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Autore: Lady Vibeke    22/05/2011    5 recensioni
Una donna urla, la voce frammentata da singhiozzi.
Tutto è buio.
Battiti di cuore come tamburi attorno a lei, stretta tra braccia esili. Occhi innocenti di bambina si sgranano nell’angoscia dell’incapacità di comprendere quel caos improvviso.
– Dammi la bambina – Sentenzia la persona senza volto, ed è un ordine ineluttabile che impregna l’oscurità.
C’è il terrore che spadroneggia nella bimba. Troppo piccola per capire, ma abbastanza grande per rendersi conto del pericolo. E intanto quelle braccia insistono a volerla proteggere.
– Se la consegnate a me, sarà salva. Loro stanno arrivando. Se riescono a trovarla, la prenderanno e la uccideranno sotto ai vostri occhi. Datela a me. –
– Cosa vuoi da lei? –
Un lampo squarcia le tenebre. Il volto di una donna appare per un brevissimo istante al di sotto del cappuccio.
– Voglio salvarle la vita. –
Il silenzio della tensione calca sulle loro teste, impietoso. In lontananza, nitriti selvaggi si mescolano a un rumore di zoccoli in corsa.
Le braccia della ragazza si allentano attorno al corpicino indifeso della piccola. Altre due braccia sottili si aprono in un invito. Tutto è preda di una tensione innaturale. Tutto è immobile.
Poi un lampo di luce rossa divora ogni cosa.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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15. LA CASA NELL’ALBERO

 

The only way to exit
Is going piece by piece

– Piece By Piece, Slayer –

 

 

Regan non aveva la minima idea di dove si trovassero.

Dopo aver lasciato il castello senza nemmeno aver potuto assistere alla parte migliore dei festeggiamenti, lei, Lucius e Shin avevano fatto chiamare una carrozza ed erano tornati a casa in fretta e furia. Aveva appena avuto il tempo di asciugarsi e cambiarsi, che Lucius le aveva consegnato una sacca di tela e le aveva detto di metterci dentro lo stretto necessario, poi erano andati a svegliare Eleonora e la avevano salutata in fretta con qualche spiegazione veloce. Sebbene lei non fosse riuscita a mascherare una discreta preoccupazione, aveva raccomandato loro di essere prudenti, poi era andata a prendere Calien, tutto sonnolento, e si erano salutati, e infine erano partiti sotto alla pioggia scrosciante.

L’alba era ancora lontana quando erano usciti, ma adesso il cielo si tingeva di sfumature di rosa e di viola in un’aurora di magnifico nitore. Non c’erano più le montagne innevate di Norden a disegnare l’orizzonte, ma colline sinuose e un fitto tappeto di chiome rigogliose ai loro piedi. Una foresta nel pieno della vita alle porte dell’inverno.

– Ferentaur – disse Shin, seguendo la direzione del suo sguardo estasiato. – La foresta eterna. –

Regan considerò il verde dei prati su cui ancora indugiava un manto di nebbie notturne e i grandi spazi incontaminati fin dove occhio poteva vedere.

–Siamo ad Astereis? –

– Indovinato. –

Lucius le si affiancò, le briglie dei due cavalli ben strette in mano. Freyr e Freya avevano gradito molto poco la precipitosa irruzione nella loro stalla ma non avevano avuto altra scelta che lasciarsi sellare e bardare per la partenza. Nemmeno a loro, Regan aveva scoperto, piaceva attraversare i Portali e ancora manifestavano residui di irrequietudine in un continuo grattare di zoccoli sul sentiero sterrato.

Alle loro spalle, Cittanuova ancora dormiva dietro gli scuri serrati delle case e solo i camini dei fornai fumavano in piena attività, mentre pagnotte e focacce cuocevano nel loro ventre.

– Adesso che si fa? –

Tutto ciò che Lucius si era limitato a dirle, prima di partire, era stato che era giunto il momento di mettere da parte la fiducia nella Lega e iniziare a indagare privatamente su quello che stava succedendo, prima che potesse capitarle qualche altra disavventura meno fortunata delle precedenti. Appena erano sbucati sulla piazza principale della capitale di Astereis, quindi, lei aveva supposto che il lavoro sarebbe cominciato da lì, invece si erano subito diretti verso le porte della città e la strada che stavano imboccando portava dritta alla foresta.

