo qui davanti perché se pensano che stiamo origliando ci puniscono col bastone.” Rhema gli riprese la mano per trascinarlo via e Dhovir distolse lo sguardo dalla finestra per poggiarlo sui suoi capelli color caramella.
In quel momento scoprì anche, e si dette dello stupido per non essersene accorto prima, che le tre piccole ancelle portavano tutte la stessa veste bianca, pudica, di stoffa leggera ma pregiata, di quelle che bisognava allacciare al collo con un nodo lasciando vedere la schiena nuda, ma tenendo ben coperto il petto partendo dalla gola fino a scendere alle ginocchia.
Sua moglie, quando lo aveva sposato, non si era più potuta permettere abiti del genere: aveva scelto un compagno povero ed era diventata una donna povera, e come tale poteva indossare solo teli, di quelli spessi e ruvidi simili a brutti brandelli di sacco, tenendone i lembi legati con una pinza appena sotto le ali e lasciando scoperte le spalle e l’incavo dei seni ancora immaturi.
Il telo vecchio e stracciato che aveva indosso quando era morta l’avevano subito venduto a caro prezzo (solo una volta aveva visto il compratore, mentre ne baciava i bordi macchiati di sangue asciutto e impediva a un servo di prenderlo per paura che potesse sporcarlo) , e a lei invece avevano fatto indossare un abito meraviglioso che ancora, da dentro la sua spessa tomba trasparente, continuava a starle d’incanto.
Lui lo sapeva, andava alla Valle di Vetro e vagava tra quelle facce di donne incastonate nelle loro tombe ogni volta che poteva, solamente per lei, e ogni volta che la guardava la vedeva con indosso sempre lo stesso vestito –sempre la stessa lunghezza della gonna, la stessa forma delle maniche o lo stesso numero delle pieghe nella stoffa: imparare quelle cose a memoria non era stato tanto difficile.
Le prime volte aveva pianto, sbattendo pugni sulle ginocchia mentre si lasciava cadere nella sabbia gelata sprofondando tra i granelli d’argento, ma poi aveva smesso: c’erano momenti in cui una lacrima sfuggiva al suo controllo e gli rotolava comunque sulla guancia, ma subito l’asciugava col dorso della mano e si dava un colpo sulla pelle umida del volto in una punizione silenziosa.
Andava lì, tra mille altre lapidi di mille altre donne benedette che avevano dato al mondo la loro stirpe di re, guardava dal basso il corpo vuoto di sua moglie e poi, prendendo il fiato e il coraggio che gli servivano, si metteva a parlare. La salutava, innanzitutto, come se fosse andato a trovare un amico che non vedeva da tempo, e le raccontava tutto quello che non le aveva ancora detto nella visita precedente; oppure rimaneva in silenzio, perché ogni parola bloccata nella sua bocca gli sembrava così insensata, così stupida da dire e troppo difficile anche solo da pensare.
A volte, mentre parlava o stava zitto, la guardava, e la odiava, e in quelle occasioni avrebbe voluto urlarle contro e lanciarle addosso qualcosa -un sasso, uno sputo, un insulto: la odiava, poi ci ripensava, si rimproverava in silenzio e chiedeva scusa a bassa voce.
A Lhana non raccontava nulla di loro figlio, non lo menzionava nemmeno, nei suoi discorsi non esisteva nessun bambino di cui parlare ogni volta che andava a trovare sua moglie.
Per quel che gli riguardava, Dhovir aveva un figlio solamente da meno di tredici o dodici notti.
Quel pensiero lo terrorizzava, gli scuoteva le ossa dentro la carne come fossero sonagli, raffreddava la sua pelle quasi fosse una ruvida coperta di ghiaccio. Camminando con Rhema, quando stava zitto e i suoi attorno a lui si facevano opachi come voci senza parole, quel pensiero iniziava a diventare una specie di sussurro. Lo sentiva serpeggiare dall’orecchio fino al cervello e poi scendere sulle gambe e le caviglie come un prurito per convincerlo a fermarsi, a voltarsi, a scappare lontano  -che importa, gli diceva, che t’importa di queste bambine, di quegli uomini che ti hanno scortato fin qui, di chi ti sta aspettando, di un figlio assassino che non hai neanche mai visto in faccia?

E quando Rhema rallentò e gli disse che erano arrivati, quella voce si fermò con lui, e si congelò nella sua testa come un pesante blocco di cemento: quell’insistente suggerimento tacque all’improvviso e Dhovir si sentì improvvisamente perduto, abbandonato, come un bimbo che impara a camminare e non sente più la mano della madre che lo aiuta a stare in piedi.
C’era solo una ragazzina dalle gambe corte e brune ad indicargli la strada da seguire, e lui, con ancora la paura che lo atterriva come una possente gomitata allo stomaco, non riuscì a far altro che col capo quella direzione.
Tutte le finestre di quella specie di castello erano strette e molto alte, di una forma simile a un pentagono e sollevate a poco più di un metro dal pavimento, e per raggiungerle bisognava aprire le ali e levitare un poco da terra: non davano subito alla camera, ma a un piccolo corridoio spoglio illuminato da un’unica candela appesa sul soffitto.

