SCUOLA DI MAGIA E STREGONERIA DI HOGWARTS
Direttrice: Minerva
McGranitt
(Ordine di Merlino, Prima Classe, Confed. Internaz. dei Maghi e
delle Streghe)
Caro Signor
Twirl,
siamo lieti di informarLa che Lei ha diritto a frequentare
la
Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. Qui accluso troverà
l'elenco
di tutti i libri di testo e delle attrezzature necessarie.
I corsi avranno
inizio il 1^ settembre. Restiamo in attesa della
Sua risposta via gufo entro
e non oltre il 31 luglio p.v.
Con
ossequi,
Minerva Mcgranitt
Ci aveva provato, Harry Potter, ma
per quanto si affliggesse, non riusciva a farsi meno pena. Un conflitto interno
teneva in assedio la sua mente. In parte era colpa dell’allontanamento forzato
dal lavoro. Tutto quel tempo libero a disposizione era rosicchiato dai tarli dei
ricordi. Passava più della metà giornata in uno stato vegetativo, sdraiato su un
fianco, al buio. Si alzava solo quando Ginny Weasley rincasava, obbligandolo
perentoriamente a scrollarsi quell’atarassia che gli impolverava
l’anima.
A cena piluccava il cibo, nutrendosi
più che altro degli spacchi di vita descritti dalla sua donna. Poi puliva i
piatti e massaggiava i piedi indolenziti di Ginny, fingendo di ascoltare gli
scontri verbali che lei aveva avuto con la spregevole Rita Skeeter, in
redazione. Infine tornava in camera da letto, calpestando i gradini con
insoddisfazione, e si bendava le ferite morali con le
lenzuola.
Non mise neanche un giorno il piede
fuori di casa, e così passarono luglio e agosto. Si era volontariamente
imprigionato, e come un vero detenuto si era fatto crescere la barba e la pelle
sotto gli occhi si era scavata. Harry era capace di passare ore e ore, senza
parlare, rigirandosi tra le dita le foto di ciascun caduto. Ne contemplava i
volti, ripercorrendo con la mente le parole che si erano scambiati, i desideri
che si erano confessati. Le paure che non si erano raccontati, nella speranza
che tutto sarebbe andato per il meglio, erano invece impigliate in quei sorrisi
appena delineati.
Harry si chiese se per caso la sua
anima non fosse scivolata via durante la guerra, per poi ritrovare, al suo
ritorno, un corpo troppo ostile per contenerla tutta, come un
tempo.
- Amore, questa depressione si sta
prendendo persino i tuoi capelli. Ti prego, fatti aiutare. Fallo per il bambino,
almeno. –
Ma lui aveva portato una mano sul
principio di calvizie per poi rigirarsi sull’altro fianco, dando le spalle a
Ginny.
Pile e pile di fascicoli si
impilavano sotto incantesimo, rigorosamente nell’ordine cromatico delle
copertine. Una dozzina di pergamene, ricevute il timbro ministeriale, si
arrotolavano e sfrecciavano verso l’alto, come risucchiate nel vuoto. La piuma
grattava una firma, la ceralacca precipitava calda in calce alle lettere, i
fogli si avvolgevano in stretti cilindri e il tagliacarte limava i bordi
frastagliati e imperfetti delle pergamene. Quello era il ritmo incalzante del
lavoro d’ufficio, il momento più calmo della giornata. Avvolto solo da quei
suoni familiari e piacevoli, il sottosegretario del Wizengamot compieva
movimenti metodici, ben studiati per minimizzare lo sforzo e il
tempo.
Alla sua destra, una ragazzina lo
salutava sbracciandosi dentro una piccola cornice. Percy finalmente la degnò di
uno sguardo, l’espressione alterata da un improvviso sentimentalismo. A
malincuore capì che era giunto il momento di togliere quel ritratto da lì.
Strinse con delicatezza la cornice, come se temesse di far esplodere il vetro
che intrappolava la figura, tornata improvvisamente
composta.
- No, tesoro, non ti tolgo perché mi
hai distratto con il tuo saluto. È solo che… –
Percy Weasley non finì mai la frase,
perché vinto dagli occhi tristi di Penelope Light. Non ebbe più il cuore di
spostarla. Quando tolse la mano, disgraziatamente urtò un calamaio e il
contenuto si sparse sulla scrivania in una pozza nera petrolio, che si
infiltrava nelle incisioni decorative del legno. Percy sollevò per tempo i
documenti intonsi poi, con un movimento impaziente di bacchetta, fece riscorrere
l’inchiostro nella propria boccetta.