– Adesso – annunciò Lucius, con un sorrisetto enigmatico. – Andiamo a trovare un vecchio amico. –

 

 

Non aveva mai visto piante così gigantesche e tutto il sonno che finora le aveva gravato addosso si dissolse man mano che i suoi occhi esploravano avidi quell’opera d’arte naturale. Alberi alti come palazzi, i cui tronchi larghissimi e rami enormi suggerivano un’età di diversi secoli, si protendevano verso l’alto in ampie chiome a cappella che si intrecciavano tra di loro fino a creare un vero e proprio soffitto di fogliame di un verde scuro e brillante che nascondeva completamente il cielo e solo pallidi, ostinati raggi di sole riuscivano a penetrare fino a terra. Per la verità non esisteva nemmeno un vero e proprio sottobosco e Regan capì in fretta perché avessero legato i cavalli al limitare della foresta: un groviglio di grasse radici nodose ricopriva la maggior parte della superficie del terreno e rendevano il passaggio piuttosto difficoltoso. Anche se, secondo le istruzioni ricevute la Lucius, si era messa gli abiti più comodi che avesse, e cioè il completo che le aveva regalato Angina, non faceva che sdrucciolare sul muschio insidioso che sembrava ricoprire ogni cosa.

– Ci sono anche qui accorgimenti particolari che devo osservare nei confronti della vegetazione? – domandò sarcastica, massaggiandosi la schiena dopo essersi risollevata dall’ennesima caduta. – Non so, fiori carnivori, liane strangolatrici… –

– Non dire sciocchezze, cerbiattina, questo non è il Bosco di Aurin – rise Lucius, scavalcando in tutta disinvoltura l’arco disegnato da due radici arrotolate insieme.

Anche Shin si muoveva con la solita fluidità. Regan si disse che se avesse avuto le loro gambe lunghe, sarebbe senz’altro riuscita a tenere meglio il passo, e più dignitosamente.

Parte della responsabilità della sua goffaggine era anche da imputare al paesaggio: non riusciva a non voltarsi a osservare ogni ramo ritorto in pose assurde e affascinanti, ogni polla d’acqua che, limpidissima o stagnante, riposava nelle piccole depressioni tra un albero e l’altro. C’erano fiori grossi come ombrelli dagli sgargianti petali sulle tonalità del giallo, del rosso, del fucsia e di incredibili sfumature di azzurro, con petali leggeri, che si piegavano armoniosamente all’infuori scoprendo stigmi e cuori di colore più tenue. Benché ne fosse tentata, Regan non si azzardò ad avvicinarvisi, ben memore di quello che la ninfa le aveva detto a proposito delle creature contraddistinte da colori troppo vistosi.

Mentre si trascinava dietro i due compagni evidentemente più atletici e in forma di lei, si domandava anche come qualcuno potesse vivere là dentro. Era un luogo pressoché impossibile da abitare, e non perché inospitale, ma perché semplicemente non aveva alcunché da offrire: gli animali autoctoni erano pochi e i versi che risuonavano ovunque erano per lo più di uccelli, anche se stavano così in alto che se ne avvistava solo uno ogni tanto, una sagoma indistinta che sfrecciava in controluce. C’erano anche strani roditori delle dimensioni di conigli domestici, dal pelo piuttosto lungo e chiaro, con orecchie bizzarramente incurvate verso l’interno e una vaporosa coda arrotolata su sé stessa, più scure del resto del corpicino agile. Se ne vedeva qualche famigliola zampettare via spaventata, in prossimità delle polle d’acqua, in fuga dalle loro indesiderate presenze.

Una goccia di sudore colò dalla fronte di Regan e lei se la asciugò con una manica, fermandosi contro un albero a riprendere fiato. La temperatura, in quella specie di serra naturale, era quasi estiva.

– Dovremo arrampicarci su e giù per questo groviglio vegetale ancora per molto? – ansimò.

Lucius e Shin si fermarono ad aspettarla, poco più avanti.

– Che ti avevo detto? Una lamentela continua – commentò il primo, rivolgendosi all’altro.

Shin non fece in tempo a sorridere, perché dovette scansare assieme a Lucius la zolla di muschio che Regan scagliò loro contro.