La finestra che Rhema gli stava dicendo di oltrepassare non era diversa dalle altre, eppure nella testa di Dhovir pareva la più spaventosa di tutte.
Deglutì con un fremito, attraversò la finestra volando e piegò le ali nere dietro la schiena, e poi si girò verso le tre ragazzine che lo avevano scortato fin laggiù: sorrise loro dall’alto (anche se più che un sorriso risultò una brutta smorfia nervosa), le ringraziò per averlo accompagnato e si abbassò per sfiorare la testa di Rhema con la punta delle dita. Lei sorrise di fronte a quel gesto: “Noi qui non ci possiamo entrare, però dentro c’è il Sommo Khan che la sta aspettando e le terrà compagnia.”

“Grazie… per avermi fatto da guida.” Doveva essere un ringraziamento rivolto a tutte e tre le ancelle, ma non riuscì a non nascondere nello sguardo e nella voce una sincera predilezione per Rhema. Le altre due ragazzine dovettero essersene accorte, e se una non sembrò farci caso, l’altra le lanciò subito una silenziosa occhiata d’invidia.
Quando le vide andare via (Aveva pensato di fermarle, di chiamarle, Aspettate!, ho paura, aspettate, non lasciatemi qui da solo!) si girò verso la penombra di quel piccolo corridoio, e con un lamento di terrore incastrato dentro la gola che scalciava a forza per poter uscire fuori, Dhovir lo attraversò. Gli bastarono pochi -troppi!- passi per percorrerlo tutto: quando ci fu la tenda a sbarrargli il cammino si fermò, respirò pesantemente e cercò di smettere di far tremare tanto le ginocchia, e fissò quella tenda che aveva di fronte come se il rosso della stoffa dovesse avvolgerlo masticarlo e ingoiarlo da un momento all’altro.

Provò a chiudere gli occhi e cercò di calmare il respiro, ma non riuscì a fare nessuna delle due cose.
Poi sentì un rumore, un colpo di tosse arrochito dal catarro, e quel suono improvviso lo spaventò e lo fece avanzare d’impulso: alzò il braccio per spostare la tenda, senza pensare, e la luce della stanza inondò la penombra del corridoio facendogli socchiudere gli occhi per il fastidio.
La camera era grande, enorme: la sua intera casa ci sarebbe entrata per due o tre volte senza riuscire a occupare tutto quello spazio.
Le pareti erano senza decorazioni, di un splendete color dorato che faceva male alla testa, l’aria era calda e densa e odorava di fiori seccati (un aroma che veniva da un angolo della camera, dove c’era una vasca scavata nel pavimento che sbuffava sottile vapore grigiastro, e respirarlo era come ingoiare il fumo di una sigaretta), il soffitto era trasparente e a guardarlo dal basso sembrava stesse sfiorando la pancia del cielo, o che le lune rosse potessero romperlo al loro passaggio e precipitare dentro la camera fino a sprofondare nel pavimento  –così vicine e con quella forma a spicchio sembravano fissarlo con sospetto, come gli occhi di un gatto nascosto sotto un mobile mentre osserva un estraneo entrare in casa sua.

Dhovir studiò quel posto con così tanta attenzione che ci mise un po’ di tempo a rendersi conto della presenza di qualcun altro in quella stanza.

Ad aspettarlo c’era un vecchio, e quando se ne accorse quasi si spaventò nel vedere che lui aveva già alzato la testa per guardarlo.
Il vecchio era seduto su uno sgabello, con il gomito poggiato sul tavolo e il mento spinoso nascosto nel palmo di una mano; aveva uno di quegli abiti che si dovevano allacciare al collo, ed era tanto grande per lui da far sembrare che ci navigasse dentro, anche se il verde scuro della stoffa stava davvero benissimo sulla sua carnagione color corteccia.
Dhovir trattenne il respiro senza accorgersene, e la voglia di voltarsi, di uscire dalla camera e di scappare via tornò a prudergli fastidiosamente tutto il corpo dalla pianta dei piedi fino alla radice dei capelli: gli occhi del vecchio erano piccolissimi, così aguzzati da sembrare punte di spillo, freddi e duri come pietre, socchiusi in uno sguardo illeggibile e colore del ghiaccio.
Ignorando la sua gola secca, Dhovir provò a dire qualcosa come “Salve”, seppur sperasse che fosse lui a parlare per primo e dargli il benvenuto o informarlo che aveva sbagliato stanza e dargli una buona scusa per scappare lontano da lì: ma il suono che riuscì a sputare fuori risultò molto più roco e molto più basso di quanto avesse previsto, e non fu nemmeno sicuro di aver davvero pronunciato una qualche parola che fosse comprensibile.
Il vecchio alzò le sopraciglia e assottigliò lo sguardo, in un gesto che gli ricordò tremendamente l’espressione di suo padre quando cercava di concentrarsi su qualcosa.