Tirò un sospiro di sollievo non
appena fu scampato il tremendo pericolo, e sudò all’idea che qualche pergamena
ufficiale si fosse potuta sporcare. Pensò poi alle drammatiche conseguenze:
sarebbe stato tacciato di negligenza, di inaffidabilità. Avrebbe potuto
addirittura perdere il posto.
Strofinò con una manica della giacca
la spilla a forma di doppia vu, che
spiccava sulla toga grigio polvere. Era solito compiere il “rituale della
lucidata” quando s’insinuava in lui il terrificante dubbio di non essere
all’altezza. A dire il vero, quel vezzo – a metà tra la scaramanzia e
l’ossessione per la pulizia – se lo portava dietro da quando era stato nominato
Prefetto, a Hogwarts.
Il peso di quella spilla antica,
impigliata non per caso all’altezza del cuore, gli fungeva da monito. Essere
sottosegretario del Wizengamot, Tribunale Supremo dei Maghi della Gran Bretagna,
significava essere già a metà dell’opera. Ancora qualche anno e avrebbe puntato
alla presidenza, poi alla carica di Viceministro e infine a quella di Primo
Ministro. Non poté fare a meno di immaginarsi al momento dell’elezione. Si era
anche preparato il discorso d’inizio, tanto che ormai gli rimaneva solo da
scegliere quale fosse il tono di voce più consono a esprimere la propria
commozione.
- Da oggi, finalmente, il Ministero della
Magia è in mano di… –
- Weasley? – si azzardò qualcuno,
interrompendo il suo momento di gloria.
Percy Weasley si voltò verso la porta
da cui faceva capolino un viso incorniciato da un caschetto maschile. Il collo,
già allungato allo spasmo, sembrò tendersi ancora di più all’interno
dell’ufficio. Apparve come un gesto di eloquente impazienza. La donna stava
aspettando il permesso per entrare. Quell’atteggiamento parve a Percy
tremendamente incoerente, visto che lei aveva già aperto senza farsi annunciare
– o anche solo bussare –, come la buona educazione
insegnava.
- Signor sottosegretario, per favore, –
sottolineò pomposamente Percy Weasley, guardandola da sopra gli occhialini a
mezzaluna che portava per leggere. Gli sembrò subito un fastidioso insetto da
come piegò un lato della bocca, con disappunto. Si alzò educatamente, facendole
finalmente cenno di entrare.
- Come preferisce, signor sottosegretario, – si corresse, stringendogli un po’
titubante la mano non appena gli fu davanti. – Sono Pansy Par-
–
- Sì, lo so chi è lei, signorina
Parkinson. Le ho mandato un gufo tre giorni fa. Era gradita una conferma. Si
accomodi, prego. –
Quel tono autoritario che non
ammetteva repliche diede un po’ fastidio alla nuova arrivata, che però tenne per
sé quel sentimento ubbidendo docilmente.
Quel bagno è inagibile. Anche per amoreggiare, sì. Cinque punti
meno a Serpeverde.
Signorina, t’ho vista mentre facevi un incantesimo alle spalle di
quelle studentesse Tassorosso: dieci punti meno a
Serpeverde.
Parkinson, è già la quarta volta che ti becco in giro
dopo il coprifuoco, farò rapporto al professor Piton.
Queste erano solo le frasi più
frequenti; la lista dei rimproveri che Pansy Parkinson aveva ricevuto da lui era
forse più lunga della preparazione per una pozione Polisucco. Chissà se si
ricordava di lei, pensò mentre altri ricordi si
confondevano.
Stava per appoggiare la borsa sulla
scrivania, quando l’ordine maniacale la mise a disagio. Notò quanto tutto fosse
spietatamente catalogato. Persino l’oggettistica da cancelleria era registrata
in base all’utilità. Sul fronte di un vaso pieno di Puntine Maledette
campeggiava la didascalia: per spillare
protocolli riservati. Sembrava lo studio per una persona con un deficit di
memoria a breve termine. Pansy fu punta da vaghe reminescenze cliniche
sull’Alzheimer precoce e stava per chiedergli se per caso ne fosse affetto,
quando con uno sbuffo prese corpo uno spesso rotolo di
pergamena.
Il legno della sedia le divenne
insopportabilmente scomodo non appena lesse le parole che spiccavano dalla
targhetta classificante.