– Ha un buona mira, se non altro. –

– Fa’ la brava, cerbiattina, non stiamo andando a trovare una simpatica vecchina in una sala da the di Medilana. La persona in questione ci tiene a non essere raggiunta facilmente, quindi apprezzerà sicuramente che tu abbia affrontato questa micidiale scarpinata per arrivare a lui. Apprezzerà un po’ meno il fatto che io porti una donna in casa sua, ma… –

– Posso sapere perché stiamo andando da questa persona? –

– Devo contrattare con lui per ottenere una cosa in suo possesso da poter usare come ulteriore merce di scambio con un’altra persona. –

Regan si augurò sentitamente che quest’altra persona non abitasse in qualche posto impossibile come quello.

– Quanto accidenti manca? – sbuffò, al limite della sopportazione.

– Poco – le promise Lucius, e da come lo disse, la convinse che non era una bieca bugia per convincerla a riprendere a camminare. – Oh, quasi dimenticavo la chiave di volta di questa visita. –

Le fece cenno di raggiungerlo. Regan si accorse che impugnava uno stiletto affilato solo quando lui le prese la mano. Ne aveva visti altri così: si chiamavano shinner, i pugnali dei Cacciatori.

– Che cosa… –

Con una manovra fulminea, Lucius le attraversò il palmo in diagonale con la punta dello stiletto. Subito si aprì un taglio netto da cui prese a sgorgare copioso il sangue pulito delle vene.

– Sei impazzito? – strillò, risentita.

Lui la tenne ben ferma e dovette considerare la domanda prettamente retorica, dato che non le diede risposta, quando lei, invece, stava seriamente iniziando a vagliare l’ipotesi.

Tra le dita di Lucius, intanto, era apparsa una fiala di vetro che lui stava riempiendo solerte con il suo sangue, il quale si andava a mescolare con qualche goccia di una sostanza giallina che attendeva sul fondo. Quando ebbe finito, sigillò la fiala con un pezzetto di cera e se la infilò in una tasca interna del pastrano.

– Guariscila – disse poi a Shin, come nulla fosse, mentre se ne andava avanti per i fatti suoi, soddisfatto, saltando giù dalla grossa radice su cui stavano sostando. Regan strinse i denti per il dolore che il tocco di Shin le provocò, ma se non altro il taglio scomparve.

Proseguirono per un’altra mezz’ora. Arrivarono a costeggiare un ruscelletto che si era scavato nel suo scorrere secolare un letto profondo diverse braccia, scavando nel terreno così a fondo a arrivare a consumare anche la nuda roccia. Doveva essersi ritirato in tempi recenti, perché della larghezza originaria non restava che un semplice rigagnolo che scendeva a cascatelle tra le pietre nere di umidità. Camminarono lungo un passaggio scivoloso che costeggiava il torrentello e a tratti incontravano lingue d’acqua che scendevano dall’alto delle pareti che li sovrastavano. Regan rischiò più volte di scivolare, ma fortunatamente i riflessi di Lucius e Shin erano pronti a sufficienza da salvarla ogni volta. Era sul punto di riaprir bocca, distratta dal volo di un insetto grosso come un uovo una spanna sopra la sua testa, ma andò a sbattere contro la schiena marmorea di Lucius, che si era fermato senza avvisare.

Prima che Regan potesse riuscire a togliersi la soddisfazione di imprecargli contro, Shin si spostò un po’ di lato e le permise di vedere oltre: davanti a loro, circondato da uno stagno limpido nutrito da un ruscello, si ergeva un tozzo faggio del diametro di una casa di modeste proporzioni, e alto almeno due volte tanto. Il sole si era levato ormai abbastanza da riuscire a farsi strada in ogni più piccolo spazio tra l’infinita volta di foglie e ora migliaia e migliaia di raggi sottili come fili d’oro piovevano dall’alto attraverso l’aria rarefatta e vagamente caliginosa. Molti cadevano sullo specchio d’acqua e rimandavano bagliori accecanti. Una barchetta dondolava pacifica assicurata da una fune all’impalcatura di una sorta di molo improvvisato costruito a filo d’acqua.

Che cosa ci facessero una barca e un molo a ridosso di un albero millenario, Regan lo capì solo quando i suoi occhi salirono ancora: c’erano delle grandi fessure irregolari nel tronco, aperture in apparenza naturali che erano state chiuse con pezzi di vetro di forme e colori più disparati, tenuti insieme da venature di ferro scuro. Il risultato era un bizzarro ma strabiliante mosaico arcobaleno trafitto da raggi di luce che gli facevano prendere vita. C’era anche una porticina affacciata sul molo, con una striscia nera verticale dipinta grossolanamente nel mezzo.