 “Ah!” borbottò il vecchio ad alta voce, sbattendo le palpebre come per scacciare una briciola da un occhio. “Mi ricordo di te…”
Si stiracchiò come se si fosse appena alzato da letto e alzò il braccio abbandonato al suo fianco, rivelando stretto tra le dita  il collo di una bottiglia molto sottile.
Dhovir lo osservò raddrizzare la schiena , e non gli sembrò più tanto vecchio come aveva immaginato: le rughe del volto erano meno di quante ne aveva contate, e le braccia, seppur nodose e magre, sembravano ancora in forza come quelle di un giovane, e i denti non erano caduti o giallognoli o dondolanti come credeva che fossero, ma una fila completa dentro la bocca di un bianco che aveva dello straordinario.  
Se non fosse stato per la pancia gonfia, per le guance scavate nella carne, per le ali troppo grandi o per quello sguardo severo da vecchio!, avrebbe dimostrato molti anni in meno di quanti ne dovesse avere in realtà.
Si accorse che gli stava indicando qualcosa con un gesto poco percettibile della testa, e girando lo sguardo capì che si stava riferendo alla vasca nel pavimento.
“Per prima cosa” lo sentì borbottare, con una voce stranamente morbida per essere anche così roca  “devi lavarti. Poi ti aiuto a metterti l’abito, e meno male per te che te ne hanno fatto uno nuovo, quello vecchio si sarà allargato tantissimo dopo che quello lì ha passato una vita a star seduto e grattarsi la pancia come se il re qui fosse stato lui.”
Il vecchio scrollò il capo, come per cacciare via un pensiero fastidioso dal cervello, e tornò a sedersi comodo sul suo sgabello di vetro e a piegarsi verso il bordo del tavolo nella quasi identica posizione di quando Dhovir lo aveva trovato. Appoggiò la bottiglia davanti a lui, osservando l’ombra del liquido nero dondolarci pazzamente dentro fino a rallentare e tornare una superficie piatta e senza screpolature; si grattò il mento ignorando la barba malfatta, e poi tornò a osservare Dhovir ancora fermo davanti all’ingresso della stanza: la sua espressione, mentre ricambiava lo sguardo era un miscuglio tra il Non credo d’aver capito bene e il Devo aspettare che lei esca fuori?.
“’Mbè?” borbottò seccato, alzando la testa e il volume della voce. “Datti una mossa, e non guardarmi così! Non ho mica le ali bianche, io!”
Le guance di Dhovir si fecero bollenti, l’imbarazzo gli cadde addosso all’improvviso come un secchio d’acqua ghiacciata perché si sentì rimproverato come un bambino, perché gli sembrava che lo stesse trattando da stupido, e perché aveva capito che a detta di quel vecchio ora avrebbe dovuto spogliarsi sotto gli occhi di un perfetto sconosciuto.
L’idea lo infastidiva e lo metteva a disagio, e se non avesse sentito la lingua annodarsi sotto il palato avrebbe cercato di ribattere spiegando che si era già lavato a casa sua e che comunque non avrebbe fatto niente con lui nella stessa camera; ma il vecchio lo intimoriva, vedere il suo sguardo severe posarsi su di lui era come sentirsi lanciare addosso una raffica di pugni sulla faccia, e Dhovir era troppo mansueto di natura e troppo impaurito dalla situazione per rifiutarsi.
Così si avvicinò al bordo della vasca, dove un denso vapore gli entrò nel naso e nella gola facendogli venir voglia di tossire, e rigido di imbarazzo cominciò a sciogliere i lacci dei sandali di vetro –non erano suoi, glieli aveva dati una delle due piccole ancelle che lo avevano accompagnato lì e di cui non ricordava il nome, perché era sacrilegio entrare in quel luogo sacro coi piedi scalzi.
Cercò qualcosa nelle vicinanze, come una tenda o un mobile, per nascondersi: non trovò niente, e dovette accontentarsi del fatto che almeno il vecchio gli stava dando le spalle.
Slegò il nodo del telo che aveva stretto sulla vita, lo lasciò cadere ai suoi piedi rimanendo nudo, e con una vergogna tale addosso da fargli rizzare i capelli si inginocchiò sul bordo della vasca e si immerse nel fango fumante fino ai polpacci.
Rabbrividì con forza a quel contatto così piacevolmente caldo. Si sedette distendendo le gambe così che il fango grigiastro gli arrivasse all’ombelico, e poi ne raccolse un poco dentro le mani spalmandoselo lungo tutto il braccio sinistro.
Lasciò passare qualche momento di silenzio, pensando solo a coprirsi il corpo di melma profumata e a sentirla iniziare a indurirsi in certi punti della pelle del viso; cominciando, poi, a pensare che forse il vecchio se n'era andato, provò a girarsi col busto nella sua direzione, trovandolo ancora seduto sul suo sgabello e a dargli la schiena. Notò che aveva alzato la bottiglia davanti agli occhi, e che la stava facendo tremolare leggermente continuando a reggerla per il collo –forse gli piaceva guardarne il liquido ondeggiare violentemente all’interno, o forse era per sentirne il rumore che quel gesto provocava.