Debitrice P. Parkinson, n. 2874-P
- Arriviamo subito al dunque,
signorina Parkinson. Come ha evinto dalla mia lettera di convocazione, il
processo in contumacia l’ha condannata per insolvenza fraudolenta. I gestori
della Gringott pretendevano l’esecuzione della sentenza entro trenta giorni e
per scongiurare un increscioso incidente diplomatico tra razze, lo Stato magico
della Gran Bretagna ha saldato il suo debito con i Goblin. Da questo momento il
suo creditore è il Ministero della Magia. Conosciamo la situazione economica in
cui si trova, e l’unico fattore produttivo che può usare per restituirci ogni
Galeone è la sua forza lavorativa. Comprende i miei termini tecnici o devo
spiegarmi meglio? –
- Devo risarcire lo stato magico
lavorando per voi. Non faccio neanche in tempo a incassare il mio stipendio, ché
trasferite tutto nelle vostre tasche. –
- L’erario magico riscuoterà quanto
legittimamente le ha prestato con pochissimi interessi, – precisò Percy,
stizzito per la faciloneria con cui quella ragazza riassumeva la situazione. –
Ovviamente una parte della paga la tratterrà lei. Varrebbe a dire i Galeoni
sufficienti per la sopravvivenza. Quindi non ha di che preoccuparsi.
–
- Il succo l’avevo afferrato, sì,
grazie. Peccato che nessuno assuma la figlia di un Mangiamorte, – riprese
serafica Pansy, pescando in una grande borsa l’immancabile bocchino per
fumare.
- Infatti è stata convocata qui per
essere aiutata a trovare un lavoro,
adesso. La scelta è molto limitata, quindi andiamo per esclusione: cosa non sa fare con precisione? Tolga subito
quella sigaretta! –
Percy la fulminò, definitivamente
seccato per la mancanza di giudizio di Pansy Parkinson, mentre il fumo aleggiava
fino a lui facendolo tossire. Portò istintivamente una mano a coprire la spilla
del Wizengamot, mentre con l’altra sventolava
l’aria.
Pansy fece un secondo profondo tiro
prima di spegnerla con riluttanza. Aveva il bisogno fisiologico di fumarsi una
sigaretta, perché cominciava a irritarsi. Temeva di esplodere con qualche
vituperio che l’avrebbe rimessa nei guai: da lì la necessità di riempirsi bocca
e polmoni di nicotina.
E questo perché Weasley le aveva
domandato cosa non sapesse fare. Una domanda semplicissima che richiedeva una
risposta altrettanto semplice e franca. Il problema era che non sapeva da che punto
iniziare.
- Dunque. Non so cucinare, non so
pulire, non so cucire né correre veloce. Non sono particolarmente ferrata nella
Trasfigurazione, odio le Creature magiche. Ho una propensione naturale nel far
morire tutte le piante. I mocciosi e i vecchi mi fanno innervosire. Detesto
trovarmi… –
- Signorina Parkinson, – la
interruppe Percy Weasley con la fronte sempre più corrugata, pensando di essere
preso in giro, – cosa sa fare,
invece? Ci sarà qualcosa in cui è brava, giusto? La prego di rifletterci. Da
Madama Rosmerta, avrebbe l’opportunità d’imparare a servire, ad esempio.
–
- Weasley. Signor sottosegretario, sappia che preferirei i lavori forzati anziché
puzzare di Burrobirra, – ribatté prontamente, cercando di nascondere l’angoscia
con una facezia di basso gusto. Ma Percy Weasley non aveva l’inclinazione alla
simpatia né tantomeno alla comprensione, Pansy dedusse tardi dai suoi occhi
affilati e dal movimento secco con cui richiuse lo schedario dei lavori
disponibili.
- Se fossi in lei, non rigetterei a
priori questa occasione. I debitori dello Stato possono rischiare il ritiro
della bacchetta. Siamo molto intransigenti su questo lato. Butti subito quella
sigaretta, signorina Parkinson! All’interno del Ministero è proibito fumare. Non
vorrà incorrere in pesanti sanzioni, che tra l’altro neanche potrebbe pagare.
–
Pansy Parkinson sbiancò
definitivamente, capendo quanto seria fosse la situazione. Vagliò rapida le
possibilità che aveva per far soldi.
Si sentiva
come un vaso costoso caduto per il peso di sguardi invidiosi, e ora sbriciolato
in mille pezzi. Non era più da collezione e non avrebbe ritrovato il posto di un
tempo, nella prima fila di una vetrina. Ma magari un giorno, qualcuno l’avrebbe
rincollata, per
pietà.
- Ho un attestato in Medimagia, ma
sono davvero a un livello base. A fronte del processo di mio padre, – la voce le
si incrinò impercettibilmente, – ho abbandonato il corso. Potrei a malapena fare da assistente a
un’infermiera, però. –
Guardò un punto imprecisato sopra la
spalla di Percy Weasley, per non dargli la soddisfazione di leggere, in quegli
occhi di un celeste insipido, il suo giudizio di
disgusto.