– Bene, eccoci arrivati! – esclamò Lucius, gioviale e fresco come se avesse appena messo piede fuori dal letto. – Contenta, cerbiattina? –

– Non ne sono ancora sicura. Dove siamo, esattamente? –

– Te l’ho detto: qui ci abita un mio amico. –

Regan gli risparmiò la battuta sulla stranezza delle sue amicizie, dato che probabilmente il più strano di tutta la sua rete di conoscenze doveva essere comunque lui.

Senza perdere tempo in cerimonie e senza alcun preavviso, Lucius la prese per la vita e se la gettò su una spalla come un sacco di grano, poi spiccò un salto e atterrò con eleganza sul molo. Shin seguì, animato da un lieve sorriso divertito.

Regan si fece immediatamente mettere giù, le guance in fiamme, e si affrettò a risistemarsi il mantello, che le si era rovesciato sopra la testa. Lucius rideva. Irritata, lei si scostò e si avvicinò alla bellissima porta sorretta da cardini in ferro battuto forgiati alla stregua di virgulti arricciati. Con un’unghia sfiorò l’incrostazione di vernice sul legno.

– Chiunque abbia tracciato questa linea, ha rovinato un capolavoro. –

Lucius schioccò la lingua.

– No, ha voluto mettere ben in chiaro un concetto. –

– Non è una semplice linea – ebbe l’accortezza di spiegarle Shin. – È una runa, Isa. Impone di arrestarsi. –

– Regan – Lucius si frappose tra lei e la porta, le mise le mani sulle spalle e la fissò dritta negli occhi. – So che tu hai i tuoi problemi vari ed eventuali con ordini, consigli, istruzioni e via dicendo, ma questa volta, te lo chiedo come favore per te stessa, fa’ in modo che la tua deliziosa boccuccia trattenga quella maledetta lingua lunga che ti ritrovi, d’accordo? –

Lei annuì, ormai rinunciataria cronica di fronte al desiderio di capire, e lui, forse non del tutto rinfrancato, bussò, e per farlo dovette chinarsi. Chiunque abitasse quella casa doveva essere di statura veramente bassa.

Per un minuto buono non successe niente. Poi dall’interno cominciarono a provenire rumori di movimento e poco dopo una serie di scatti sordi preannunciò che qualcuno stava aprendo delle serrature. Quando la porta finalmente si aprì con un lento cigolio diffidente, Regan per poco non si lasciò scappare un’esclamazione sorpresa.

Sulla soglia c’era un ometto dalle fattezze rozze che sembravano abbozzate nel legno, capelli lunghi e cespugliosi di un insipido color sabbia gli circondavano disordinati la testa troppo grossa, lasciando nel mezzo una lucida pelata. Vestiva una tunica che sembrava fatta di iuta, lunga fino ai piedi, protetta sul davanti da quello che aveva tutta l’aria di essere un grembiule, e anche piuttosto sporco.

I suoi occhi piccoli e neri saettarono subito verso Regan da sotto le folte sopracciglia e la loro espressione riconfermò, a scanso di ogni possibile dubbio residuo, che non era la benvenuta.

– Buongiorno, Belenus. –

Il saluto di Lucius aveva sprizzato cortesia e brio, ma il grugnito di risposta del nano non aveva concesso altrettanta benevolenza.

– Che cosa ci fai qui? Lui chi è? Cos’è questa roba? –

Sentirsi definire roba non era l’inizio migliore che Regan avesse auspicato, tanto più che Shin aveva almeno ottenuto un lui, anche se pronunciato in tono non meno scocciato.

– Lui è il mio amico Shin. –

Shin salutò, garbato, e il nano brontolò qualcosa.

– E lei non è assolutamente nessuno, quindi non perdiamoci in chiacchiere inutili. Sono qui per fare affari. –

Belenus non era quel che si sarebbe considerato un soggetto amichevole ed era più che ovvio che nessuno di loro fosse ospite gradito, ma la semplice menzione della parola affari bastò a domare la sua indole scorbutica.