“Che c’è?” lo sentì dire d’un tratto, senza voltarsi, e Dhovir sussultò dallo spavento. “Hai qualcosa da chiedermi o ti piace solo guardarmi? Sei tu che hai le ali bianche per caso?!”
Le ali bianche le avevano solamente le donne, e dire che era un maschio ad averle era un modo quasi volgare per affermare che a quell'uomo piacevano altri uomini. Nel sentire quella domanda Dhovir arrossì senza accorgersene, sentendosi ancora imbarazzato, preso in giro, beccato in pieno con le mani infilate nel barattolo dei biscotti: il suo primo impulso fu quello di negare, e di dire che no, no, assolutamente!, non aveva nulla da domandargli e nemmeno gli piaceva guardarlo.
Invece aprì la bocca senza parlare e ingoiò quasi a forza una grossa boccata d’aria bollente. Si inumidì le labbra, si fece coraggio, si rilassò.
“…chi è lei?” chiese alla fine.
Lo vide non cambiare posizione mentre gli rispondeva   “Io? Sono uno che vive qui, e ho paura che finirò anche con l’ammuffirci in questo posto. Mi chiamano Khan, se è questo quello che ti interessa.” Khan lo fissò negli occhi costringendolo ad abbassare lo sguardo. “…tu sei molto giovane”

“io…”

“Sei poco più di un bambino. Probabilmente il più giovane dai tempi del sedicesimo re, quando il patriarca era un altro moccioso che lo stesso re aveva voluto con sé come amichetto di giochi. Lo sapevi questo?”
“Me l’hanno detto…” …un’infinità di volte!, avrebbe voluto aggiungere, ma non lo fece.
L'aver cominciato una conversazione, incredibilmente, lo fece sentire meglio. Come quando si cerca di accarezzare un animale dall’aria feroce, e se anche il primo impulso è quello di ritirare la mano, una volta toccato diventa così facile da sembrare naturale.
E preso quello stesso coraggio, Dhovir tentò un’altra domanda: “Senta…”
“Nh?”
“Prima ha detto che si ricorda di me. Mi stava…” …prendendo in giro?. Non lo disse. “…era uno scherzo?”
Ragazzino!”

Per la prima volta dopo tanto tempo, qualcuno  non lo chiamò ‘Signore’.
“…se proprio dobbiamo cominciare a conoscerci, la prima cosa che devi sapere di me è che non scherzo mai quando parlo”.
Khan, con un gesto secco come un colpo di frusta, ruotò la bottiglia e la portò alla bocca (si era messo di profilo, e Dhovir osservo con curiosità il suo pomo d’Adamo che saliva e scendeva ad ogni sorsata), ne svuotò metà di quello che c’era rimasto, poi sospirò e si leccò le labbra con aria soddisfatta.
“Non parlo a qualcuno per sfotterlo, io! E’ vero che ti ricordo, sai perché? Ero in prima fila all’ultima riunione del Consiglio. Forse sei tu che non mi hai notato”
Dhovir corrugò le sopraciglia. Cercò di ricordare qualcosa, ma non gli venne in mente nulla che potesse ricondurlo a Khan “Siete un sacerdote?”
“Lo ero, in realtà. Se è per questo ero anche un pezzo grosso, prima di ritirarmi. Ma mi trattano ancora come si deve. Tu però non credere che m’impicci degli affari loro o vada a tutte quelle riunioni di pisciasotto da tagliarsi le vene per la noia! Mi hanno fatto intrufolare per quella volta perché ero curioso di vedere chi avrebbero scelto come nuovo Patriarca. Quello di prima era anche mio fratello, ma faceva schifo…”
Assimilando quelle ultime parole, il volto di Dhovir si scolorì d’un tratto “L-Lei è…?!”
Ero, ragazzino: ti ricordo che è morto, pace all’anima sua.”

L’ultima cosa che Dhovir rammentava del Grande Patriarca era l’averlo visto da lontano mente sollevava con un gesto trionfale un neonato verso il cielo. Ricordava quasi tutto di quella notte, i granelli di sabbia che piangevano, la gente che si inginocchiava, le ancelle che invocavano la fortuna, e persino –Lhana, Lhana, Lhana!- l’espressione del vecchio che aveva guardato negli occhi prima che portassero via suo figlio dalla sua vita. Studiando Khan con più attenzione, scoprì con un brivido che avevano l’identico profilo.
Khan alzò la bottiglia e la guardò brillare sotto la luce delle candele e delle lune rosse –che si erano spostate, e invece di un paio d’occhi curiosi ora parevano due tagli nel cielo simili a ferite sanguinanti.
Bevve un altro sorso, e poi, quasi d’un tratto, si piegò su se stesso e si mise a ridere con tanta forza che Dhovir per poco non rimbalzò in piedi dalla sorpresa.
“Accidenti, come faccio a dimenticarmi di te?! Discutevano tutti, nessuno la finiva e alla fine non si capiva neanche chi stesse parlando e chi no, e poi” rise ancora (anche se più che un riso sembrava una raffica di catarrosi colpi di tosse), piegandosi all’indietro e poggiando una mano sulla fronte.
“…e poi tu ti sei alzato… non hai detto nulla, ti sei solo messo in piedi e tutti si sono strozzati con la lingua pur di smettere di parlare! …ma tu non puoi capire, se non hai passato metà della tua vita in compagnia di gente come quella. Se anche te lo spiegassi non capiresti. Povero me, non ti dico io in quel momento, ho quasi rischiato di farmela sotto tanto mi stavo trattenendo dal ridere…”