- Al San Mungo stanno licenziando per
mancanza di fondi, sicuramente non prenderebbero in considerazione il suo
curriculum nemmeno alla lontana. Penso che nessuna struttura medica la
accetterebbe, con sincerità. Quindi, perché no… – aggiunse Percy leggendo con
attenzione un foglio, – che ne dice di aiutare Madama Chips a Hogwarts? La
signora Poppy Chips ha richiesto espressamente una collaboratrice.
–
30 agosto, Diagon
Alley
Le insegne
scintillanti catturavano l’interesse di frenetici passanti, troppo impegnati ad
approfittare degli ultimi sconti per accorgersi di una cappa di nubi che tingeva
il cielo mattutino. Nessuno percepiva l’odore ristagnante di una prossima resa
dei conti.
Diagon
Alley era gremita, piena di platani e voci. In fondo alla piazza principale, un
ronzio misterioso proveniva senza sosta dal Paiolo Magico e costringeva i maghi
a fare una strada più lunga per non passarci
vicino.
Su una via
che piegava a gomito, due streghe maggiorenni, armate di una lista con gli
ultimi acquisti da fare prima di tornare a Hogwarts, facevano rotta verso
l’Emporio del Gufo.
- Ma ti
porti già un barbagianni, tre civette, un ranocchio cieco e due furetti mezzi
zoppi! Vuoi crearti un ricovero per animali disgraziati? – si lamentò Lys Joyce,
buttando la testa indietro e lasciandosi condurre
sconfitta.
Sorpassarono la bottega di Olivander, che inghiottiva giovanissimi
maghi con le ginocchia nodose che sbattevano per
l’emozione.
- Voglio un
gatto nero, – riprese Ginger Habington, avvolta in un vestitino a fiori e degli
stivaletti eleganti ai piedi. Si asciugò con una mano il collo sudato e frizionò
la chioma rossa e lucente. Sfoderò un sorriso disinvolto, decisa a comprarsi
l’ennesimo animale e certa che niente le avrebbe fatto cambiare
idea.
- Oh
Morgana, – sfiatò Lys, prendendo subito dopo una
storta.
- Lo vedi?
Non imprecare! – l’ammonì risentita Ginger, succhiandosi un piccolo pentacolo
che le pendeva nell’incavo dei seni.
- Dopo
andiamo al Ghirigoro. Questo è il mio patteggiamento. Ci stai?
–
Ginger
Habington incrociò le dita a mo’ di giuramento poi cominciò a trotterellare,
lasciandosi dietro Lys Joyce, che a fatica le stava dietro con le sue gambe più
corte.
L’Emporio
del Gufo era una vecchia stamberga, leggermente discosta dalle altre botteghe
della piazza centrale di Diagon Alley. Il grande cartello d’entrata, in ferro
battuto, era seminascosto dal piumaggio di una cornacchia dagli occhi
vispi.
Quando il
campanello annunciò il loro ingresso, nessun commesso o proprietario venne loro
incontro. Un fremente battito di ali le investì non appena si chiusero la porta
alle spalle, e un odore malevolo impregnò le narici di entrambe, mentre
riconoscevano pian piano i versi di altri animali.
Serpenti
pigri le fissavano da dietro teche sporche, gatti in sfilacciati canestri di
vimini si leccavano le zampe; enormi barbagianni si agitarono al loro cammino,
sbattendo le ali contro le spranghe di gabbie troppo piccole. Gufi e pipistrelli
rimasero in dormiveglia su trespoli sbilenchi e sudici, sospesi tra il soffitto
e la parete della vetrina.
Le assi
dissestate del pavimento provocavano molesti rumori sotto il peso di un
Mezzogigante, poco più avanti di Ginger e Lys, che avanzava cercando di
provocare il minor fastidio possibile e guardandosi intorno
furtivo.
- Coraggio,
Hagrid, – lo incitava la voce flautata di una ragazza con lunghissimi capelli
biondo sbiadito.
Rubeus
Hagrid decise finalmente di darsi una mossa, passando in rassegna ogni gabbia,
cesta, acquario della stanza, con i lineamenti concentrati e le labbra
tese.
Indossava
abiti macchiati di muschio e un gilè lercio per metà ghermito dalla spessa
cintura di cuoio. Lo spazio tra gli scaffali era troppo angusto e lo costringeva
a mantenere le mani lungo i fianchi, per non rischiare di spazzolare via qualche
gabbia.