Si fece da parte e con un brusco cenno della testa li invitò a entrare.

– Non toccate niente! – gracchiò con la sua voce cavernosa, mentre loro erano quasi costretti a inginocchiarsi per entrare. – Mani a posto, occhi discreti e niente domande su niente di niente, altrimenti vi do in pasto ai pesci del mio lago! –

Regan tenne per sé l’obiezione spontanea che non si era visto un solo pesce ad agitarsi in quelle acque trasparenti, sia perché miracolosamente non aveva ancora dimenticato di avere la consegna del silenzio, sia perché si ricordò di quello che lui le aveva detto sulla strada verso il Bosco di Aurin.

“Chi si ferma alle apparenze è spacciato.”

 

 

La casa di Belenus era uno scrigno rigurgitante di tesori insoliti e a dir poco pittoreschi. La porticina immetteva direttamente su una stanza circolare piuttosto buia in cui l’indiscusso e dispotico regnante era il caos. Sulla destra una libreria sgangherata seguiva la curva della parete dell’albero ed era colma fino a scoppiare di volumi, manoscritti tenuti insieme da spaghi, pergamene sparse e pagine strappate o cadute da qualche tomo un po’ troppo vecchio. Alcuni dei libri, effettivamente, avevano un aspetto abbastanza vetusto da aver visto la storia delle Sette Terre dall’alba ai tempi correnti. A sinistra, sotto alla larga finestra irregolare, un tavolo da lavoro – sovrastato da un piccolo lampadario a cristalli tutto storto e impolverato che ben poco c’entrava con il resto dell’arredamento – ospitava una quantità improponibile di strumenti, alambicchi, ampolle, alcune anche rotte o rovesciate, e vasi in cui galleggiavano cose la cui natura Regan preferiva ignorare. Il soffitto fortunatamente era alto quanto bastava perché lei e gli altri riuscissero a passare senza doversi piegare, ma dovevano fare attenzione a non incappare negli innumerevoli fasci di erbe fortemente odorose o in qualche animale morto che pendeva dalle travi. Al centro della stanza un tavolo rotondo era ingombro di fogli bianchi o fittamente scritti a mano, appunti presi su frammenti di carta a caso, penne e boccette di inchiostro, e perfino una grossa candela quasi del tutto consumata.

Le venne da ridere a pensare a cosa ne avrebbe detto la rigorosa Venena di un posto come quello. Anche se lavorava in un ambiente completamente differente, il nano doveva essere una appassionato di intrugli, pozioni e cose del genere, proprio come lei.

– Allora – Belenus si fermò accanto a un’anfora in cui erano stati infilati una dozzina di rami di betulla e incrociò le braccia. – Ditemi cosa volete, così vi potrò dire in fretta che non se ne fa niente. –

Lucius sorrise furbo.

– Aspetta a parlare. Non sai ancora in cosa consiste la controfferta. –

– Prima dimmi cosa vuoi. –

– Il tuo libro di botanica. Quello che tratta degli esemplari estinti. –

Una risatina secca e frammentata vibrò schernente dalla gola dell’altro.

– Quale? Quello unico al mondo scritto a mano più di undici secoli fa? –

– Esattamente – confermò Lucius, senza scomporsi.

Belenus proruppe in una fragorosa risata sguaiata.

– Quel libro vale più di tutte le ricchezze su cui potrai mai mettere le mani, e anche se tu avessi abbastanza oro per ripagarmelo, non te lo venderei. –

La voce di Lucius ancora non perdeva la sua modulazione calma e sicura:

– La mia proposta non prevede oro, ma qualcosa di molto più raro che uno come te troverà senza dubbio infinitamente più inestimabile di un volgare ammasso di carta, di cui peraltro possiedi svariate copie. –

– Non esiste una cosa che possa valere quel libro. –

– Vogliamo scommettere? –

E Regan all’improvviso capì e si diede della stupida per non esserci arrivata molto prima: come Venena, Belenus era un esperto di filtri e sostanze dalle proprietà particolari, e, come Venena, c’era una cosa che sicuramente avrebbe stuzzicato il suo interesse. L’averle prelevato il sangue in anticipo poteva solo indicare che Lucius non si fidasse di Belenus tanto quanto si fidava di Angina e Venena, e quindi aveva valuto tutelarla da ogni rischio, impedendo la nano di collegarla a quel sangue prezioso. Non restava nemmeno la ferita a testimoniarlo.