Dhovir rimase immobile nel fango, un po’ stupito dalla reazione di Khan, un po’ spiazzato dal ricordo di quel giorno che gli crollò addosso all'improvviso come un muro di mattoni  -era in una sala rotonda, e le pareti erano completamente trasparenti: si vedeva tutta la capitale da quella sala, i quartieri più ricchi e i meravigliosi particolari delle case più costose, e poi una striscia di colore uniforme all’orizzonte dove vivevano quelli che non avevano denaro neanche per comprarsi un vestito da legarsi dietro al collo.
Ricordava d’aver preso posto in quello che sembrava il punto meno appariscente di tutti, che l’uomo affianco a lui aveva fissato con disgusto il suo telo legato alla vita che lasciava scoperto il petto ( Anche se in realtà ne aveva di abiti “buoni”: gliene avevano regalati a bizzeffe persone che in cambio volevano solo una carezza o una buona parola dal padre benedetto, ma non aveva mai osato neanche toccarli per gettarli nel fuoco tanto gli davano il voltastomaco), che poi qualcuno aveva cominciato a riconoscerlo e a non smettere mai di fissarlo.
Ricordava anche che a un certo punto un uomo anziano aveva preso la parola, che tutti si erano alzati, tutti urlavano, e che quando lui si era ritrovato in piedi cercando di balbettare qualcosa, nessuno aveva più emesso un fiato.

Lo sconosciuto affianco a lui aveva assunto un’espressione tremendamente buffa, era vero: ma nel ricordare quel giorno non riusciva a ridere come aveva appena fatto Khan.
Lo guardò, quando si accorse che aveva smesso, e lo vide fissarlo a sua volta: gli sembrò tornato l’uomo severo che lo aveva accolto in quella stanza coi suoi occhi ghiacciati.
“Tu eri un Lohh, ho ragione?”
Non c'era il disprezzo a cui lui era abituato nel sentire nominare un Lohh: quelli erano sacerdoti buoni giusto per cambiare l’olio nelle catinelle del fuoco, per pulire il pavimento del tempio e per prendere calci e insulti da chiunque avesse voglia di farlo.
Dhovir annuì senza parlare, portandosi un pugno di fango tra i capelli e sfregandoli con forza.
Altro silenzio: giusto il fango borbottava stancamente come per dirgli di sbrigarsi perché altrimenti si sarebbe raffreddato, ma lui lo ascoltò appena. Altri pensieri gli saltarono addosso per rubargli tutta l’attenzione: come il perché avesse deciso di presentarsi a una riunione del Consiglio dei Sacerdoti per decidere chi dovesse essere il nuovo Patriarca, per esempio.
“Lo sai” sentì dire, con voce seria; alzando lo sguardo verso Khan, lo vide dargli ancora le spalle e tornare a contemplare la sua bottiglia e il liquido ondeggiare pigramente nel fondo “…che se non fossi stato il padre del re non ti avrebbero permesso di entrare neanche nel cortile di questo posto, no?”
“Sì, lo so”

“Mhh…” Khan scrollò le spalle senza voltarsi  “un bel cambiamento, eh? Per questo ti sei proposto? Ne hai approfittato per lasciare quel lavoro ingrato alle spalle e goderti la vita, eh? O magari c’entra il nostro piccolo re? …anzi, non rispondermi, non lo voglio sapere!”.
Khan scosse il capo senza guardarlo, facendo ondeggiare la coda lunga fino alle scapole che teneva legati i capelli color bianco sporco.
Dhovir gli fu grato d’aver interrotto il discorso, perché cercare una risposta da dargli sarebbe stato tremendamente imbarazzante  -non era per un bambino assassino di cui era padre, non era perché stanco di pretendere di essere povero o della carica miserevole che ricopriva.
Però era da tempo, forse da quando aveva sentito che il Venerabile Patriarca era morto nel sonno, che quando andava a trovare sua moglie il volto di Lhana cominciava a sembrargli diverso dal solito: quando le si fermava di fronte a volte pareva che da sotto le palpebre chiuse gli stesse lanciando uno sguardo di rimprovero, o che la sua faccia si fosse distesa in un’espressione di tristezza e benevolo perdono, come quella di una madre che si sforza di perdonare il figlio per aver fatto qualcosa di sbagliato.
Ripensò a quel viso, a quello sguardo invisibile che brutalmente lo trafiggeva di sensi di colpa (Perché sei qui?, gli sembrava stesse pensando senza poter parlare, Dov’è lui? Perché non hai cura di lui?), e abbassò il capo lasciandosi sfuggire un sospiro incolore dalle labbra.

“…invece tu dovresti sapere una cosa” 
Khan si alzò in piedi, si stiracchiò la schiena, si avvicinò a un armadio di vetro di un colore simile a quello del suo vestito; sparì dietro un’anta mentre ci frugava dentro e continuò a parlare.
“…su tuo figlio intendo. Anzi, sui tutti quei re che tanto veneriamo. Quello che c’era prima… ho sentito in giro che ha fatto un sacco di opere buone per la capitale, che quella del sistema fognario nuovo era stata una sua idea, o che quando c’era stata quell’epidemia di febbre che ha ammazzato un bel mucchio di persone -terribile, davvero terribile… me la ricordo ancora!-  lui aveva passato notti insonnie e aveva digiunato per un anno per pregare l’epidemia di placare la sua collera…”
Dhovir ricominciò a spalmarsi il corpo di fango, fissando il punto in cui Khan era sparito e aspettando che continuasse a parlare. Quelle che stava dicendo erano cose note, suo padre e suo nonno avevano ammirato tantissimo le opere buone di quel re e lui li ascoltava con gli occhi spalancati quando gli raccontavano quelle storie. Suo padre gli aveva detto che anche lui si era ammalato, che era appena nato e con quella febbre tanto alta lo davano già per morto, e che così sarebbe successo se non fosse stato per gli sforzi del loro sovrano nel chiedere perdono e digiunare per il suo popolo.
Diventare un sacerdote, anche solo un umile ed inutile Lohh, gli era sembrato il minimo per dimostrare tutta la sua gratitudine a quel re che gli aveva salvato la vita.
“Be’, ragazzino, è bene che tu sappia che sono tutte balle!”
“…balle?!”