Il corpo
esile e slanciato della sua amica, Luna Lovegood, volteggiava curioso da una
parte all’altra, specchiandosi nei giganteschi acquari. Lei rimaneva stralunata
a fissare le creature marine, sbattendo gli occhi
tondi.
Qualcosa di
morbido sfiorò un polpaccio di Hagrid, mentre le due nuove arrivate, Lys Joyce e
Ginger Habington, rimaste dietro di lui, prorompevano in un grido apocalittico.
Il resto avvenne in modo rapido e confuso. Hagrid scalciò all’indietro come un
cavallo imbizzarrito, urtando con un piede il trespolo di un gufo vecchio e con
gli occhi ciechi. Il giovane commesso dell’Emporio entrò nell’istante esatto in
cui una palla di pelo che aveva originato il trambusto era schizzata in aria,
graffiandogli malamente il naso.
Come se
qualcuno si fosse ricordato di riaccendere l’audio, seguì una sfilza di acuti
inarticolati e di rauche scuse, che ferirono le orecchie di una Luna Lovegood
rimasta imbambolata.
- Questo! –
gridò a propria volta Ginger Habington, acciuffando invasata la causa di tutto
il disordine e strusciandosela addosso.
Hagrid si
avvicinò impacciato al ragazzo ferito, che cercava di tamponarsi con una manica
i tagli profondi tra il naso e lo zigomo sinistro. Si terse la fronte,
controllando l’andatura sgraziata mentre ripeteva a raffica delle
scuse.
- Vuoi un
coniglio? – domandava incredula Lys Joyce all’amica, scrutando colma di odio
l’obesa palla di pelo.
- Sì, lo
amo! – dichiarò solennemente Ginger, con il solito stridulo. Sollevò all’altezza
del proprio viso l’animale. – Guarda che occhi verdi ha! Deve essere mio, deciso.
–
Il commesso
sbuffò tra il dolorante e il sollevato. Quella palla di pelo omicida se ne
sarebbe andata una buona volta.
– Professor
Hagrid. Joyce, Habington, – salutò i suoi clienti senza troppo entusiasmo,
tornandosene dietro il bancone per cercare delle
garze.
Ginger e
Hagrid gli sorrisero, una sfrontatamente soddisfatta, l’altro con un visibile
senso di colpa.
Lys Joyce
fu più loquace, come sempre. – Zachary Stewart… Non sapevo lavorassi qui. –
Lanciò
sarcastica uno sguardo attorno a sé, provando a cercare una singola ragione che
avesse convinto il loro compagno di scuola a passare proprio lì le vacanze
estive.
Zachary
staccò con i denti un cerotto di carta per fermarsi la garza sulla ferita,
mentre Luna Lovegood con molta compostezza sferzava l’aria con la bacchetta,
puntandogliela contro.
- Conosco
un incantesimo perfetto per i graffi da animali domestici.
–
- È
indolore? – domandò titubante il ragazzo.
- Credo di
sì, l’ho letto oggi nel libro di Rolf Scamandro. Lui viene pagato per questo.
Per trovare dei rimedi semplici e indolori. –
Luna
ostentava un’aria distesa e sicura di ciò che faceva. Mentre sorrideva, le si
formò una fossetta, dentro la quale, Zachary Stewart ne fu certo, si poteva
affogare. Il modo in cui quelle pozze cerulee lo fissavano bonarie lo mandarono
definitivamente in tilt.
- Va bene,
– acconsentì lui con un filo di voce.
Quella
ragazza incarnava probabilmente l’illusione più angelica e persuasiva che avesse
mai incontrato. Quando le labbra di Luna Lovegood si incresparono per
pronunciare l’incantesimo, Zachary capì anche che per lei avrebbe potuto fare qualsiasi
cosa.
- Come lo
chiamerai? – la domanda di Hagrid, che stava carezzando il pelo candido del
coniglietto di Ginger Habington, riscosse il commesso dell’Emporio dal proprio
torpore.
La compagna
di scuola non ci rimuginò due volte, e con un sorriso a trentadue denti sparò il
nome più assurdo, improbabile e imbarazzante del
mondo.
- Playboy.
–
- Oh
Silente! –
- Non
imprecare, Lys! –
Piccole
noticine: Ginger Habington e Ulyssa – Lys – Joyce sono dedicate rispettivamente
a piperina
e
Ulissae. Per
tantissimi motivi che non sto qui a spiegare.
Ringrazio
come sempre Leireel/Irene per la pazienza e la serietà con cui revisiona i miei
capitoli (L), tutti i lettori che leggono, commentano qui o in privato, hanno
messo la long fiction tra le seguite/preferite.