Lucius aveva infilato la mano sotto al pastrano e ora che l’aveva ritratta, la fiala contenente il sangue di Regan gli luccicava tra le dita, colpita in controluce dai raggi di sole che penetravano attraverso la vetrata variopinta.

– Sangue immune ai veleni. –

Gli occhietti cupidi del nano di dilatarono malgrado la sua malfidenza.

– E chi me lo assicura che non è solo un po’ di sangue di lepre, eh? –

– Belenus, non offendere la mia credibilità – lo ammonì Lucius, e con tale severità che parve che il suo interlocutore l’avesse incassata come uno schiaffo. – Sai che ne va solo a tuo svantaggio. –

Fece una pausa, di modo che la sua dichiarazione sortisse i suoi effetti, poi riprese, più blando:

– Ti ho mai mentito? Ti ho mai truffato? Ti ho mai dato motivo di non fidarti di me? –

– No – fu costretto da ammettere l’altro. – Ma non c’è mai stata una posta in gioco così alta, prima d’ora. –

Regan a quel punto avrebbe già perso la pazienza, ma Lucius era fatto di tutt’altra pasta, ed era così abile ad adattarsi a qualsiasi situazione che era pressoché impossibile che un suo intento non andasse a segno.

– D’accordo, mi sembra legittimo farsi certi scrupoli per un affare di questa portata. Ti darò una prova, allora. –

Senza spostare lo sguardo da quello di Belenus, Lucius tese un braccio all’indietro verso Regan, la mano aperta, e le fece segno di avvicinarsi. Lei non ebbe alcun bisogno di chiedersi che intenzioni avesse: sapeva cosa cercava da lei.

Lucius le prese la mano e gliela fece distendere, palmo in su, di fronte al nano.

– Ecco, guarda e dimmi cosa vedi. –

Bastarono una manciata di increduli secondi perché Belenus riconoscesse il segno indelebile e azzurrino lasciato dal morso della Myrka e risollevasse lo sguardo esterrefatto prima su di lei, per la prima volta, e poi su Lucius, quasi ad accusarlo di volersi prendere gioco di lui.

– Impossibile… –

– Sì, l’ho detto anch’io, la prima volta, ma come vedi la mia cavia è viva e, credimi, ho ripetuto diversi esperimenti per accertarmi della validità di questo piccolo gioiello – e sventolò la fiala tra due dita.

Qualcosa era cambiato nell’atteggiamento di Belenus: era evidente il conflitto tra le certezze derivanti dalle sue conoscenze e l’evidenza esposta direttamente sotto il suo naso.

– Una cavia, eh? – borbottò, squadrando Regan con disgusto. – Adesso andate a prendere le prostitute per fare i vostri giochetti, alla Lega? –

Regan si sentì esplodere. Sebbene Lucius la avesse avvertita che il tipo di abbigliamento prediletto da Angina potesse essere scambiato per quello di una poco di buono, sentirsi dare in faccia della prostituta era oltre ogni limite di  tollerabilità. Aveva già preso fiato per protestare, quando la mano di Shin le toccò la sua. Fu breve, ma fu abbastanza per causarle una fitta di dolore della durata infinitesimale di un lampo che dalla mano divampò in tutto il corpo, privandola della vista per quel breve istante. Fu abbastanza anche per farle dimenticare l’insulto aperto appena ricevuto.

Si voltò di scatto, la fronte aggrottata, e si trovò a incrociare gli occhi neri di Shin, gocce di buio assoluto nel buio debolmente rischiarato della stanza. Lesse la sua espressione e capì che lo aveva fatto per impedirle di dare sfogo ai suoi pensieri offesi e far così precipitare la situazione.

Lo ringraziò in silenzio e tornò a guardare in avanti.

Belenus esigette una dimostrazione pratica dell’efficacia della merce che gli veniva offerta e Lucius gli concesse di fare un esperimento con le sue stesse mani. Fecero bere a Regan una goccia del suo stesso sangue e attesero qualche istante, poi il nano, illuminato da una bramosia fanatica che faceva venire la pelle d’oca, la punse sul polso, nel punto esatto dove si intravedeva il blu delle vene, con un ago impregnato di veleno di Myrka, ma non prima di aver allungato a Lucius un’occhiata insolente di avvertimento, come a dargli un’ultima possibilità di salvare la sua cavia, ma questi non raccolse la provocazione e restò ad aspettare a braccia conserte, il ritratto della rilassatezza.