Non poteva vedere Khan, ma gli bastò ascoltare il cambiamento del suo tono di voce per immaginare in che modo si dovevano essere contorte le rughe del suo viso. Le ultime parole le aveva letteralmente ringhiate. “Io c’ero, cosa credi? Quelle belle idee per modernizzare il paese erano tutte quante di mio fratello, tutte quante! …e lui idiota citrullo che era a dare il merito a un mocciosetto che ancora pisciava a letto! E gli anni della febbre lui non ha né digiunato né detto una parola a nessuno per chi stava crepando: quegli anni li ha passati bello sorridente a fare un bel accidente per nessuno! Manco potevamo degnarci di dirgli che fuori c’era qualcuno che stava morendo: quelli del Consiglio hanno deciso che la cosa poteva turbarlo e l’hanno lasciato pacifico a rovinare la vita alle persone che stavano lì a baciarli i piedi quando lui li prendeva a calci!”
Khan uscì fuori con un telo bianco piegato su un braccio e un qualcosa di rosso scuro stretto nell’altro. Dondolava la testa, e teneva lo sguardo basso.
Quando arrivò vicino al bordo della vasca, fissò Dhovir negli occhi e ne studiò attentamente l’espressione del volto.
“E non guardarmi così! Che ti aspetti? Bambini che hanno la mamma morta e vengono allontanati dai parenti che gli sono rimasti, e che vengono trattati da imperatori ancor prima che imparino a gattonare o a muovere le ali. Non hai idea di quanto viziato possa diventare qualcuno e quanto ti devi trattenere dal dargli uno schiaffo per non ritrovarti con le mani tagliate per aver osato tanto!”
Poggiò il telo a terra  –da quella vicinanza, si poteva sentire l’odore del suo alito: bruciava agli occhi e al naso come una cipolla appena tagliata.
 “…ora sbrigati però, non abbiamo tutta la notte.”
Dhovir aspettò che si fosse allontanato abbastanza prima di uscire fuori dalla vasca: il fango si seccò quasi immediatamente sopra la pelle in maniera fastidiosa, rendendogli difficili i movimenti come se fosse diventato un pezzo di legno. Prese il suo telo stracciato e lo legò ai fianchi per coprirsi, e poi si chinò per raccogliere quello che Khan gli aveva procurato, aspettando che la poltiglia che aveva addosso si asciugasse completamente per potersela togliere.
“Ma…”
Cercò Khan con lo sguardo e lo trovò poggiato sul tavolo, mentre si slegava i capelli e ricominciava a farsi la coda, in un gesto incredibilmente fluido e veloce, come se per tutta la vita non avesse fatto nient’altro. Involontariamente, ingoiò un po’ di saliva per schiarirsi la gola, prima di continuare.
“…che vuol dire…”
…che ha rovinato la vita alle persone?

Dhovir tacque, non riuscendo ad aggiungere altro.
Il vecchio (non più Khan: ora, con quello sguardo, era di nuovo il “vecchio" che aveva visto quando era entrato in quella stanza) non lo guardò, non gli chiese neppure di finire la domanda, come se in realtà non avesse neppure aperto bocca.
Dhovir ebbe anche il tempo di aspettare che il fango si asciugasse completamente fino a staccarsi da solo, lasciando la pelle più pulita e profumata di prima, e di passare il telo pulito dove erano rimaste le briciole e pettinarsi i capelli asciutti con le dita per togliere la polverina grigia che c’era rimasta. 
“Signor…?”
Ragazzino!
Khan alzò la testa di scatto e gli lanciò un’occhiata che era tra il rimprovero e il divertito; si avvicinò a lui a grandi passi, e quando lo raggiunse gli mise tra le braccia la cosa rossa che stava reggendo fino a quel momento.
Dhovir lo guardò e lo tastò con le dita, scoprendo che era un abito dalla stoffa incredibilmente soffice.
“Se non ti sbrighi cominceranno la cerimonia senza di te, e quelli sono disposti a eleggere Patriarca il primo soprammobile che capita pur di averne uno alla svelta”
Ridacchiò della propria battuta con un sogghignando, voltandosi di nuovo e lasciando l’altro ad annuire molto nervosamente.
Dhovir faticò un poco nel cercare di indossare il suo primo abito da allacciare dietro il collo: il secondo tentativo, quando Khan decise di andare ad aiutarlo, fu molto più che soddisfacente.
Una volta messo addosso e aver iniziato a stirare le pieghe con le mani, provò a guardarsi dall’alto. Il vestito era così lungo da coprirgli le caviglie, dritto e leggero, con dei simboli cuciti sul petto che lì per lì non fu in grado di leggere. Era un abito fin troppo simile a quello che il vecchio