Quando la punta dell’ago penetrò sotto la pelle di Regan, le dita tozze di Belenus la stavano stringendo con una forza che a guardarlo mai gli si sarebbe attribuita, ma lei non tentò di divincolarsi né trasalì per il dolore, perché il suo corpo ancora ricordava quello che aveva provato solo un minuto prima, sfiorato da Shin, e una semplice puntura non era niente al confronto.

– Straordinario! – esclamò Belenus, sopraffatto dall’eccitazione, mentre le  controllava i segni vitali proprio come aveva fatto Venena a sua volta, solo in modo molto meno delicato. – Assolutamente straordinario! In tutta una vita, mai avevo visto qualcosa di simile! Di chi è questo sangue? –

– Sai che questo tipo di domande non sono ammesse – gli rammentò Lucius, autoritario.

Belenus, tutto preso dal tesoro che aveva tra le mani, caracollò verso un armadietto di legno intagliato e quando lo aprì ne uscì uno sbuffo biancastro che dapprima Regan credette fosse polvere, ma era in realtà vapore. All’interno, infatti, l’armadietto, suddiviso in quattro ripiani, era come la miniatura grottesca di un ghiacciaio, con tanto di piccole stalattiti e stalagmiti di acqua congelata.

– Un regalo che gli ho fatto io – le bisbigliò Lucius. – Un banale sigillo di freddo perpetuo equivale a un miracolo per un nano. –

Quando Belenus ebbe trovato la collocazione adatta al campione di sangue, richiuse bene l’anta e tornò verso di loro.

– Posso dunque considerare il nostro accordo sottoscritto? – fece Lucius, con un sogghigno compiaciuto mascherato di cortesia posticcia.

– Voglio altre tre fiale di questo sangue – esigette il nano.

– Le avrai, ti do la mia parola – replicò Lucius pronto, come se si fosse aspettato una richiesta simile. – Ma il libro mi serve adesso. –

Una vena pulsò nervosa sulla tempia dell’altro, ma aveva già implicitamente acconsentito a cedere il libro quando aveva messo via la fiala, e quindi non c’era più molto di cui discutere.

– E va bene. Va bene, maledizione! Prendi quel dannato libro, se ci tieni tanto! –

– Ti ringrazio molto – cinguettò Lucius, riuscendo e anche se il suo comportamento era calibrato fin nel minimo movimento, i suoi occhi scintillavano vittoriosi. – Ti recapiterò personalmente le altre tre fiale che hai chiesto appena possibile, e… – si avvicinò a Belenus e lo prese tra le mani, sollevandolo senza fatica all’altezza dei suoi stessi occhi. – Tanto per puntualizzare l’ovvio: fa’ parola a qualcuno di questo nostro piccolo scambio, e le ultime parole che sentirai nel mezzo della più atroce delle agonie saranno “Io ti avevo avvertito”. Sono stato abbastanza chiaro? –

– Spreca fiato in prediche quanto vuoi, tanto lo sai che sei indispensabile per i miei affari! – berciò quello, burbero. – Il giorno che ti caccerai in qualche guaio serio, con tutti i traffici sottobanco che hai, allora sì che sarà la fine, per me! –

– Oh, sei sempre così lusinghiero! Ti ho solo salvato la pelle dalla Lega tre o quattro volte, che sarà mai? –

Il nano gli scoccò un’occhiataccia torva da sotto le folte sopracciglia e grugnì qualcosa di incomprensibile che Regan prese per un surrogato di dimostrazione gratitudine.

Quando uscirono era mezzodì passato e il prezioso volume antico giaceva avvolto un panno robusto sotto al braccio di Lucius, che se ne andava fischiettando allegro. Fu Shin, stavolta, ad aiutarla ad arrivare oltre lo stagno e se non altro fu molto meno brutale di Lucius.

– Adesso dove siamo diretti? – domandò Regan, una volta rimessi i piedi a terra, afflitta dal pensiero di dover ripetere a ritroso il percorso impossibile dell’andata.

– Adesso, cerbiattina, se permetti ce ne andiamo a mangiare. –

 

 

   
 
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