Patriarca aveva addosso al funerale di sua moglie; quel pensiero gli fece venire i brividi, ma fece finta di nulla.
Si infilò i sandali e li legò lungo il polpaccio molto frettolosamente fino a ottenere un groviglio disordinato di nodi  -Khan sbuffò e si inginocchiò per rimediare a quel disastro, facendolo sentire in imbarazzo ancora una volta: rialzandosi, borbottò qualcosa sulla sua schiena dolorante, e poi gli fece cenno di uscire dalla stanza con un movimento secco della testa. 
 Lui obbedì, ringraziando e salutando nel modo più educato che conosceva, scostando la teda rossa, attraversando il piccolo corridoio e saltando giù dalla finestra con un balzo, ritrovandosi nello stesso punto dove Rhema e le altre lo avevano lasciato.
Guardò il fondo del corridoio, e gli sembrò una terribile bocca squadrata pronta a ingoiarlo tutto intero senza lasciare neanche le ossa: la paura che aveva provato mentre veniva accompagnato fin lì lo assalì all’improvviso, come una belva nascosta per tendere un altro agguato.
La pelle dei piedi ricominciò a pizzicare fastidiosamente, in un formicolio che lo lasciò quasi atterrito sul posto: scappa ora, sussurrò la vocina nel suo cervello che fino a quel momento aveva taciuto, e il prurito freddo sottopelle si fece fastidioso come non mai.
“Che fai fermo, aspetti che qualcuno ti faccia una statua?”
Dhovir sussultò e si girò di scatto, mentre gli occhi minuscoli di Khan lo osservavano immobili e pungenti come spine.
Quell’occhiata che prima l’aveva intimorito ora ebbe lo stesso piacevole effetto del fango bollente sul corpo: il formicolio cessò, tanto che quasi si dimenticò d’averlo mai avuto.
“…viene anche lei?”
“Sapresti dove andare altrimenti?”

Dhovir non disse niente, perché la risposta era già ovvia e perché comunque non avrebbe avuto neanche il tempo per farlo.
Nella parete di fronte alla loro, a dodici passi di distanza, da una delle finestre a cinque lati e a mezzo metro dai disegni grezzi del tappeto, qualcuno cominciò a ridere ed attirò i loro sguardi nel punto da cui proveniva quella voce.
Uscì fuori una cosa piccola, una macchia azzurra che saltò fuori e poi rotolò leggermente sul pavimento e poi si alzò in piedi alzando le braccia per tenersi in equilibrio sui piedini minuscoli, e a Dhovir bastò sfiorarla con lo sguardo per sentirsi ghiacciare il sangue sotto la pelle.
La macchia scivolò goffamente e velocemente verso Khan, si nascose sotto il suo vestito abbracciandogli le ginocchia secche e ridendo sempre più forte.
Il vecchio guardò la scena con un sopraciglio alzato e un sorriso mal trattenuto sulle labbra screpolate.
“Oh!” fece, sogghignando e cercando di guardare la cosa appiccicata dietro le sue ginocchia.
“…credevo d’aver visto qualcuno venire qui, ma adesso non c’è più… come farà l’ancella a trovarlo?”
Il bambino saltellò sul posto, ridacchiando divertito e stringendosi alle gambe di Khan con forza maggiore, mentre dalla stessa finestra dove era uscito lui si affacciò una donna dai lunghi codini verde acido.
“…dov’è?” chiese, con lo sguardo disperato di un cucciolo picchiato col bastone, non appena si accorse della presenza di Khan: nel sentire la sua voce (un po’ ridicola, a dire il vero, come se parlasse col naso invece che con la bocca), il bambino malamente nascosto si fermò e rimase immobile, ma le sue risatine mal trattenute si sentivano lo stesso chiaramente.

La donna –che invece, uscendo, si scoprì essere una ragazza con la faccia da adulta-  guardò la forma di un paio d’ali piccole come quelle di un passero sotto la stoffa del vestito dell’uomo, e si affrettò a raggiungere il corridoio rischiando di sbattere il ginocchio contro il pavimento.
“Mio signore” balbettò, quasi piagnucolando, inginocchiandosi davanti alle gambe di Khan e cercando di guardare il bambino nascosto dentro il suo vestito. Non alzò un solo sguardo né su Khan, né su Dhovir.  “La prego, non si faccia vedere scalzo, o se la prenderanno con me…”.
“’Atte?!”
L’ancella si morse il labbro. “Ho già mandato qualcuno per portarvi il latte, mio…”
“’ATTE! ‘ATTE!”
Senza uscire dal suo nascondiglio, il bimbo cominciò a sbattere i piedi a terra –prima solo il destro, poi entrambi, man mano che la voce si faceva sempre più alta e tanto stridula da tapparsi le orecchie.
La donna balbettò qualcosa a voce bassa, guardandosi attorno quasi cercando aiuto (o, invece, forse temendo che qualcuno potesse arrivare proprio in quel momento e rimproverarla per aver fatto urlare il bambino) e muovendo le mani in avanti senza dare alcuna impressione di sapere cosa fare in casi come quelli.
Khan lanciò un’occhiata eloquente a Dhovir e poi alzò gli occhi al cielo, con un’espressione che sembrava voler dire “Hai visto, ragazzino? E poi non dire che non te l’avevo detto!”.
Poi smise, si accorse che lui non lo stava neanche guardando e che fissava le gambe grassocce del bimbo come se dovesse uscir fuori da un momento all’altro per azzannarlo alla gola;
Khan strinse le labbra nella bocca, e abbassò lo sguardo.
“Il piccolo re fa troppi capricci” commentò, con voce di scherno e di rimprovero allo stesso tempo: l’ancella smise di agitarsi e lo fissò dal basso, spalancando gli occhi incredula e disgustata come se lui avesse appena pronunciato una terribile eresia.
“…e sa bene che non dovrebbe vedere il nuovo Grande Patriarca prima della cerimonia, non è così?”
Il bambino si fermò immediatamente, e Dhovir inorridì, sentì il sangue schizzare pazzamente nelle vene e la terra sbriciolarsi sotto la suola dei sandali.

 Il prurito alle gambe divenne un brivido, un tremito possente, e poi la sensazione di essersi appena svegliato e di ritrovarsi sull’orlo di un burrone.  

Scappa, gli sussurrò una vocina sottile che gli trafisse i timpani e il cranio come un ago
Scappa
Scappa
Scappascappascappascappaaa!

E Dhovir cominciò a fare il primo, tremolante passo all’indietro.

Ma fu l’unico.
Il piccolo re alzò i lembi del vestito di Khan, scoprendo le gambe magre fino appena sotto le ginocchia, e allungò il collo verso l’alto per riuscire a guardarlo in faccia.
Osservò Dhovir con la meraviglia dipinta nel viso, probabilmente attratto dal colore sanguineo del suo abito, e lo studiò con lo sguardo come se dovesse decidere se il suo nuovo giocattolo fosse un dono gradito oppure no. Anche Dhovir lo guardò, e qualcosa gli si strinse nel petto in una morsa bollente. Lo guardò, e si rese conto del tempo passato da quando aveva visto suo figlio, che l’assassino infante sorretto da un vecchio davanti alla tomba della madre non ci sarebbe stato mai più: ora sapeva reggersi in piedi, sapeva dire qualche parola e probabilmente riusciva già a sbattere le ali tra loro. Non era piccolo, brutto e cieco, con la pelle unta di pianto e la bocca distorta in una smorfia senza nome. Ora quella sua bocca sembrava fatta apposta per essere baciata, e la sua pelle era di un dolcissimo color nocciola e gli occhi lucidi splendevano di un blu ancor più stupefacente dei suoi capelli.
Il piccolo re continuò a osservarlo senza dir nulla, e l'ancella ne approfittò: si avvicinò alle sue spalle e riuscì a stringerselo al petto per impedirgli di scappare ancora.
Vedendo che non faceva storie, chiuse gli occhi sollevata e si alzò in piedi tenendolo in braccio.
“Scusate!” borbottò frettolosamente, senza guardarli, prima di voltarsi e accelerare il passo verso la stanza dalla quale erano usciti.
Prima di sparire oltre la finestra, però, il bambino si affacciò sopra la sua spalla spalancando gli occhi dietro i ciuffi di zaffiro della frangia, li fissò entrambi con attenzione e alzò la mano vicino alla guancia per salutarli al posto della donna.

Fu un momento.
Come era stato un momento quando tra la folla del tempio Lhana aveva ricambiato lo sguardo di Dhovir per la prima volta.
Un momento in cui Dhovir si accorse che il sorriso di suo figlio era identico a quello della madre.















 


 




Onigiri






note autrice:



Allora, allora...
prima di tutto ci tengo a rassicurare che questa storia ha (?) un senso: che ogni tanto appaiano questi esseri volanti o che il figlio di Dhovir sia già molto cresciuto dall'ultima volta che lo abbiamo lasciato, o che succedano tutte queste cose in generale @_@, è tutto calcolato e -spero presto- spiegato.
Però ci andrò molto piano con lo sbrogliare i numerosi misteri di questa storia u_u (...speriamo bene xD).

per il resto... bene, eccomici ritornata a Dhovir, ma dal prossimo si ricomincia con Mila =P. Questo capitolo così introspettivo non ha molto o nulla di soddisfacente, a parer mio >>"... spero non sia troppo noioso o non richieda una lettura troppo lenta. Se così è, chiedo scusa ç_ç.


Onde per cui... passerei ai ringraziamenti *___*! :



Hellister : eheheh, folle è il termine giusto xD, io stessa a volte fatico a star dietro a certi punti della trama. Sono contenta che Moloch ti sia piaciuto: spero che valga anche per i prossimi personaggi in arrivo. Grazie ancora ^^

 darllenwr  : Grazie, grazie, grazie infinite *_*! Ti dirò la verità sulle qualità anatomiche di Moloch: è quasi tutto frutto di uno scarabocchio che feci in un giorno di noia... per dire quanto sono orribili i disegni che faccio xD. E la chiave, la chiave... non la perderei di vista se fossi in voi. Grazie infinite ancora! ^-^

 S a r s a:  °///////° a, u, e... oddende, grazie!! come sei gentile >////>! No, davvero, non so che dire... poi se mi nomini Tim Burton vado letteralmente in corto circuito! ..no, sul serio, grazie mille e mille altri ancora #^___^#! Spero di non deluderti.


E infine, ovviamente, un grazie enormixximo a tutti i lettori!
Buon primo maggio =), e grazie ancora! 


*onigiri






   
 
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